L’uomo: dalla terra alla bottiglia
(il vino, la birra e l’olio d’oliva)

Signore e signori, vi ringrazio di esservi ricordati della mia arca. Mi piacerebbe tanto tornare lì con voi per costruirne una ancora più grande, l’arca del Terzo Millennio. Avete capito bene, sono Noè. Sì, proprio quello, il Noah del libro della Genesi. È un onore che abbiate pensato a me per narrare la storia del vino, della birra e dell’olio di oliva. Ne avete mille di ragioni. Come certamente saprete, appena riaperta la porta dell’arca, dopo 40 giorni di tempeste, mandai fuori una colomba, perché perlustrasse la zona e verificasse la fine del diluvio. Tornò poco dopo con un rametto di ulivo nel becco, era il segnale del ritorno al sereno. C’era già l’ulivo sul monte Ararat.

Secondo motivo: appena sceso dall’arca mi insediai sui declivi di quel monte in Armenia e presi a coltivare la terra. La prima cosa che piantai fu la vite, produssi il vino e, ignaro degli effetti di quella meravigliosa bevanda, mi ubriacai. Ancora me ne vergogno, passai il resto della mia vita a predicarne la moderazione. Tuttavia, vi confesso, fu un’esperienza, come dire… inebriante!

Per quanto riguarda la birra il capitolo della Genesi dell’Antico Testamento non ne fa menzione, ma vi garantisco che avevo portato con me un bel po’ di semi d’orzo. E poi – saprete anche questo certamente – è stato rinvenuto un testo mesopotamico del Terzo Millennio avanti Cristo dove viene narrato il Diluvio universale in una versione del tutto simile a quella originale, la mia. Ebbene, il Noè sumerico portò con sé alcune anfore di birra, la sua bevanda preferita. Scritto nero su bianco o, per meglio dire, scolpito sull’argilla. Bricconcelli e copioni questi mesopotamici, ma li perdono. In fondo non hanno fatto che dare lustro all’originale, cioè al sottoscritto. E poi non disdegno la birra neppure io. Dunque chi meglio di me poteva parlarvi della nascita del vino, della birra e dell’olio d’oliva?

Ho scoperto che anche ai vostri tempi c’è gente che mi copia. Ma comprendo pure questi signori di Slow Food, anzi li ammiro. C’è un bel diluvio in giro nel mondo dell’agricoltura, anche oggi. Un diluvio costituito da una squilibrata distribuzione della ricchezza – ingiusta verso i contadini –, da organismi geneticamente modificati che distruggono la biodiversità, da animali d’allevamento maltrattati, da chimica impiegata in eccesso e potrei continuare. Qualcuno che tenga duro sulle tradizioni e sul rispetto serve. Mi piace questa nuova arca e son contento che mi abbiate chiamato. Avrei potuto scomodare Bacco o Dioniso per accompagnami in questa chiacchierata, invece ho pensato di fare diversamente. Ho notato che nel vostro mondo, il mondo dell’agroalimentare contemporaneo, chi si occupa di vino, di birra e di olio è gente speciale. Sono persone che affrontano il loro mestiere con spirito alto, occupandosi anche di altri valori, come la filosofia, l’arte, la storia, l’etica. Ho conosciuto piccoli e medi produttori che si sentono ancora artigiani ma nello stesso tempo sono riusciti a dare lustro ai loro prodotti non solo per la qualità oggettiva. Sono stati capaci di caricarli di valori immateriali che vengono percepiti con piacere da chi li consuma.

È grazie a questa gente che vino, birra e olio sono entrati quasi nel mito, molto più di altri generi agroalimentari. Se ne parla molto, se ne favoleggia. Ed è di questo aspetto che vi voglio raccontare, vorrei intrattenervi sulla storia, sulla visione. Dunque ho deciso di non cercare Bacco. Ho invitato tre produttori contemporanei. Di antico ci sono già io, pensate che avevo già compiuto 600 anni quando sono salpato con l’arca.

