Qui i padri avevano un mondo (lo so perché c’ero); i figli, ora, uno stipendio. Non tutti. Non si sa per quanto. Prima, «le persone cercavano una qualche grandezza interiore; ora (...) siamo uomini persi» dice in Invisibili, vivere e morire all’Ilva di Taranto, uno dei lavoratori segregato nel “limbo dei dissidenti” inventato dai Riva, proprietari dello stabilimento siderurgico e chiuso dalla magistratura.

«Non ci fidiamo delle istituzioni, perché non rispettano le regole» scandisce Simona Fersini, dell’associazione Donne per Taranto, al raduno del Primo Maggio 2013.

Quando si sono accorti di essere soli, si sono messi insieme: i tarantini credevano di avere dalla loro parte le istituzioni, le leggi, lo Stato e magari pure lo stabilimento siderurgico più grande d’Europa. Ma le istituzioni si son rivelate distratte e talvolta complici; chi doveva controllare non lo faceva e chi lo faceva era osteggiato. Persino dai sindacati si sono sentiti traditi in molti, e ne sono usciti. Così, invece di attendere quel che altri dovevano fare, i tarantini hanno cominciato a farlo da soli. Sono sorte associazioni, il cui lavoro di ricerca, divulgazione e protesta ha fatto sapere agli stessi tarantini e al mondo che la città è una delle più inquinate del pianeta; che i bambini muoiono di cancro del fumatore (non si era mai visto), che la terra su cui poggi i piedi, nel quartiere più avvelenato, a ridosso dello stabilimento, non puoi toccarla a mani nude, per ordinanza comunale; e agli scolari è vietato giocare nei giardini.

L’incrocio delle vie De Vincentis, Lisippo, Troilo, Savino è fuori mano, rispetto a via Orsini, il corso principale del rione Tamburi, a Taranto, dove ho vissuto sino ai 23 anni, nell’ultimo palazzo della città (poi penultimo) prima degli ulivi e dei resti dell’acquedotto romano; finché, un giorno, iniziarono a costruire lo stabilimento siderurgico, che diventò mio dirimpettaio.

Noi ragazzini andavamo in via Lisippo per veder passare una coetanea, per tutti “straniera”, quindi di fascino esotico, soltanto perché nata all’estero, da madre non italiana e padre tarantino, emigrato e rientrato. Lì abitava pure il capo ufficio di mio padre, per me altrettanto esotico, perché isolano (sardo) e di un paese che lo dichiarava subito “altro” da noi e da qui: Perdasdefogu! Ci voleva davvero poco per essere diversi e lontani, quindi interessanti. Era appena ieri.

Perché racconto queste cose minime e mie che dovrebbero interessare solo me? Per dire quanto piccole fossero le cause delle nostre grandi meraviglie. Eravamo un piccolo mondo con l’innocenza del non sapere che ingrandisce nell’immaginazione il non saputo. E un giorno apprendemmo che ci veniva offerta la più grande fabbrica siderurgica d’Italia, d’Europa, una delle più questo e più quello del mondo. Avevo dieci anni. Mio fratello maggiore, già tecnologico, cominciò a magnificare la sua vita lì dentro (studiava meccanica). Taranto, grande nel passato, lo diventava nel futuro.

Poi, poi, poi...

Noi, dirimpettai dello stabilimento, fummo i primi a saperlo: mia madre ogni giorno ramazzava palettate di polvere nera; un odore che non so descrivere, se non in un modo che non significa niente, “odore di nero arso”, divenne l’unico in ogni stagione, con varianti da “odore di nero arso secco” a “odore di nero arso umido”. Smettemmo di vivere con le finestre aperte; di passare le notti d’estate sul balcone. Un’unica tinta fra il bruno e il rossastro spento si stese sull’intero quartiere; il nostro mondo perse i colori.

La gente cominciò a morire, un po’ troppo, nello stabilimento e acquisimmo coscienza delle “morti bianche”; e cominciò a morire, un po’ troppo, nel quartiere, di “brutto male” (allora non si nominava il cancro, il tumore), ma non acquisimmo coscienza della connessione fra la fabbrica e la salute minata: noi eravamo “L’ Tammorr”, i Tamburi, l’aria fine di Taranto. La città è alta (vabbe’...) quindici metri sul livello del mare; il nostro rione arriva al doppio e qualcosina in più di altitudine; da noi, valdostani dello Jonio, si respirava l’aria leggera di chi sta più vicino al cielo. E non tanto per dire, perché nel nostro rione, a riprova del fatto, c’era il sanatorio per i malati di tubercolosi.

Capimmo tardi, e quasi a stento, che stavamo pagando il lavoro con la salute e la vita (i miei amici, mio fratello: tutti lì a lavorare, “al Siderurgico”. Gli inurbati di fresco dai borghi murgiani lo dicevano pure male: “U Sidellurg’k”. Il primo direttore dell’acciaieria, Cesare Franceschini usava chiamare africani i tarantini; e così il più disastroso, Giovanni Gambardella, forse per far dimenticare di essere nato, bizzarra la vita!, a Taranto; o per segnalare di essersi emancipato con un lungo soggiorno ad altre e più alte latitudini).

Capimmo tardi e a caro prezzo: gli inquilini, anzi, “i cittadini”, delle vie De Vincentis, Lisippo, Troilo e Savino hanno affisso (agosto 2001) una lapide sulla facciata di un palazzo. Non è facile leggerne il testo, perché le polveri della fabbrica vi si posano su, metalliche e collose, uniformandone il colore e livellando l’incavo delle lettere; così svolgendo, quei veleni, la funzione del tempo, che nasconde le colpe, quando non riesce a cancellarle. La lapide (una denuncia pure contro il vento, si direbbe, come la sentenza della Cassazione che dichiarò il Siderurgico non condannabile per il “getto” delle polveri, dal momento che era il vento a sollevarle!) dice questo:

Nei giorni di vento nord-nordovest
veniamo sepolti da polveri di minerali
e soffocati da esalazioni di gas
provenienti dalla zona industriale “Ilva”.
Per tutto questo, gli stessi
MALEDICONO
coloro che possono fare e non fanno nulla
per riparare.

E chi sono “coloro”?

Sul palazzo di fronte, all’altezza del secondo piano, un’altra lapide dell’aggiornata toponomastica rionale (una volta, ci bastavano i nomi delle vie), eccola:

Ennesimo decesso per neoplasia polmonare
8 marzo 2012

«Vuoi vedere anche l’altra?» mi chiede Gianluca Coviello, il giovane collega che mi accompagna. No, grazie, credo mi basti. La più alta ciminiera d’Europa è così vicina all’abitato, che se guardi in su, sembra stia fra i palazzi. L’8 marzo del 2012, a morire per neoplasia polmonare (“ennesimo” decesso, perché non si sa neppure quanti siano; nessuno li ha mai contati), fu Peppino Corisi, ex operaio dell’Italsider: era stato lui a far apporre la lapide della maledizione. Era da alcuni anni in pensione, quando nel 2000 scoprì che sul terrazzo della sua palazzina si era accumulata polvere color ruggine. Cominciò a spalarla: impiegò un mese. «Riempii 65 bidoni da 25 chili», narrò poi a Tonio Attino, autore di Generazione Ilva; più di una tonnellata e mezza. Corisi, con pochi altri, fondò la prima organizzazione di tarantini per occuparsi di inquinamento industriale e salute, il Comitato Cittadino Permanente per l’Ambiente. Ma si sfiancò inutilmente per dodici anni contro il gigante da cui attingevano contributi generosi la parrocchia dei Tamburi, il Vescovado, partiti, giornalisti, professori universitari schierati quali consulenti contro gli ex operai. Alla fine, Corisi mollò: «Io non ci credo più» rispose quando gli chiesero di tornare in tribunale. Aveva appena scoperto di avere un cancro e soltanto un mese dopo, un’altra lapide raccontò chi aveva vinto.

Furono altre associazioni, poi (fra le prime e più attive, alcune sorte per scopi completamente diversi) a ottenere i risultati che fecero di Taranto un caso mondiale: si mosse il pacifista, quando si rese conto che contro la città era in corso una guerra chimica da parte della grande industria; l’ambientalista e subacqueo che vedeva il suo mare usato come discarica di veleni; l’ex dirigente dello stabilimento che scopre come stanno davvero le cose e decide di porre il suo tempo e la sua competenza al servizio della lotta dei nani contro il gigante; i capi del sindacato nella fabbrica che, delusi dal comportamento troppo conciliante delle loro organizzazioni, ne escono e raccontano alla città cosa le sta facendo l’acciaieria; la ricercatrice (dottorato in chimica a Parigi) che al rientro a Taranto apprende come per decenni non si sia detto nulla dei veleni sputati dalle ciminiere e sceglie di restare, per documentarne specie e quantità; il pediatra che guida ottomila persone in corteo contro lo stabilimento, perché proprio non ne può più di limitarsi a curare bambini con tumori da fumatori incalliti e dover dire alle mamme di non dare il seno ai neonati, perché il loro latte è avvelenato...

Sono sorte, così, ventiquattro associazioni di tarantini per salvare la città e la sua gente. Il 31 ottobre 2008, firmano tutte insieme una lettera al Governo e al presidente della Regione Puglia: parole civilissime che forse quelle autorità non meritano: «Vi chiediamo di essere statisti e di accantonare ogni altro fine che non sia quello della salvaguardia delle future generazioni. Vi chiediamo: agite, agite subito!». Oltre la diossina, si è scoperto che vi sono emissioni radioattive. Le norme europee dettano come ridurle, attraverso tecnologie consolidate e sicure. La Gran Bretagna ha provveduto. L’Italia no. Quando “ce lo chiede l’Europa”, dipende: a chi conviene? In questo caso, conveniva ai tarantini, a qualcun altro no. E qualcun altro vale più dell’Europa che ce lo chiede.

Sia maledetto chi uccide il padre.

Il Tara scorre(va) e sfocia(va) nel golfo appena a occidente di Taranto, poco fuori la rada di Mar Grande, chiusa dalle isole Cheradi: è uno dei fiumi carsici che, lungo la costa tarantina, dal Chidro (a sud-est, Salento pieno) al Galaso (a ovest, confini con la Lucania), affiorano dove la piattaforma calcarea si abbassa per entrare in mare. Il corso d’acqua si allunga pigro, alla ricerca di un filo di pendenza che porti allo Jonio. Fra i canneti sfoltiti sulle anse, alzavano tende contadini e braccianti che venivano dai campi pietrosi della Murgia interna (incluso i miei cugini), per vacanze brevi a basso costo. A loro, straordinari aridocultori capaci di far produrre una terra così ricca ma secca, con la sola umidità della notte (a farla condensare servono i muretti di Puglia), non pareva vero vedere tanta acqua dolce gratis (i più anziani manco ci entravano nel fiume: lo guardavano); mentre non avevano alcun interesse per il mare a poche centinaia di metri da lì. L’acqua salata uccide le piante; per loro, trovarla salmastra, e non dolce, dopo aver scavato un pozzo, era una disgrazia. Meglio tenersene lontani.

Noi cugini di città, al contrario, eravamo per il mare, alla foce del Tara (se a Mar Grande; per l’acqua dolce preferivamo il Galeso, il fiume dei Tamburi, che si butta in Mar Piccolo). Taras, figlio del dio del mare, Poseidone, fu il primo padre della città, duemila anni prima di Cristo; una dozzina di secoli dopo arrivò Falanto, da Sparta, con i suoi bastardi (erano chiamati così i primi tarantini, nati da donne libere e padri schiavi, mentre i mariti di quelle donne, libere in tutti i sensi, inseguivano la gloria sotto le mura di Messene). E sorse, più antica di Roma, la città oggi messa in ginocchio dalle ciminiere.

I fiumi erano dei, perché creavano popoli, davano loro una ragione per fermarsi sulle loro rive. Taras era il dio di Taranto e Tara il suo fiume.

Che non c’è più, ridotto a canale; le rive cementate, il corso deviato, la foce spostata, cancellato il posto dove Taras approdò con le sue navi; l’acqua del fiume, usata per raffreddare gl’impianti del Siderurgico, non arriva più nemmeno al mare. Il dio che generò la città è divenuto il servo di quello che la avvelena. «C’è stato un abbrutimento collettivo» dice a Carlo Vulpio, in La città delle nuvole, Vincenzo Pignatelli, un ex operaio che ha visto morire di cancro gli altri tre della sua squadra, poi ha scoperto di averlo anche lui. «Le trasformazioni sociali hanno smembrato la società. Hanno vinto l’illegalità e la rassegnazione.»

Sia maledetto chi uccide il padre. E chi lo lascia uccidere, senza impedirlo.

Taranto, a lungo ignara e distratta, ha preso coscienza lentamente, a fatica.

Alle spalle (ma proprio addosso) dei caseggiati delle vie De Vincentis, Lisippo, Troilo, Savino, si alza un’erta collinetta di una quindicina di metri, quasi uno stretto muro a punta (non c’era spazio per farla più larga, fra quartiere e stabilimento, separati da una strada). Sull’artificiale rilievo, alberi e piante annerite e una rete, sino ai venticinque metri. Una difesa, poco più di un palliativo, ma qualcosa fa: ferma le folate di polveri più grosse (ma la rete è rotta in più punti); mentre le più volatili e i gas piovono dall’alto, scavalcano.

Perché ho idea che io c’entri qualcosa con quelle collinette? Me lo spiega Gianni Tursi, che era responsabile delle relazioni esterne dell’Italsider, a Taranto: «Ti ricordi quel tuo articolo che...».

È passato tanto tempo, chi ci pensava più! Capimmo tardi e quasi a stento qual era il prezzo per la fabbrica, ma capimmo. L’esaltazione degli inizi si spense nei dubbi, poi in doloroso stupore. Sapemmo di avere un problema grande quanto il domani della città e la fabbrica di oggi. Avevo appena iniziato a fare il giornalista, nella redazione tarantina della «Gazzetta del Mezzogiorno», il quotidiano della mia regione: non avevo bisogno di andare a intervistare “quelli dei Tamburi” per sapere prima degli altri cosa succedeva lì, mi bastava tornare a casa, avamposto sullo stabilimento; il mio lavoro mi dava l’opportunità di approfondire. Pubblicai qualche articolo in cui c’erano domande che fino ad allora, in troppi non ci eravamo fatte (ma potrei dire tutti. Il sindaco Angelo Monfredi, per far intendere quale fosse l’impreparazione e l’attesa della città per la grande fabbrica, disse, anni dopo, a cose ormai chiare, anzi, avvelenate: «Ci avessero chiesto di metterla nella piazza principale, avremmo consentito». E aveva ragione).

Cercavo, con molti limiti (oltre i miei) di raccogliere qualche documentazione sull’impatto di questi grandi stabilimenti sui vicini centri abitati. Non c’erano Wikipedia, internet, Google; manco il fax: scrivevamo con la Olivetti portatile, infilando tre fogli bianchi e due copiativi; l’originale era spedito per posta fuori sacco alla sede centrale del giornale; una copia all’archivio della redazione, una all’autore. Le ricerche erano rudimentali e lente; io, pure con l’incertezza degli inizi. E un giorno appresi di una cittadina (o un quartiere, non ricordo più; avevo 21 anni, forse 22) condannata all’evacuazione, in Germania, per inquinamento dalla vicina acciaieria, più piccola della nostra. La similitudine con i Tamburi era impressionante. Uno choc: ne derivò un articolo figlio di una ferita, un tradimento: feroce e allarmante. Ci furono delle conseguenze.

