«Ah, lei è quello che parla bene del Sud!» dice il giovane imprenditore, cui mi hanno appena presentato. Il limite della scrittura è non poter riportare i toni: un misto di curiosità e scetticismo, di chi sa che le cose stanno diversamente. Insomma: come si fa a parlarne bene? È meridionale, siciliano e pure “saputo” (e potrebbe essere portato a esempio di quel Sud che racconto: innovatore nell’impresa; socio di un gruppo antiracket). Dovrei spiegargli che io riferisco di avvenimenti, con nomi, cognomi, indicazioni di città e date: faccio parlare i fatti; e se riporto riflessioni (non sempre mie) derivano da quei fatti. Invece, taglio corto: «Diciamo che sono quello». E lui mi guarda come si guarda uno strano. Potrei dirgli che conosco altri tipi bizzarri: uno che sa parlare all’incontrario; un ragazzino che fa a mente moltiplicazioni a quattro cifre e un altro che colleziona stuzzicadenti usati. Suona così poco credibile che il Sud e i meridionali siano un posto e persone che possano decidere di migliorare la propria condizione e farlo; e riuscirci...

Ma se cambia la vergogna, cambia il mondo: saltano le regole che lo governano, perché ci si vergogna di altro. Per dirla diversamente: se prima ci si vergognava di essere ladri (di biciclette), oggi, di non avere l’iPad.

A volte, per farmi capire, esagero: «La mafia ha perso il suo potere più grande: il mistero. Grazie a Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e a tanti come loro, i mitici boss dei boss hanno una faccia, spesso banale, e una storia, spesso mediocre, grandi solo nella ferocia, arma degli stupidi (chi non ha testa, usa le mani). Senza il fascino del mistero, il mafioso perde l’inconfessata ammirazione di molti, mentre altri ne superano la paura (temi quello che immagini, più di quel che conosci). E al Sud, ormai, ci sono troppi figli di Falcone e Borsellino. La mafia sembra quella di prima, pure più ricca, ma è un cadavere che cammina». Così, tutto d’un fiato, un pomeriggio d’estate, sulla terrazza del castello di Pizzo Calabro.

«Sì, ma quel cadavere gode ancora di troppa buona salute» si premura di avvisare il magistrato e relatore, dopo di me, al convegno. E meno male che provvede lui.

Ma io cosa intendevo dire, esagerando? (E davvero esageravo?) Si ritiene il dominio mafioso esistente da secoli. Non è vero: gramigna fresca è. E dominio inestirpabile: onnipresente, indistinto, come l’aria; e come quella, persino necessario, in un certo senso. Ma nemmeno questo è vero: da cronista, appena una trentina di anni fa, chiedevo a Rocco Chinnici quante generazioni ci sarebbero volute per distruggere la testa della Piovra. Invece, in pochi anni, tutti i capi della mafia sono finiti in galera e gli arresti si contano a migliaia, a cosche intere; le connivenze con il potere politico e statale producono inchieste con nomi e cognomi di parlamentari e ministri di cui si chiede l’arresto. E per dire quanto in alto si salga: il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, deve ricorrere alla Consulta, per far distruggere le sue telefonate con l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, che gli chiede aiuto, perché accusato di falsa testimonianza sulla trattativa Stato-mafia (cos’è che non dovevamo sapere?). Per le mie figlie è un fatto ordinario che i Riina, i Provenzano vengano stanati dopo quasi mezzo secolo di latitanza, sepolti vivi in carcere, all’isolamento del 41bis, i loro beni sequestrati. Per quelli della mia età, prima, di quei boss esistevano una foto giovanile e un’elaborazione “invecchiata”, per mostrare «come sarebbero oggi, posto che siano ancora vivi». Già, perché non si era sicuri nemmeno di questo.

Cosa è accaduto in così poco tempo, per passare dal mito alla cronaca?

Queste storie cominciano sempre con uno che, un giorno, decide di non accettare l’inaccettabile che tutti accettano (perché rassegnati, o per dare una scusa alla propria viltà). Quell’uno fa una brutta fine, che si chiami Placido Rizzotto, sindacalista, Libero Grassi, imprenditore, Pino Puglisi, prete, o Peppino Impastato, giornalista, Paolo Giaccone, medico. Ma dopo uno, ne viene un altro, e poi un altro, e poi un altro... Più i mafiosi hanno bisogno di uccidere chi si oppone, più perdono potere: con gli eroi civili, seppelliscono una parte del loro dominio, perché il male immaginato è tanto maggiore, quanto meno si mostra (appena si manifesta, la sua forza può essere misurata).

Così, il mondo cambia. Ed è cambiato.

Ma chi se ne accorge?

Mettete in un unico cimitero tutti gli italiani uccisi per non essersi piegati alla mafia o averla combattuta: sindacalisti, giornalisti, imprenditori, professionisti, contadini, cittadini indomiti o che avevano il torto di essere imparentati con qualche “resistente” o passavano nel posto sbagliato, nel momento sbagliato; e poi poliziotti, politici, carabinieri, magistrati... Nella lista del blog “Vittime di mafia”, fra nomi in elenco e da inserire, ce ne sono circa un migliaio (escludendo le migliaia di morti per guerre di mafia): quasi tutti meridionali, meno Giorgio Ambrosoli, Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carrari, il procuratore torinese Bruno Caccia e pochi altri.

Ma chi ne tiene conto?

Nella percezione comune, il Sud è mafia; il Nord ne è indenne e vittima.

La Calabria? «È la parte più brutta dell’Italia» spiega, in tv, al programma più visto della domenica pomeriggio, il parlamentare piemontese Guido Crosetto (se lui è il “Gigante buono”, di quello cattivo possiamo far a meno). Pensa che non «ci sia un camion di sabbia, un centimetro di asfalto o di cemento dove dietro non ci sia la camorra» (oddio, sarebbe la ’ndrangheta, ma fa niente: sempre meridionali e delinquenti sono; N.d.A.). «Io mi rifiuto di andare in Calabria (...) perché non so con chi mi posso trovare a competere e quindi siccome non voglio, dopo cinque o dieci anni, trovarmi con qualcuno di cui mi vergogno...»