Vi presento Francesca Planeta, lei coltiva la vite e fa il vino in Sicilia; Teo Musso, che coltiva orzo, luppolo e produce birra in Piemonte; infine, Franco Boeri, lui vive tra gli ulivi e produce olio extravergine a Badalucco, un paesino dell’entroterra taggiasco, in Liguria. Grazie di essere venuti, ragazzi. Lo so che, mentre introducevo, già vi beccavate su quale sia il prodotto più mitico tra i vostri, ognuno convinto che lo sia il proprio. Ma andiamo per ordine, la prima domanda che vi faccio è: Chi è nato prima? Il vino, la birra, oppure l’olio di oliva?

TEO (parte a raffica, lasciando gli altri a bocca aperta): “Ma la birra naturalmente, non c’è storia! La birra ha almeno duemila anni di vantaggio sul vino, e non dico quanti sull’olio! Il fatto è che il primo prodotto della terra coltivato fu l’orzo e la birra nacque di conseguenza...”.

FRANCESCA (interrompe Teo): “Questo secondo gli studiosi, ma visto che parliamo di mito... sai che qualcuno sostiene che Eva offrì ad Adamo uva anziché la banale mela? E poi lo ha appena detto Noè, che piantò per prima la vite. Dunque, tenendo conto del mito, vince il vino... non vi è dubbio!”.

FRANCO (era da un po’ che cercava di intervenire): “Sentite, voi due, non cominciate a fare i fighetti. Senza scomodare Adamo ed Eva e neppure l’Antico Testamento, con tutto il rispetto Maestro, a vincere per anzianità è l’olio di oliva. Ci sono prove che lo fanno risalire a novemila anni fa...”.

Fermi, ragazzi, fermi! Così non si va da nessuna parte e soprattutto nessuno capisce niente. Facciamo così, andiamo per ordine e, mi raccomando, senza interruzioni. Francesca, ti do 5 minuti per raccontarci la storia del vino.

FRANCESCA: “È una storia meravigliosa, accompagna l’uomo da sempre. Già nella Preistoria si mangiava uva selvatica, ce n’era in abbondanza. A volte grappoli dimenticati secernevano succo che in qualche modo fermentava. Quel succo, bevuto, dava piacere. Era il primo vino della storia. Sappiamo con certezza che 13.000 anni fa in Georgia viveva la Vitis Vinifera, madre di tutti i vitigni moderni. Ma fu in quella terra tra il Tigri e l’Eufrate, la Mezzaluna fertile, terra madre di tutte le fermentazioni, che nacque l’idea di pigiare l’uva e farne fermentare il succo per creare una bevanda alcolica. Stiamo parlando di 3 millenni prima di Cristo, dunque 5000 anni fa. Toccò agli Egizi descrivere per primi, con i loro geroglifici, la produzione del vino. Esistono reperti a gogò! Nella tomba di Tutankhamon – stiamo parlando di 1300 anni prima di Cristo – furono rinvenute, poste come corredo funebre, alcune anfore piene di vino. Ecco provata l’importanza del vino per gli antichi Egizi.

Sembra che la vite coltivata sia entrata in Europa attraverso la Sicilia, la mia amata Sicilia! Non c’era terra migliore. I Greci si inventano addirittura un Dio, Dioniso, per il vino. Ma a fornire l’impulso più importante alla storia al vino furono i Romani. Nessun altro popolo ha amato il vino come gli antichi romani. Piantarono viti in tutt’Italia, e poi in Francia e in Spagna, in seguito alle conquiste. In questo senso si può sostenere che a inventare il vino, come prodotto popolare ma di qualità, è stata l’Italia, l’Impero Romano per la precisione. Plinio il Vecchio dedica al vino un intero libro. Ci racconta, per esempio, le differenze tra il vino campano (il più bevuto), quello calabro (non per niente allora quella regione si chiamava Enotria) e quello di Alba Pompeia (le attuali Langhe), che era il suo preferito. Il vino dei Romani era molto più alcolico del nostro, più torbido e veniva conservato e arricchito con spezie di vario tipo. Si beveva allungato con l’acqua, in genere due parti di acqua e una di vino.