Gianni Tursi mi chiamò, per dirmi che i suoi capi erano molto sfavorevolmente colpiti; che il mio scritto poneva la questione dei rapporti fra fabbrica e città, fino ad allora accettabili. E che, forse lui, Tursi, poteva non essere il più adatto a gestirli, se io, notoriamente suo amico e testimone di nozze, “attaccavo” l’azienda in quel modo. Gianni non mi aveva mai chiesto di far l’amico con l’acciaieria; né saremmo stati amici se l’avesse fatto. Però la cosa mi dispiaceva. Così feci, confesso, l’unica disonestà professionale che possa rimproverarmi (nel senso che ero cosciente di produrre un falso, decisissimo a farlo): riscrissi il mio pezzo, inserendovi frasi ancora più dure; poi le cancellai a penna, in modo che quello che ne restava fosse l’articolo finito in pagina. Porsi i fogli a Gianni e gli feci un regalo che, secondo me, sanava un’ingiustizia (non potevano pretendere che lui controllasse il mio lavoro): «Dalli a chi vuoi e digli che mi hai convinto tu a togliere le frasi peggiori».

Funzionò. «Quell’articolo» mi racconta adesso Gianni e non l’avevo mai saputo (o l’avevo dimenticato) «fece nascere dei movimenti e dei lunghi dibattiti nella sezione “Ecologia e sicurezza” dell’Italsider, diretta dall’ingegner Giovanni Nocco e di cui facevano parte una quarantina di persone attente a considerare l’adozione nel nostro stabilimento, di ogni novità positiva. L’azienda, allora parastatale, non risparmiava su queste cose. In ogni reparto c’era l’addetto a ecologia e sicurezza, pure fra gli operai. In tutto saranno stati duecento. E suggerivano investimenti per rendere più sicura e meno inquinante la fabbrica. Mentre il privato può chiedersi: e devo pagare tutte queste persone, perché studino come farmi spendere più soldi?»

Scusa Gianni: che c’entrano le collinette?

«Le collinette furono uno dei risultati di quelle discussioni. Sembrano niente, ma essendo così ripide per mancanza di spazio alla base, fu difficilissimo farle; chiamammo, da Firenze, uno dei maggiori paesaggisti italiani ed esperto botanico, Pietro Porcinai, per un consiglio sul tipo di alberi più adatti allo scopo, oltre che per la loro sistemazione su crinali tanto scoscesi.»

Toni e argomenti della coesistenza fra città e fabbrica, quando lasciai Taranto dopo poco più di un anno, erano profondi, veri, molto più onesti che dopo, che ora.

Era bella Taranto; forse per qualcuno lo è ancora, non per me, che l’ho vista diversa, più indifesa: si fidava. In pochi anni, è stata avvelenata e letteralmente consegnata alla delinquenza. Non potevo credere, standone via, che vi fosse sorta una mafia alla maniera della peggiore camorra, con decine di morti ammazzati in un anno. A Taranto!?, dove l’adrenalina del popolo schizzava, le rare volte che i magnaccia delle attempate prostitute della città vecchia, fatti di birra giocata a “padrone e sotto”, si sfidavano al coltello. I papponi, aspiranti criminali, esibivano ferocia teatrale, riuscendo persino a farsi prendere sul serio e gratificando di legittimo orgoglio le proprie mignotte, che si guardavano intorno per cogliere la stima riflessa da cotanto maschio (se uno fa questo per me, il minimo, per ricambiarlo, è fargli da puttana!). E se dall’omerico incrociar di lame sortiva (ebbene sì: accadde) davvero una ferita (e a volte, succedeva di peggio, non necessariamente volendo), allora si levavano alte le grida degli Achei sotto le mura: «U sang! U sang!», il sangue. Quando ci fu il primo scippo a Taranto, ci facemmo un articolone e un commento per chiedere, allarmati: dove arriveremo?

La qualità è precipitata tutta insieme e velocemente, a Taranto: quella dell’aria, del mare, della terra, della salute, e persino del vivere insieme, della legalità, della politica. In soli sei anni, sotto la disastrosa guida di un sindaco che aveva fondato il primo club di Forza Italia, in Puglia, il Comune ha fatto pure bancarotta. E viene da sospettare che fra l’imbarbarimento civile e quello della fabbrica ci sia un nesso e un interesse. Come può una cittadinanza che ha perso così vistosamente rispetto di sé, pretenderne da un colosso industriale che foraggia giornali, partiti di destra e di sinistra, impegna ministri alla ricerca di soluzioni “legali” per rendere tale quello che non lo è e consentire al mostro di continuare a fare quel che vuole, nonostante la corruzione scoperta, le violazioni sistematiche di norme, disastri accertati, ordinanze giudiziarie?

«Così si fa l’acciaio» dice Ciro Pugliese, e sembra accettarlo: coetanei, abitavamo nello stesso palazzo, stesso pianerottolo. Dieci anni fa è tornato a vivere lì: «Papà?». «Cancro.» «Mamma?» «Pure.» Non erano giovanissimi, ma non è nemmeno detto che si debba morire solo di cancro. «Gigi?» il più piccolo dei fratelli. «Leucemia. Gli ho dato il midollo osseo, ma dopo tre anni...» «Vito?» il maggiore. «Un... non mi far dire, lui se ne fa una colpa... Un danno genetico trasmesso alla nipotina.» Un massacro: restano fuori Margherita, l’unica sorella, e lui. «Io no,» dice con un sorriso imbarazzato «ho il cancro alla vescica. Mi hanno operato. Devo tornare per il raschiamento, fra qualche giorno» (poi mi dirà che Giovanni Paolo II gli ha fatto la grazia).

Ciro era lo scapestratello della comitiva: intelligente, passionale, incompatibile con la scuola, vi si trascinò a fatica, senza diplomarsi. Gli altri, quasi tutti, a conquistare titoli di studio e competenze tecniche, siderurgiche. Compreso me, ma solo perché mi avevano detto che il liceo classico era “la scuola dei figli di papà”; insomma, per “quelli di via D’Aquino”, e noi eravamo di periferia. Poi, tutti, o quasi, nello stabilimento (io no; e quando mi chiesero di occuparmi delle relazioni esterne, poco più che ventenne, ringraziai e rifiutai, perché volevo fare il giornalista. Lo stipendio era quasi quattro volte quello di mio padre dopo decenni di lavoro; il giornale non mi pagava, ma aveva promesso di farlo, prima o poi).

«Abbiamo fatto buona riuscita noi ragazzi dei Tamburi» riprende Ciro. «Franco Carrozzini, lo ricordi? Fisico nucleare al Centro sperimentale dei Castelli romani, ma non lo vedo da tempo; Enzo Lops è diventato generale degli Alpini (giustamente, venendo dalla zona più elevata di Taranto...; N.d.A.), era in Afghanistan, a Nassiriya, quando ci fu la strage; Angelo Ungaro è generale dell’esercito, come Angelo Basile, il fratello di Emanuele che fu mio compagno di scuola, ufficiale dei carabinieri e medaglia d’oro al valor civile, ucciso dalla mafia a Monreale, perché troppo bravo; Aldo Dorsaneo entrò in Ferrovia manovale, ne è uscito capostazione; passò dai Tamburi al Paolo VI, ora anche lui, lascia perdere...»

L’elenco è lungo e arriva a lui: «Poi ripresi a studiare e diplomi ne presi due; a 35 anni divenni perito e consulente del Tribunale: dopo 17 anni all’Italsider, o trovavo il modo di uscirne o uccidevo il caporeparto. Stavo in cokeria, dove c’è un macchinario per triturare il minerale: una specie di pigna enorme che picchia in un mortaio, boom, boom; è lo scontro fra mostri di tonnellate. E tu stai lì. A volte, qualcosa si incastra e il meccanismo si inceppa; qualcuno deve entrarci, con delle lunghe lance ossidriche, per tagliare il pezzo che blocca il movimento. Per due volte, in 17 anni, quel qualcuno fui io. Non c’è modo di evitarlo, la macchina deve andare. Quando ne esci, barcolli, hai fame d’aria, la prendi a morsi».

Di nuovo quel tono: «Così si fa l’acciaio». Non so tradurlo; se costretto, direi: l’orgoglio di farlo e la coscienza che fra te e l’acciaio, è l’acciaio che conta. E vale anche per la città.

«Ti ricordi cos’era la nostra piazza? Pizzerie, i pullman scaricavano migliaia di lavoratori che scartavano i panini per strada; quasi ogni famiglia ospitava un trasfertista, per integrare il bilancio. C’era tanta vita. Oggi ci sono case in vendita a poche decine di migliaia di euro, e nessuno le vuole, anche qui nel nostro palazzo. Sai l’appartamento di sopra, quello dei pescatori? E ora anche quello in cui abitavi tu.»

Di tutto quel che Ciro mi narra, dopo quarant’anni, a darmi il senso di vuoto dolente che traspare, credo, da queste pagine, è la sua vita da pensionato: «Vado nei prati». Non chiedo dove.

«Sì, qui» dice, come se l’avessi fatto. «La terra è nera; le mani non si sporcano di terra, ma di minerale e grasso che a tutto si attacca e tutto corrode, come una colla («struttura colloidale» dice lui; N.d.A.). Se avvicini una calamita, attira la terra, e talvolta i fiori, che io raccolgo e faccio seccare.» Devo dire qualcosa del profumo che i fiori non hanno quando sono colti, dei colori che perdono seccando, del bisogno che Ciro ha, potendone cogliere ovunque, di considerare ancora fiori quelli del quartiere?

Le linee di resistenza sono così tenui, a volte, che poggiano su petali sporchi. «Non ci credo ai comitati di lotta, alle associazioni» dice. Ed è proprio la popolazione dei Tamburi, la più esposta, a dare l’apporto minore ai movimenti popolari per risanare Taranto, pretendere che le persone valgano più dell’acciaio. Al referendum consultivo sulla chiusura dello stabilimento, voluto da “Taranto futura”, di Nicola Russo, è andato a votare solo un tarantino su cinque (35.000 persone scarse), quindi il quorum perché fosse valido, metà più uno, non è stato raggiunto; ma quattro votanti su cinque hanno chiesto la chiusura totale o parziale della fabbrica. Il più modesto afflusso alle urne si è avuto proprio nei quartieri a maggiore presenza operaia, i Tamburi e il Paolo VI; e proprio lì c’è stata la percentuale più alta di voti contrari alla chiusura dello stabilimento, perché quel veleno, se (o finché) non ti fa morire, ti fa vivere.

Il lavoro o la salute. Nata per indicare ben altro, oggi la pala-mosaico sull’altare della chiesa dei Tamburi dedicata a Gesù Divin Lavoratore (il suo parroco è pure cappellano dell’acciaieria), pare suggerire sinistre interpretazioni: mostra Cristo sul ponte girevole che con una mano sembra indicare ai lavoratori ai suoi piedi (operaio, colletto bianco, marinaio...) il fumo della ciminiera-simbolo dello stabilimento, l’E312 (la più alta delle 256 della fabbrica, leggi. In effetti sono proprio tante, anche se non le ho contate) e con l’altra il cielo. Ho fatto il chierichetto, lì, da bambino, con don Antonio Airò. Allora, il Cristo del mosaico pareva porgesse un dono.

«Ma io, al referendum, voterò per la chiusura,» aveva detto Ciro «anche se ci lavora il marito di mia figlia. Poi, devono risanare il territorio, e paghino lo Stato e il signor Riva. Noi abbiamo già dato.»

Quarant’anni che non mettevo piede qui. Andai via a 23 anni; dal primo aprile del ’73, presi servizio alla redazione centrale della «Gazzetta del Mezzogiorno», dove ero stato trasferito. Ma andai a Bari tre giorni prima, per sistemarmi nella casa che avevo affittato con degli amici. Era il 29 di marzo; come oggi, 2013: non l’ho fatto apposta e me ne accorgo solo adesso. E, be’... Sono ateo, ma credo che ci sia un dio delle coincidenze nella terra di nessuno fra chi crede e chi no.

«Nulla di quello che era stato promesso a questa città prevedeva un conto così salato» dice Giovanni (anzi Giuànn) Guarino che, con la cooperativa Teatrocrest, “teatralizza i luoghi”, perché non se ne perda la memoria e, con quella, l’anima della città, di cui non resta molto, perché era figlia del mare, legata al mare, alimentata dal mare (nell’Ottocento, quando la città aveva 30.000 abitanti, 20.000 vivevano del mare); quel mare da cui, per inquinamento da Siderurgico, hanno avuto lo sfratto gli allevamenti di ostriche, di cozze, i pescatori: come togliere i canali a Venezia, il riso ai cinesi.

Guarino è nato in vico Ospizio (titolo del suo lavoro più noto), nella città vecchia, l’isola unita al rione Tamburi dal ponte di pietra e alla città nuova, dal ponte girevole. Ma il teatro è ai Tamburi, sulla via che va al Galeso ed è intitolato a “’U Tatà”, «che è l’archè del vicolo, il tutore: si appendeva il fantoccio ai balconi, come oggi si fa con Babbo Natale». A Carnevale, se ne celebrava il funerale: «Carn’val, carn’valizz / t’e mangiat la zazizz / t’ l’e mangiat strafucann / t’a remast tutt ‘ngann / Ha muert ’u Tatà, uè / quest’è l’ultima chiangiut / quest’è l’ultima mangiat / quest’è l’ultima sunat / quest’è l’ultim’abballat / Ha muert u’ Tatà, uè / Ha muert ’u Tatà, uè» (hai mangiato salciccia strafocandoti, ti è rimasto tutto in gola: la carne era piatto da ricchi, dove ci si cibava di solo pesce).

«Zia Stella, vestita da uomo,» narra Guarino «sbatteva tre volte sul tavolo uno sturalavandino indossato a mo’ di fallo e porgeva un cantero in cui dovevi mettere confetti, biscotti. Non so dire del rito per quale dea questo sia il relitto culturale.» La città vecchia di Taranto è fra i centri storici più integri che esistano, almeno nei muri, pur se mal messi. Qualcosa si è salvato, con programmi europei, ma senza un programma che restituisse ai muri anche una ragione di esserci, oltre quella dell’esserci stati. La differenza fra centrodestra e centrosinistra, per il recupero di antiche residenze, mi viene spiegata così: «Che bel progetto (soldi), troviamo un palazzo; che bel palazzo, troviamo un progetto (soldi)».