Io credo che Crosetto della bestialità delle cose che dice sia inconsapevole e con questo dimostri che la vergogna, come la memoria, è selettiva: è stato eletto al Parlamento, in un partito nato (secondo le testimonianze dei pentiti) con l’interessamento dei fratelli Graviano, boss mafiosi indagati per stragi (Falcone e Borsellino) e gli attentati dei primi anni Novanta, per indurre lo Stato alla trattativa; un partito sorto per mano di Marcello Dell’Utri, condannato per mafia, con sentenza non definitiva (e più volte senatore, «per legittima difesa», dalla galera); lo stesso che, vedi intercettazioni, discute con un latitante di ’ndrangheta di un pacchetto di decine di migliaia di voti in Calabria, e riceve i boss della Piana di Gioia Tauro nel suo ufficio a Milano. Il partito di Cesare Previti, espulso dal Parlamento per la sua fedina penale, e di Nicola Cosentino, che il centrodestra di Crosetto&Co. sottrasse ai giudici, “trattenendolo” in Parlamento, nonostante l’accusa di essere il braccio politico della camorra più feroce, quella dei Casalesi. Lo stesso partito il cui leader, Berlusconi, è sfuggito a imputazioni pesanti, solo grazie a decine di leggi ad personam (Crosetto sa chi le ha approvate?); del quale sono certificate frequentazioni con boss mafiosi agli inizi della carriera imprenditoriale e che, da capo del governo, con Dell’Utri, proclamò pubblicamente suo eroe il boss pluriomicida e trafficante di droga Vittorio Mangano; un leader corruttore di giudici e testimoni, con condanna definitiva per evasione fiscale (“delinquente” per sentenza passata in giudicato), in attesa di giudizio per prostituzione minorile di una marocchina che il partito dei Crosetto ha fatto passare, con voto di maggioranza in Parlamento, per nipote del presidente egiziano Mubarak. Crosetto non va in Calabria, perché non sa chi potrebbe incontrare; preferisce andare sul sicuro, diciamo...

Né può ignorare che la ’ndrangheta è da decenni a Torino e nella sua regione (seconda solo alla Calabria, per questo, in concorrenza con la Lombardia); «La Stampa» ha pure pubblicato la mappa del capoluogo con la suddivisione, quartiere per quartiere, delle zone d’influenza delle varie cosche e i nomi dei mafiosi “locali” (di alcuni si sa pure a chi portano i loro voti. Non gratis); da imprenditore, l’onorevole sa che sui lavori per l’alta velocità ferroviaria in Val di Susa incombono le mire di una potente famiglia di ’ndrangheta della costa jonica; e avrà letto pure lui delle cittadine piemontesi i cui consigli comunali son stati sciolti per mafia; da politico, forse può aiutarci a capire come mai la ’ndrangheta sia stata inserita tra le associazioni mafiose solo nel 2010.

Ora, uno che in Calabria troverebbe più o meno quel che ha già intorno a sé, perché dice quelle cose? Crosetto ha l’innocenza degli ignoranti, nel senso tecnico del termine: sicuro non sa che i primi sindaci a far costituire parte civile il proprio Comune, in processi contro la mafia, furono calabresi, Ciccio Modafferi, di Gioiosa Jonica e Aldo Alessio, di Gioia Tauro; che l’elenco di sindaci, assessori e politici coraggiosi ammazzati per aver imposto il rispetto delle regole alla ’ndrangheta è lungo: chissà se ha mai sentito di Ciccio Vinci, Rocco Gatto, Giuseppe Valarioti, Giannino Losardo, Luigi Silipo, Orlando Legname... E del più grande processo antimafia di sempre, che si fece in Calabria, e superò «per numero di indagati, arrestati, ergastoli inflitti» il maxi processo di Falcone e Borsellino e il processo Spartacus, contro la camorra, ricorda Giuseppe Trimarchi, in Calabria ribelle.

Crosetto, dobbiamo crederlo sino a prova contraria, è in buona fede, non vede quel che c’è, ma quel che crede di sapere e, per come parla, dà per universalmente risaputo: i mafiosi sono loro, e stanno a Sud (è il modo paranoico di vedere il male: c’è, ma lontano da me; quindi, se lì è il male, qui, dove sto io, è il bene; se quelli sono i cattivi, noi siamo i buoni). Per gli altri che, “presunti mafiosi”, stanno al Nord e fanno affari, portano soldi, voti, condividono potere, scatta il garantismo assoluto: innocenti sino a condanna definitiva e se condannati definitivamente, bisogna vedere da quali giudici... Un po’ come i dittatori “figli di puttana” osteggiati dagli Stati Uniti; tranne quello alleato degli Stati Uniti e difendibile, perché “è il nostro figlio di puttana”. Nella testa dei Crosetto quella geografia criminale segna una distinzione netta fra l’Italia dei delinquenti e l’Italia degli onesti. Lo prendo a esempio di quanti coltivano, innocentemente (forse) una idea sbagliata.

«Questa convinzione emerge pure nel linguaggio» faceva notare il dottor Piergiorgio Morosini, romagnolo terronizzato, giudice a Palermo, in un dibattito cui partecipammo a Caccuri, in Calabria. «Quando si parla di “infiltrazioni mafiose” al Nord, si trasmette l’idea di un male che attacca un corpo sano. Non è così: quei danarosi criminali non solo sono troppo spesso accolti senza problemi, ma persino invitati.»

«I soldi dei mafiosi sono serviti e servono a imprenditori del Centro-Nord per evitare i fallimenti e sfuggire alle strette creditizie del mondo bancario» sintetizzano in La mafia fa schifo, il magistrato Nicola Gratteri, ritenuto il maggior esperto di ’ndrangheta, e Antonio Nicaso, scrittore studioso della criminalità organizzata calabrese. Non lo sa Crosetto, che è imprenditore? «I mafiosi sono entrati nell’economia legale, ma qualcuno ha aperto loro la porta. Oggi la mafia è senza confini: saccheggia le regioni del Meridione e investe in quelle settentrionali.» Se Crosetto fosse davvero in buona fede, potrebbe dimostrarlo: da imprenditore a imprenditore, vada a stringere la mano a Palmi, a Gaetano Saffioti, che non cede alla mafia, che lo perseguita da anni; ha spostato le sue attività in Francia, in Spagna, in Olanda e ovunque la ’ndrangheta lo ha raggiunto; quindi si è spostato in Romania, Bulgaria, Africa, Asia e ora lavora a Dubailand, il più grande parco giochi del mondo. Saprebbe far lui, nelle stesse condizioni, l’imprenditore a quel livello? O vada da Vincenzo Restuccia, da anni sotto attacco (circa cento attentati, danneggiamenti) e tiene duro: non paga il pizzo.