Alla caduta di Roma anche il vino cade in disgrazia. Il cristianesimo, che si diffonde rapidamente in Europa, lo accusa di portare ebbrezza. L’islamismo nei paesi arabi lo vieta e cancella le coltivazioni della vite. Diciamo che le religioni (perdonami, Noè) non sono mai state alleate del vino. Paradossalmente furono proprio i monaci nel Medioevo a tenerlo in vita. Sensazionale e molto esplicativa è la frase di San Benedetto, il padre del monachesimo: “Ai monaci il vino assolutamente non converrebbe; pure, poiché ai nostri tempi è difficile che i monaci ne siano persuasi, anche a ciò consentiamo, in modo però che non si beva fino alla sazietà”. Molti dei suoi lo presero in parola, occupandosi di vino e migliorando le tecniche di vinificazione.

Con il Rinascimento il vino torna protagonista in tutta Europa e nel sedicesimo secolo la Francia mette la quarta, pone il vino al centro della propria cultura agroalimentare. Individua i vitigni migliori e maggiormente adatti ai propri terreni, affina le tecniche di vinificazione. Fu nuovamente un monaco, stavolta francese, Dom Pérignon, a stupire il mondo inventando nel 1688 il vino più celebre di tutti i tempi: lo Champagne. Nel diciottesimo secolo l’enologia assume i caratteri moderni. Con il vetro prodotto industrialmente e i tappi di sughero, il vino acquista l’impulso che lo porterà ai traguardi di oggi. Nel diciottesimo e diciannovesimo secolo in Italia, dove l’enologia sostanzialmente è nata, l’attenzione per il vino è stata assai inferiore rispetto a quella francese. Ancora ne paghiamo le conseguenze.

Ma nella seconda parte del secolo scorso la vera patria del vino, campione mondiale della biodiversità vitifera (vi ricordo che in Italia vivono oltre 1200 vitigni autoctoni, mentre in Francia superano di poco i 200), cambia marcia a sua volta. Investe sulle vigne e nelle cantine, producendo vini sempre più all’altezza della propria storia.

Negli ultimi vent’anni in Italia è partito un processo, portato avanti soprattutto da migliaia di piccoli e medi produttori, che abbina alla grande qualità il rispetto della terra e l’attenzione ai vitigni autoctoni. Stiamo ancora rincorrendo, ma il traguardo verso il primato è a portata di mano. Sono molto ottimista sul futuro del vino in Italia”.

Grazie, Francesca, mi è venuta sete... di vino buono. Scherzi a parte, devo ammettere che ne sai più di me sul vino. Parliamo di birra ora? Forza Teo, tocca a te.

TEO: “La chiusura di Francesca mi ha ispirato e voglio cominciare dalla fine. Io non sono ottimista solo sul futuro, lo sono sul presente. In Italia abbiamo oltre 700 birrifici artigianali, di cui la maggior parte nati negli ultimi cinque anni. Producono birra di alta qualità e ora esportano perfino nei Paesi da sempre vocati alla birra. Io ho iniziato nel 1986, aprendo un pub dove servivo birre artigianali provenienti dall’Europa. Poi, nel 1996, l’ho trasformato in un brewpub con produzione e mescita diretta, e credo di aver segnato la strada dimostrando che si può produrre ottima birra con metodo artigianale a identità italiana e non pastorizzata. Ora coltivo orzo e luppolo in Piemonte, Marche e Basilicata, il mio birrificio è quasi completamente autonomo per le materie prime. Numerosi altri giovani mastri birrai italiani stanno diventando agricoltori. Trovo che sia un modo intelligente e molto italiano di rispondere al fenomeno mondiale della concentrazione che, nel mondo della birra, sta assumendo dimensioni impensabili: le prime quattro multinazionali controllano gran parte del mercato mondiale.

