VIII

Quando il servitore entrò, lo fissò, domandandosi se egli avesse mai pensato di guardare dietro il paravento. L'uomo era impassibile, e aspettava i suoi ordini. Dorian accese una sigaretta, si avvicinò allo specchio, e guardò. Poteva vedervi riflesso, perfettamente, il viso di Victor. Pareva una tranquilla maschera della servilità. Non c'era nulla da temere. Tuttavia pensò che doveva stare in guardia.

Parlando lentamente, lo incaricò di dire alla governante che desiderava vederla, poi di andare dal fabbricante di cornici, e dirgli di mandare subito due dei suoi operai. Mentre l'uomo usciva dalla stanza, gli parve che i suoi sguardi si dirigessero verso il paravento. O era soltanto un sospetto?

Poco dopo si precipitò nella libreria un'affabile vecchina vestita di raso nero, con al collo una fotografia del defunto signor Leaf incastonata in una grossa spilla d'oro, e mezzi guanti di filo all'antica sulle mani rugose. «Beh, signorino Dorian» disse la donna, «che cosa posso fare per voi? Chiedo scusa» – e qui eseguì una riverenza – «non dovrei più chiamarvi signorino. Però, che il Signore vi benedica, io vi conosco da quando eravate piccolo così, e quante volte l'avete fatta confondere, questa povera vecchia Leaf! Non che non siate sempre stato un bravo ragazzo, signore; ma i ragazzi sono ragazzi, signorino Dorian, e la marmellata è sempre una gran tentazione per i ragazzi, vero, signore?» Lui rise. «Devi sempre chiamarmi signorino Dorian, Leaf. Mi arrabbierò con te se non lo farai. E te l'assicuro continuo a adorare la marmellata come una volta. Solo che quando mi invitano al tè, non me la offrono più. Voglio che tu mi dia la chiave della stanza in cima alla casa.»

«La vecchia stanza di studio, signor Dorian?» esclamò lei. «Ma è piena di polvere. Devo riordinarla e ripulirla prima che vi entriate. Non dovete vederla così, signore. No davvero.»

«Non voglio che sia ripulita, Leaf. Voglio soltanto la chiave.»

«Bene, signore, se vi entrerete, vi coprirete di ragnatele. Son quasi cinque anni che non vi si mette piede, da quando morì sua Eccellenza.»

Trasalì sentendo nominare il defunto zio. Ne aveva un ricordo odioso. «Non importa» rispose. «Desidero vedere la camera, nient'altro. Dammi la chiave.»

«Ed eccovi la chiave, signore» disse la vecchia signora, cercando nel mazzo con mani incerte e malferme. «È questa. La tolgo dal mazzo in un momento. Ma non pensate certo d'andare a vivere lassù, signore, ora che state così bene qui?»

«No, no, Leaf. Voglio solo dare un'occhiata alla stanza, e forse riporci qualcosa – e basta. Grazie, Leaf. Spero che i tuoi reumatismi siano migliorati; e mi raccomando, mandami su della marmellata a colazione.»

La signora Leaf scosse il capo. «Quegli stranieri non sanno niente di marmellata, signorino. La chiamano compote. Ma una mattina ve la porto su io stessa, col vostro permesso.»

«Sarebbe veramente gentile, Leaf» rispose lui guardando la chiave; e avendogli indirizzato una elaborata riverenza, la vecchia signora uscì dalla stanza, il viso raggrinzito in un sorriso. Non provava alcuna simpatia per il cameriere francese. Era una manchevolezza deplorevole per chiunque, pensava, l'essere nato all'estero.

Appena chiusa la porta, Dorian mise la chiave in tasca, e si guardò in giro. L'occhio s'arrestò sopra una grande stoffa di raso purpureo, pesantemente trapunta d'oro, uno splendido tessuto del tardo settecento veneziano, che suo zio aveva scovato in un convento presso Bologna. Sì, poteva servire ad avvolgere quell'orrore. Forse era già stata usata come drappo funebre. Ora avrebbe coperto una cosa che aveva una putredine propria, più decomposta di un cadavere – che avrebbe nutrito orrori, e non sarebbe mai morta. Quello che i vermi sono per il cadavere, i suoi peccati sarebbero stati per la immagine dipinta sulla tela. Avrebbero invaso la sua bellezza, e ne avrebbero divorato la grazia. L'avrebbero deturpata, e resa ripugnante. Tuttavia la materia avrebbe continuato a vivere. Sarebbe vissuta in eterno.