Escluse dal recupero, la gente e la sua storia. Un delitto, perché la comunità di Taranto vecchia è rimasta una sorta di isola etnica (non solo geograficamente) dentro la città, anche se è stato fatto di tutto per indurla a disperdersi, fra case popolari dei Tamburi e altre periferie. Ma qualcuno che dice: «Noi stiamo qui da sempre» ancora c’è. Cogli una marcatura quasi caricaturale del dialetto, ancora più chiuso e duro, di molte consonanti e poche vocali spente in gola, echi dell’arabo che si parlò per i pochi decenni in cui Taranto fu emirato. Andare per il borgo antico con Guarino è come aggirarsi, con un archeologo, fra le pietre smosse di una civiltà perduta: quei resti parlano. «La fine del vicolo era “’u puntoune”. C’era il nucleo arabo... quelli con lo slargo, fuori dai percorsi, e con un solo ingresso. Si faceva la zuppa di ceci ai più poveri del vicolo. Dentro, ci si metteva il pane di sant’Antonio, che veniva benedetto il 13 giugno, giorno del santo, e non faceva mai l’umido e la muffa: lo si buttava dai balconi contro il maltempo o dal ponte, contro le mareggiate; i pescatori lo tenevano in barca, quale esorcismo contro le tempeste.»

Giovanni Guarino lamenta la disattenzione al luogo e alla memoria della Taranto più vera, ne vede il pericolo di estinzione. Ma trascura che c’è chi ridà vita al primo e salva la seconda, per esempio...: Giovanni Guarino; e non solo, perché in tanti seguono il suo lavoro, lo apprezzano; fra le associazioni sorte fra i tarantini, ce ne sono almeno un paio di giovani archeologi che mirano alla valorizzazione delle antichità trascurate o ancora da disseppellire (nonostante il tantissimo depredato o distrutto).

Quand’ero ragazzo, la soluzione per Taranto vecchia era ritenuta, non scherzo, la sua sparizione. Più o meno come l’abbattimento dei Sassi ipotizzato per Matera da capi di governo e potentissimi ministri, per cancellarne la vergogna; d’accordo fior di intellettuali. Fu Pasolini a far capire agli uni, agli altri e agli stessi materani, quale tesoro siano, un unicum mondiale (riconosciuto tale, oggi, dall’ONU). Mentre il nume protettore di Taranto vecchia sarà stato davvero «’U Tatà,» come dice Guarino «“papà”, in greco, il tutore del borgo?».

Un dubbio, e glielo dico: secondo etnografi dell’università di Lecce che ne scoprirono il tempio in una grotta salentina, “tutore” potrebbe venire da Tauthor (o Tautor), il dio dei primi pugliesi, diverso da quelli gelosi, crudeli e vendicativi (lo dice di se stesso pure Jahvè, nella Bibbia) che governavano il Mediterraneo, dall’Olimpo greco, fenicio o mesopotamico. Tauthor cercava di comprendere e correggere le ragioni degli errori, delle colpe, più che di punire; educava a crescere, ascoltava. I romani, gente pratica, ne avrebbero importato nel codice civile la funzione e il nome: tutore. Sicuro, Giovanni, che ’U Tatà non sia un resto più antico di quelli greci?

Il pessimismo di Guarino non è isolato, ma si contraddice con i fatti: ti parla della fine di Taranto vecchia, e la salva. Un altro ti spiega che «la battaglia ambientale, a Taranto, ormai è persa», ma ne ho visti pochi darsi da fare come lui, per vincerla. Un terzo ti racconta che «manca la capacità di aggregazione», e poche settimane dopo è fra i volontari che organizzano il sorprendente (per tutti) concerto del Primo maggio tarantino: 50.000 presenze, su meno di 200.000 abitanti! Un concerto alternativo a quello di Roma, che è sostenuto dai sindacati, con grande dispendio di risorse. Mentre loro, Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti (gruppo nato anche per iniziativa di ex dirigenti della Cgil metalmeccanici nell’acciaieria, in polemica con il sindacato, ritenuto troppo vicino all’Ilva), hanno investito poco più di 15.000 euro, quotandosi e recuperando i soldi con la vendita di magliette. La spesa, poi, per l’inatteso successo, è lievitata fino a 40.000 (davvero niente per una manifestazione di quella portata), ma l’inatteso successo ha anche incrementato le entrate, per cui sono andati in pareggio. Pensavano di ospitare musicisti locali, a costo zero, e hanno ricevuto tante adesioni, tutte gratuite, incluso Fiorella Mannoia, Luca Barbarossa, Raf, Baccini, Sud Sound System, da non poter anche accogliere Vinicio Capossela, o i tarantini Mietta, Mariella Nava, Mimmo Cavallo. A darsi da fare per il successo del concerto, anche l’attore tarantino Michele Riondino (il commissario Montalbano giovane).

Lo fai notare, all’anima della mancanza di aggregazione, e ti obiettano: «Sì, ma tutto finisce nella presenza: spente le luci, finito tutto».

Sarà, ma molte di quelle presenze poi confluiscono in decine di associazioni, gruppi, movimenti che fanno lavoro sociale, ricerche, politica nel senso più vero del termine. La mattina del concerto si sono riuniti i rappresentanti di una quarantina (avete letto bene) di organizzazioni, per esporre i loro progetti per il rilancio della città. Io ero ad ascoltarli: non dicevano fesserie! E quando vengono indette manifestazioni di protesta, cortei, per la città sfilano 10-20.000 persone. «Tanti, ma è come se consegnassero carta bianca all’attivista di riferimento e in quella partecipazione consumassero tutto il loro potenziale politico.»

Eh, magari è proprio così, ma ci sono andati: in 10.000, in 20.000, in 50.000! E poi, cos’altro è la democrazia rappresentativa, se non scegliersi il proprio rappresentante e, quando serve, partecipare direttamente, esserci? A me sembrano argomenti validi, ma non funzionano. Forse, manco da un po’ troppo tempo da Taranto: devo essermi starantinizzato; e per dire cosa intendo, mi tocca scivolare in quella falsa antropologia generatrice di leggende: non ricordavo che il tarantino è il disincantato che ti spiega perché le cose non si possono fare, e che non vale la pena farle. Mentre le fa. E pure bene!

«Lei cosa si aspetta?» chiedo a Franco Sebastio, procuratore capo di Taranto, una vita spesa per la città, prima che la città se ne accorgesse.

«Niente» risponde. Parla di sé e di oggi, con il tono di chi parla di un altro e di un tempo passato da tanto. Conosco quel tono: devi aver nutrito grandi ideali e aspirazioni e averli visti calpestati, per acquisire quella forma di saggezza che, rendendoti distante, attutisce la pena e non ti incarognisce.

Nessuno sa dello stabilimento siderurgico quanto il procuratore capo Franco Sebastio, manco chi ci lavora e lo dirige; nemmeno i Riva, attuali proprietari. Lo studia da sempre, per capire quello che non si vuol far sapere. Emise la prima sentenza di condanna per le polveri inquinanti della fabbrica, nel 1982, nel disinteresse generale: la lesse in un’aula deserta; i giornali riportarono la notizia come se si trattasse di due scippatori. I temi che infiammano oggi le coscienze in tutto il mondo e la città (l’ambiente; il lavoro da non pagare con la salute) suonavano eccentrici, allora. Franco Sebastio era un giovane magistrato, destinato al Palazzo di giustizia dalla storia familiare: cancelliere il nonno, cancelliere il padre, cancelliere lui, poi pretore, poi procuratore, poi capo. Le sue indagini hanno aperto campi nuovi alla giurisprudenza; nessuno aveva mai applicato a emissioni di ciminiere l’articolo del codice che punisce il “getto pericoloso”. «La sanzione prevista è modesta, ma il reato è penale...» avverte; quella sua sentenza non resse fino alla Cassazione; quasi tutte le altre, relative a processi condotti da lui come pubblico ministero, invece, sono state confermate; solo una è caduta parzialmente in prescrizione (per una manciata di giorni, ma che combinazione!), fatto salvo, però, il diritto dei danneggiati a pretendere d’essere risarciti, quindi con riconoscimento della colpa. Ma gli enti che avrebbero potuto e dovuto chiedere il risarcimento (centinaia di milioni di euro), Comune, Provincia, Regione, sorprendentemente, ritirarono la costituzione di parte civile.

Nel suo ultimo processo come accusatore, Sebastio mostrò un libro: «Un reperto archeologico, la mia prima sentenza, è del 1982. Se, dopo quasi trent’anni, può essere usata in questo processo, senza cambiare una parola, dobbiamo chiederci cosa non va».

Se gli chiedi come mai, quando quasi nessuno ne parlava, si dedicò alla lotta all’inquinamento, ti risponde: «Il magistrato non lotta contro l’inquinamento, ma contro i reati».

Ma ognuno legge il mondo con gli occhi del suo sapere, del suo sentire. Se non hai coltivato una coscienza ambientalista, i reati ambientali non li vedi. Lui come mai fu precursore, a Taranto, su tali temi? Ti guarda, l’accenno di un sorriso educato. Non dice niente. Aspetta la prossima domanda.

Ripeto la precedente. E se la cava così: «Il primo ecologista del mondo è stato Orazio, che cantò il Galeso». Il fiume dei Tamburi è uno dei più piccoli del mondo, scorre per novecento metri, ma sgorga con quattromila litri al secondo (è solo mille litri meno della sorgente del Sele, che disseta mezza Puglia); ed è stato cantato anche da Virgilio, Marziale, Properzio, Claudiano, Tommaso D’Aquino, sino a Pascoli. Non credete a me? Credete a Wikipedia.

Se questa intervista si chiama “cinquanta sfumature di silenzio”, la ritrosia del procuratore mi sembra riconduca alla ragione prima del suo tacere: «Disilluso?». «No, realista.» «Ora,» insisto «non credo pure prima.» Ti guarda, l’accenno di un sorriso educato. Non dice niente. Aspetta la prossima domanda.

Non usa mai il singolare, dice “noi”, “noi”, «perché nessuno può fare questo lavoro da solo». Ha creato una squadra di magistrati, quattro, uno più bravo e riservato dell’altro. La città ha capito quello che facevano quei magistrati e che poteva fidarsi, forse proprio mentre lui si convinceva che la città non avrebbe reagito; e se sì, “too little, too late”, troppo poco, troppo tardi.

Gli dico perché sono a Taranto: il lavorio confuso, conflittuale, dall’incerto procedere, al Sud, di una nuova, più attiva e consapevole cittadinanza, che si manifesta con il proliferare di associazioni, movimenti, centri studi e di volontariato. E proprio la città siderurgica è una delle capitali di questo possente e trascurato fenomeno. Sono stati i cittadini a scoperchiare il caso-Taranto, scoprendosi traditi dalle istituzioni, meno la magistratura. Quelle associazioni hanno fatto, in pochi mesi, quanto tutte le istituzioni, enti, sindacati e la fabbrica non hanno fatto in mezzo secolo. Per far capire cosa significhi davvero, uso dire che del tarantino (e io lo sono) avevo un’altra idea: se fondano un comitato di due membri, uno dei due deve aver pagato l’altro.

«Signor procuratore, mentre attendevo di essere ricevuto da lei, ho visto uscire dal suo ufficio i capi di due delle associazioni più attive e antiche. Hanno portato i risultati di nuove ricerche?»

Ti guarda, l’accenno di un... eccetera.

Sono state le associazioni di cittadini a far le analisi utili alla magistratura. «Nei nostri processi, sono giunti degli spunti dai cittadini, ma le perizie sono solo nostre» puntualizza (la magistratura, in poco più di un anno fece quel che gli enti responsabili della salute pubblica non fecero mai).

Come a Milano i parlamentari del partito di Berlusconi hanno protestato dinanzi al tribunale, perché i magistrati osano processare l’amato leader, a Taranto c’è stato un corteo di operai del Siderurgico contro i magistrati che indagano sull’operato dell’Ilva. Erano lì «a spese del “donatore” di lavoro, che non ha detratto loro la giornata», mi racconteranno i Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, quelli che qualche intellettuale di complemento chiamò “reazionari”, senza dire altrettanto di chi manifestò contro i magistrati, su... invito dell’azienda, «che li ha riforniti di kit “da sciopero”, fischietto e cestino della merenda inclusi, e trasportati con gli automezzi aziendali; gli striscioni stampati in fabbrica; uno diceva: “E dopo, tutti a casa del gip”, il giudice per le indagini preliminari, Patrizia Todisco, da allora costretta a vivere sotto scorta».

Però, ancora una volta come a Milano, per il pool di Mani Pulite, a Taranto i cittadini son scesi in corteo a sostegno delle inchieste della Procura. Dopo cinque-sei volte che lo chiedo in modi diversi, Franco Sebastio ammette: «Be’, sì, in fondo in fondo fa piacere. È un riconoscimento. Ma privo di influenza sul nostro agire: non lavoriamo per il consenso o per cambiare il mondo».

Quanti magistrati possono dire di aver visto la città scendere in strada in loro appoggio? E finalmente parla, dice “io”, e fa un discorso: «Io sono come un conducente di autobus: sta lì, seduto, zitto, fa il suo lavoro. Magari, la sera, quando è più stanco, sale un passeggero simpatico, nel bus vuoto. E gli fa fare due chiacchiere, racconta delle barzellette. All’autista fa piacere, ma sa già che quello, arrivato alla sua fermata, scende. Che fa, ci rimane male? Mi hanno proposto varie candidature da destra, sinistra e centro. Ho risposto: “Non è opportuno”».

Ma la città...

«Quand’è che la città ha avuto l’ultimo soprassalto? Filonide?» Scoppiamo a ridere. Il resto del mondo può ignorare chi fosse, un tarantino no: tre secoli scarsi prima di Cristo, l’ambasciatore romano Postumio espose ai cittadini jonici, riuniti nel teatro, in che modo superare l’incidente delle quattro navi romane affondate dai tarantini, perché ritenute ostili (sembra a torto, ma ce l’hanno detto i romani...). L’alternativa era lo scontro fra le due più grandi potenze della Penisola, in quel tempo. Postumio parlava, e i tarantini continuavano a ridere per il suo greco incerto; e quando l’ambasciatore decise di andarsene, Filonide si sollevò la tunica e gli pisciò addosso.

Cerco di farmi raccontare, dal procuratore, il percorso dalla prima sentenza contro le polveri dell’Italsider, nell’indifferenza della città, sino alla mobilitazione di oggi. «Ricordo altre aule vuote, mentre i giudici condannavano» dice. «E ci occupammo di altri impianti, mica solo il Siderurgico... (a ridosso del quale, sfiatano veleni il cementificio e la raffineria di petrolio. I tre stabilimenti più inquinanti d’Italia, per produzione di CO2, sono due a Taranto uno a Brindisi; e sempre fra le due province ci sono tre dei quattro più inquinanti in assoluto: l’altro è in Sardegna; N.d.A.). Poi abbiamo visto migliorare la qualità degli accertamenti possibili e quella delle leggi. Poi abbiamo visto abbattere migliaia di capi di bestiame. Poi, primo caso in Italia, abbiamo visto confermata la condanna per mobbing, sino alla Cassazione, per la Palazzina Laf: ne ha parlato nessuno? (L’Ilva aveva istituito una sorta di Cayenna per lavoratori indocili, dissidenti, troppo sindacalizzati: un meccanismo illegale e inumano di distruzione della personalità; N.d.A.)»

Il suo numero è sull’elenco telefonico da sempre, con l’indirizzo («Conti le pagine di Sebastio»). Gli hanno imposto la scorta, che lui non vuole: va a prenderlo quando esce di casa, lo riaccompagna a fine giornata. «Ma noi dovremmo proteggerla sempre», gli dice il caposcorta. «Pure quando porto fuori il cane, anzi “la cana”?» «Pure.» «Allora perché non lo portate fuori voi e io resto a casa?» «Perché non è previsto.»