E pensare che un tempo praticamente ogni famiglia produceva la sua birra. Sai, Francesca, che la storia della birra l’hanno fatta le donne? Tutto nasce almeno 6500 anni fa. L’uomo scelse di coltivare orzo perché era più facile del grano. Se ne produceva in quantità spesso superiori al consumo. Spettava alle donne trovare il modo di conservarlo, e provarono anche a metterlo in acqua. I lieviti selvaggi entrarono in azione, ed ecco la birra: nata per caso. Fecero provare quel liquido torbido ai loro uomini che si sentirono subito più energici, addirittura più felici. Gli uomini continuarono a chiedere quella magica bevanda e le donne tornarono a produrne, con metodi sempre migliori. Ai tempi dei Sumeri la produzione della birra divenne centrale, sappiamo che esistevano le ‘case della birra’, anche queste rigorosamente gestite da donne. Cinquemila anni fa le donne producevano già vari tipi di birra: con orzo, farro e poi miste, anche arricchite e dolcificate con datteri. La birra divenne così importante da costituire il salario base degli operai: tre litri al giorno. Ah, quanta birra avrei venduto allora! Ma ripensandoci non me l’avrebbero lasciata produrre, essendo maschio. Pensate che i Sumeri, circa quattromila anni fa, emanarono la prima legge che regola produzione e vendita della birra. Era prevista la condanna a morte per chi non rispettava i criteri di fabbricazione o apriva un locale di vendita senza autorizzazione. Gli Egizi, qualche secolo dopo, trasformarono la birra in un grande business. La maggior parte delle tasse arrivava dalla birra. Gli operai che costruivano piramidi avevano diritto a due anfore al giorno.

Ora vi racconto un fatto incredibile. Le donne egizie scoprono che, masticando i chicchi di orzo, la birra fermenta più rapidamente. C’erano donne che passavano la giornata a masticare e sputare. Ancora oggi questa pratica è in uso in alcune comunità dell’America Latina, specie in Perú.

La donna continua a essere la protagonista sino al Medioevo. I Germanici stabiliscono che spetta solo alle donne essere le tenutarie della produzione e del consumo della birra. In Gran Bretagna nascono le famose “Ale-Wives” che producono e vendono una grande birra. I Galli, dove il mercato della birra è ancora largamente dominato dalle donne, migliorano fortemente la produzione con piastre riscaldate per la cottura e l’introduzione di botti per la conservazione, che arrivava a otto mesi. Nel Medioevo, le chiese e i nobili si assicurano la produzione ma, quando il mercato cresce, aprono ai privati, con pesanti tasse. Nel dodicesimo secolo arriva il luppolo. E fu ancora una donna, suor Hildegard dell’abbazia di Rupertsberg, in Germania, a scoprire che, grazie al luppolo, si arrestava la putrefazione e si allungava la vita della birra, donandole oltre tutto un sapore migliore. Nel 1516 Guglielmo IV di Baviera emana l’Editto della Purezza: solo acqua, orzo e luppolo. I monaci ebbero un ruolo cruciale, anche nella birra, in fatto di sviluppi tecnici. E poi ne bevevano in quantità impressionanti, in alcuni conventi anche dai 5 agli 8 litri al giorno. Tanto contarono i monaci che, come certo saprete, esistono ancora oggi i famosi padri trappisti, capaci di creare una birra straordinaria. Con la rivoluzione industriale, con il vetro e soprattutto con l’individuazione a microscopio del lievito di birra (nel 1883 la Carlsberg isola un’unica cellula di lievito), nasce un controllo totale sui processi di produzione e dunque ha origine la birra moderna, come la conosciamo oggi.