Rabbrividì, e per un momento rimpianse di non aver detto a Basil la vera ragione per la quale aveva voluto tener nascosto il ritratto. Basil l'avrebbe aiutato a resistere all'influenza di Lord Henry, e alle influenze ancor più dissolventi del suo carattere. L'amore che gli portava – poiché era veramente amore – era tutto nobile e intellettuale. Non era quella sola ammirazione fisica della bellezza che nasce dai sensi, e muore quando i sensi si stancano. Era un amore simile a quello provato da Michelangelo, e da Montaigne, da Winkelmann e da Shakespeare stesso. Sì, Basil avrebbe potuto salvarlo. Ma ormai era troppo tardi. Il passato poteva esser sempre annullato col rimpianto, il diniego, la dimenticanza. Ma il futuro era inevitabile. Si agitarono in lui passioni che avrebbero trovato il loro tremendo epilogo, sogni che avrebbero materiato le loro ombre maligne.

Tolse dal giaciglio la grande stoffa oro e porpora che lo copriva, e tenendola tra le mani, andò dietro il paravento. Il viso sulla tela era diventato più abbietto? Gli sembrò immutato; ma gli parve che fosse cresciuta in lui la ripugnanza. Capelli d'oro, occhi turchini, labbra rosse – tutto c'era ancora. Soltanto l'espressione era diversa. Tremenda nella sua crudeltà a paragone del biasimo e del rimprovero che vi si leggeva. Come apparivano superficiali i rimproveri di Basil per Sybil Vane! Quanto superficiali e quanto trascurabili! La sua stessa anima lo fissava dalla tela, e lo giudicava. Un'espressione di dolore gli si disegnò sul viso. Gettò la ricca stoffa sul quadro. Mentre faceva questo bussarono alla porta. S'allontanò dal paravento. Entrò il servitore.

«Ecco gli operai Monsieur.»

Capì che doveva sbarazzarsi subito del servo. Non doveva sapere dove intendeva mettere il ritratto. C'era qualche cosa di astuto in lui, aveva uno sguardo intelligente e infido. Sedette alla scrivania, e preparò un biglietto per Lord Henry, chiedendogli di mandargli qualche libro da leggere, e ricordandogli che avevano appuntamento alle otto e un quarto la sera.

«Aspettate la risposta» gli disse consegnandoglielo «e fate entrare gli operai.»

Due o tre minuti dopo fu bussato ancora, ed entrò il signor Ashton in persona, il celebre corniciaio di South Audley Street, insieme a un suo aiutante, giovane, dall'aria rustica. Il signor Ashton era un uomo piccolo, florido, rosso di pelo, e la sua ammirazione per l'arte era notevolmente intiepidita dalla cronica insolvibilità degli artisti con cui trattava. Di regola non lasciava mai il negozio. Aspettava che la gente andasse da lui. Ma faceva sempre un'eccezione per Dorian Gray. In Dorian Gray c'era qualche cosa di affascinante. Vederlo era una gioia.

«In che posso servirvi, signor Gray?» disse, fregandosi le mani grasse e lentigginose. «Ho pensato di prendermi la libertà di venire personalmente. Mi è capitata or ora una meravigliosa cornice, signore. L'ho presa ad una vendita. Fiorentina antica. Roba di Fonthill, direi. Molto adatta per un soggetto religioso, signor Gray.»

«Mi dispiace che vi siate disturbato a venire, signor Ashton. Passerò senz'altro a vedere la cornice – benché in questo momento l'arte religiosa non mi interessi troppo – ma oggi ho soltanto bisogno che trasportino disopra un quadro. È piuttosto pesante, e così pensai di chiedervi un paio dei vostri uomini.»

«Nessunissimo disturbo, signor Gray. Felicissimo di potervi essere utile. Qual è l'opera d'arte, signore?»