Qualcuno dice che la procura di Taranto stia scrivendo una pagina di storia, con le sue indagini. «Fa solo il proprio lavoro» smorza lui. «Quando mi dicono che sono una persona onesta, io per... onestà, devo riconoscere che non posso saperlo. Puoi dire di esserlo, se resisti alla tentazione di non esserlo. Insomma, mi avessero offerto 100.000 euro e li avessi rifiutati, saprei che sono un onesto da 100.000 euro. Non potrei garantire da 200.000, in assenza di tentazione di pari importo. Ma, non avendo aspirazioni che possano sedurmi, né essendo stato tentato da aspiranti corruttori, io che ne so? Da questo punto di vista, se vogliamo, un fallimento: in magistratura da cinquant’anni, mi avesse circuito uno! Niente, e che diavolo» scherza.

Contento del lavoro fatto? «Siamo appena stati denunziati, per intento persecutorio (Chissà a chi si sono ispirati questi imprenditori che denunciano la persecuzione ai loro danni, da parte dei giudici che indagano sui loro presunti reati; N.d.A.). Ho 70 anni e potrò continuare per altri tre anni e mezzo. Un minuto dopo che sarò andato in pensione, diventerò “Sebastio chi?”. Però, quando mi faccio la barba, la mattina, non arrossisco, nonostante i miei errori, le mie incertezze. Mi trovo soltanto un po’ più vecchio.» E ride: «Un’esternalità positiva...».

Io non rido, perché non ho capito.

«Vuol dire che le cose non vanno mai valutate a sé stanti, ma in rapporto a quanto da esse nasce o viene impedito di nascere. È la teoria delle esternalità negative, che chiunque può leggere in un qualsiasi manuale universitario di economia politica. Per esempio, di uno stabilimento siderurgico bisognerebbe prendere in esame le ricadute positive e negative all’esterno, porre le une e le altre sui piatti della bilancia e vedere se sono almeno in equilibrio. Così, dal Siderurgico arrivano migliaia di stipendi (positivo), ma anche negatività: la produzione agricola a cui abbiamo dovuto rinunciare, per dire, quanto vale? Certo non il reddito che garantisce lo stabilimento, ma qualcosa valeva. La zootecnia ora impossibile a ridosso della fabbrica e persino a distanza di chilometri, tanto che si sono dovuti abbattere migliaia di capi contaminati da diossina, quanto ha perso? Certo non quanto dà l’acciaieria, ma il danno c’è stato. E l’allevamento dei mitili in Mar Piccolo, la pesca, a cui ora si deve rinunciare, quanto vale? Certo, non quanto il Siderurgico, ma è un altro valore perso. E il turismo che non è più possibile per tratti così importanti di costa, in città (la spiaggia dei tarantini era sul lungomare: scendevi dalla strada e ti tuffavi; N.d.A.), nell’interno, quanto vale? Certo, non quanto il Siderurgico, ma non si può dire valesse poco. E la salute? Non in senso di danno personale, dolore, ma proprio economico: spese per cure, ricoveri, pensioni, giornate di lavoro perdute... Quanto vale? (Si stima da poco meno a qualcosa in più di 250 milioni di euro all’anno; N.d.A.). Nessuna di queste esternalità negative può pareggiare, da sola, quella positiva dello stabilimento, ma siamo sicuri che tutte insieme non ci riescano? Si consideri anche questo: per le esternalità positive del Siderurgico sembra sia stata inquinata, in pochi decenni, una parte rilevante di territorio, il cui recupero potrebbe essere lungo, costosissimo (ecco un’altra esternalità negativa) e forse non sempre possibile; lo stesso territorio, usato per altre imprese, avrebbe potuto rendere come faceva da millenni. Se tali considerazioni sono esatte, però, ce lo dirà il processo, che dev’essere celebrato nel rispetto della presunzione di innocenza.»

Ascolto interessato (e mi viene in mente una frase del sociologo Nino Aurora, su Taranto: «Quando è nata la fabbrica, è morto tutto quello che c’era prima»), ma soprattutto stupito: chi avrebbe mai detto il procuratore capace di un discorso così lungo? E non ha finito!

«E il diritto alla vita? Quanto vale? È l’unico che la Costituzione non consente di limitare. Il tuo diritto di proprietà può essere sacrificato per interessi collettivi ritenuti più grandi, e ti espropriano; l’inviolabilità del domicilio puoi vederla calpestata, ove ci fossero ragioni valide, e ti perquisiscono casa... Io sapevo: tutti i diritti possono essere limitati, meno uno, la vita. Fino a che ho ascoltato, nelle intercettazioni, il proprietario dell’acciaieria dire: “Due-tre morti per cancro, che saranno mai? Minchiate!”.»

Taranto fu la città più ricca del mondo, al tempo del suo splendore. La sua opulenza veniva dal mare: le murici per estrarre il color porpora e il bisso, la seta più sottile, leggera e resistente che esista, tessuta, dopo lunga lavorazione, con i sottilissimi filamenti del piede delle conchiglie giganti del Mediterraneo, la Pinna nobilis. Una seta che vale più dell’oro, al grammo (a Manoppello, in Abruzzo, potete vedere un fazzoletto di bisso: con quello, dice la Chiesa, fu asperso il sudore dal volto di Cristo, la cui immagine rimase impressa).

Altra Taranto, altri tempi. «Tutto, da troppo tempo, giunge da fuori» elenca Sebastio; «i cantieri Tosi, da Legnano; l’Arsenale militare è dello Stato; l’Italsider, statale e da Genova, poi privati e padani; Eni, Belleli... Anche la guerra ai romani la facemmo fare, per conto nostro, a un forestiero, Pirro, dell’Epiro. Dal nostro tessuto sociale, da noi, cosa è venuto fuori?»

Sull’industrializzazione dopo l’Unità d’Italia, non comincio neppure: troppo da dire e non c’entra con questo incontro; sul tessuto sociale: e chi ha detto che Taranto non fosse in equilibrio senza gli stabilimenti venuti da fuori, non si bastasse così com’era? Ci sono processioni del venerdì santo fatte di corsa (la Madonna che va incontro al figlio...); le altre, a passo normale, magari dondolando, ma andando; a Taranto c’è la più lenta del mondo o almeno tale è ritenuta: i penitenti in saio e cappuccio con due piccoli fori per gli occhi, procedono, scalzi, avanzando di poche decine di millimetri a passo. Impiegano tutta la notte per percorrere alcune centinaia di metri. È, questo dei “perduni”, il rito identitario della città. E se fosse quella l’intima velocità dei tarantini?

Quanto a cosa è venuto fuori dal tessuto sociale: e Filolao di Taranto, allora, il pitagorico che disse «Tutte le cose hanno un numero», nel senso che sono identificabili da una cifra? (Oddio, il numero dei morti nel Siderurgico, per la verità, non è mai stato rilevato e ormai non si potrà più; e quello dei morti a causa del Siderurgico non si potrà mai stabilire.) Mi accorgo subito del doppio errore, ma ormai è fatta, perché pure Filolao veniva da fuori, era nato a Crotone (fu lui a divulgare i segreti della scienza negata al mondo dagli altri pitagorici); ma qui fece la sua scuola e fu maestro di Archita, il “nostro” genio (grande matematico, imbattuto generale, amministratore pubblico straordinario: con lui la città divenne la più ricca e potente della Magna Grecia). L’altro errore è averla presa così alla lontana. Infatti, Sebastio annuisce e ridacchia: «Eh... Archita».

«...e oggi, le decine di associazioni di cittadini che si sono sostituiti alle istituzioni,» concludo (ma avrei fatto meglio a cominciare così, la ragione per cui ho chiesto l’incontro) «e che, fidando nella magistratura, lavorano per risanare la città. Un fenomeno quasi unico, enorme e sviluppatosi in pochissimi anni».

Ti guarda, l’accenno di un sorriso educato. Non dice niente. Aspetta la prossima domanda. Forse ha aspettato troppo che Taranto si muovesse; e ora che si muove, forse, dubita che duri.

Ma io credo di aver capito e non chiedo altro. Pochi giorni dopo, nuovi arresti per l’inchiesta “Ambiente svenduto”: il presidente della Provincia, ex dirigente sindacale della Cisl, l’assessore all’Ambiente, l’ex segretario della Provincia, l’ex dirigente dell’Ilva per i rapporti con la città. Ed è solo un’altra tappa. Passa pochissimo tempo e la magistratura, a danno dei Riva, dispone il più alto sequestro di soldi di tutti i tempi: più di 8 miliardi di euro, circa dieci volte quello che la famiglia pagò per comprare lo stabilimento. Devo ricordarmi che manco da troppo tempo da Taranto e che... mentre ti spiegano l’inutilità del fare, fanno.

La mattina del Primo Maggio alternativo a quello di Roma, nell’area archeologica delle mura greche, il Dibattito: quanti caffè prendere prima di andarci? La zona, ampia e affogata nei palazzoni dell’espansione a Est della città (più lontano possibile dal Siderurgico), abbandonata da sempre, era stata riscoperta; il recupero avviato, però, non venne completato. Decine di giovani volontari, in un giorno, l’hanno resa agibile: la giungla impenetrabile, arricchita da piccole discariche abusive, è divenuta un prato pulito, a cui il taglio fresco aggiunge un intenso profumo di erba. Dove gli alberi sparsi si avvicinano sino a unire le chiome e a stendere una protezione d’ombra, il Dibattito. E non serve caffè... Ci sono i rappresentanti di una quarantina di associazioni, di ogni tipo; non tutte di Taranto e della provincia. «Unione non è pensarla allo stesso modo,» dirà Fulvia Gravame, di Peacelink «ma avere lo stesso obiettivo: una città migliore. Siamo andati, insieme, a troppi funerali; possiamo farlo per altro.»

«L’unica lotta che si perde è quella che non si comincia,» dice Pino, dei Cobas «qui si costruisce democrazia, politica.»

Quando alcuni intervengono per raccontare quello che è stato fatto male, i moderatori riportano l’incontro al suo tema: «Non abbiamo bisogno di dire come ci hanno ridotto, siamo qui per esporre idee e progetti su come uscirne». Hanno cinque minuti a testa e devono farseli bastare, perché chi sfora viene interrotto. Ricordate il ragionamento del dottor Sebastio sulle esternalità negative? Lo ritrovi qui, detto in altro modo: insomma, siamo sicuri che quel che abbiamo perso valeva meno di quel che ci hanno dato? «Vogliono farci credere che non sia possibile un’altra economia» (mi sfugge il rappresentante di quale associazione lo dica, ma potrebbe essere stato chiunque di loro). «Riva (padrone dello stabilimento; N.d.A.) ha già deciso di andarsene, chiudere. Noi dobbiamo cercare di recuperare quello che è stato abbandonato,» sostiene Luigi Boccuni, di Alta Marea, associazione di associazioni che portò in piazza ventimila persone «e farne lavoro, futuro.»

E quel futuro può essere il passato. Patrizia Guastella, archeologa, con un gruppo di colleghi si è inventata il lavoro che volevano: son riusciti a farsi dare in gestione l’area di Saturo, dove sorse la prima Taranto (a opera di quel Taras, il figlio di Poseidone e della ninfa Satyria, che sposò Satureia, figlia di Minosse, il re di Creta). Competenti, determinati: «Le mura non sono i pochi massi che vedete: ce ne sono ancora sepolti lunghissimi tratti, con porte, archi» (e proprio l’area delle mura, per esempio, è stata occupata da una cooperativa, la Archeotower, che mira al loro recupero, perché rendano turisticamente). Ma devono cominciare da un muro da rompere: «Quello dell’ignoranza e dell’indifferenza, perché i tarantini non sanno che la loro storia può essere pane». Così, meglio rivolgersi ai bambini, cui ripropongono i giochi dell’antichità, in una sorta di piccola Disneyland del passato. «Solo dopo abbiamo scoperto di essere stati i primi in Italia, a farlo.»

Giulio Farella, biologo (associazione Le Sciaje, che sono i giardini di allevamento delle ostriche, a Taranto scomparse ormai da tempo, per fiato siderurgico: le esportavano in Francia, da dove, oggi, le importano), racconta per quanto tempo (e da quando, fino all’arrivo dell’acciaio) Taranto viveva soltanto del suo mare. Franco Nicola, della cooperativa Fare, illustra un sistema di galleggianti per la maricoltura, da lui ideato a partire dagli studi di un biologo, per trarre dal mare reddito, senza impoverirlo. Ogni venti metri quadrati di mare, l’equivalente di quanto dà una mucca...

«Taranto non ha una vocazione industriale,» Giuseppe Carovigno «non crediamo alla riconversione dello stabilimento: chiuderne l’area a caldo (la più inquinante; N.d.A.), bonificare e risarcire.»

«L’allevamento, l’agricoltura, il mare, il passato,» elenca Vincenzo Fornaro, di Taranto Respira «muoiono le alternative per Taranto, non solo i tarantini.» E le pecore: erano sue le prime abbattute per avvelenamento da diossina; pascolavano a ridosso del Siderurgico. Ora lì brucano, pare, quelle di altri. I capi soppressi sono meno di tremila in tutto, incluso greggi a quindici chilometri dall’area industriale. E si progetta il raddoppio dell’inceneritore di Massafra: «Forse perché pensano: “Tanto, siete già contaminati...”». (I tre impianti che eruttano più biossido di carbonio, in Italia, sono tutti e tre in Puglia, vi ricordo: quello dell’Enel, a Brindisi; l’Ilva e la centrale termoelettrica a Taranto.)

Ti spiegano che la diossina si deposita nella carne, nei grassi, mentre con le analisi le cercano nel latte e solo una volta all’anno. Così, il latte può risultare a norma, anche se le bestie sono avvelenate. Non chiedete perché fanno così, potreste ricevere una risposta di questo genere: «Un conto è distruggere una dozzina di allevamenti; se diventassero centinaia, migliaia, ti troveresti 20-30.000 operatori della zootecnia a far casino per la perdita del lavoro. A quel punto, che fine farebbe il ricatto occupazionale di 12.000 dell’acciaio?».

Fornaro ha denunciato l’Ilva. E, oltre alle pecore, ha perso gli ulivi. Lui e la sua famiglia (padre, fratello), per anni avevano condotto la raccolta dagli ulivi che stanno nell’area dello stabilimento. Quando me lo dice, lo guardo strano: «E che ve ne facevate di quelle olive, scusa?». «Olio, sui cento quintali all’anno, consumati nella cucina aziendale del Siderurgico.» E che diavolo! «Guarda che l’olio è buono» assicura. «La diossina si deposita sulle foglie e sulla buccia delle olive: le lavi e la diossina sparisce. Lo confermano le analisi.» Non ne dubito. Ma sono state fatte altre analisi? Oltre la diossina, se è vero quel che mi dicono, non è stato cercato nient’altro. Non riesco a crederci; gli alberi si nutrono dalle radici e quelle degli ulivi interni all’acciaieria succhiano da una terra che da mezzo secolo prende per prima tutto, o quasi tutto quel che avvelena Taranto e i suoi dintorni. Provo a metterla così: vi portano una bottiglia di quell’olio, con tutte le certificazioni possibili e a posto: voi ce la condite l’insalata? È quello l’olio che si consuma in casa Riva? A ulivi metalmeccanici la Puglia è abituata, perché le macchine della rivoluzione industriale, in tutto il mondo, sino alla scoperta dell’olio minerale, furono lubrificate con quello degli uliveti pugliesi (la Borsa dell’olio era a Gallipoli, dove i Paesi industrializzati avevano sedi diplomatiche o commerciali). Ma le fabbriche erano là e gli ulivi qua, non insieme.