Furono gli Etruschi a portare l’orzo in Italia, e di conseguenza la birra. Gli antichi Romani la producevano ma la consideravano pagana e plebea. Tacito parla della birra dei Germani come “vinus corruptus”, cioè andato a male. A quei tempi c’erano dei piccoli birrifici artigianali creati da appassionati (come me), che conducevano una quotidiana battaglia con il vino, la bevanda nobile. Un po’ come avviene ancora oggi in Italia. La birra torna protagonista con i Lanzichenecchi che saccheggiano Roma nel 1527. Uno dei primi birrifici italiani è la Spluga di Chiavenna, che apre nel 1840 e prepara la strada a molti produttori austriaci che vengono in Italia a produrre birra. Due nomi per tutti: Würher e Dreher. Ben presto vengono imitati da imprenditori italiani, come Peroni e Menabrea. Oggi le grandi multinazionali straniere della birra si sono comprate praticamente tutti gli stabilimenti italiani, con rarissime eccezioni come la Forst di Merano, proprietaria anche di Menabrea a Biella. Ma per fortuna queste fabbriche italiane sono dirette da italiani, i quali mantengono così una certa indipendenza in fatto di qualità e identità. E poi ci siamo anche noi, piccoli artigiani, siamo in tanti e cresciamo. Sperimentiamo di continuo e lanciamo nuovi prodotti, sempre più raffinati. La birra italiana è una chicca nel mondo”.

Piccoli ma buoni! Bravo Teo. Ora tocca a Franco, anche tu sei piccolo. Ma l’olio extravergine italiano resta il primo al mondo, vero?

FRANCO: “Come qualità non vi è dubbio. In fatto di quantità gli spagnoli ci hanno superato da qualche anno. Loro hanno quasi il doppio di ettari a ulivo e aziende molto più grandi. Anche numerosi marchi italiani, tra i più venduti nei supermercati, sono di proprietà spagnola. L’Italia detiene il primato mondiale di cultivar di olive: più di 500 specie autoctone, contro le 70 della Spagna. La nostra biodiversità in fatto di olive è risaputa e consacrata. In Italia esistono più di 6000 frantoi di cui il 23% continua ad adottare il sistema tradizionale a pressione. È un fatto unico al mondo. La maggior parte di questi frantoi produce un olio di altissima qualità e con caratteristiche di profumi e sapori anche profondamente diverse a seconda della regione, direi addirittura a seconda del comprensorio, dove si raccolgono le olive.

Ma permettete anche a me di andare per ordine. Nella città di Haifa, in Israele, sono state trovate tracce che dimostrano inequivocabilmente coltivazioni di ulivi e produzione di olio risalenti a settemila anni prima di Cristo. Ragazzi, stiamo parlando di novemila anni fa. Passa qualche migliaio di anni e troviamo gli Armeni e gli Egizi che coltivano l’ulivo e frantoiano l’olio con metodi primordiali ma efficienti per quei tempi. Usano l’olio non solo per cucinare ma anche per produrre cosmetici, medicinali e combustibile. Ma furono i Greci prima e i Romani poi a fare dell’olio d’oliva la base della dieta mediterranea. In Attica, nella pianura vicino ad Atene, le distese di piante di ulivo erano interminabili. La Grecia, già mille anni prima di Cristo, lancia l’olio come principale prodotto della propria civiltà. Attraverso la Magna Grecia introducono la pratica dell’olio d’oliva in Italia, partendo da Taranto e Sibari.

I Romani imparano dai Greci l’arte di coltivare e frantoiare le olive, adottano l’anfora panatenaica, inventata ad Atene, per conservare quel prezioso liquido. Piantano ulivi in tutta la penisola, cominciando dalla Sabina, che diventa il polmone della produzione per Roma. Ma non dimenticano il resto del nostro Paese, quasi dovunque molto vocato alla coltivazione delle olive. Per esempio nel mio territorio, la Liguria, c’è un ambiente ideale per produrre olio di grande qualità. Plinio il Vecchio descrive minutamente l’olio sapido della Sabina a confronto di quello delicato taggiasco, proprio della mia terra (ah, quanto ne vado fiero!). Columella, nel primo secolo dopo Cristo, descrive nei particolari il frantoio romano, assai simile ai nostri moderni. A Roma, come nell’Impero, nelle case patrizie si usava solo olio extravergine di oliva per condire, il migliore. Quello africano veniva impiegato per illuminare. Come per la vite e il vino, i Romani portarono la coltivazione di olivi e l’arte della frantoiazione in Francia e in Spagna. Ci dovrebbero benedire per quel regalo!