Nel suo documentato libro, Attentato alla giustizia, Morosini ricostruisce i patti fra organi dello Stato e mafia, dal 1860 a oggi: il primo usa la seconda, per tenere sottomesse le genti del Sud (lo diceva già Salvemini), sin dall’invasione garibaldina del Regno delle Due Sicilie, scrive nella sua autobiografia il boss italo-americano Joe Bonanno. Si aprì «la strada all’unificazione dell’Italia» racconta il boss, con «il prezioso aiuto dei ribelli locali, molti dei quali erano della mia stessa Tradizione» (capisci a me...). C’era anche suo nonno a fare l’Italia. Ma, mentre «Garibaldi voleva creare un unico Stato nazionale» quei «ribelli siciliani lottavano per conquistarsi una maggiore libertà nella conduzione dei loro affari». E la ebbero. La mafia da lì trae la sua origine, perché «come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione non era mai esistita, in Sicilia» spiegava Rocco Chinnici: «Nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia». E quei rapporti con organi dello Stato (“deviati” solo quando vengono scoperti) le garantiscono privilegi, a partire da un diritto all’impunità che soltanto una coraggiosa genìa di magistrati ha incrinato, pagando un prezzo altissimo.

Il primo meridionale divenuto capo di governo (dopo un quarto di secolo di soli settentrionali), Francesco Crispi, aveva preparato lo sbarco dei Mille, con accordi presi da fuorusciti come lui, con la criminalità siciliana, divenuta unitarista e tricolore per qualche tarì al giorno, a testa. Quel patto precede la nascita del nostro Paese e ne è all’origine. Chiedetevi perché gli uomini di quella “tradizione” sono, ancora oggi (con la mediazione di logge massoniche, come allora), i meridionali più accetti nelle stanze del potere nazionale; al punto che lo Stato tratta con la mafia, mentre quella, in consonanza con rappresentanti delle istituzioni (o persino, si sospetta, per conto e con la complicità di quelle), stermina i migliori magistrati antimafia.

E Vittorio Emanuele Orlando, a lungo capo del governo, nel 1924, in un comizio in piazza, poteva impunemente dire: «Se essere mafioso significa essere un uomo d’onore e di rispetto, allora io sono mafioso» (don Masino Buscetta confermò). Intervistai Giulio Andreotti dopo la sentenza che lo riconosceva colpevole di rapporti con la mafia sino a una certa data (reato prescritto) e non più da quella data in poi (reato non prescrivibile: quando si dice la fortuna); ricordo il suo risentito stupore, quando diceva che quei voti non avevano suscitato condanna politica e giudiziaria quando li avevano avuti il Partito liberale e poi la corrente fanfaniana della Dc; mentre erano diventati intollerabili una volta migrati nella sua corrente. Dal suo punto di vista, non aveva torto. Il guaio era il suo punto di vista, purtroppo non solo suo: il celebrato costituzionalista (!) della Lega Nord Gianfranco Miglio, antimeridionale dichiarato («Arrivo in Toscana e sento odore di cous-cous»), nella sua riforma dell’Italia tripartita, assegnava il governo del Sud alla mafia, perché potere locale ed efficiente. Trascurò di dire (ma lo confermò con il suo progetto) che, con quella, è un secolo e mezzo che certi colonialisti del Nord vanno d’accordo.

Non sapeva, perché non voleva saperlo, che il Sud non è più (se mai è stato) come immaginano quelli che non lo conoscono: un parente povero da tener buono con un pizzo del tre per cento, mentre gli porti via l’eredità. Il tre per cento che sulla Salerno-Reggio Calabria, le aziende del Nord che detengono il monopolio degli appalti lasciano alla ’ndrangheta; il tre per cento che il governo “tecnico” Monti assegna al Sud, dei 112 milioni di euro per la ristrutturazione delle scuole in aree sismiche, mentre il 97 per cento va al Centro-Nord (e 37 milioni alla sola Lombardia, notoriamente scossa dai terribili “inavvertiti terremoti lombardi”. Il signor Monti legge il «Corriere della Sera», quindi, visto che lo hanno scritto pure su quel giornale, non ignora che le scuole “terremotate”, in Italia, sono 24.000 e per la stragrande maggioranza sono al Sud; solo fra Sicilia, Campania e Calabria, ce ne sono poco meno di 13.000, più della metà del totale. Ma questo non importa: il Sud tre per cento deve avere. A meno che, a Monti, non sia arrivato un elenco stilato dal nuovo dirigente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia: un professore di ginnastica piazzato lì dalla solita Gelmini, quella della “meritocrazia” e delle “competenze”. Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, già vescovo di Locri-Gerace, in Il nostro Sud in un paese solidale, scrive: «Non c’è peggior ingiustizia che fare parti uguali fra disuguali». E figurati farle disuguali a danno di chi è già svantaggiato!); il tre per cento dei soldi raccolti dalle banche anche a Sud, e di cui ai meridionali non tornava un euro, prima che l’enormità del furto inducesse le Fondazioni proprietarie degli istituti di credito a destinare, attraverso la Fondazione Con Il Sud, l’equivalente del “pizzo” alle regioni depredate. Per onestà devo dire che, in questo caso, la percentuale è del quattro (non vorrei che ora, accortisi dell’eccesso di generosità, chiedano indietro il dippiù erroneamente elargito).

Il gioco è andato avanti per tanto tempo, che ormai son sempre più numerosi quelli che lo scoprono e non ci vogliono più stare. (Perché la prendo così alla lontana? Per spiegare da dove viene la vergogna che cambia le cose.)

Quanto alla mafia egemone, be’, era più vero quando si fingeva che non ci fosse. Oggi non è così: il potere, ripeto, quando è egemone, non ha bisogno di farsi riconoscere, non impone l’obbedienza ma, riluttante, l’accetta. Prete, maresciallo dei carabinieri e boss locale facevano una passeggiata insieme lungo il corso, magari la domenica; interrompevano la conversazione per rispondere al saluto di chi poteva permetterselo («Signor sindaco...»), e accogliere il muto ossequio di chi non era all’altezza di quella confidenza. Non c’era nulla da dire, né altro da capire: al primo chiedevi aiuto per la grazia dal cielo; al secondo chiedevi il tuo diritto, ma come fosse un favore; dal terzo dovevi accettare, grato e chino, il favore non richiesto che comprimeva diritti e libertà.

Nei cosiddetti quartieri a rischio, tutti sapevano tutto. Quando entravano gli esattori del pizzo dal fruttivendolo, i bambini mandati a comprare gli odori, forti di precoce malizia ambientale, uscivano con una scusa, per non essere testimoni del pestaggio del taglieggiato non sollecito. E il lavoro di quel tale al primo piano: non ne parlavi con sua moglie che ti entrava in casa, «perché ho finito il sale»; né con i figli con cui andavi a scuola e dicevano: «Papà torna dopodomani». Uno da uccidere al Nord. Lo sapevano tutti. «E con questo sono...» Il quartiere portava la contabilità.