Comunque, da quando ha denunciato l’Ilva, le olive siderurgiche non le raccoglie più Fornaro...

La maratona continua (se vi annoiano gli elenchi, saltate il paragrafo): Rosa D’Amato, di Taranto Lider; Roberto, dell’Agenzia per lo sviluppo del Terzo settore («Sono commercialista; se sbaglio pago. E chi avvelena una città, no?»); Gennaro Cimaglia, del Mac, Movimento Azione Cittadino; Giovanni Carbotti, di Taranto Respira; Chiara Brascina, archeologa lucana di No Triv, contro le trivellazioni petrolifere... e poi quelli di Ammazza che Piazza, A Sud Associazione, Attiva Lizzano (Ta), Campagna Legge Rifiuti Zero, Centro Documentazione sui Conflitti Ambientali, Cdca, Comitato Cittadino Antinucleare di Maruggio, Comitato per la corretta gestione rifiuti di Massafra (Ta), Comitato per Taranto, Comitato Pugliese Acqua Bene Comune, Co.N.Al.Pa Coordinamento Nazionale Alberi e Paesaggio Delegazione Puglia, Cooperativa Polisviluppo, Movimento “Taranto... Voglia di Volare!!!”, Donne per Taranto, Comitato cittadino, Economia per i Cittadini (Gruppo Puglia), Exit Collettivo Barletta, Gravine Joniche - Associazione Ginosa (Ta), La Tana del Folletto associazione Manduria (Ta), Legambiente, Legamjonici (Ta), Libera Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, Peacelink associazione (Ta), Progentes APS, Rete dei Comitati per i Beni Comuni Puglia, Sherwood associazione onlus Grottaglie (Ta), Taranto Senza Ilva, Comitato Cittadino, Taranto Supporters, Terra e Popolo...

Se siete arrivati in fondo alla lista e state per mandarmi a quel paese, sappiate che ho pure espunto i nomi delle associazioni già citate, di quelle sorte fuori Taranto e solo temporaneamente attive nella città e le associazioni che pur autoctone, sono rappresentate da altre, insieme alle quali operano preferibilmente.

Provate a immaginare quanto lavoro ci vuole per far nascere, vivere, operare tali associazioni, spesso in concorrenza fra di loro; le iniziative da far partire, la popolazione da coinvolgere; il confronto di idee e progetti che spesso porta a fratture, esodi, ricomposizioni, confluenza di alcuni gruppi in altri, temporaneamente o per sempre... Valutate in tempo, in numero di persone (fra chi resta, chi se ne va e chi viene), persino in spese. È un popolo che brulica, cerca vie e soluzioni. Li sentirete lamentarsi che pochi agiscono e molti seguono a cose fatte. Ma è esattamente quello che accade in parrocchia, al governo, nel partito e nelle rivoluzioni. Li sentirete lamentarsi della conflittualità fra i gruppi, che invece dovrebbero unirsi. Ma gli organismi sociali sono esseri viventi pluricellulari: crescono, si sdoppiano, tornano a crescere, qualcuno risulta inadatto e si estingue, altri dilagano o mutano indirizzo... Un esercizio da fare, per capire, potrebbe essere questo: prima c’è, poniamo, una sola associazione per salvare la foca monaca; poi alcuni si preoccupano pure del delfino e, ritenendo che non si faccia abbastanza (troppa foca), abbandonano il gruppo, per crearne uno pro-delfino. Quanto più si fa complessa, nelle due associazioni, l’elaborazione di idee sul cosa fare e come, tanto più si amplia il campo degli interessi, e diviene possibile la nascita di nuovi gruppi, per partenogenesi (sdoppiarsi).

Il ragionamento per comprendere se si ha vera evoluzione dovrebbe essere: di quali argomenti ci si occupava quando il percorso è iniziato e in quanti lo facevano? A quali temi (o sfaccettature dello stesso tema) si sono estesi, poi, l’attenzione e l’impegno di quei sostenitori e quanti sono diventati, questi, sommando attivisti e simpatizzanti di tutte le associazioni via via nate?

Altro argomento che può nascondere la portata di tali fenomeni sociali è la presenza dominante di alcuni che “fanno tutto loro”. In un certo senso è vero; in un certo senso è falso. Ogni impresa ha un inizio e quelle umane nascono dalla mente di uno solo, la cui idea diventa, per condivisione, il progetto di molti. È normale (ma non scontato) che chi comincia sappia dove andare e sia per gli altri un punto di riferimento; in tal modo, in tanti cercano lui, molto meno di quanto lui cerchi ognuno degli altri. La geometria delle reti (ripeto: non vi impressionate è una cosa bella e, al nostro livello, semplice) studia questi rapporti. Considerate che ogni persona sia un punto e le relazioni fra di loro siano linee che li collegano: chi dialoga con molti apparirà come una matassa di fili che si incrociano; i più solitari, saranno connessi alla rete da poche linee. La struttura di queste “reti” è quasi la stessa (ricordate?), si tratti di traffico aereo o relazioni umane (o della distribuzione di energia elettrica e persino dei beni materiali: pochi ricchissimi hanno tantissimo e tantissimi altri molto poco, ma tutti collegati dalla circolazione di denaro). Nel caso degli aerei, gli snodi principali si chiamano hub, che vuol dire perno, mozzo; nell’intreccio delle relazioni umane, chi agisce come hub è detto “connettore”. Malcolm Gladwell, l’autore di un testo importante per misurare il grado di socialità degli individui, Il punto critico, ne spiegava così la funzione all’interno delle comunità: «Disseminata in varie occupazioni esiste una manciata di persone che possiede l’abilità straordinaria di stringere un numero eccezionale di amicizie e di conoscenze». Insomma, di stabilire contatti, legami: «Sono i connettori».

Quindi, quando vedete tre o quattro che sembrano fare tutto loro, attenti a valutare il fenomeno: se, quando richiedono la presenza degli altri restano in tre o quattro, o poco più, allora è vero, fanno tutto loro e, tutto sommato, non fanno granché; se diventano mille o cinquantamila, allora sono dei connettori. Vuol dire che quei tre o quattro hanno fortissimi legami fra di loro (sono hub); e legami deboli con tantissimi altri. In questo tipo di geometria (e vale per internet, i rapporti umani, le reazioni chimiche, e via dicendo) la potenza della rete non è data dai legami forti, ma dall’ampiezza di quelli deboli. Una delle sostanze più stabili, capace di trasformare il nostro pianeta e qualcos’altro nel cosmo, l’acqua, ha molecole tenute insieme da legami deboli. Okay, se ancora non avete fatto vostro il concetto, allora fidatevi e andate avanti.

A Taranto, i connettori principali non arrivano a una dozzina (non è poco: è molto). Cominciò con la Guerra del Golfo (quello Arabo), e la tartaruga Caretta Caretta, che non c’entrano niente, eppure... Me lo racconta Alessandro Marescotti, laurea in filosofia, professore di italiano e storia all’istituto tecnico industriale “Righi” (ed è lì che mi dà appuntamento. Così rientro nella mia scuola e rimprovero il tizio in portineria che non mi riconosce, dopo appena 45 anni, scusandosi perché non era ancora nato). «Nel 1991, sul modello di Peacenet negli Stati Uniti, con altri tre fondammo la rete telematica pacifista, Peacelink. Ci sentivamo un po’ come dei “missionari tecnologici” e io provavo un malcelato orgoglio nel dire: noi pacifisti siamo già in rete, le forze armate italiane non ancora. Oggi Peacelink è il primo sito italiano per la difesa dell’ambiente e per la diffusione della pace. La guerra del Golfo durò solo alcune settimane, Peacelink continuò; in pochi mesi divenimmo tantissimi. E virammo sull’eco-pacifismo, l’inquinamento e i rischi per la presenza di sottomarini nucleari.»

Erano svelti di pensiero antico applicato all’oggi, Marescotti e gli altri, persino troppo avanti se, mentre loro si muovevano nel web come a casa loro e a colpi di clic scoprivano verità nascoste, i giornali non avevano ancora la posta elettronica. Così, il professore, da corretto ecologista, pedalava da una redazione all’altra, per recapitare (a mano!) i comunicati di Peacelink.

Ma dei veleni di Taranto, nulla. Perché? «Pensavamo che se ne dovessero occupare le associazioni ambientaliste. Non sapevamo» risponde con onestà Marescotti. «I Riva avevano allora un giornale, “Mondo Libero”, che più di una volta ospitò nostri interventi. Nel paginone centrale a colori, pubblicò il prospetto con la dislocazione delle basi NATO, che ero riuscito a procurarmi in modo assolutamente legittimo, entrando nel sito del quartier generale del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, il Pentagono. Taranto era nell’elenco, quale base ad alta prontezza d’uso. Non lo sapeva nemmeno la Commissione Difesa di Camera e Senato. Però, pur vivendo in città, non ero mai stato ai Tamburi.»

Non bisogna stupirsi di questo; difficile vedere la piramide a venti centimetri dai tuoi occhi. Devi allontanarti per coglierne l’altezza. E questo dovrebbe spiegare molto del modo dei tarantini di vivere con la fabbrica, onnipresente ed estranea: o ne fanno parte, perché ci lavorano o le vivono a ridosso, ma di spalle.

Finché non hanno cominciato a capire.

Per il professore e quelli di Peacelink, la cosa fu lenta e graduale. Durante la guerra del Kosovo, nel 1999, per e-mail, raccolsero testimonianze delle popolazioni bombardate dalla NATO e le pubblicarono (Cronache da sotto le bombe). Alla presentazione del libro, l’ex ambasciatore della dissolta Yugoslavia consegnò loro una busta con una ventina di fogli: la mappa dei bombardamenti con ordigni a uranio impoverito. «Solo dopo alcuni giorni ci rendemmo conto che eravamo gli unici ad averla» dice Marescotti. «La mettemmo sul web e fece il giro del mondo. Ci fu un dibattito in città, su quei dati, un tale si alzò e disse: “Fate bene, ma qui a Taranto c’è di molto peggio. Perché non ve ne occupate?”.»

Perché facevano altro; e quel dubbio che gli era sorto, Marescotti lo chiarì soltanto tempo dopo. Ma che Peacelink scovasse documenti nascosti e vi costruisse su battaglie civili, ormai a Taranto lo sapevano tutti. E un giorno giunsero nelle mani del professore delle foto della cokeria, con una notazione (“Questa è cancerogena”) e la perizia disposta dalla magistratura, i cui risultati erano coperti da segreto istruttorio. «Io prendevo 4 in chimica. E lì leggevo cose di cui non capivo nulla: vanadio, benzopirene, mercurio... Un esperto mi spiegò quei numeri e quelle concentrazioni; mi resi conto finalmente dell’enormità della faccenda, cui nessuno badava. C’era Legambiente a Taranto, ma troppo piccola per roba tanto grande.»

Marescotti comprese che avrebbe fatto bene a studiarla la chimica, ma puoi sempre recuperare... Un conto, però, è capire qualcosa, diverso è farne consapevoli e partecipi gli altri. «Quando l’allora procuratore Petrucci venne nella nostra scuola a parlare di legalità, gli mostrai le foto della cokeria. Lui se le portò via.» Era il Duemila, l’anno della conversione. L’aria era cambiata; anzi, era sempre la stessa, ma ormai in troppi sapevano che aria era. «Pure la magistratura» racconta Marescotti. «E prima che questa intervenisse, il responsabile dei controlli del presidio multizonale di prevenzione scrisse al sindaco che quattro batterie della cokeria erano vetuste, fuori norma. A quel punto, il sindaco, Rosanna Di Bello (che poi porterà la città al fallimento), intima all’Ilva di provvedere. La magistratura entra in gioco. Ma i Riva, invece di risanare le batterie, preferiscono chiuderle.»

Parte da lì la concatenazione di eventi che sfoceranno nella durissima vertenza-Taranto, con una partecipazione mai vista dei cittadini e la nascita di decine di iniziative e associazioni; sino all’arresto dei proprietari dell’Ilva e di altissimi dirigenti, l’ordine di sequestro (da giudici di Milano e di Taranto), ai Riva, di una cifra record nella nostra storia: poco meno di dieci miliardi di euro, in tutto; il referendum sulla chiusura dello stabilimento; la gestione della fabbrica tolta ai Riva e affidata, dal governo, a un commissario.

Prima di arrivare a questo, però, Peacelink, ancora per qualche anno, si spenderà su ambiente e pace. «Ma quando cercavi di coinvolgere la gente, ti ritrovavi con ventitrenta persone, sempre le stesse» narra Marescotti. Né le cose mutano molto quando l’associazione si sposta quasi esclusivamente su temi ecologici. «Nel 2005, la Hidrochemical scaricò in mare decine di migliaia di rifiuti reflui non trattati. Denunciammo i danni ambientali spaventosi; ci aspettavamo la risposta della città, la ribellione dei tarantini allo scempio del loro mare: ne arrivarono meno di trecento. Ci rimasi male.»

Non era il solo. «La vera anima ambientalista di Taranto è stato Fabio Matacchiera: siamo tutti colpevoli nei suoi confronti, perché lo abbiamo lasciato solo» dice Marescotti.

È vero, Matacchiera ha dovuto patire i dolori dei precursori, di chi arriva troppo presto dove gli altri arriveranno domani. Un vero atleta, una forte rassomiglianza, più aitante e in bello, con il cantante Drupi (pure nella chioma), insegnante di educazione fisica, imprenditore, ha un’azienda di videoriprese subacquee. Nel 1991 fonda l’Associazione Caretta Caretta, per la tutela delle tartarughe marine. Ma quel che vede, in mare, per il suo lavoro, lo sconvolge. Non è uno che gira la testa dall’altra parte: denuncia, documenta, protesta; va personalmente a prelevare fanghi di scarico industriali, ne dimostra la pericolosità, gira video, nottetempo, di nascosto, per fornire prove dei comportamenti aziendali scorretti. Ma resta solo o quasi solo. La città non lo segue, non è matura la sensibilità che affiorerà anni dopo. In più, alle sue denunce e azioni, i potentati messi sotto accusa rispondono con querele, tante.

«Lui le vince tutte» riferisce Marescotti. «Ma fa una vita terribile. L’amarezza, l’incomprensione alla fine lo convincono che la battaglia ambientale, a Taranto, è senza sbocco. Abbandona il campo. E quando noi di Peacelink che facevamo altro, decidiamo di occuparcene, pure sulla sua scia, lui mi dirà: “Vedrai che i tarantini ti deluderanno”.»