Anche per l’olio il Medioevo è stato un periodo buio. Riparte alla grande dopo il Mille e conosce un momento di gloria nel Rinascimento. Il governo mediceo di Firenze fornisce un grande impulso all’olivicoltura. Offre gratuitamente grandi estensioni purché si piantino ulivi. Lorenzo non fu magnifico solo per l’arte, aveva capito tutto sul futuro dell’agroalimentare del suo territorio e ancora oggi la Toscana ne gode.

Il diciottesimo è il secolo d’oro per l’ulivo e l’Italia assurge a protagonista. In quegli anni, mentre nel vino, come ci raccontavi tu Francesca, i francesi sono più bravi di noi e mentre nella birra, Teo ci ha ricordato, non c’è gara con i popoli del Nord Europa, invece l’olio italiano è considerato unanimemente il migliore al mondo.

Questo primato permane ai nostri giorni, ma dobbiamo ammettere che spagnoli, francesi e greci ne hanno fatta di strada. Ora ci si mette pure la Tunisia a fare un olio non certo come il nostro, ma direi abbastanza buono. Noi, produttori italiani di olio extravergine di oliva, siamo ancora i numeri uno in fatto di qualità ma, per non perdere questo primato, dobbiamo darci da fare. Migliorare continuamente la qualità e la sostenibilità del nostro prodotto. Pur essendo noi una miriade di piccoli produttori (è una dolce condanna degli italiani in ogni campo dell’agroalimentare) dobbiamo restare uniti per spingere chi ci rappresenta in Europa e nel mondo a creare regole chiare che distinguano meglio il nostro prodotto extravergine e 100% italiano (dalla pianta alla bottiglia) rispetto a tanti oli che vengono spacciati per italiani. Dobbiamo puntare sulla nostra biodiversità, sulle nostre cultivar autoctone, spiegando al mondo che l’Italia è l’unico Paese in grado di fornire sempre l’olio giusto per i diversi piatti. Pur restando orgogliosi dei nostri territori e delle nostre radici, dobbiamo andare nel mondo insieme a parlare di olio. Siciliani con liguri, toscani con pugliesi, campani con lombardi e così via. Ora ci serve la Politica, sì, quella con la P maiuscola, portata avanti da noi e da chi ci rappresenta. Perdonami, Noè, se l’ho buttata in politica alla fine, ma anche ai tuoi tempi la mancanza di vedute comuni, di verità e di etica ha piantato un bel casino, un diluvio in pratica. Farei volentieri a meno di salire sull’arca”.

Tranquillo, Franco, ho capito benissimo ciò che intendi. Sono pratico di casini, sapessi quanti ne ho dovuti risolvere! Bene, grazie ragazzi. Siete stati molto bravi a farci scoprire i vostri rispettivi mondi. Sono storie che vengono da lontano. Ma con gente come voi, Francesca, Teo e Franco, con l’amore e la tenacia che dimostrate, andranno ancora più lontano. Sempre più. Vi auguro con tutto il cuore di proseguire con successo nella strada che avete intrapreso, quella di interpretare la tradizione e la personalità della vostra terra con il rispetto che sentite di dovergliene. Tuttavia, qualora vi trovaste in difficoltà, fatemi un fischio. Sarò pronto a tornare con la mia arca e a salvarvi da qualsiasi diluvio.

Ricordiamoci il futuro: Sette storie e un riassunto
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