Ho udito, era qualche decennio fa, ragazzini parlarne mentre giocavano sotto il palazzo del tiratore in trasferta. La mia incredulità, una domanda agli adulti, la risposta in disparte: vero. Un giorno, Terminator trovò uno più svelto di lui e la sua carriera terminò.

Io venivo da fuori, facevo i discorsi indignati, civilissimi e facili di chi veniva da fuori. «Qui, se ci vivi, è così.» La frase pronunciata andando a sfumare, soffocata dal pudore per cose che devono restare non dette.

L’idea che ci si potesse liberare? Pensabile, non probabile. Il primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, killer e capodecina, parlò già nel 1973 di Salvatore Riina, di Vito Ciancimino e dell’esistenza della “Commissione” di Cosa nostra (che i giornalisti, più tardi, chiameranno “Cupola”). Vitale finì in manicomio, come i dissidenti nell’ex Unione Sovietica; e il paragone non è fuori luogo, perché per opporsi a un potere totale, be’... ecco, sì, giusto un pazzo.

E tale parve Libero Grassi, pure ai suoi colleghi di Confindustria, quando pubblicamente annunciò che gli avevano chiesto il pizzo e non avrebbe pagato. Pazzi parvero i braccianti che, per i loro diritti, sfidarono possidenti mafiosi o con mafiosi a servizio (del calibro di Luciano Liggio). Poi, cominciarono a essere un po’ troppi, per essere tutti pazzi e limitarsi a irriderli (chi quello? Non lo vedi che non ci sta con la testa, dice minchiate?) o a metterli in manicomio. Così, li facevano sparire (in un pilone, sotto la massicciata di una strada, nell’acido); e se l’estinzione silenziosa non risultava istruttiva a sufficienza, si ricorreva a quella plateale, con la vittima che si dissangua in strada, nel paese, e guai a chi la soccorre, la tocca, la rimuove, fosse pure sua madre.

Quando quel coraggio è una forma di suicidio, è ancora coraggio o pazzia? E cos’è la pazzia? Un comportamento fuori dalla norma. E la norma? Il comportamento della maggioranza. Ma se i pazzi di coraggio civile diventano maggioranza, chi sono i pazzi? (A molte di queste domande ha appena trovato, finalmente, una interessante risposta la psicologia sociale; a opera di un ricercatore italiano. Mi è stato concesso di anticipare alcune delle conclusioni. Lo farò nel penultimo capitolo.)

E ora questo succede al Sud: a non accettare più la sudditanza (al potere della mafia, della politica e dell’economia colluse) sono troppi. Quasi un migliaio di negozi nella sola Palermo, un migliaio nel resto del Sud espongono il cartello NO PIZZO e, invece di perdere clienti (che fai, entri in un locale in cui, da un momento all’altro, possono fare una rappresaglia?), ne acquistano; un’intera città, Ercolano, si libera delle estorsioni, per l’iniziativa di una nonna che denuncia i camorristi e induce altri a fare altrettanto. Ricordate i comizi contro la mafia, nei Paesi del Sud? L’oratore solo, in una piazza vuota, la gente a origliare da dietro le persiane, per non farsi vedere interessata dal boss e dover dare spiegazioni. Oggi la gente si mostra nei cortei, nei concerti antimafia; e sono i boss a nascondersi in casa. E nella città più inquinata dell’Europa occidentale, Taranto, mentre le istituzioni, dal Comune al Governo (salvo la magistratura), latitano e per decenni dimenticano di disporre analisi sugli scarichi nell’atmosfera e nel mare, della più grande acciaieria del continente, associazioni di cittadini provvedono da sole e trasformano la loro vicenda in un caso di rilevanza mondiale. E mentre i proprietari irridono i morti per cancro («Minchiate» per Fabio Riva, vice presidente dell’Ilva: ’sti padroni dalle belle braghe bianche quando si tratta dei cazzi loro, parlano come i mafiosi), gli operai, pur indecisi fra morte per tumore o per fame, scendono in piazza. E mentre Stato e grandi aziende del Nord si accordano con la camorra, pare persino con l’assistenza dei servizi segreti, per usare la Campania come discarica abusiva di rifiuti tossici, i cittadini si uniscono in comitati per denunciarli e risanare il territorio.

“Mai più da soli”: questo succede, al Sud. I meridionali stanno diventando popolo consapevole di sé. Una delle frasi più citate di sempre è: «Sventurata la terra che ha bisogno di eroi» di Bertolt Brecht. Ma i popoli non nascono tali, hanno bisogno di padri che siano sintesi di valori condivisi, in cui riconoscersi. I popoli, per cominciare a esistere, hanno bisogno proprio di eroi (detti “eponimi”, dal greco: che dà il nome. La mia città, Taranto, è stata fondata due volte: prima da Taras, figlio di Poseidone, poi da Falanto, spartano). Qualunque sia la strada che i tanti percorrono, c’è uno che, per primo, la imbocca. Se lui fallisce, un altro, prima o poi, ci riprova. E così via, finché un popolo intero si mette in marcia.

Il potere (diciamo la mafia, così si capisce meglio) che è imbattibile quando colpisce le vittime a una a una, mostra i suoi limiti se queste reagiscono insieme, quale comunità. O branco: il paragone non è fuori luogo. I potenti, e soprattutto i prepotenti, amano dirsi leoni, e rappresentarsi tali negli stemmi araldici (quando diventano nobili) o nei soprannomi (quando sono ancora predoni). Il leone trasmette idea di regalità, coraggio, forza, austera fierezza.

Ma la compatibilità del paragone è in quello che il leone è e fa, non in quel che sembra: attacca animali isolati, mai il branco. Si avventa sugli esemplari malati della mandria, vecchi, feriti, nati da poco, lenti, impediti o inesperti, comunque più deboli. Il fiero re della savana, come lo squalo in mare, è una specie di spazzino. E pure per avere ragione di prede così compromesse, non attacca da solo, ma con l’intero clan; ed è più la femmina che, con incursioni improvvise, tenta di disperdere il branco, per isolarne i più tardi. E talvolta, l’esemplare aggredito, magari già con ferite di artigli e zanne, riesce a liberarsi con uno scatto, una cornata e a rientrare nella mandria, al sicuro.

Insomma, il mafioso che si fa leone è, come quello, solo un animale opportunista che colpisce i deboli, a uno a uno, con forze sproporzionate. Può farlo, se la società (il branco) lascia solo chi viene attaccato. È successo con Libero Grassi, Borsellino (isolato, perché lo Stato che lui difendeva trattava con chi lo uccise), dalla Chiesa (eliminato quando Cosa nostra capì che il rappresentante del governo a Palermo, rappresentava ormai solo se stesso), e tanti altri.

La forza della mafia, rispetto a quella della società di cui è il parassita, è minuscola, quasi risibile, ma appare enorme, perché usata, di volta in volta, contro uno solo. E, come accade per il branco quando uno di loro, rimasto indietro, viene aggredito, i molti restano a guardare, sentendosi al sicuro, perché è toccata a un altro. È questo che condanna la vittima, non la forza del leone. Tant’è che se dal branco qualche animale accenna a muoversi in soccorso dell’aggredito (o addirittura tutto il gruppo, come la nuvola di storni contro i falchi), gli aggressori, spesso, si ritirano senza nemmeno tentare di opporsi. Si può dire che il predatore non cattura la preda: si nutre di quella che il branco, non difendendola, gli lascia, come tributo alla prepotenza: perisca uno, perché molti si salvino... in attesa che tocchi al prossimo.

Quando al commerciante chiedono il pizzo, non è un mafioso a farlo, ma la cosca; il cui potere, agli occhi della vittima, è amplificato dalla paura. La vittima dell’estorsione resta tale, finché tace o nega per vergogna e il timore di conseguenze ulteriori; e chi ne è al corrente (ugualmente oppresso, magari), finge di non sapere degli altri.

Quello che cambia le cose è capire che mille vittime solitarie sono un popolo schiavo; mentre cento vittime che si uniscono sono un potere che può misurarsi con altri e scoprire, per esempio, che la pubblica rappresentazione del mafioso non corrisponde alla sostanza: è come il torero, descritto da Isabel Pisano, mia amica scrittrice, ferocemente anticorrida: «Entra nell’arena un tale con vezzose ballerine di raso e pompon colorati; indossa sottili calze di seta di un delicato rosa pallido; pantaloni stretch a pinocchietto che modellano e migliorano la forma del culo; mentre, davanti, una superflua conchiglia di protezione serve a far apparire più interessante qualcosa che sorprenderebbe solo per la sua modestia; cintura stretch, giacca ricamata in paillettes e cristalli Swarovski; capelli lunghi, a coda di cavallo, come Brigitte Bardot giovane: ecco, signori, la massima espressione della virilità, per gli spagnoli! E cotanto maschio manifesta il suo valore contro un toro, animale abituato a spazi aperti, che è stato rinchiuso al buio in una specie di scatola in cui non ha potuto nemmeno muoversi; per tre giorni è stato lasciato senz’acqua; le corna spuntate con una sega, per lasciare scoperti i nervi e provocare un dolore infame; sulle reni gli hanno scaricato sacchi di sabbia pesanti quintali, per fiaccarlo. Poi, nell’arena, uomini armati e a cavallo infilano aste uncinate nelle carni di questa bestia moribonda, per dissanguarla. Solo allora, il torero, spada in pugno, osa mostrare il suo coraggio. E persino, talvolta, soccombe!».

Be’, giudicate se non c’è somiglianza con quello che il mafioso vuole far credere di essere e quello che è: ferocissimo con i deboli; massacrano di botte un commerciante che non può o non vuol pagare il pizzo, ma ci vanno in tre-quattro; se non riescono a colpire i loro nemici, ne uccidono a tradimento i parenti che non c’entrano nulla; per punire un pentito, ne strozzano il figlioletto e lo squagliano nell’acido; torturano e ammazzano le donne; non affrontano i nemici a viso aperto, ma stringono accordi per indurli a un incontro di pacificazione, poi li trucidano, calpestando patti e parole d’onore; preferiscono la bomba, l’incendio, l’agguato, la minaccia anonima... tutte azioni a distanza di sicurezza. Vivono in bunker sotterranei, come i topi; e appena vedono un poliziotto, un carabiniere, alzano le mani, si arrendono e magari gli fanno pure i complimenti: «Siete stati bravi!». Lecchini. «Avete mai udito di un mafioso ucciso in uno scontro a fuoco con le forze dell’ordine?» usava chiedere un magistrato, per far intendere il vero carattere di quelli che si definiscono “uomini d’onore” e “di pancia”. L’unica cosa cui tengono davvero sono i soldi; possono sopportare tutto: rischiare la morte per faide con altre cosche; vivere non potendosi fidare di nessuno; dover sopprimere qualcuno di famiglia, per ordine del boss; finire in galera a vita, ma perdere soldi no! Calcolano il proprio valore, con il conto corrente: azzerato il quale, loro zero valgono.

Far paura e fare soldi; e far paura per fare soldi. Nient’altro. Per capire quanto vale, di suo, un mafioso, toglietegli la baldanza che gli viene dall’essere uno della “famiglia” (un modo per fare sua una forza che sua non è, ma di altri, di un clan). Resta un uomo solo, con la pistola che gli gonfia un lato della giacca e il portafoglio che gli gonfia l’altro lato. Toglietegli la pistola (non fa più paura) e il portafoglio (non può più comprare quelli cui non può sparare). E ora paragonatelo a Peppino Impastato che, con la sola arma del suo coraggio, e pur se figlio di mafioso, sfida pubblicamente don Tano Badalamenti, il potentissimo capo della “Commissione” di Cosa nostra. E quello è costretto a farlo uccidere, perché non può vincere altrimenti che con l’argomento degli stupidi: la ferocia. Chi vale di più? Chi vorreste essere? Per diventare don Tano, basta comprare una pistola; per diventare Peppino, devi essere un uomo. E questo, lo si può pure tacere, ma non passa inosservato: costruisce futuro, semina vergogna per i Badalamenti, ammirazione per gli Impastato. Di Badalamenti non si ricorderà più il nome, quando i cento passi di Peppino misureranno ancora il cuore di un uomo.

La smitizzazione della mafia ha fatto vedere i mafiosi per quel che sono: non don Vito Corleone, ma Totò Riina, “u’ Curtu”, criticato per la ferocia persino dal successore, Bernardo Provenzano, “uomo di pace”, rispetto a lui, eppur chiamato “Binnu u tratturi”, il trattore, perché eliminava a lotti i nemici... Non Marlon Brando o Al Pacino, né la sovrana visione criminal-patriarcale e politica dei boss di celluloide, ma ometti semi-analfabeti, rozzi, avidi, prepotenti, usati da una borghesia compromessa e compradora e da una politica che trasforma i loro delitti nel proprio potere. Se spogliati del falso mito, della cosca, delle armi, dei soldi, hanno valore nullo. Di Ulisse nudo, vecchio, ferito e naufrago, s’innamora una principessa, Nausicaa, lo rispettano gli dei. Così si pesa un uomo.