Non andrà così; succederanno molte cose; Peacelink e Marescotti (che nel frattempo consegna la sua corposa Storia della pace e dei diritti umani, per l’università per stranieri di Perugia) fanno molto, ma anche altri si muoveranno. La città prende coscienza, fa domande, vuole risposte e se non le riceve, le trova da sola. E non sono belle risposte: per dire, quando, nel 2003, Peacelink chiede ai sindacati cifre sulla diffusione delle sostanze inquinanti sputate dallo stabilimento, si scopre «che non avevano dati da darci; neppure sbagliati!» riferisce Marescotti. Il quale, finalmente, comprende appieno il senso del civile rimprovero di quel tarantino, anni prima: «Qui a Taranto c’è di molto peggio, perché non ve ne occupate?».

«La svolta ci fu quando capimmo che non dovevamo puntare tutto sui danni ambientali ma sulla salute. Quello che distrugge il territorio colpisce pure chi ci vive. Che di quei mali ha più immediata e drammatica consapevolezza.» Insomma: un conto è convincere qualcuno a darsi da fare per salvar se stesso e i suoi; un conto indurlo ad agire, per salvare il mare (anche perché, se ti affacci e vedi la distesa di ciminiere, che vuoi salvare? L’ambiente lo dai per perso...).

La gente capì, ma non si mosse subito: «Soltanto nel 2008 quella consapevolezza, ormai diffusa, portò i tarantini a testimoniarla con la loro presenza, uscendo di casa. Ci ritrovammo in piazza non solo i soliti attivisti, ma in migliaia e poi decine di migliaia». Persino la Marina Militare, da sempre di stanza a Taranto, ha chiesto di effettuare controlli sanitari perché i suoi uomini accusano spesso dei malori essendo esposti alle polveri scaricate dalle navi che portano minerali all’Ilva.

Erano passati diciassette anni da quando Matacchiera aveva cominciato la sua solitaria campagna, poi abbandonata; otto, da quando Peppino Corisi aveva inutilmente (?) fondato il Comitato Cittadino (in realtà, senza quelle esperienze, forse non ci sarebbero state le altre, più produttive); circa sette, da quando Peacelink aveva iniziato a occuparsi di temi ambientali. Altre associazioni erano sorte, nel frattempo, e tante ne sarebbero nate: i tarantini avevano smesso di essere inerti.

«Matacchiera,» narra Marescotti «dopo dieci anni di esilio, per sfiducia, da quelle lotte (e visto quel che gli era successo, difficile dargli torto), nel 2009 si convinse che la mobilitazione cittadina era vera, non occasionale. E tornò a impegnarsi. “Ora so che vinceremo” mi dissi.»

Matacchiera crea subito il Fondo Antidiossina Taranto, con cui raccogliere risorse per analizzare, con metodologie altamente affidabili e l’aiuto di grandi specialisti, sangue, latte materno e lumache che strisciano sui campi vicino all’Ilva (e la gente raccoglie e mangia). «Non un modo per sostituire le istituzioni,» assicura «ma per lavorare insieme. Un magistrato, un dirigente scolastico, uno stimato editore tarantino e un commissario di Polizia vigilano sulla trasparenza delle transazioni. Tutti, mediante una password pubblica possono verificare i conti del Fondo.» Che ha organizzato, con altre associazioni, memorabili mobilitazioni di piazza. Probabilmente, il ritorno del precursore indusse anche altri a porsi in gioco.

Il comitato Donne per Taranto fu costituito a fine 2010. «Ma, di fatto, era nato sei mesi prima» ricorda Rosella Balestra, che ne fu fondatrice e leader. «All’inizio eravamo tre o quattro: abbiamo organizzato banchetti ai Tamburi e, a forza di parlare con la gente, altre donne si sono unite a noi. Nel giro di un mese il comitato ha raccolto 7.343 firme, il 40 per cento dei 17.000 abitanti del quartiere, mentre alcune delle associazioni che chiedevano la chiusura dell’acciaieria, in tre mesi, arrivarono a tremila. La città ha bisogno non solo di cervello, ma di cuore: e le donne sanno usarlo meglio.»

Il Comitato Legamjonici non fa campagne di tesseramento ma si rivolge, di volta in volta, ai cittadini. Ne è portavoce la fondatrice, Daniela Spera che, in accordo con gli altri o su loro proposta, attribuisce dei ruoli anche intercambiabili in base alle propensioni individuali. Una organizzazione originale e molto efficiente (ne riparliamo).

Il Circolo di Taranto di Legambiente (ne è responsabile Lunetta Franco, mentre Leo Corvasce ne è stato la memoria storica, dagli anni Novanta), per l’autorevolezza dell’associazione, non si occupa solo di questioni ambientali, ma fa campagne di informazione nelle scuole. Taranto futura, invece, guidata dall’avvocato Nicola Russo, agisce prevalentemente sul piano giuridico; ha proposto e ottenuto il referendum cittadino per la chiusura totale o parziale dello stabilimento Ilva. Nelle indagini della magistratura sono finite intercettazioni telefoniche da cui si apprende chi faceva cosa, per scongiurare o rinviare la consultazione popolare.

Mentre Altamarea contro l’inquinamento – Coordinamento di cittadini e associazioni di Taranto è, di fatto, una rete di associazioni. La prima a condurre la battaglia ambientalista contro le industrie inquinanti della città. La sua genesi è interessante, come esempio della proliferazione dei comitati, il loro differenziarsi e poi, magari, confluire in una rete, per azioni comuni. Nel 2006 nacque il Comitato contro il Rigassificatore che si voleva installare a Taranto (monnezza più, monnezza meno). Raggiunto l’obiettivo, nel 2007 il comitato si dedicò all’Ilva, e fu fra i promotori della nascita di Altamarea, per occuparsi di inquinamento industriale (Peacelink affiancò il Comitato in entrambe le iniziative). Il no al rigassificatore nasceva dal rischio di un incidente capace di scatenare un effetto domino (rigassificatore, raffineria e depositi di petrolio, acciaieria, cementificio: tutto pericoloso, tutto vicino, tutto a ridosso della città). Presidente di Altamarea è stato un ingegnere ex dipendente dell’Italsider, Biagio De Marzo, a cui è succeduto Giovanni Matichecchia.

Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti è uno dei gruppi più recenti, ma è letteralmente dilagato. «Non è un’associazione,» chiarisce Valeria Castronuovo, che ne fa parte «ma un movimento spontaneo e apartitico e, in quanto tale, non ha presidente/leader.» Il che lo rende di faticosa gestione; ma i risultati parrebbero dargli ragione. Nasce quando (luglio 2012) la magistratura mette sotto sequestro sei impianti dell’area a caldo dell’acciaieria e dispone gli arresti domiciliari di otto indagati dell’Ilva. «Tutto questo portò lo scompiglio nell’intera comunità cittadina» è detto alla voce “Chi siamo”, nel sito web del movimento. «Azienda e sindacati confederali diffusero allarmismo fra i lavoratori e proclamarono uno sciopero a oltranza, invitando gli operai a bloccare le strade, un vero e proprio assedio alla città. Proprio in questi momenti confusi ci incontrammo, cittadini e operai dello stabilimento siderurgico armati della stessa sete di risposte, spaventati e smarriti: mentre alcuni bloccavano le strade, impedendo il passaggio pure a chi andava in ospedale per terapie antitumorali, altri lavoravano producendo a gran ritmo, nello stabilimento. Ci sentimmo presi in giro.»

Non continuo, voglio solo mostrare che se questa fioritura di associazioni, iniziative è stata possibile in pochi mesi, tutto quello che farà esplodere il caso Taranto, c’è già prima. C’era da decenni, ma quando le cose cominciano ad accadere, accadono tutte insieme (vi dispiace ricordarvelo? Poi vi dirò perché). Mentre i pochi, nell’apparente indifferenza dei tanti, documentavano il martirio della città, quel lavorio sociale scendeva nel corpo della comunità, metteva radici. La geometria delle reti ci direbbe: fra quegli operatori tenaci si stendevano link (legami) forti; e fra loro e la popolazione, link di ogni genere, forti e deboli. Come tutte le cose vive, in crescita e formazione, alcuni di quei “nodi” (associazioni, enti o persone che collaboravano o agivano in concorrenza, o l’una e l’altra cosa, ma in tempi diversi) mutavano indirizzo, o divenivano dominanti, mentre altri uscivano di scena e i resti del loro patrimonio di link si connettevano con altri nodi... La rete diviene, così, un “cluster gigante”: comunità nella comunità. Non so se, mentre scrivo, questo è già successo, ma so (perché è una proprietà di tali reti), che è difficilissimo, poi, far collassare, distruggere, una struttura così formata, perché ha capacità di far rinascere o aggirare i collegamenti (link) che si interrompono (per non mettere troppe cose complicate insieme, tornerò sull’argomento più avanti).

Il percorso della vertenza-Taranto è scandito dalle cifre letali scovate da questi privati cittadini che cercano verità e veleni nascosti: già nel 2005 Marescotti, vagando su internet, scopre che su Taranto vengono sputati, in un anno, 72 grammi di diossina. «Nanogrammi» gli spiega l’esperto a cui si rivolge, per capire se è poco o tanto. «Cioè: 72 miliardesimi di grammo. Fossero 72 grammi sarebbe una tragedia, un’enormità. Hai sbagliato a copiare.» Invece no, erano proprio grammi (il dato veniva comunicato dall’Ilva all’Ines, l’ente che deve monitorare le emissioni nell’aria); 72 grammi erano quasi un decimo di tutta la diossina scaricata dalle industrie in Europa; e negli anni seguenti, le emissioni aumentarono ancora, sino a raggiungere il 90 per cento di quanta ne risulti in tutta Italia, secondo i dati Ines del ministero dell’Ambiente. Il limite europeo è di 0,4 miliardesimi di grammo per tonnellata; quello tedesco, 0,1; quello italiano, mille volte più alto: 100. L’allora governatore regionale, Nichi Vendola, lo porterà a 0,4 in Puglia, per le emissioni gassose. Ma la diossina esce anche dalla base dei camini, con perdite che, secondo i periti del Tribunale di Taranto, si sarebbero accumulate nei pascoli intorno alla grande fabbrica, in decenni. A quel ritmo, vuol dire che sono piovuti sulla città e i dintorni, in 45 anni, circa 7,5 chili di diossina: tre volte il disastro di Seveso, che comportò anni di lavoro per la bonifica e lo “scorticamento” del territorio, sino a raggiungere lo strato non contaminato. A Taranto, alcune aree sarebbero inquinate in modo ormai irreversibile, irrecuperabili anche volendo sanarle; a meno di non fare come nella Ruhr, una bonifica “alla tedesca”. Ma nemmeno se ne parla.

Si dimostra anche che, nel corso degli anni seguenti, le emissioni sono sempre aumentate: in una interrogazione parlamentare, Pierfelice Zazzera e Antonio Palagiano, dell’Italia dei Valori, riferiscono dei rilievi dell’Arpa (Agenzia Regionale per l’Ambiente) sul camino E312, il più alto: 171 grammi in un anno (più di Spagna, Gran Bretagna, Svezia e Austria messe insieme). Il responsabile dell’Ilva per le relazioni esterne, Girolamo Archinà (poi arrestato) dirà che dal 2000 un filtro aveva ridotto di cinque volte le emissioni. Quindi, alla luce di questi nuovi dati, in 45 anni, non 7,5, ma più di 30 chili di diossina sarebbero finiti sui tarantini: 10-15 volte Seveso (dove i chili furono 2-3).

Via via, Taranto scopre, secondo studi ufficiali e no e di volta in volta discussi per corretta o scorretta (esagerata o sminuita) interpretazione, di essere una delle città più inquinate del mondo, la prima per cancro ai polmoni, in Italia, e via disastrando, non certo a caso. Ma pur solo fermandosi ai dati diffusi dal ministero della Salute (criticatissimo, e non a torto, per disattenzione, se non per altro. E “per altro” si intende che è la stessa struttura che fa dire ai ministri improvvisati, che nella Terra dei Fuochi delle discariche tossiche, si muore per cattivi stili di vita, insomma: colpa dei morti), ecco cosa dicono dei decessi per tumori a Taranto, rispetto alla sua provincia: uomini, più 30 per cento, con picchi del cento per cento al rene e vie urinarie; donne, più 20 per cento, con picchi del cento per cento allo stomaco; colpiti più di tutti i bambini, più 35 per cento, mentre la mortalità perinatale (dal concepimento alla nascita), arriva al 71 per cento!; indice di mortalità, per tutti, per tutte le cause, più 11 per cento. Che è un dato spaventoso, si scivola verso il terzo mondo. Dietro questo numero si cela pure l’opera del degrado ambientale (aria, acqua, terra), riferisce Gianluca Coviello che per «TarantoOggi», si è occupato a lungo del tema, «perché inquinanti come la diossina sono immunodepressori, quindi, possono essere concausa di tantissime malattie non direttamente correlabili all’inquinamento. Per questo, si può morire anche di influenza». E per questo 2.000 abitanti dei Tamburi su 17.000 sfilano in corteo, per la prima volta, e altri 5-6.000 nel centro della città. 20.000 persone sfileranno nel 2008, poi nel 2009; 30.000, nel 2012, quando il governo tecnico decide di varare il decreto Salva-Ilva (e AmmazzaTaranto). Peacelink, nel 2013, attraverso il numero dei tarantini in possesso di codice 048, ovvero esenti da ticket, perché malati di cancro, è riuscita a recuperare il dato di quanti ne sono affetti: 8.916; uno ogni 18, nei quartieri più vicini alla fabbrica (Tamburi, Paolo VI, Città Vecchia e parte del Borgo); uno ogni 26 nel distretto sanitario più lontano dell’acciaieria. Ma conserva l’esenzione, per alcuni anni, anche chi è guarito dal cancro, è stato obiettato, circa il valore di questa ricerca. Vero, è la risposta, ma intanto l’ha avuto; e il dato non comprende quelli che ce l’hanno e non l’hanno scoperto.

Questa crescita civile dei tarantini è scandita dal recupero di informazioni su veleni e numero di morti. Dopo la diossina, il piombo: Peacelink e il sindacato Uil scoprono che l’Ilva immette nell’atmosfera poco meno di una tonnellata e mezzo di mercurio all’anno (metà di quanto faccia tutto il resto d’Italia messo insieme) e 655 chili, nel 2005 (tre anni prima erano solo 118), in mare: il 62 per cento di quel che sputano, in totale, tutte le grandi industrie italiane. Questa volta, il patriarca dell’Ilva querela, con l’accusa di procurato allarme (qua, fra procuratori della Repubblica e procuratori d’allarme, non sai chi è peggio) e diffusione di notizie false e tendenziose; visto che c’è, querela anche il biologo, Giulio Farella, che aveva proiettato le slides scientifiche sul mercurio, in conferenza stampa (chi aveva sistemato i microfoni, invece, è risparmiato). Marescotti e Franco Sorrentino (Uil), lanciano un appello-sottoscrizione, per sostenere le spese legali e l’impegno che, se la denuncia sarà archiviata, i soldi verranno usati per pagare ulteriori analisi. Così sarà; e si potrà finanziare la ricerca di diossina nei formaggi ottenuti dal latte di greggi che brucano vicino allo stabilimento. Da lì si arriva all’abbattimento di migliaia di capi.