«Questa» replicò Dorian, scostando il paravento.

«Potete portarla così com'è, coperta, con tutto? Non vorrei che si scalfisse, salendo.»

«Niente di più facile, signore» disse il gioviale corniciaio cominciando a sganciare il quadro dalle lunghe catene d'ottone cui era sospeso, coll'aiuto del suo operaio. «E ora, dove dobbiamo portarlo, signor Gray?»

«Vi farò strada, signor Ashton, se volete esser tanto gentile da seguirmi. O forse sarebbe meglio che andaste avanti voi. È proprio nella parte alta della casa. Passeremo dallo scalone che è più ampio.»

Aprì loro la porta, ed essi andarono in anticamera, e cominciarono a salire. La cornice rendeva piuttosto ingombrante il quadro, e di quando in quando, malgrado le ossequiose proteste del signor Ashton, che, da commerciante nato, provava un vero e proprio disagio nel vedere un signore a fare qualche cosa, Dorian Gray aiutava.

«È un bel carico da portarsi, signore» ansò l'ometto, quando giunsero all'ultimo pianerottolo. E si asciugo la fronte lucente.

«Un carico terribile» mormorò Dorian, e aprì la porta della camera che avrebbe custodito per lui il singolare segreto della sua vita, e avrebbe celato la sua anima, agli occhi degli uomini.

Non c'era più entrato da oltre quattro anni – dai tempi in cui, bambino, vi giuocava, e poi, più grande, vi andava a studiare. Era una camera grande e ben proporzionata, fatta costruire apposta dall'ultimo Lord Kelso per il nipotino che per la singolare rassomiglianza colla madre, e per altri motivi, egli aveva sempre odiato, e desiderato tener lontano. Parve a Dorian pochissimo mutata. C'era il gran cassone italiano, coi riquadri delle pitture fantastiche e le modanature d'oro vecchio, nel quale tante volte s'era nascosto da piccolo. Nello scaffale c'erano i suoi libri di studio, tutti gualciti. E, dietro, pendeva attaccato al muro quel lacero arazzo fiammingo dove un re sbiadito giuocava a scacchi in un giardino con una regina, mentre una compagnia di falconieri cavalcava in lontananza, portando sui pugni guantati gli uccelli cappucciati. Come ricordava bene tutto! Mentre si guardava intorno affioravano in lui tutti i ricordi della sua infanzia solitaria. Ripensò l'immacolata purità della fanciullezza, e gli parve orribile che in quel luogo dovesse nascondersi il ritratto fatale. In quei giorni lontani e morti non aveva punto pensato a ciò che lo aspettava!

Ma non c'erano in tutta la casa altri posti così sicuri. Egli ne teneva la chiave, e nessun altro vi poteva entrare. Sotto il panno purpureo, il viso dipinto sulla tela poteva divenire bestiale, putrido, impuro. Che importava? Nessuno poteva vederlo. E anch'egli non l'avrebbe visto. Perché controllare il ripugnante disfacimento della sua anima? E poi, dopotutto, non poteva migliorare? Non c'era nessuna ragione perché il futuro dovesse esser così pieno d'infamia. Poteva incontrare un amore che lo purificasse e lo proteggesse da quei peccati che parevano fermentare già nel suo spirito e nella sua carne – quegli strani peccati inespressi, che dallo stesso mistero traevano il loro fascino e la loro ambiguità. Forse un giorno la crudele espressione si sarebbe dileguata dalla bocca rossa e sensuale, e avrebbe potuto mostrare a tutti il capolavoro di Basil Hallward.

No; era impossibile. Ora per ora, e settimana per settimana sulla tela l'effigie sarebbe invecchiata. Poteva sfuggire gli orrori del peccato, ma gli orrori dell'età la minacciavano. Le guance si sarebbero fatte cave o cascanti. Rughe giallastre si sarebbero disegnate attorno agli occhi spenti, e li avrebbero resi ripugnanti, i capelli avrebbero perduto il loro splendore, la bocca assottigliandosi o allargandosi, sarebbe divenuta o sciocca o plebea, come sono le bocche dei vecchi. E poi! La gola grinza, le mani fredde dalle vene azzurrognole, il corpo rattratto, i segni della decadenza che ricordava in quello zio che gli era stato così ostile durante la fanciullezza. Il ritratto doveva essere nascosto. Non c'era scampo.

«Portatelo dentro, per favore, signor Ashton» disse con voce stanca, voltandosi. «Mi rincresce d'avervi fatto aspettare cosi a lungo. Stavo pensando ad altro.»

«Fa sempre piacere riposarsi un momento, signor Gray» disse il corniciaio, che aveva ancora il fiato grosso. «Dove dobbiamo metterlo, signore?»

«Oh, dove volete. Qui; va bene qui. No, non voglio appenderlo. Basta che lo appoggiate al muro. Grazie.»

«Si potrebbe dare un'occhiata all'opera d'arte, signor Gray?»

Dorian trasalì. «Non avrebbe nessun interesse per voi, signor Ashton» disse, tenendogli gli occhi addosso. Era pronto a balzare su di lui e a gettarlo a terra, se avesse osato sollevare la ricca stoffa che nascondeva il segreto della sua vita. «Non voglio disturbarvi oltre. Vi ringrazio infinitamente di esser stato così gentile venendo qui.»

«Non c'è di che, non c'è di che, signor Gray. Sempre ai vostri ordini, signore.» E il signor Ashton scese lentamente la scala, seguito dal suo operaio, che si volse a guardare Dorian con una espressione di timida ammirazione sul viso rosso e goffo. Non aveva mai visto un uomo tanto bello.

Quando il suono dei loro passi si fu allontanato, Dorian chiuse la porta a chiave, e si mise la chiave in tasca. Ora si sentiva al sicuro. Nessuno più avrebbe potuto vedere quella cosa orrenda. Nessun occhio oltre il suo avrebbe potuto guardare la sua vergogna.

Entrando nella libreria vide che da poco erano passate le cinque, e che avevano già preparato il tè. Su un tavolino di legno profumato, riccamente intarsiato di madreperla – un regalo di Lady Radley, la moglie del suo tutore, una graziosa signora che viveva per le sue malattie croniche, ed aveva trascorso l'inverno precedente al Cairo – era posato un biglietto di Lord Henry, e vicino, un libro rilegato in carta ocra, la copertina sciupata e gualcita negli angoli. Sul vassoio del tè era posata una copia della "St. James Gazette". Evidentemente Victor era ritornato. Aveva incontrato in anticamera gli uomini mentre uscivano, non aveva saputo da loro quel che avevano fatto? Si sarebbe certamente accorto che il quadro mancava – se ne era senza dubbio già accorto, mentre preparava il tè. Il paravento non era stato rimesso a posto, e lo spazio bianco del muro colpiva l'occhio. L'avrebbe forse scoperto una notte mentre saliva in punta di piedi a cercar di forzare la porta della camera. Era spaventoso tenersi una spia in casa. Gli avevano raccontato di persone ricche che durante tutta la loro vita eran state costrette a subire i ricatti di servitori che avevano letto una lettera, o ascoltato una conversazione, o raccolto un indirizzo scritto su un pezzo di carta, o trovato sotto un guanciale un fiore appassito, o un brandello di pizzo gualcito.

Sospirò, e dopo essersi versato un po' di tè, aprì il biglietto di Lord Henry. Si limitava a dirgli che gli mandava il giornale, e un libro che poteva interessarlo, e si sarebbe trovato al club alle otto e un quarto. Aprì la "Gazette" svogliato, e la scorse. Un segno in lapis rosso in quinta pagina attirò il suo sguardo. Esso indicava il seguente trafiletto:

 

INCHIESTA PER LA MORTE DI UNA ATTRICE

 

"Questa mattina a Bell Tavern, Hoxton Road, il signor Danby, coroner distrettuale, esperì l'inchiesta sulla morte di Sybil Vane, giovane attrice che da poco tempo recitava al Royal Theatre, Holborn. Si concluse per la morte accidentale. Notevole simpatia venne dimostrata alla madre della defunta, che apparve profondamente commossa, sia durante la sua deposizione, che durante quella del dottor Birrel che aveva praticato la necroscopia."