Uccidi, uccidi, ma gli eroi sono troppi; Falcone e Borsellino diventano miti. Sullo schermo del computer, molti ragazzi hanno la foto-santino dei due magistrati sorridenti e complici. I giovani che entrano in magistratura per seguirne le orme e spinti dal loro esempio non si contano più. Ogni anno Palermo, nell’anniversario della strage di via D’Amelio, è invasa dal popolo delle agende rosse, persone che arrivano da ovunque, con ogni mezzo; erano centocinquantamila, per il corteo, organizzato da Libera, a Firenze, in memoria delle vittime di mafia: in prevalenza giovani, per un pellegrinaggio civile, e forse non solo, da quando papa Giovanni Paolo II proclamò martiri le vittime di mafia.

Così, nelle famiglie dell’“onorata società” comincia a entrare una cosa che non c’era mai stata: la vergogna dell’appartenenza mafiosa, che vuol dire rinnegarla, perché la vergogna è un sentimento che identifica la comunità a cui si appartiene; la si prova, infatti, solo verso le persone che contano nella nostra vita e di cui si condividono valori, norme, comportamenti. E definisce anche l’identità di chi a quel gruppo appartiene (una donna occidentale, denudata in pubblico, con le mani copre capezzoli e pube: sai chi sono, ma non vedi la mia intimità; una orientale, il volto: vedi l’intimità, ma non sai di chi). Chi è “senza vergogna” è fuori dal gruppo, escluso. La vergogna è una ferita inferta dal singolo alla sua comunità, perché offende i principi che la rendono tale. Gli specialisti distinguono fra “società della colpa” e “società della vergogna”; tant’è che può esserci colpa senza vergogna (anzi, il delitto d’onore innalzava socialmente chi lo commetteva) e vergogna senza colpa (il cornuto: la riprovazione sociale colpisce, con lo scherno e il discredito, chi è tradito, non chi tradisce); persino vergogna per la colpa di un altro (i parenti del pentito di mafia).

La colpa grava su chi ce l’ha, la vergogna sulla gente (famiglia, cosca, clan, popolo) di cui fa parte chi se ne macchia. Il colpevole, anche un assassino, non diminuisce il valore sociale dei suoi parenti (il debito è personale, fra lui e la comunità: se preso, sconta la pena. Persino, la colpa dichiarata e ammessa prepara il ritorno nella società, con il perdono); mentre la vergogna grava sulla comunità, che può essere chiamata a cancellarla: nelle società arretrate, tocca alla famiglia uccidere l’adultera, per ripulirsi dalla vergogna (esempio non scelto a caso, perché questo continua a essere il codice morale della mafia, specie della ’ndrangheta, la più arcaica; e sull’onore, certe idee scorrono più lente dei secoli: per molti passa ancora fra le gambe delle donne, perché è da lì che esce il domani. E chi uccide l’adultera vede aumentato il suo valore sociale, nella comunità!).

Perché la mafia è una civiltà nel senso antropologico del termine, una cultura. «Sì» scrive uno dei più attenti studiosi dell’argomento, Enzo Ciconte, nella prefazione a Sangue e onore in digitale, il libro di Ettore Castagna (antropologo e musicologo, docente di Storia delle culture locali all’Università di Bergamo) su “rappresentazione e autorappresentazione della ’ndrangheta”: «Cultura, non subcultura perché quello mafioso è un prodotto culturale del tutto originale nato tanto tempo fa e che ha mostrato di avere una lunga vitalità». Cultura è un insieme di riti, norme, ruoli che definiscono rapporti, gerarchie, interessi. Persino un linguaggio. Ne riparlo più avanti.

Provate a immaginarvi nati in una famiglia mafiosa: la storia che vi fa da maestra, da cui attingete regole di vita e comportamenti verso consanguinei, paesani e “gli altri”, è una storia di successo e di inimicizie. Apprenderete di un bisavolo, pastore o bracciante di scannata povertà, o magari, massaro, che reagì a una sanguinosa offesa (la colpa sarà sempre di altri) e contro la sua indole indotto alla violenza, per difendere l’onore. Vi diranno con quale coraggio lui, figli e nipoti contrastarono gli attacchi dei nemici; l’intelligenza con cui sfuggirono agli agguati e la saggezza con cui costruirono alleanze; l’equità con cui amministrarono la loro giustizia, punirono i torti subiti o fatti ai propri amici; la generosità con cui fecero bene a tutti, in paese: chiedete, chiedete! Dovrete imparare, se maschi, a guadagnare il rispetto per la famiglia; e, se donne, a comandare tacendo, anche se usate come merce, per cementare alleanze con altre cosche, con matrimoni e figli. A suo modo, il mafioso stende una rete che cerca di allargare, mentre ne rinforza i legami. E ci riesce.

Diventerete orgogliosi di questo, perché le regole del vostro mondo vi hanno innalzato sugli altri in paese, resi accetti e ossequiati fra i signori, i potenti e i ricchi, pure all’estero; eravate servi, ora comandate; dovevate chiedere favori a sindaco e parlamentari, oggi loro li chiedono a voi, per essere eletti, e poi devono farvene quanti ne volete (sono agli ordini); eravate ignoranti, e avete figli avvocati, professionisti, pure in politica. Confrontate la vostra storia con quella degli altri, in paese: la vostra cultura ha prevalso; avete vinto. A caro prezzo, si capisce; ma nessun dominio è gratis. Puoi morire ammazzato, ma anche gli altri e pure gli sbirri, e per molto meno.

Questo è essere di famiglia mafiosa, per chi ne è parte. Chi è in tale condizione, si vergogna di perdere, di non saper imporre il proprio volere, di non usar bene le armi e la ferocia, di deludere il boss e non avere il coraggio di vendicare gli sgarri. Si vergogna di farsi trattare come loro trattano gli altri, di cui non hanno alcuna stima, perché sono cose, gente babba.

Il mafioso chiama tutto quello che identifica e distingue il suo mondo: “valori” (stiamo cercando di pensare con la sua testa, ricordate?). E dal tradimento di quelli nasce la sua vergogna. La forza di questo sentire misura il grado di adesione alla comunità dinanzi alla quale lo si avverte. Ma allora, perché fuggono in tanti, e non era mai successo, da questo mondo così fiero, forte e in espansione, da aver prodotto e tramandato una cultura vincente? (...e criminale, ma molti poteri nascono tali, forse tutti.) I pentiti di mafia sono più di ottocento, un’enormità. Con i familiari, sottoposti a regime di protezione, diventano circa quattromila: una cittadina di fuorusciti che ha rinnegato la sua “tradizione”, a cui si sente ormai estranea, per consegnarsi a un’altra. Se pure tanti lo fanno per convenienza (sconti di pena), quell’abiura è possibile solo perché i legami sono ormai allentati, i “valori” sfioriti, e la vergogna (che dei “valori” è il guardiano) non ti tocca più; non “perdi la faccia” dinanzi a gente che non consideri più tua. E la abbandoni: si riesce così a superare il tabù del ricorso alla giustizia “esterna”, squalifica estrema per la gente di mafia, una sconsacrazione, un sacrilegio, un dichiararsi “fuori”.