Questi dati fanno il giro del mondo. Ma sono l’inizio di uno spaventoso stillicidio, frutto di indagini condotte da varie associazioni. Il Fondo Antidiossina di Matacchiera scopre che il veleno è ormai pure nel latte materno: a Taranto, chi allatta suo figlio, lo inquina. Se davvero l’inferno è nei dettagli, giudicate voi: già attraverso la placenta le mamme passano ai figli la diossina accumulata nel loro corpo; allattando il primo figlio, se ne liberano in buona parte; così con il secondo; al terzo figlio, le madri tornano sane, purificate, a patto di avvelenare i figli, almeno tre. Dai quali, i genitori di Taranto potrebbero sentirsi dire: «Lo sapevi, e mi hai fatto nascere». (Una coppia su quattro è sterile; una donna su quattro va in menopausa precoce.)

E che fine fa il piombo così generosamente scaricato sui tarantini, via mare e via aerea? «Nel 2009 chiedemmo al sindaco (Ippazio Stefàno, già senatore del Pds, poi Sel con Nichi Vendola; N.d.A.) di disporre una campagna di analisi specifiche», racconta Marescotti. «Fatte nel 2010, non se ne comunicarono i risultati. Che appaiono nel 2012, in una relazione in un convegno a Oxford: lo scopriamo via web. Nelle urine dei tarantini ci sono quantità di piombo triple rispetto ai massimi. Il piombo, si sa, danneggia le facoltà cerebrali.» Insomma: l’Ilva ci fa pure scemi, in tutti i sensi...

Un anno dopo, due pediatri di Statte, il paese a ridosso dei Tamburi e dell’acciaieria, Annamaria Moschetti e Pietro Minardi, di Ambiente e Salute Infantile, dell’Associazione Culturale Pediatri di Puglia e Basilicata, trovano il piombo nel sangue di un campione di bambini, dai 3 ai 6 anni. Ce ne sono 20 milligrammi; dovrebbero essere zero e la presenza di 2 milligrammi è già ritenuta un picco massimo.

Nel frattempo si scopre che fra i veleni sputati dall’Ilva, ci potrebbe essere pure il polonio 210, che è radioattivo; partono gli accertamenti del ministero dell’Ambiente, arrivano da Roma gli esperti. I dati delle analisi li stiamo ancora aspettando... E Fabio Matacchiera dimostrerà che le mitiche cozze nere del Mar Piccolo sono inquinate: i mitili filtrano grandi quantità di acqua, ogni giorno, e ne trattengono le schifezze. Così, paradossalmente, il mare diviene sempre più pulito, grazie a molluschi sempre più avvelenati.

Già nel 2008, le 24 associazioni di Taranto impegnate nella battaglia per risanare la città, in una lettera all’allora ministro dell’Ambiente e al governatore della Puglia, Nichi Vendola, scrissero: «Esistono tecnologie capaci (...) di ridurre fino al 98 per cento le emissioni di diossine e furani e fino al 95 per cento i metalli pesanti scaricati nell’atmosfera. Tali tecnologie agirebbero anche sulle eventuali emissioni di radioattività. Perché non applicarle subito anche in Italia?».

Già, perché? Dov’era chi doveva controllare? Gli enti territoriali si è visto (uno dei responsabili era anche titolare di una ditta appaltatrice) e alcuni amministratori sono stati pure arrestati. Persino il vescovo, quando i tarantini cominciarono a scendere in piazza, stufi di lasciarsi avvelenare in silenzio, scrisse in un suo documento che «l’inquinamento morale dovuto alle strumentalizzazioni può essere peggiore di quello ambientale» (in effetti, fra la morale che suggeriscono le parole del vescovo e la diossina, qualcuno potrebbe scegliere la seconda: almeno è classificata come dannosa).

Ma i sindacati, che sono dentro lo stabilimento, in ogni reparto? Ricordate cosa dice Marescotti? «Quando, nel 2003, chiedemmo loro dei dati sulle sostanze inquinanti, scoprimmo che non ne avevano, nemmeno sbagliati. Semplicemente, non se ne erano mai occupati». Comportamento almeno strano; secondo alcuni, troppo. Il sindacato era potentissimo, nell’acciaieria, specie quando apparteneva ancora alle Partecipazioni statali, aveva voce in capitolo pure per le assunzioni. L’Ilva cedette loro la Vaccarella, un centro culturale e sportivo, con sede in una masseria, sulla cui discutibile gestione la magistratura ha aperto un’inchiesta.

Il 2 agosto 2012, l’Apecar dei Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti irrompe nella piazza in cui i sindacati hanno indetto una manifestazione sospettata d’essere, di fatto, a sostegno dell’azienda e contro la magistratura che ha ordinato arresti e sequestri. È in questa occasione che compaiono, per la prima volta, “Quelli dell’Apecar”, ex dirigenti della Cgil nell’acciaieria (fuorusciti dopo aver visto l’inutilità delle loro denunce e aver scoperto che l’Ilva versava 500.000 euro all’anno ai sindacati) e operai, donne, studenti, precari, professionisti, lavoratori. «L’Apecar è passato alla storia come “il tre-ruote”,» raccontano, ridendo, Massimo Battista e Aldo Ranieri, ex capi della Cgil nello stabilimento, fra i protagonisti della incursione «ma ne ha quattro. Avevamo chiesto di poter intervenire, parlare anche noi; non ci vollero. I lavoratori applaudirono, però, all’arrivo dell’Apecar; la segretaria nazionale della Cgil, Susanna Camusso, smise di parlare e andò via; tornò solo quando noi Liberi e Pensanti terminammo il nostro intervento.»

Battista, Ranieri e gli altri denunciavano troppo, approfittavano poco: «Un accordo con l’Ilva riconosce 21.000 ore di permesso retribuito ai rappresentanti sindacali. Ma noi stavamo sempre in azienda, anche i giorni di festa, la vigilia di Natale. Chiunque sia stato nello stabilimento sa cosa c’è, lì; cosa succede e cosa è stato fatto a questa città. Il nostro compito era vigilare. Se sei responsabile della salute e della sicurezza dei lavoratori, li rappresenti, non puoi far finta di niente. Segnalammo; e non accadde nulla. Allora ci esponemmo personalmente, denunciando alla Asl le violazioni delle norme. E non accadde nulla. Allora denunciammo gli ispettori della Asl. E ancora niente. Anzi, qualcosa successe: l’azienda e il sindacato firmarono un nuovo accordo, in forza del quale non ci si poteva più rivolgere all’esterno: le violazioni delle norme andavano segnalate soltanto attraverso le gerarchie sindacali. Era il 2007, da allora non c’è più stata una denuncia. Ci rivolgemmo in 24 al segretario nazionale dei metalmeccanici, Gianni Rinaldini, perché intervenisse. Ma lui prese tempo. Ormai eravamo diventati un problema».

Battista fu espulso, quattro si dimisero e, a mano a mano, tutti gli altri. «Oggi i fiduciari son tutti bresciani» dice Rinaldi. «Quando l’azienda, nel 2012, organizzò lo sciopero contro la magistratura, io andai a lavorare. “Vuoi che la fabbrica chiuda?” mi chiede un collega. “E tu vuoi prenderti il cancro?” risposi.» I sindacati avevano brillato per assenza di reazione, persino quando l’Ilva inventò la “Palazzina Laf” (laminatoio a freddo), in cui confinare i dipendenti che non accettavano riduzioni di qualifica o l’invito a strappare la tessera del sindacato. Vi finirono in settanta, condannati a far niente in un ambiente che il procuratore Sebastio definì “lager” e sino a ridurli in crisi depressive, con «idee suicide, forte aggressività, violente crisi isteriche» scrisse la psichiatra Maria Lieti, che ebbe in cura gl’internati. Ai quali, pure dopo la liberazione, resta «un danno dal quale non si guarisce». L’aver perso il senso della vergogna impedì a sindacati e istituzioni di reagire come dovuto, persino quando questa infamia dell’Ilva divenne di dominio pubblico; altri ritengono che a frenarli sia il timore di veder svanire quei posti di lavoro: 12.000; erano fra i 30 e i 40.000 quando il Siderurgico raggiunse il suo apice, con quelli delle aziende dell’indotto e delle ditte appaltatrici: e furono 40.000 gli operai e i tecnici che costruirono la fabbrica, esattamente il numero degli ulivi distrutti per far posto allo stabilimento: uno per ogni albero (ultrasecolari, millenari; uno di quelli c’era già quando Platone insegnava). Credete alla “volontà delle coincidenze”? Io sì, mi pare di averlo detto. Be’, in Mai più terroni avevo segnalato, a esempio di nuovo Sud e innovazione in un settore tradizionale, l’agricoltura, la Masseria del Duca, dei fratelli Cassese, che sta in provincia di Taranto, a Crispiano. Pochi mesi dopo l’uscita del mio libro, Legambiente l’ha premiata come migliore d’Italia, in quel senso. La Masseria del Duca ha 40.000 ulivi: non 35.000 o 45.000, 40.000. Devo aggiungere qualcosa?

Quale che sia la vera ragione del comportamento, di fatto complice, di istituzioni e sindacati, solo i giudici condanneranno davvero, in tutti i gradi di giudizio, quella scientifica pratica di mortificazione umana. Sarà la prima sentenza del genere, in Italia. Qualcuno si meraviglia se la Procura viene considerata l’unica istituzione credibile, a Taranto? La cosa più seria e più vera, in tutta questa lurida (in ogni senso) vicenda, l’ha detta, nella sua essenziale e granitica logica, il procuratore capo Franco Sebastio: se le altre istituzioni avessero fatto il proprio dovere, la magistratura non avrebbe avuto ragione di intervenire, perché può farlo solo a cose fatte, se fatte male.

Mi fermo e riassumo, per mostrare il lavoro svolto, quanto, quale, di che qualità e, soprattutto, da chi. La costruzione dello stabilimento è iniziata nel 1961; nel 1982 la prima condanna, a opera dell’allora pretore Franco Sebastio; lo stesso anno Marescotti fonda Legambiente a Taranto, ma per avversare l’arrivo di una centrale nucleare ad Avetrana; sempre lui, nove anni dopo, crea Peacelink, ma si occupa di pace nel mondo; contemporaneamente, Matacchiera dà vita alla sua associazione e sarà il primo a dar battaglia sullo scempio ambientale in corso, ma passeranno altri dieci anni (nel frattempo, lui abbandona per solitudine propria e disinteresse generale), prima che quella sensibilità cominci a esser condivisa e si diffonda. Nel 2000 Peppino Corisi costituisce il suo Comitato e Peacelink avvia la sua lenta virata sulla guerra chimica in corso a Taranto. Ci vorranno altri 7-8 anni, prima che la cittadinanza si senta coinvolta e scenda in piazza e le punte più avvertite e responsabili della comunità si coagulino intorno a iniziative o temi specifici o modi diversi di affrontarli, in concorso o concorrenza fra loro, generando 24 gruppi organizzati (numero mutevole per aggregazioni/disgregazioni e nuovi arrivi): alcune delle più antiche si estinguono, altre, appena sorte, conquistano subito uno spazio importante in prima linea. Tutto quello che pone la vicenda Taranto all’attenzione del mondo accade negli ultimi quattro anni, ma sarebbe più corretto dire: “finisce di accadere” (per essere pignoli: soprattutto nell’ultimo anno e mezzo di quei quattro). E mette in moto azioni sociali che sarà difficile fermare. Ove tale rete fosse già un “cluster gigante” (parrebbe di sì, ma io non sono in grado di dirlo), sarebbe difficilissimo.

Questi fenomeni sociali fanno emergere nuove scale di valori, rifondazioni culturali, con proprie regole, che si estendono all’intera comunità. Uno degli esempi più significativi è il veloce percorso di Daniela Spera. «Volevo capire, ero curiosa», ti dice Daniela, se le chiedi perché ha deciso di dedicarsi a una città data per persa, purché si salvi l’acciaio. È minuta, snella, di intelletto svelto e indagatore che è difficile non notare; ma se si fosse obbligata a descriverla con un solo aggettivo, il primo che ti viene in mente è “rigorosa”. Non le daresti mai 39 anni, nemmeno 30. Ne aveva 35, nel 2009, quando rientrò da Parigi, dove faceva la ricercatrice (alle università di Genova e Parigi, dopo la laurea in chimica a Pisa; ha contribuito a studi importanti, poi pubblicati su riviste scientifiche internazionali). La lunga reazione di Taranto esplodeva in quei mesi. Apprendere come la città fosse stata violentata, la intristiva. «Allora torna dov’eri», le disse la madre. Lei volle informarsi; incontrò Marescotti, fu scossa dal video sull’abbattimento delle greggi di Fornaro. E decise di restare, perché (è la condanna degli onesti) sapere comporta la responsabilità di sapere e di agire di conseguenza. Trovò al quartiere Paolo VI (costruito per i dipendenti dell’acciaieria: gareggia con i Tamburi per inquinamento), un lavoro non adeguato alla sua alta formazione (farmacista), ma a lei sta bene così. Cercò le associazioni (scovò lei, nel 2010, i dati non ancora noti degli inquinanti prodotti dall’Ilva e pubblicati sul registro europeo degli inquinanti industriali); poi si dedicò ai metalli pesanti, al benzopirene; fu attivista di Taranto Libera. Infine, fondò Legamjonici (con un richiamo allo Jonio e ai legami delle reazioni chimiche, che possono essere ionici o covalenti; nella geometria delle reti hai qualcosa di analogo con legami forti e deboli).

Conosce le altre 24 associazioni. «Tutte.» Collaborate? «Abbiamo metodi diversi. Io studio le leggi, presento osservazioni sulla loro applicazione. Ho denunciato alla Commissione europea il progetto Tempa Rossa, per lo stoccaggio a Taranto del petrolio lucano: è privo della Valutazione del Rischio di Incidente Rilevante, né l’Eni aveva un rapporto sicurezza validato. Ma l’allora ministro dell’Ambiente, Prestigiacomo l’ha fatto passare lo stesso. La Commissione europea ci ha invitato a Bruxelles, dopo la nostra segnalazione. Abbiamo denunciato la contaminazione degli allevamenti di mitili (le analisi furono condotte su cozze prese dai fondali; un coraggioso quotidiano, «TarantoOggi», pubblicò i dati; la Asl, l’Azienda Sanitaria locale, poi, con indagini sugli allevamenti, confermò; N.d.A.) e sollecitato l’intervento della Sanco, l’ente europeo per la salute dei consumatori. Che ci ha dato ragione e ha chiesto alle autorità italiane come mai abbiano concesso le autorizzazioni e si siano fatte solo analisi batteriologiche e non chimiche; e, soprattutto, come mai di questo si viene a sapere soltanto adesso. È stato disposto di trasferire gli allevamenti dal primo seno di Mar Piccolo alla rada di Mar Grande; giusto dove dovrebbe arrivare il petrolio di Tempa Rossa, nonostante si sappia che il 90 per cento degli incidenti in mare siano sversamenti di petrolio...» (Taranto è la più inquinata in Europa occidentale; Tonio Attino, in Generazione Ilva, calcola che per ogni abitante, la città produca, all’anno, 228 barili di petrolio da raffinare, 7 tonnellate di cemento, 52 tonnellate di acciaio.) «Ho indotto, con una pressione incessante, l’amministrazione comunale di Statte ad avviare le operazioni di bonifica di 10.000 fusti radioattivi che sostavano da anni in capannoni fatiscenti, l’ex Cemerad. Ora, con altri 51 tarantini, ho presentato, all’apposita Corte Europea, un ricorso sul caso Ilva, per la violazione dei diritti umani, da parte dello Stato italiano.»