 

S'abbuiò, e, strappando in due il giornale, lo gettò via, e si mise a camminare per la camera. Com'era brutta tutta questa faccenda! E come la bruttezza rendeva le cose tremendamente vere. S'arrabbiò con Lord Henry perché gli aveva mandato il giornale. Ed era stato stupido da parte sua far quel segno a matita rossa. Victor poteva averlo letto. Sapeva abbastanza l'inglese per questo.

Forse l'aveva Ietto, e sospettava qualche cosa. Ma poi, che importava? Che responsabilità aveva Dorian Gray nella morte di Sybil Vane? Non c'era nulla da temere. Dorian Gray non l'aveva uccisa.

Lo sguardo gli cadde sul libro color ocra che gli aveva mandato Lord Henry. Si chiese che cosa poteva essere. Andò al piccolo mobile ottagonale dai colori di perla, che gli era sempre parso l'opera di curiose api egiziane abituate a lavorare l'argento, e, preso il volume, si adagiò in una poltrona e cominciò a sfogliarlo. Pochi minuti dopo era afferrato da quelle pagine. Era il libro più strano che avesse mai letto. Gli pareva che i peccati del mondo, in splendide vesti, passassero davanti a lui in muto corteo al delicato suono di flauti. Fantasmi intravisti in sogno si facevano reali. Cose che non aveva mai neppur sognato si andavano rivelando.

Era un romanzo senza intreccio, e con un solo carattere, era lo studio psicologico di un giovane parigino che aveva trascorso la vita cercando di realizzare nel decimonono secolo tutte le passioni e i costumi che appartenevano agli altri secoli, e di riassumere in sé tutte le esasperazioni attraverso le quali era passato lo spirito del mondo, prediligendo per la loro artificiosità le stesse rinunce che gli uomini hanno stoltamente chiamate virtù, oppure le spontanee ribellioni che gli uomini saggi si ostinano a definire peccati. Lo stile nel quale era scritto, era singolare e prezioso stile, contemporaneamente lucente ed oscuro, pieno d'argot e di arcaismi, di termini tecnici, e di ricercate perifrasi, che distingue le opere di alcuni dei più grandi artisti della scuola francese dei Décadents. C'erano metafore mostruose come orchidee, e ne avevano anche il sottile colore. La via dei sensi era descritta coi termini della filosofia mistica. A volte non si capiva se quelle pagine rispecchiavano le estasi spirituali di un santo medievale, o le confessioni morbose di un peccatore moderno. Era un libro velenoso. Un greve odore d'incenso saliva dalle sue pagine a turbare il cervello. La stessa cadenza delle frasi, la monotonia sottile della loro musica, piena di echi complessi, e di ritmi preziosamente ripetuti creava nella mente del giovane, mentre passava da capitolo a capitolo, una specie di estasi, una morbosità sognante, che lo faceva inconscio del morire del giorno, e del cadere delle ombre.

Senza nubi, trafitto da una stella solitaria, un cielo di verderame splendeva oltre la finestra. Continuò a leggere in quella penombra, finché non ci vide più. Quando il cameriere lo ebbe ripetutamente avvertito che era tardi, si alzò, andò nella camera accanto, mise il libro sul piccolo tavolo fiorentino vicino al letto, e cominciò a vestirsi per la cena.

Erano quasi le nove quando arrivò al club. Trovò Lord Henry tutto solo, seduto, con un'aria straordinariamente annoiata.

«Mi dispiace infinitamente, Harry» esclamò «ma è stata tutta colpa vostra. Il libro che mi avete mandato mi interessava a tal punto che ho lasciato passare il tempo senza accorgermene.»

«Sì; mi ero immaginato che vi sarebbe piaciuto» rispose il suo ospite alzandosi.

«Non ho detto che mi è piaciuto, Harry. Ho detto che mi interessava. C'è una gran differenza.»

«Ah, se avete scoperto questo, avete scoperto parecchio» sussurrò Lord Henry con il suo curioso sorriso. «Venite, andiamo a mangiare. È tardissimo, e temo che lo champagne sarà troppo gelato.»