I pentiti per ravvedimento, delusione, voglia di riscatto morale, sono così tanti, da costituire argomento di indagine per antropologi, etnografi, come se si trattasse di una nuova tribù in formazione, a partire da un’altra, ripudiata. Ciò che prima era vanto, diventa vergogna quando i comportamenti smentiscono le regole dei valori condivisi (qualunque cosa si intenda con queste parole). Molti mafiosi, proprio i pezzi da novanta, da don Masino Buscetta a Gaspare Spatuzza, hanno motivato la decisione di collaborare con la magistratura, con il disgusto per lo scempio del “codice d’onore” cui avevano aderito. «Cosa nostra del passato,» spiegò Tommaso Buscetta «non era l’entità perversa di oggi (...), si basava su principi positivi, su concetti di bontà, di onestà, di giustizia.» Dal suo punto di vista, ovvio, descrive “valori” mafiosi che vede traditi.

Questo segna un vero e proprio passaggio di civiltà, per il riconoscimento di una diversa e altrui superiorità morale: è l’equivalente di una conversione religiosa. La vergogna condanna un passato per eleggere un diverso futuro, pensato più degno: non solo più giusto, ma più “decente”. Lo si capisce meglio, guardando cosa sta avvenendo nella ’ndrangheta: mentre per la siciliana Cosa nostra “famiglia” è sinonimo di cosca (i legami di sangue ci sono, ma come nucleo intorno a cui aggregare pure estranei), per la mafia calabrese, è il contrario: la cosca è sinonimo di famiglia, non si può stare nella prima, se non si appartiene alla seconda (rare le eccezioni).

Fondamento della famiglia è la donna, la cui missione biologica è l’accoglienza, la coltivazione del futuro. L’uomo è solo un fecondatore, perché il compito affidatogli dalla Natura è l’incontro con la donna; tutto ciò che fa da quel momento in poi (per esempio: il padre), deriva dalla elaborazione di una cultura, da norme di convivenza con i nostri simili, poco dalla Natura. Mentre il compito biologico della donna comincia da quell’incontro fecondatore in poi: i figli. Quindi ha ben altro peso e senso se a cambiare il corso della tradizione familiare e il bagaglio delle norme sia lui o lei: lui agisce per salvare le regole e la comunità che da quelle discende (è quanto richiede l’evoluzione culturale al maschio della nostra specie; non importa se le regole sono criminali e la comunità è una cosca; né se per salvare le regole si debba sacrificare il proprio figlio. Se persino Dio, per farlo, ha dovuto mandare il suo in croce...); la donna agisce per salvare i figli, anche a costo di sacrificare le regole (nota per gli antropologi: mestiere mio è la divulgazione, semplificare concetti complessi, in sintesi talvolta feroci. Per questo tralascio il resto, sulla definizione, così sofisticata e incompiuta, di quei ruoli).

E sono le donne a demolire l’equilibrio mafioso, specie in Calabria, dall’interno e dall’esterno della ’ndrangheta, come anticipavo in Mai più terroni, e come raccontano Lirio Abbate, in Fimmini ribelli, e Goffredo Buccini, che ne L’Italia quaggiù. Maria Carmela Lanzetta e le donne contro la ’ndrangheta, riassume: «Giorno dopo giorno le regole maschiliste e arcaiche che tengono in piedi le ’ndrine vengono erose; altrettanto quotidianamente l’assenza di regole che mette in ginocchio le pubbliche amministrazioni viene riempita. È un lavorìo spesso silenzioso, discreto. Rivoluzionario. Questa rivoluzione è tutta al femminile e ha due facce». La società civile reagisce alle devastazioni procurate dagli uomini, affidandosi alle donne, dice Maria Carmela Lanzetta, una delle numerose sindache antimafia. E “numerose” sta a indicare più una percentuale e la dimensione del risultato delle loro azioni, che una quantità. Quando il fenomeno delle sindache antimafia si impone, ce ne sono, in Calabria, soltanto 18 su 409 Comuni; eppure, diventano la prova della sconfitta “culturale” della ’ndrangheta, che considera le donne poco più che cose. Analogamente, aggiunge Buccini, «nella società malavitosa, madri, mogli e sorelle, assuefatte al silenzio e all’obbedienza, hanno incominciato ad alzare la testa, a dire “no”, per strappare i figli a un destino segnato da violenza, galera, morte». E don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, grande motore di ricostruzione civile, dice che «le donne batteranno la mafia».

La storia-simbolo è quella (ricordate?) di Giuseppina Pesce, figlia, moglie e sorella di mafiosi, che passa dall’altra parte e collabora con giudici, per salvare i figli, uno dei quali vuol diventare carabiniere! Cito spesso questa vicenda perché, a inventarla, non sarebbe stato credibile che il sogno dell’erede di una delle più antiche e potenti famiglie di ’ndrangheta sia fare lo sbirro: il massimo dell’infamità, nella classificazione mafiosa degli umani, che assurge a emblema di nuova dignità.

Se accade, è perché son cambiate le cose di cui ci si vergogna e le persone dinanzi a cui si prova vergogna. Gli esseri umani sono, salvo eccezioni, conformisti: seguono correnti di maggioranza, ma lo fanno in tempi diversi. I mutamenti di rotta di parti della società indicano in quale direzione sta andando. Non tutti la imboccano subito, ma secondo il proprio carattere, le convenienze. Avete mai visto le evoluzioni degli storni? Ogni tanto, dallo stormo si staccano uno o più uccelli e se il flusso diviene importante (pur essendo ancora molto minoritario), tutto lo stormo muta rotta e lo segue.

Un fenomeno simile è in corso (soprattutto) al Sud. I precursori e i martiri civili dimostrano che “si può”, di qualsiasi cosa si tratti: per esempio, non pagare il pizzo (o scalare l’Everest, nuotare da qui a lì); loro fanno quello che gli altri dicono che non si può fare. E, una volta che lo hanno fatto, agli altri arriva una domanda cui dare risposta: «E tu, perché no?». Non importa in che modo si giustifichi la mancata emulazione del gesto dell’eroe (tengo famiglia, mi fa male la testa...), il confronto rimane: lui sì, tu no, perché? Nel corpo sociale, il limite del corretto comportamento civile è stato spostato più avanti da quei grandi; e tu resti indietro. Finché è uno solo che ti precede, puoi liquidarlo come “fuori” dal gruppo, di testa, dalle norme, o “fuori misura” (uno eccezionale, non ne nascono più così!): più lo innalzi, più giustifichi la mancata emulazione, da parte tua. Ma più diventano numerosi quelli che lo raggiungono, lì davanti a te, più opera quel potentissimo motore di miglioramento sociale che è la vergogna: tanto maggiore, quanto più la comunità è orgogliosa di quei precursori. Così, può darsi che poi tu faccia meno di quegli eroi, ma lo fai nella loro direzione; magari non dici no al pizzo, ma fai la spesa nei negozi di chi non lo paga e lo dice: vai più lento, ma vai da quella parte, condottovi da una “nuova vergogna”.

Un sentimento figlio dell’idea che tutti abbiamo diritto al rispetto dell’uguaglianza, della dignità personale che la democrazia moderna garantisce (ma davvero?...). L’imperio del crimine organizzato sulla vita dei singoli e della comunità, però, riduce diritti e libertà. Chi si piega a quella violenza, si sente (non a torto) diminuito. E si vergogna di sé, della sua incapacità di opporsi. «Quindi, paradossalmente, le società democratiche producono un’ulteriore vergogna,» quella «della diseguaglianza» spiega Gabriella Tornaturi, docente di sociologia a Bologna e autrice di Vergogna. Metamorfosi di un’emozione.

Ho avuto la fortuna di leggere il suo interessantissimo libro, mentre completavo questo capitolo (ne ho tratto alcuni preziosi arricchimenti): temevo che applicare tali concetti all’argomento che qui tratto, potesse essere ritenuto una forzatura. Invece, ecco cosa scrive la professoressa Tornaturi: «La vergogna della diseguaglianza, per esempio, è quella che ha portato molti commercianti siciliani che si rifiutano di pagare il “pizzo” ai mafiosi a costituirsi in associazioni antiracket. In questo e in altri casi analoghi ci si è ribellati proprio per non subire più la vergogna di essere considerati non cittadini, persone prive di diritti e non eguali». Appunto. «Oggi inizia a esserci riprovazione per chi paga il pizzo, venti anni fa invece era considerato normale» avevo letto nel dizionario antiracket di Tano Grasso, il commerciante siciliano che denunciò gli estorsori e poi dette vita a una rete di associazioni antiracket.

E che c’entra questo, con i mafiosi, a parte il loro fastidio di vedere il business del racket divenire più difficile? C’entra, perché la fine di tutto comincia così: è su questa via che va a estinguersi il controllo criminale sulle vite altrui, sulla comunità, sulle strutture civili, sulle stesse istituzioni.

E questo diviene tanto più vero, quanto più il senso di vergogna generato dall’esempio dei precursori (gli “eroi”) e da quanti ne seguono le tracce si diffonde nella società. La professoressa Tornaturi ricorda una frase di Karl Marx: «La vergogna è già una rivoluzione».

La stessa azione mafiosa incrementa questo meccanismo: l’eliminazione fisica degli oppositori (magistrati, cittadini indomiti) ne ingigantisce le figure e le ragioni, accrescendo, con l’ammirazione che ne consegue, la vergogna di chi non ne sostiene e non ne condivide le scelte (più si ammirano Impastato e Borsellino, più devono vergognarsi Badalamenti e Riina). La riprovazione sociale, prima muta, diviene manifesta, assordante, e si riverbera nel mondo di mafia, che non è monolitico, e produce incrinature.

Il modo di agire della mafia è quello dei predatori. Ma la similitudine non è perfetta, perché l’organizzazione criminale non è un animale estraneo al branco che attacca: ne è parte, le sue terminazioni affondano nella comunità, attraverso una serie di cointeressenze e complicità. L’uomo è un animale sociale e la vergogna porta il timore di essere esclusi: nel nostro profondo opera la norma che ci fa preferire di morire con gli altri, che non vivere da soli. La vergogna è il sentimento che ci fa scegliere chi sono gli altri con cui morire (...dopo; prima vivere, però).

La mafia è un parassita della società: ne condivide la natura, si alimenta della sua sostanza, non solo appropriandosi di una parte dei suoi beni, ma anche della sua rappresentanza politica, del potere e dell’efficienza delle sue istituzioni, persino della sua reputazione. “Natura”, “sostanza” non sono termini usati a caso: parassita e organismo ospite devono essere compatibili, perché la convivenza funzioni (i parassiti del cefalo di mare non sopravvivono sul maiale); tant’è vero che “ognuno fa i suoi pidocchi”.

Questo cosa vuol dire? Che fra organizzazione criminale e società-ospite c’è uno scambio; la mafia-parassita non succhia solo soldi e potere, ma anche idee, comportamenti: l’onorata società è una parodia delinquenziale di quella da cui nasce. E se nell’organismo-ospite monta la vergogna per l’agire mafioso, il suo parassita si nutrirà anche di quei sentimenti.

Gli esempi sono tanti. Ne cito solo uno: sono stati da poco uccisi Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta, quando a San Cataldo, paesino del Nisseno, in seguito alle indagini per l’omicidio di un piccolo spacciatore di droga, viene arrestato Leonardo Messina. Non sembra una grande notizia e ha poco rilievo sulla stampa; Messina pare un mafiosetto di poco conto: 37 anni, sposato, due figlie piccole, un lavoro in miniera. Ma diversi giorni dopo, a San Cataldo, di notte, in poche ore, la polizia porta via, non si sa dove, decine di persone, tutti parenti di Messina. E il paese capisce: iddu si pentì. Vero, ma a sorprendere di più è la motivazione: la vergogna! Messina aveva visto in televisione i funerali delle vittime dell’“attentatuni”, e si era commosso quando la vedova di uno degli uomini della scorta di Falcone, Rosaria Schifani, piangendo aveva implorato i mafiosi di pentirsi, per avere il suo perdono.

Sarà Paolo Borsellino a raccogliere la confessione di Messina. Il mafiosetto di paese si rivela di insospettata levatura criminale e il suo ripensamento un disastro per Cosa nostra. Messina racconta come è strutturata l’organizzazione, livello per livello, sino alla Cupola di Totò Riina, e con i nomi, i fatti, le complicità; come avviene lo scambio di voti con i politici collusi; chi sono e quanti sono i componenti della rete mafiosa in Lombardia, che lui conosce bene. Borsellino imposta l’Operazione Leopardo che, quattro mesi dopo la sua morte, il procuratore di Caltanissetta, Giovanni Tinebra, condurrà a termine: una delle più vaste di sempre, con oltre duecento arresti.

Se pure fosse sventurata la terra che ha bisogno di eroi, è sana se prova vergogna dinanzi a loro. Nulla di meglio le si può augurare. Be’, sta succedendo, non lo vedete?