Quanto ti costa tutto questo?

«In soldi, le raccomandate per spedire le nostre osservazioni.»

In tempo?

«Tutto quello che mi resta libero dal lavoro.»

Quanti siete?

«Una decina (ricordate questo numero, per favore; N.d.A.), per il blog. La selezione è feroce, se no la cosa non funziona. Il più giovane ha 32 anni, lavora all’Ilva, gli hanno trovato un linfoma, è stato operato, ha fatto la chemio, lavora ancora lì. Non possiamo permettere che il livello dell’attenzione cali. Ci aiutano degli avvocati, ma senza voler comparire.»

Daniela descrive una gestione fortemente manageriale, quasi militare, di Legamjonici. La sua competenza specifica, nella ricerca chimica, la aiuta; è pure divenuta perito di parte di tre allevatori, per la questione diossina. Lei non condivide la scelta di molte associazioni politicamente schierate. Molti, per lei troppi, esponenti di quei comitati si sono candidati alle elezioni; hanno sostenuto il presidente nazionale dei Verdi, Angelo Bonelli, alleatosi con Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, che a Taranto ha raggiunto il suo massimo risultato nazionale.

«La politica ambientale» spiega lei «non può essere di parte.» Se ti ci dedichi, non ti candidi. Intende che le verità che trovi, le denunce che fai, non possono essere sospettate di essere strumento di una parte politica, fosse pure quella a cui ti senti più vicino. La penso anch’io così. Ma capisco chi fa una diversa scelta.

Daniela ha l’età di mia figlia maggiore. Mi chiedo quando viva la sua età.

Ce l’hai il fidanzato? Per come guarda me e Gianluca Coviello, che mi accompagna, non serve che lo dica, è chiarissima: «Ma che cavolo di domande fa, questo?». Ma io aspetto e lei è educata.

«Abbiamo appena litigato.»

Corteggiatori?

«Tanti. Gli dico: non ho tempo.»

È ammirevole che tu faccia tanto per amore della tua città. Ma tu ti vuoi bene?

«Faccio questo, perché mi voglio bene.»

E da grande cosa vuoi fare?

«Lo faccio già.»

Moltiplicate per 24 (alcune di quelle associazioni sono poco più di “one person organization”, altre sono molto più strutturate e potenti. Tutte sono parte di una rete che è ormai così forte, da aver piegato il padrone dell’acciaio in Italia (e quasi metà dei 26 milioni di tonnellate prodotte escono dallo stabilimento jonico), la politica e il governo. La fabbrica più grande d’Italia è stata sottratta alla gestione dei proprietari, per essere risanata a spese loro, con decisioni altrui. Un risultato unico nella storia di questo Paese. Ottenuto da privati cittadini che avevano e hanno tutti contro; ma hanno saputo portare la città alla consapevolezza.

Eppure, spesso proprio chi più si impegna nutre dubbi sulla durata e la partecipazione all’opera di rinascita civile e ambientale di Taranto. «Questa città non apprezza mai niente» si lamenta uno dei fondatori dei Liberi e Pensanti. «Non credono che tu possa far questo senza un interesse personale. Che poi, a pensarci bene, l’interesse personale io ce l’ho: i miei figli» (mentre me ne parla, arrivano casse di vino, tante: «Lo abbiamo fatto noi. Con la vendita, speriamo di poter finanziare una nostra iniziativa»: il concetto del Primo Maggio; costate 1.800 euro, ne hanno fruttato 7.280).

Per capire il valore e la portata di quanto succede a Taranto, bisogna uscirne e accelerare i tempi. Un po’ come quando vedi scorrere un film a velocità doppia, tripla. In matematica, questo si ottiene facendo il logaritmo di una quantità (non impressionarti, ma’: è come la frutta liofilizzata; ne riduci la dimensione togliendone l’acqua, ma la frutta quella rimane). Se proviamo a farlo con i tempi della vicenda Taranto (quello che non è successo in trent’anni, succede in quattro; quello che non è successo in quasi quattro, succede in uno...), si delinea l’andamento asintotico tipico di una rete a invarianza di scala. Okay, state calmi, detto così, ci capisco poco pure io; al posto di quella arcana espressione, usate: “Filippo”, tanto indica solo una curva che si avvicina sempre di più a una linea retta, senza toccarla mai. Ma quando si arriva a questo, vuol dire che la rete di cui parliamo funziona. A Taranto tutto suggerisce che la situazione sia questa. Insisto: provate a guardarla con gli occhi di ieri: avreste mai detto, nel 2007, che nel 2008 avrebbero sfilato migliaia di persone in corteo, invece delle solite 20, massimo 300? E che, al referendum sulla fabbrica, chiesto da Taranto Futura (raccolte 12.000 firme) avrebbero votato in quasi 35.000, nonostante l’opposizione di Comune, Ilva, Confindustria, Cisl e Cgil? E il Primo Maggio 2013, allestito con quattro soldi, avrebbe mosso 50.000 tarantini? E il governo sarebbe stato costretto, dall’azione di indomiti cittadini, ad allontanare i potentissimi Riva? Ora, provate a guardare la stessa cosa con gli occhi di ieri, quando avreste considerato un successo riempire la sala di un convegno; e poi con gli occhi di domani, quando i vostri figli vi chiederanno: come ci riusciste?

La vicenda Taranto è già storia, comunque vada a finire, per via di quella rete che non sapeva nemmeno di nascere, mentre nasceva. Chi vorrà ricostruirne il percorso avrà a disposizione migliaia di ore tv, di pagine di giornali e web, siti, blog, libri (Invisibili. Vivere e morire all’Ilva di Taranto, di Fulvio Colucci e Giuse Alemanno; La città delle nuvole, di Carlo Vulpio; Generazione Ilva, di Tonio Attino; Veleno, di Cristina Zagaria, che è, romanzata, l’avventura di Daniela Spera, ormai nota come “Erin Brockovich italiana”, dal nome dell’attivista statunitense su cui è stato girato anche un film con Julia Roberts. E altri ne sono in uscita).

Scusatemi se avvertite troppa partecipazione, nelle pagine di questo capitolo, ma io, nato a Gioia del Colle, sono tarantino dall’età di un mese scarso. Non seppi mai quant’era bella la mia città, fino a che non ne vidi tante altre. E come l’hanno ridotta. Mentre me ne vado, per la via di Bari, dall’altura di Mottola appare la schiacciante sproporzione fra il mostro dell’acciaio e la città che gli muore accanto; fra il luogo in cui persi l’innocenza degli adolescenti e quello in cui troppe colpe restano impunite a causa della loro enormità. Parlo di un tempo in cui si lasciava il paese per emigrazione; e per chi restava, il suo paese era tutto il mondo, riducendosi, il resto, a cartoline e immaginazione. Significa che il posto in cui vivevi disegnava la tua idea del tutto, visto quale estensione del luogo in cui eri e saresti rimasto, servizio militare e viaggio di nozze a parte. Oggi si va facilmente ovunque, si diventa apolidi sul web.

Ma io sono figlio di ieri; significa che, anche se vivo altrove da più di quarant’anni, non vuol dire nulla, perché ovunque siano poi stati traditi, i miei sogni sono nati a Taranto. Non è un fatto sentimentale. Gli adolescenti nutrono un’idea di giustizia assoluta, come gli amori di quell’età. La vita non li ha ancora educati a gradazioni e compromessi, all’accettazione dei limiti umani, sino alla tolleranza, alcuni (per superficialità o complicità interessata) della miseria morale dei prepotenti.

Mentre la strada scavalla il valico di Mottola che mi nasconderà Taranto, rileggo le impunite sciocchezze del ministro Clini, secondo cui i Tamburi sarebbero un quartiere abusivamente costruito a ridosso dell’acciaieria, curiosamente ripetendo quanto aveva detto uno degli avvocati dei Riva al «Corriere della Sera» (insomma: se la son cercata, cosa vogliono, adesso?). Aspettiamo ancora le sue scuse (non solo per quello): noi eravamo già lì e le palazzine contro cui costruirono lo stabilimento sono case popolari, edificate da un ente pubblico (parlerà di abusivismo pure l’ex primo ministro Romano Prodi, che vendette o svendette l’acciaieria a Riva: valutata non meno di 20.000 miliardi di vecchie lire, fu ceduta a 1.649).

Rileggo quale nefandezza uscì dalle labbra di un Riva, Fabio, latitante e inseguito da mandato di arresto. Parla al telefono dei tumori di cui si muore a Taranto più che in qualsiasi altra città. Per lui, sono pochi: «Minchiate!». «Che uomo sei?» gli chiederà Matacchiera, in un video-messaggio. «Non hai vergogna?» E ho fra le mani il «Corriere della Sera» di oggi: il patriarca dei Riva, Emilio, agli arresti domiciliari, dà un’intervista, per interposto avvocato. Il tono accorato, per le sue condizioni di salute («Sta morendo»; fosse tarantino e stesse ai Tamburi, forse suo figlio direbbe: “Minchiate”), trasmette l’addolorato stupore di chi non capisce il perché di tanto accanimento.

Dice: «Cosa ho fatto di male?».

Davvero non lo sa? Essere ricchi non è un delitto; il modo di diventarlo può esserlo. E a Taranto, ormai, fra quartiere Tamburi e stabilimento, le cose stanno come diceva Oscar Wilde della carta da parati sui muri della stanza in cui stava morendo (furono le sue ultime parole): uno dei due se ne deve andare.

Son tante le case benfatte (ci ho vissuto, garantisco) e vuote, ai Tamburi: non valgono più niente; non riesci a venderle, 100 metri quadri, a 50-60.000 euro (il procuratore capo Sebastio parlerebbe di “esternalità negative”: dov’è finito il valore perso da migliaia di case?). Un minimo di giustizia vorrebbe che i Clini, i Riva, i dirigenti complici, i sindacalisti distratti, i giornalisti comprati, gli amministratori e i politici collusi o deboli siano condannati a vivere in quelle case, con le famiglie, i figli, i nipoti.

L’ex ministro Corrado Clini, per dieci anni direttore generale del dicastero dell’Ambiente, di cui poi fu titolare, con il governo Monti, disse che i suoi nipoti non li farebbe abitare ai Tamburi. Quelli degli altri sì, però. «La sua Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia), non è una legge, ma una bomba a orologeria: si occupa solo dei limiti delle emissioni aeree. Ma il vero problema è il terreno, è il mare» avverte Gianni Tursi, responsabile della comunicazione del Siderurgico, quando ancora apparteneva alle Partecipazioni statali. E sì che il nome completo del ministero dell’Ambiente dice “della tutela del Territorio e del Mare”. «Con tutto quello che è stato scaricato in terra e in mare, la bonifica, ove si potesse e si volesse fare, presenterà le stesse difficoltà della zona avvelenata dai Casalesi in Campania. Non solo, e ci si dimentica che la legge di Clini non riguarda solo l’Ilva, ma tutte le aziende del Paese. Per consentire di inquinare ancora per qualche anno i tarantini, tutti gli italiani saranno messi nelle stesse condizioni. Non resta che la chiusura dell’acciaieria. O, almeno, dell’area a caldo. Quanto dureranno gli effetti di quei veleni, non credo che ci sia chi possa dirlo.»

«Cosa ho fatto di male?»

Ecco, voi che stando altrove amputate le vite altrui, andate a vivere con i vostri cari ai Tamburi. Poi, quando avrete capito (ma davvero non sapete?), qualcuno risponda al vecchio Riva.

Simon Wiesenthal, il più grande cacciatore di criminali nazisti, mi raccontò il suo sconcerto quando Adolf Eichmann (che guidò lo sterminio di sei milioni di ebrei; e lui rintracciò), processato in Israele, si dichiarò innocente. «Capii dopo dov’era l’errore,» mi disse «non glielo dovevano chiedere una volta, ma sei milioni di volte.»

Non intendo paragonare i Riva ai nazisti; solo recuperare la lezione di Wiesenthal. In tredici anni di gestione Riva e norme non rispettate, secondo la magistratura, sono morte a Taranto almeno 386 persone e almeno un migliaio sono finite in ospedale, per malattie terribili, e i bimbi nati malformati e i non nati, abortiti... Fabio Riva vada dai parenti delle vittime, dica: «Minchiate»; non una volta, 386 volte; e un migliaio di volte, dinanzi a quei letti d’ospedale. Non è una cattiveria, signor Riva, mi creda, ma la convinzione che se uno parla così, è perché non sa, non ha visto, non è capace di ascoltare. Se mai lei riuscisse a misurare le sue parole sulle ferite di chi è stato colpito, se mai le riuscisse di sentirsi sempre più umiliato, mentre ripete «Minchiate», guardando in viso quelle persone, comincerebbe a comprendere e condividerne il dolore. E lei, signor Riva, diventerebbe un uomo migliore. Vale per lei. Vale per tutti.

Perché, chi inquina paga, no? «Lo dice l’articolo 1 della direttiva europea, in materia» conferma Marescotti. «Ma bisogna individuare la fonte.»

E... be’... come sarebbe a dire? Stabilimento siderurgico, raffineria petrolifera, cementificio...

«Formalmente non è così. L’individuazione delle fonti deve essere fatta su richiesta delle autorità politiche e territoriali. E questo non è ancora avvenuto.»

Non hanno avuto tempo, in mezzo secolo?

«Non lo so. Noi li abbiamo avvisati: se le fonti non vengono identificate, vi denunciamo tutti.»

Nel frattempo, cosa diciamo ai tarantini: smettete di fumare?

Post scriptum: questa frase chiudeva il capitolo, terminato, nella sua prima stesura, a metà giugno del 2013. Mentre lavoravo ai successivi, domenica 14 luglio 2013, ho potuto leggere che, secondo la relazione inviata dall’amministratore delegato dell’Ilva, Enrico Bondi, al presidente della Puglia, Nichi Vendola e all’Agenzia Regionale per l’Ambiente, a Taranto ci si ammala e si muore tanto, perché si fuma troppo, in quanto “città portuale”. Per debolezza fisica (non mi regge lo stomaco...) ho letto solo gli stralci della relazione riportati dai giornali, quindi non so se si prenda in considerazione pure la maggior incidenza di malattie per punizione divina a causa delle troppe bestemmie che Taranto produce, in quanto “città portuale”.

Credo di cominciare a capire: non è il pudore che manca, a certa gente, ma la fantasia.

Post scriptum 2: il 26 settembre 2013, sull’Ilva, la Commissione europea ha avviato procedura di infrazione contro l’Italia, per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee sulle emissioni industriali. Per le autorità di Bruxelles, l’inquinamento dei Tamburi è riconducibile all’attività dell’acciaieria e l’Italia non ha garantito che l’Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie.