Parte III

Personaggi italiani sulla scena francese

Nelle due parti precedenti l'Italia è entrata solo di straforo. In questa il suo ruolo non sarà maggiore, tuttavia si cercherà di mostrare che alcuni personaggi di origine italiana hanno giocato un ruolo importante, o per lo meno significativo nel contesto di quegli anni. In questo caso la ricerca è soltanto agli inizi, come menzionato nell'introduzione, ma già indica piste da esplorar. Meritano infatti di essere ristudiate le relazioni tra le casate francesi e quelle italiane, nonché la presenza in Francia di così tanti italiani. Inoltre gli Archivi Segreti Vaticani si rivelano uno straordinario forziere, nel quale si trova un vero tesoro di informazioni sulla Francia delle guerre di religione, nonché sugli italiani oltralpe. Infine si intuisce che nell'ambito della presenza italiana, dobbiamo affrontare anche le vicende dei diplomatici e degli amministratori inviati dalla Santa Sede a Parigi o ad Avignone.

Anna d'Este

La vita di Anna d'Este (Ferrara, 16 novembre 1531 - Parigi, 17 maggio 1607) ci rivela la vicenda quasi romanzesca di una donna, mandata in terra straniera per ragioni dinastiche, che sa ritagliarsi un proprio spazio diplomatico e sentimentale in mezzo alle guerre di religione francesi.
Nell'estate del 1547 Enrico II di Francia invia Lancelot de Carle a Ferrara per sondare il duca Ercole II. In particolare l'uomo del sovrano francese deve proporre al duca il matrimonio tra sua figlia Anna d'Este, cugina germana del re di Francia, e Francesco di Lorena, figlio di Claudio di Guisa. Ercole II tergiversa, accampando la giovane età della figlia. In realtà il duca l'ha già rifiutata a Orazio Farnese, nipote del pontefice Paolo III, e sta tentando di darla in sposa a Sigismondo II, erede al trono polacco. Vista la situazione Enrico II decide d'intervenire personalmente e, nell'agosto dell'anno successivo, convoca in Piemonte il duca di Ferrara, che è infine convinto dalla promessa che il pagamento della dote sarà anticipato dalla corona francese. Il 15 settembre è quindi celebrato il matrimonio per procura, mentre le nozze vere e proprie devono attendere il 16 dicembre 1548.
Anna si trasferisce così in Francia, dove funge da emissaria del padre. Nel frattempo dà al marito sette figli e una figlia. Impegnata dalle gravidanze, che si succedono quasi senza soluzione di continuità, la giovane ferrarese rimane ai margini della corte francese, pur legandosi con Caterina de' Medici, consorte di Enrico II. Lentamente, però, si avvicina al marito che inizia a seguire nelle campagne militari e negli incontri diplomatici. Alla fine degli anni 1550 rompe addirittura con la famiglia paterna, ritenendo che essa non compia quanto necessario per sostenere l'ascesa francese dei Guisa.
Il 1 marzo 1562 Anna è a fianco del marito, quando questi dà il via al massacro dei protestanti di Vassy. La duchessa dichiara in seguito di temere una rappresaglia, ma i Guisa la invitano a non preoccuparsi. Invece, neanche un anno dopo, Francesco di Lorena è mortalmente ferito dal protestante Jean Voltrot. Anna accorre al capezzale dello sposo, che le consiglia di a rimettersi alle decisioni del re. Il 26 settembre 1663 la giovane vedova accusa invece pubblicamente Gaspard de Coligny di essere il mandante di Voltrot. Carlo IX, il figlio di Caterina de' Medici ed Enrico II, desidera, però, arrivare alla pace e non vuole ascoltare le accuse di Anna. Anzi questa è obbligata a riconciliarsi con il Coligny.
In cuor suo Anna non rinuncia a vendicarsi, ma nel frattempo decide di trovare un altro marito, che la metta al riparo da nuovi attacchi. Così nel 1566 sposa Giacomo di Savoia, duca di Nemours, un uomo d'arme da sempre legato ai Guisa. Dal nuovo matrimonio nascono altri due figli e la vendetta pare allontanarsi per sempre. Ma nel 1572 Caterina de' Medici, all'insaputa di Carlo IX, chiede ad Anna di eliminare Coligny. La duchessa di Nemours ne discute con i figli di primo letto ed Enrico di Lorena, suo primogenito e duca di Guisa, le suggerisce di uccidere di sua mano il loro avversario. La duchessa non si fida, però, della propria abilità di tiratrice e assolda un sicario, che, come abbiamo visto nella prima parte, riesce soltanto a ferire Coligny. La responsabilità di Anna è lampante, tanto che la duchessa teme un'immediata e violenta ritorsione. Senonché Coligny è trucidato assieme alla maggioranza dei protestanti francese nella già menzionata notte di s. Bartolomeo.
Negli anni successivi Anna ritrova dunque la tranquillità e può dedicarsi alle faccende familiari, complicate dalla necessità di contemperare i desideri e le richieste dei figli di primo letto e di secondo letto, nonché di un figlio illegittimo del secondo marito. Nel frattempo si riavvicina a Caterina de' Medici e nel 1579, per favorirla, seda il contenzioso tra il cardinale Luigi d'Este, suo fratello, e Giano Fregoso, vescovo di Agen. In cambio Caterina fà ratificare a Enrico III la cessione della contea di Tenda a Emanuele Filiberto di Savoia, cugino del duca di Nemours.
Anna scopre allora che grazie al fratello cardinale può proporsi quale mediatrice tra la corte francese e la Santa Sede. Iniziò per lei un periodo di notevole prestigio, che la vede addirittura manovrare per far succedere al fratello Alfonso II, duca di Ferrara, il nipote Carlo di Lorena, figlio di Enrico duca di Guisa. La morte del marito nel 1585 e quella del fratello Luigi nel 1586 gettano all'aria questi piani e Anna si trova nuovamente nei guai.
Caterina de' Medici inizia infatti a osteggiare le mire di Anna per i due figli avuti dal duca di Nemours. Allo stesso tempo, i figli di primo letto radicalizzano la propria posizione antiprotestante, contro il volere della madre. Nel dicembre 1588 Anna viene a sapere che Enrico III di Francia vuole uccidere Enrico di Guisa. Avverte il figlio nella notte tra il 22 e il 23 dicembre, ma questi non vuole crederle. La mattina successiva cade così sotto il pugnale dei sicari del re ed è seguito il giorno dopo dal fratello, il cardinale Luigi di Lorena. Enrico III fa inoltre arrestare Anna, il figlio primogenito del defunto duca di Guisa e Charles-Emmanuel de Savoie. Quest'ultimo riesce a fuggire, mentre la duchessa è imprigionata nel castello di Blois, quindi trasferita in quello di Amboise e infine liberata.
Tornata a Parigi si rende conto che lo spazio di manovra è molto ridotto e che la guida dei Guisa è ormai in mano al duca di Mayenne. Forse per questo appare meno combattiva del solito nella divisione dei beni del cardinale Luigi d'Este. Nel frattempo i figli di primo e di secondo letto di Anna si affrontano violentemente per godere la parte dell'eredità toccata alla madre.
Nel 1595 si spenge Charles-Emmanuel de Savoie. Due anni dopo con la morte senza eredi di Alfonso II si estingue invece il ramo principale della famiglia d'Este. Nonostante queste disgrazie, agli inizi del nuovo secolo la vecchia duchessa è ancora al centro della ragnatela diplomatica che collega Roma e Parigi. E' quindi trattata con riguardo dal nuovo re, Enrico IV.
Nel 1602 Vincenzo Ungarino, segretario del nunzio a Parigi, scrive che la vecchia duchessa sta perdendo la risolutezza che l'ha contraddistinta in gioventù. Nel 1604 altre fonti segnalano l'inizio del decadimento mentale. Negli ultimi anni della sua vita Anna si chiude nel palazzo parigino dei Nemours, dove infine muore il 17 maggio 1607. Ha nel frattempo chiesto e ottenuto che il suo cuore sia portato al castello di Joinville e posto accanto al primo marito. Il suo corpo è invece sepolto a Notre-Dame di Annecy nella tomba del secondo marito. Le sue viscere sono infine inumate nella chiesa des Augustins a Parigi, dove è letto un appassionato elogio funebre di Severin Bertrand.
L'eco di questo elogio, rafforzata da quanto aveva detto su di lei il signore di Brantôme, nelle Vite delle dame galanti (1583-1584), e di un sonetto di Pierre de Ronsard rimane viva a lungo e ispira le lodi postume alla bellezza e al coraggio della duchessa. E' stato anche ipotizzato che Marie Madeleine, contessa de La Fayette, si sia ispirata ad Anna d'Este per raffigurare la protagonista di La principessa di Clèves (1678). La bellezza di Anna d'Este è testimoniata dai numerosi ritratti che la duchessa si è fatta fare nel corso della sua vita. Essi tuttavia non rendono conto dell'abilità con la quale Anna d'Este ha saputo destreggiarsi, mantenendo fede agli impegni presi con la famiglia paterna e agli obblighi contratti con le famiglie dei due mariti.

Domenico Grimaldi

Domenico Grimaldi nasce a Genova nella prima metà del Cinquecento da una delle più importanti famiglie locali. Suo padre, Giambattista, ha combattuto per Carlo V e numerosi suoi fratelli servono la corona spagnola. Domenico è invece avviato alla carriera ecclesiastica, ma non per questo abbandona le tradizioni familiari: anzi, servendo la Chiesa, ha modo di combattere sia sul mare, sia sulla terra.
Nell'inverno del 1570 Pio V lo incarica di approntare le galere per la guerra ai turchi e, quale commissario della flotta pontificia, Grimaldi segue Marcantonio Colonna nella campagna navale, che porta alla vittoria di Lepanto. Il giovane commissario pontificio combatte così a fianco dei fratelli, che hanno armato due galere della squadra genovese. La sua campagna non è, però, gloriosa. Le sue lettere a Roma rivelano soprattutto le preoccupazioni di chi deve occuparsi del vettovagliamento e tratta con i mercanti siciliani, veneziani e ragusani per ottenere vino e viveri al prezzo più basso. Inoltre Grimaldi è accusato da Marcantonio Colonna d'incompetenza e obbligato a discolparsi davanti al cardinale Tolomeo Galli, segretario di stato di Gregorio XIII. Riesce a scusarsi adducendo a motivo della scarsità delle vettovaglie, i pochi fondi affidatigli
In ogni caso il papa apprezza l'impegno del giovane genovese, che, al ritorno a Roma, è nominato referendario delle due segnature e diviene un funzionario della curia pontificia. Il suo destino si allontana quindi dai campi di battaglia, ma pochi anni dopo torna a calcarli in Francia. Quest'ultima è allora divisa, come abbiamo visto, dalle guerre di religione e gli ugonotti minacciano i possedimenti avignonesi del papa. Il 18 marzo 1577 Grimaldi è quindi nominato rettore del Contado venassino e gli è confidata l'autorità straordinaria di commissario per il tempo della guerra. Suo compito precipuo è quello di fermare le aggressioni ugonotte. Il genovese mostra di meritare la fiducia accordatagli e, dopo aver convocato a Carpentras la nobiltà cattolica, guida un'armata italo-francese alla conquista di Menerbes, roccaforte ugonotta.
Negli anni successivi si dedica alla difesa dei confini del Contado venassino e al mantenimento dell'ordine interno. In particolare cerca di prevenire le discordie fra i nobili locali e a tal scopo interrompe ai primi del 1580 un duello alle porte di Carpentras. Uno dei due contendenti, Esprit Suquet, signore di Maizan, protesta con vemenza e poca cordialità; per tutta risposta Grimaldi lo stende con un colpo di piatto.
Ripresosi, Suquet sfida il genovese, chiedendo di lavare con il sangue l'offesa subita. Il funzionario pontificio deve ovviamente declinare la sfida e ricorre al cardinale d'Armagnac, co-legato di Avignone, per far calmare Suquet. Quest'ultimo finge di accondiscendere e chiede addirittura scusa al rettore del Contado venassino, ma in realtà medita la vendetta. Poco tempo dopo Grimaldi scorta, assieme al fratello Tommaso e a venti cavalieri, Henri de Valois-Angoulême, figlio naturale di Enrico II. Appena fuori Avignone, Suquet piomba con i suoi sulla piccola scorta e, grazie al numero preponderante, uccide quattro cavalieri e Tommaso Grimaldi. Domenico si difende bravamente e riesce a salvarsi, nonostante che gli abbiano abbattuto il cavallo.
Rientrato in città, organizza l'inseguimento dell'assalitore, ma questi abbandona i possedimenti pontifici e al rettore del Contado venassino non resta che sequestrargli i beni. La vicenda spaventa moltissimo i superiori di Grimaldi, che è richiamato a Roma nel maggio 1580. Tenta allora di ottenere un nuovo incarico in curia, ma dopo soltanto due mesi è rimandato in Francia, non senza, però, essere riuscito a strappare la promessa di nuovi benefici. Di fatti l'anno successivo è nominato vescovo di Savona, ma gode soltanto delle rendite di questa diocesi, perché rimane rettore del Contado venassino sino al 1584. Soltanto il 20 febbraio 1584 è infatti sostituito in questa carica dal suo uditore e luogotenente, Pompeo Rocchi. Tale avvicendamento non permette, però, al nostro vescovo di tornare in Italia, ché anzi il suo ruolo nel Contado diviene ancora più importante.
Proprio agli inizi del 1584 il già citato Tolomeo Galli suggerisce a Girolamo Ragazzoni, nunzio in Francia, di affidare Avignone a Grimaldi, nel frattempo trasferito alla diocesi di Cavaillon, visto che non riusciva a seguire adeguatamente Savona, troppo distante dal Venassino. L'occasione per promuovere Domenico si presenta nell'autunno del 1584, quando muore Baldassarre Boschetti, comandante delle truppe avignonesi. Il cardinale Galli scrive nuovamente a Ragazzoni e gli fa sapere che il comando deve essere affidato a Grimaldi, se il re di Francia è d'accordo. Enrico III, interpellato nel gennaio 1585, risponde che quel posto spetta a un soldato e Ragazzoni ribatte che Grimaldi proprio quello è, come dimostrano i suoi precedenti a Lepanto e nella lotta contro gli ugonotti. Il nunzio alla fine la spunta, grazie all'aiuto della regina madre, che apprezza molto il genovese, e nel gennaio del 1585 quest'ultimo diviene comandante delle truppe avignonesi. Nel giro di pochi mesi è quindi designato vice-legato, nonché arcivescovo di Avignone.
In quest'ultima qualità segue con attenzione i problemi della chiesa locale: fonda un seminario e indice tre sinodi diocesani nel 1586, 1589 e nel 1592. Tuttavia i suoi interessi e i suoi doveri più impellenti restano sempre in ambito amministrativo-militare. Le cronache ci tramandano così il ricordo di un vescovo che preferisce la corazza alle vesti ecclesiastiche e che si preoccupa della costruzione di forti piuttosto che di quella delle chiese. D'altro canto la situazione militare non è in quel momento favorevole. Gli ugonotti del Delfinato hanno infatti ripreso a premere su Avignone; inoltre alle loro minacce si assommano quelle cattoliche. Enrico III ha infatti incaricato Jean de Nogaret, duca di Épernon, e suo fratello Bernard, duca di La Valette, di riconquistare Oranges, caduta in mano degli ugonotti, ma i due pensano di mettere a sacco la stessa Avignone. Grimaldi è avvertito del pericolo nel settembre 1586 e ricorre a Caterina de' Medici per giungere a un accordo con i Nogaret nell'ottobre dello stesso anno.
Il pericolo di un sacco da parte cattolica è evitato, ma da allora Jean de Nogaret si guarda bene dal proteggere Avignone. Il vice-legato si deve quindi impegnare in prima persona per rafforzare la difesa dei possessi pontifici. In accordo con Sisto V, intavola trattative con Enrico di Montmorency e, tramite questi, con gli ugonotti della regione, riuscendo infine a ottenere una tregua agli inizi del 1589.
A questo punto Grimaldi pensa di poter restare per sempre ad Avignone, ma nel frattempo Roma ha ricevuto numerose critiche contro il suo operato. Da una parte, gli viene rinfacciato di mostrarsi troppo ben disposto verso il Montmorency, accusa della quale gli è facile difendersi, ricordando a Sisto V le istruzioni ricevute. Dall'altra, è accusato di aver "defraudato il denaro della camera". Quest'imputazione è più grave, anche perché accompagnata da una serie di pasquinate in francese, nelle quali si ribadisce che Grimaldi si preoccupa soltanto di "succer le sang du pais pour senrichir [sic!]". Da Roma è quindi avvertito che sarebbe stato nominato un nuovo vice-legato e che deve tenersi pronto a rientrare.
Il ritorno è, però, rinviato a causa del pericolo ugonotto. Grimaldi continua a fortificare i dintorni di Avignone, dove resta sino all'anno successivo. Il 23 giugno 1589 scrive infine al cardinale Montalto che la situazione si è stabilizzata e che il vescovo di Cavaillon, il fido Pompeo Rocchi, può sostituirlo. Nel frattempo è stato nominato il nuovo vicelegato, Domenico Petrucci, vescovo di Bisignano, che il 23 luglio dello stesso anno arriva a Nizza, dove, però, è bloccato per almeno un mese. Non è quindi chiaro quando esattamente sia avvenuto il passaggio delle consegne e quando Grimaldi sia infine partito per Roma.
Il nuovo vice-legato trova subito le prove che il suo predecessore si è in effetti arricchito al di là del lecito, o comunque dell'usuale. In particolare ricostruisce la storia di come Grimaldi sia stato nominato dal re di Francia abate commendatario di St-Pierre Montmajeur d'Arles, che vale almeno 4.000 scudi. Il precedente abate si era infatti rifugiato ad Avignone, dopo aver messo incinta una suora. Grimaldi lo aveva protetto e gli aveva fatto ottenere la diocesi di Tolone, pretendendo in cambio la commenda della ricca abbazia. A Roma si decide di non tener conto delle accuse di Petrucci e si provvede a ratificare nel febbraio 1590 la nomina dell'arcivescovo di Avignone ad abate di St-Pierre Montmajeur. Il papa ha di nuovo bisogno dei suoi servizi di uomo d'arme e non vuole scontentarlo.
Nei domini pontifici in Italia il banditismo è allora entrato in una fase acuta e Sisto V ha deciso che Grimaldi è l'uomo in grado di pacificare le Marche. L'arcivescovo di Avignone quindi non perde il suo arcivescovato e i vari benefici ed è nominato governatore delle Marche. Nel 1590 elegge quindi Ascoli a sua residenza e da questa città muove contro le formazioni dei banditi, concludendo vittoriosamente la sua campagna nella primavera del 1591.
A questo punto Grimaldi conta di rimanere in Italia e pare di capire che abbia persino sperato di divenire cardinale. E' invece rimandato ad Avignone, dove la situazione è di nuovo peggiorata dal punto di vista militare e da quello amministrativo. Nell'aprile del 1592 rientra quindi nella sua arcidiocesi e riprende il vecchio incarico di vice-legato. Questa volta, però, deve affrontare un nemico più implacabile di tutti quelli, che ha sino allora piegato: nel giro di pochi mesi un cancro allo stomaco lo porta alla tomba. Il 1° agosto i fratelli, Francesco e Giacomo, lo fanno tumulare nella cattedrale, dove una lapide ricorda i suoi trascorsi militari.
Le scarne parole dei fratelli - che non ricordano la data di nascità o l'età di Domenico, ma sottolineano le sue imprese di guerra - sono probabilmente il migliore epitaffio per un vescovo, che in fondo è stato soprattutto un soldato. Una volta riconosciuto questo non bisogna tuttavia sottovalutare il rilievo della carriera amministrativa di Domenico Grimaldi e soprattutto la sua importanza nell'ambito della storia avignonese. Per quindici anni ha retto le sorti di Avignone e del Contado venassino, passando da una carica all'altra e talvolta cumulandone più di una. Questa forte centralizzazione dell'amministrazione avignonese è il frutto di una situazione eccezionale, ma permette anche a Roma d'imporre definitivamente la figura dei vice-legati, spariti durante la lunga legazione del cardinale Charles de Bourbon, come gerenti della città e di preparare il passaggio dal legato di origine francese a quella dei legati italiani. Grimaldi, cumulando l'autorità civile, quella militare e quella ecclesiastica, non ha infatti rivali all'interno del dominio avignonese, se non quelli causati dalla gelosia della nobiltà locale.
I successi di Grimaldi - che comunque conosce anche smacchi cocenti, basti pensare all'assassinio del fratello - non sono dovuti soltanto alla guerra, ma anche ai contatti diplomatici che egli sa instaurare. In occasione di un incontro con il re nel 1584, il cardinale Galli consiglia al nunzio Ragazzoni di portarsi dietro il genovese, perché questi era "assai informato de li humori et del procedere del paese, et è amato da tutti li ministri di S. M.tà in quelle parti". Grimaldi ha saputo infatti sfruttare i legami tra la propria famiglia (un ramo della quale regge ancora oggi il principato monegasco), Genova e il Mezzogiorno francese per rafforzare il controllo di Roma su Avignone. Tale situazione era vantaggiosa per Roma e per i Grimaldi, non a caso Domenico è sempre coadiuvato da qualcuno dei suoi numerosissimi fratelli, ma lo era anche per Genova. Avignone è infatti un importante centro d'informazioni importanti e funziona da relé tra Parigi e le capitali italiane. Di conseguenza nei secoli successivi molti genovesi chiedono e ottengono il posto di vice-legato ad Avignone.

Ferdinando de' Medici

Sin dalla nascita nel 1549 Ferdinando de' Medici appare destinato al palcoscenico internazionale. Figlio di Cosimo I e Leonora di Toledo, è tenuto a battesimo da Ferdinando d'Asburgo, fratello dell'imperatore Carlo V e re di Boemia e d'Ungheria. Senonché è soltanto il quintogenito e quindi, per il momento, tutti gli onori sono per i fratelli maggiori: Francesco, che deve succedere al padre; Giovanni, destinato a divenire cardinale; e Garzia, cui spetta il patrimonio materno. Ma la sorte ha in serbo per lui ben altre possibilità.
Nell'ottobre del 1562 Cosimo va a caccia in Maremma e porta con sé Giovanni, Garzia e Ferdinando. Tutti e tre i figli sono colpiti dalla malaria, ma soltanto il più giovane sopravvive. Alcune malelingue sussurrano che quell'adolescente dall'aria un po' ottusa ha fatto fuori i fratelli maggiori per incamerare i loro beni. Altre voci asseriscono invece che Garzia avrebbe ferito mortalmente Giovanni e poi sarebbe stato ucciso dal padre.
Quest'ultimo ignora i pettegolezzi e decide che Ferdinando deve prendere il posto di Giovanni nel collegio cardinalizio. In un primo tempo Pio IV si oppone, adducendo la malaria contratta dal giovane, ma infine acconsente. Il 6 gennaio 1563 Ferdinando è quindi creato cardinale; è, però, troppo malato per recarsi a Roma, dove giunge solamente l'anno successivo. Nel frattempo il padre ha lasciato a Francesco il governo degli affari correnti. Il vecchio granduca non abbandona comunque il giovane cardinale e cerca di fargli avere un posto di prestigio nella Curia. Ferdinando invece non è così desideroso d'impegnarsi nella vita romana. Torna spesso a Firenze e soprattutto non prende i voti: decisione che più tardi sarà considerata una delle prove che egli ha scientemente pianificato l'eliminazione di tutti i suoi fratelli.
Il 9 dicembre 1565 muore Pio IV e Ferdinando agisce allora come portaparola del padre, che vorrebbe influenzare l'elezione del nuovo pontefice. Il cardinale è, però, troppo poco addentro alle faccende romane per contare veramente. Di conseguenza non riesce a impedire l'ascesa al soglio pontificio di Pio V Ghislieri, avverso ai Medici.
A questo punto Cosimo teme addirittura per la sicurezza del figlio e lo richiama a Firenze. Dopo poco, tuttavia, i rapporti tra il papa e i Medici si distendono e Ferdinando è rimandato a Roma, dove inizia il suo apprendistato politico. Il giovane cardinale adesso risiede stabilmente nel palazzo di famiglia a Campo Marzio, all'angolo tra piazza Firenze e via dei Prefetti, e si dimostra all'altezza delle aspettative paterne. In poco tempo conquista la fiducia della cerchia di Pio V e in particolare si lega a Michele Bonelli, nipote e consigliere del papa.
Nel conclave del 1572 sfrutta le sue nuove amicizie per sbarrare la strada ad Alessandro Farnese e appoggiare l'ascesa di Gregorio XIII Boncompagni. Il nuovo papa lo ascrive alla Congregazione per le strade e le fontane, una posizione che gli tornerà utile in seguito. Inoltre il patto elettivo rende strettissimi i legami tra le due casate. Nel 1576 Ferdinando organizza il matrimonio di Giacomo, figlio del pontefice, e Costanza Sforza di Santa Fiora. Il 28 settembre dell'anno successivo Giacomo lo accompagna al battesimo dell'unico erede di Francesco de' Medici.
Quest'ultimo è intanto divenuto il secondo granduca di Toscana. Il 21 aprile 1574 Cosimo I de' Medici è infatti morto e ha lasciato a Ferdinando metà del palazzo Firenze a Roma e una rendita vitalizia di 80.000 scudi l'anno. Un appannaggio assai gradito, perché il cardinale mantiene un treno di vita dispendioso - nelle scuderie ha ben 100 cavalli - che gli serve per spiccare nella Curia. Inoltre, sempre per distinguersi, versa pingui offerte all'Arciconfraternita della SS. Trinità dei Pellegrini, della quale è cardinale protettore.
La sua esistenza non è comunque improntata ai soli valori del lusso e della beneficenza. Egli è un protagonista della vita cittadina, anche nei suoi aspetti più misteriosi. Nel 1576, mentre rientra di notte, è, assalito e ferito assieme a un suo staffiere; un altro suo accompagnatore è invece ucciso. Una vendetta dei Farnese? Una tentata rapina? Un regolamento dei conti? Una risposta alla violenza esercitata altre volte dal turbolento seguito del Medici? Le fonti non sciolgono i dubbi, ma i gusti del cardinale offrono altre possibili spiegazioni. Ferdinando ama infatti le compagnie femminili, anche quelle che dovrebbe evitare, perché protette da familiari gelosi, e soprattutto il gioco. Il 27 agosto 1575 Gregorio XIII si vede costretto a biasimarlo pubblicamente per aver perso 30.000 scudi al gioco e lo invita a un comportamento più idoneo alla porpora cardinalizia. Visto che c'è, lo esorta anche a prendere gli ordini sacri. Il Medici non segue i consigli del pontefice, anzi qualche anno più tardi si prende addirittura la rivincita sul figlio di Gregorio XIII e, che nel luglio 1583, lo alleggerisce, assieme a Orazio Ruccellai e al cardinale Maffei, di ben 150.000 scudi.
Ferdinando non è comunque soltanto un gaudente spendaccione. Con il tempo diventa anche uno dei maggiori mecenati romani. Pure in questo campo il suo avversario è il cardinale Farnese. Questi spende somme enormi nella chiesa del Gesù, nel completamento del palazzo di famiglia, nell'acquisto dell'antica villa suburbana di Agostino Chigi (detta da allora la Farnesina), negli Orti Farnesiani sul Palatino e soprattutto nella villa-castello di Caprarola. Ferdinando al contrario non disperde i suoi sforzi e cerca qualcosa che gli dia la massima pubblicità.
Il suo interesse per l'arte inizia in sordina nel 1566, quando fa intagliare i soffitti di Santa Maria in Domnica con le imprese della Vergine. Sei anni più tardi fa affrescare a Jacopo Zucchi le volte del palazzo di famiglia. Commissiona inoltre allo stesso pittore la Messa di San Gregorio, nella quale si fa effigiare, per l'altare dell'oratorio (oggi si trova nella sacrestia) della SS. Trinità dei Pellegrini in via delle Zoccolette.
Nel decennio successivo si volge anche ai libri di pregio. Nel 1584 fa costruire la Tipografia Orientale, che affida al famoso incisore Giovan Battista Raimondi. Nello stesso anno manda Girolamo e Giambattista Vecchietti alla ricerca di codici asiatici. Nel 1586 invia invece Giovan Battista Britti in Etiopia. Inoltre domanda a Filippo Sassetti di procurargli manoscritti dall'India. Molte di queste richieste sono esaudite e alcune delle opere riportategli sono oggi fra i tesori della Biblioteca Apostolica Vaticana, di quella Mediceo-Laurenziana e della sezione Magliabechiana della Nazionale di Firenze. Sassetti inoltre rifornisce il cardinale di stoffe e sementi indiane.
L'acquisto nel 1576 della villa del cardinale Ricci al Pincio è il colpo più spettacolare, nel campo della magnificenza e del mecenatismo. Essa è già una delle più famose residenze romane, ma Ferdinando la ingrandisce, tra il 1577 e il 1585, e trasforma il giardino in un museo all'aperto. Nel 1583 acquista a tal scopo il gruppo delle Niobidi, da poco ritrovate in una vigna della villa Altieri sull'Esquilino. Nel 1584 compra anche la collezione di antichità che orna il palazzo Valle, allora di proprietà dei Capranica. Nel 1587 compra per 200 scudi la conca antica di marmo granito che era dei frati di San Salvatore in Lauro. La risonanza è altissima. Nel 1579 Gregorio XIII si fa ospitare nella villa. Nel marzo 1580 essa è visitata da Montaigne, che la giudica una delle più belle di Roma. Infine l'inviato di Mantova decreta che è senza dubbio la più bella di tutta la città.
Ferdinando è ormai molto conosciuto ed è in grado di affrontare da pari a pari lo scontro finale con Alessandro Farnese. Scontro che si complica per alcuni risvolti boccacceschi. Nel 1585 viene infatti appeso alla statua di Pasquino un cartello sibillino: "il Medico cavalca la mula Farnese". Per i romani ben informati è un'evidente allusione alla tresca tra il Medici e Clelia Cesarini, figlia illegittima del cardinale Farnese. Quest'ultimo ha allora 75 anni: la successione a Gregorio XIII è quindi la sua ultima chance di divenire papa. Tra i due cardinali si scatena una lotta serrata, che coinvolge anche i partiti spagnolo e francese.
Questo duello è di fondamentale importanza per Firenze. Il granduca paventa infatti di essere preso nella morsa dei Farnese, che possiedono il ducato di Parma e Piacenza a nord della Toscana e il ducato di Castro a sud. Francesco de' Medici non dubita delle capacità di Ferdinando, ormai ritenuto da molti il più intelligente fra tutti i cardinali. Tuttavia teme il suo carattere impetuoso e il suo disprezzo per chi non sia di sangue principesco. Gli affianca allora il proprio segretario Belisario Vinta e spera che quest'ultimo sappia tenerlo a freno.
Ferdinando si comporta invece benissimo e recupera una situazione apparentemente compromessa. Alessandro Farnese guadagna subito l'appoggio di Filippo Boncompagni e dei cardinali spagnoli; però, il Medici gli contrappone il cardinale Alessandrino e Marco Sittich, capo dei cardinali fatti da Pio V. I due avversari sono ora in posizione di stallo, ma Ferdinando riesce a convincere il cardinale Madruzzo, appena giunto a Roma, dell'improponibilità del Farnese. Madruzzo si adopera quindi presso gli altri membri del partito spagnolo, affinché non sostengano la candidatura farnesiana.
A questo punto si mormora che Felice Peretti potrebbe divenire papa, ma il Farnese è sicuro che Ferdinando non possa avallare questa scelta. Francesco Peretti, nipote di Felice, è stato ucciso da Paolo Giordano Orsini, cognato di Ferdinando. Quindi, sostenendo Peretti, il Medici rischia di far condannare un congiunto. Alessandro Farnese sottovaluta, però, Ferdinando che gioca il tutto per tutto per eliminare il suo avversario. Il cardinale fiorentino si accorda con i colleghi d'Este, Bonelli e Altemps e appoggia l'elezione di Sisto V Peretti il 24 aprile 1585.
Questa mossa è indubbiamente coraggiosa e mette a tacere per sempre Alessandro Farnese. Tuttavia il futuro è ora incerto per i Medici e i loro congiunti. Inizialmente tutto procede per il meglio. Gli Orsini sono perdonati dal nuovo papa. Ferdinando è promosso al titolo di S. Eustachio ed è nominato presidente della commissione per il ripristino dell'Acqua Alessandrina, in virtù del suo precedente incarico alle strade e fontane.
Proprio da questa nomina nascono, però, i primi screzi. Il papa ha fretta di realizzare il progetto, che da lui prenderà il nome di Acqua Felice, ma Ferdinando è contrario a spese esagerate e soprattutto a lavori affrettati. Nel 1585 Sisto V comanda al cardinale di acquistare una vena d'acqua, che scaturisce dal monte al di là del "Pantano de' Grifi", e di utilizzarla per rifornire la piazza antistante S. Maria degli Angeli: due anni dopo l'ordine non è ancora eseguito. L'acquedotto Felice è infine realizzato con le economie desiderate dal Medici, il quale si scontra più volte con il papa. Quest'ultimo comunque concede nel 1587 alcune once dell'Acqua Felice al cardinale, che così risolve, una volta per tutte, il rifornimento idrico della villa sul Pincio. La stessa sceneggiatura si ripete quando Ferdinando entra nella commissione per l'erezione dell'obelisco di piazza di San Pietro. Quasi naturalmente Sisto V e il Medici patrocinano due progetti diversi. Questa volta è, però, il papa ad avere la meglio, forse perché Ferdinando non ha in questo campo un interesse materiale da difendere.
I dissensi tra Felice Peretti e Ferdinando de' Medici divengono presto numerosi e violenti. Tuttavia il secondo non abbandona la posizione di privilegio nella Curia, anzi si rivela attivo collaboratore della politica estera del papa, in particolare per quanto concerne la difesa del cattolicesimo in Polonia e i rapporti con la Spagna. Nonostante gli screzi, il 7 gennaio del 1587 Ferdinando ottiene il titolo cardinalizio di S. Maria in via Lata e diviene il primo dei cardinali diaconi.
Stravince quindi su tutta la linea, ma i Farnese si prendono l'ultima vendetta. Il 27 giugno 1587 Ferdinando è invitato a una partita di caccia alle rondini nei pressi di Ponte Milvio. Mentre è fuori Roma, il cardinale Farnese obbliga Clelia Cesarini a seguirlo a Ronciglione. Alla fine dell'estate l'amante di Ferdinando è scortata da ben 150 armati nel ducato di Parma e le è impedito di rientrare nella città eterna. Gli Avvisi di Roma, la gazzetta del tempo, sottolineano che la rappresaglia farnesiana è avvenuta con il consenso del papa. Nei mesi successivi è tutto un susseguirsi di pettegolezzi. Si lascia intendere che Clelia è incinta, si dà per certo che i Farnese hanno fatto sposare e partire da Roma tutte le damigelle della giovane. Una notizia del 1 luglio rivela che Ferdinando ha arruolato "altre lance spezzate", che lo seguono dovunque vada. Una settimana dopo il papa si reca a Villa Medici, ma, a dire dei gazzettieri, si sarebbe portato da mangiare e da bere. Infine è annunciato il matrimonio di Clelia Cesarini con il marchese di Sassuolo.
Non è possibile ipotizzare cosa sarebbe accaduto, se Ferdinando fosse rimasto ancora in Curia. Poteva divenire l'erede di papa Peretti? Sarebbe stato alla fine scacciato? Avrebbe saldato i conti con il papa e i Farnese? Sono interrogativi del tutto accademici, perché la sua vita conosce una nuova svolta: ancora una volta grazie alla morte improvvisa di un fratello.
Negli anni 1580 la successione a Firenze si riapre. Francesco I è malandato ed inoltre privo di erede. L'unico figlio maschio di primo letto è infatti morto, mentre la seconda moglie, Bianca Cappello, non ha generato un erede ufficiale. Ferdinando aspira al granducato; però, Bianca e il granduca hanno avuto un figlio prima delle nozze e Francesco potrebbe riconoscerne la legittimità. Il cardinale si preoccupa quindi di acquistare appoggi a corte e di seguire gli accadimenti da presso.
Nell'ottobre 1587 è chiamato a Firenze: il fratello giace gravemente ammalato di malaria nella villa di Poggio a Caiano. La notte del 19 ottobre 1587 Francesco muore improvvisamente, seguito nelle prime ore del 20 dalla moglie, vittima della stessa malattia. Ferdinando coglie al volo l'occasione e fa occupare i punti nodali del granducato da uomini a lui fedeli. Il 20 stesso entra poi a Firenze, pronto a tutto. Invece è acclamato dal popolo che spera nella sua fama di munifico. Nessuno quindi si preoccupa dei diritti di Antonio, il figlio illegittimo del granduca e di Bianca Cappello.
Naturalmente non passa inosservato che per la seconda volta Ferdinando tragga benefici della morte di un fratello, tanto più che Bianca Cappello è deceduta così rapidamente. Ora tornano nuovamente di moda le chiacchiere sull'uccisione di Giovanni e Garzia de' Medici: sembra che la malaria sia un'alleata stretta di Ferdinando ed è facile fare insinuazioni sull'uso sapiente dei veleni da parte di chi ha vissuto tanto a lungo nella Curia che era stata dei Borgia! Ferdinando non si difende direttamente, ma fa diffondere la voce che il fratello sia morto per sbaglio. Avrebbe infatti mangiato una torta avvelenata, che Bianca Cappello aveva preparato proprio per il cardinale. La granduchessa si sarebbe suicidata, una volta scoperta.
Una settimana dopo la morte del fratello, Ferdinando ha saldamente in mano il granducato e lascia per sempre Roma, dove non mette più piede. Sisto V non intralcia i piani del nuovo granduca, che già da semplice cardinale era un alleato assai ingombrante. Tuttavia esige che rinunzi al cardinalato prima di prendere moglie. Ferdinando, che a lungo indossa ancora la veste cardinalizia, accetta di dare le dimissioni soltanto nel novembre 1588, ma contratta la propria successione. Il terzo granduca di Toscana è infatti un diplomatico integrale, che trae spunto per contrattare da qualsiasi contingenza.
Alla fine dell'ottobre 1587 Ferdinando de' Medici è sicuro della successione al fratello Francesco I e decide di riprendere i disegni di Cosimo I per fare del granducato una potenza europea. In particolare tenta di assicurare ai propri domini la stabilità necessaria al pieno sviluppo delle capacità commerciali toscane e della propria famiglia.
Nei successivi venti anni la politica di Ferdinando procede quindi su due piani paralleli, nei quali gli interventi in quanto granduca non sono mai disgiunti dall'attività di affarista internazionale. Tuttavia nel primo lustro di governo la precedenza è data alla ricerca della stabilità interna.
Non appena ha in mano le redini, Ferdinando rivoluziona l'amministrazione medicea. Dodici giorni dopo la morte del fratello amplia la segreteria granducale introducendovi uomini fidati. In genere, tuttavia, non espelle dagli organi dello stato i membri dell'aristocrazia entrativi in precedenza, né il ceto burocratico formatosi sotto il padre e il fratello. Fa invece in modo che nessun funzionario possa muoversi senza che egli ne abbia sentore.
Il granduca infatti non vuole soltanto il controllo a breve termine degli organi governativi, ma vuole realizzare trasformazioni istituzionali tali da garantire il proprio potere assoluto. In questa prospettiva riforma le magistrature dello stato di Siena (1588), gli statuti delle arti della lana (1589), l'Ordine di Santo Stefano (1590), gli statuti dei mercatanti (1592). Si tratta solo di ritocchi, ma comunque mirati a indebolire le pretese e il raggio d'azione dei funzionari.
Contemporaneamente si impegna in una guerra senza quartiere al banditismo e a qualsiasi spinta centrifuga. Crea nuove circoscrizioni giurisdizionali, quali il Capitanato della Montagna dell'Amiata (1590), che in poco tempo gli permettono di far accerchiare i banditi e cacciarli dalla Maremma senese, dalla Val di Magra, dalla Bassa Lunigiana, dalla Romagna fiorentina, dalla montagna pistoiese e dai confini con i feudi dei Malaspina e con i ducati di Parma e di Modena. In cinque anni riconquista con le armi quella pace interna che il fratello non era riuscito a salvaguardare e soprattutto garantisce la sicurezza delle zone di confine, dove spesso banditi e aristocratici avevano operato di conserva ai nemici di Firenze.
Il predominio militare non basta comunque al granduca: egli infatti ritiene che una combinazione di costrizione e consenso assicuri una maggiore stabilità e guadagni più sicuri. Per impedire che il banditismo rinasca, Ferdinando affronta quindi il problema delle carestie e tenta di aumentare la resa agricola della Toscana. Da un lato, quindi, assicura l'approvvigionamento cerealicolo; dall'altro, punta a migliorare la produzione agricola.
Per raggiungere il primo obiettivo incrementa i commerci con l'Europa del Nord: già durante la carestia del 1590-1591 navi olandesi e inglesi scaricano a Livorno ingenti quantitativi di grano. Il granduca scongiura così la fame e le sue inevitabili ripercussioni sociali. Inoltre realizza lauti guadagni: un terzo delle importazioni è infatti di sua proprietà personale. Negli anni successivi accresce continuamente le importazioni e il proprio monopolio. Conquista così il controllo di tutti i movimenti di cereali in Toscana e nel primo decennio del secolo successivo non vi è più partita di grano che non dipenda in qualche modo da lui.
Per incrementare la produzione il granduca fa bonificare alcune aree paludose, in particolare la Val di Chiana, la Maremma senese, la Valdinievole e la piana pistoiese. Nelle terre di sua proprietà - Ferdinando è uno dei maggiori proprietari della regione - bonifica fasce che sono poi coltivate a grano, oppure impianta risaie. In tale contesto ingrandisce le ville familiari e le trasforma in centri di raccolta e di controllo.
Attorno a Montevettolini, Artimino, l'Ambrogiana e Poggio a Caiano si articolano le sue proprietà più importanti e più dinamiche, che sono continuamente ampliate mediante donazioni più o meno forzate. I beni dei cavalieri di S. Stefano di Altopascio vanno, per esempio, ad aumentare i possessi medicei nella bassa Valdinievole e sono amministrati dalla villa di Montevettolini.
La strategia granducale non si ferma qui, ché, anzi, a partire dalle proprie ville Ferdinando cerca di attuare il collegamento tra produzione sul luogo e mercato. Sempre a Montevettolini l'ampliamento e la riorganizzazione della proprietà medicea sono subito seguiti dalla creazione di una fiera settimanale. Questa a sua volta comporta la costruzione di una loggia per i mercanti, l'allargamento della strada e il miglioramento del sistema idrico.
Interventi simili sono realizzati dovunque Ferdinando I voglia incrementare la resa agricola e facilitare la commercializzazione di quanto prodotto. L'elenco dei lavori pubblici compiuti in tal senso è degno di nota. In tutta la Toscana egli fa curare la rete stradale e quella fluviale, il sistema idrico e persino quello fognario. Tali lavori procedono sempre di pari passo con lo sviluppo dell'agricoltura, anzi spesso quest'ultimo è previsto come corollario. La risistemazione delle arterie Firenze-Pisa e Firenze-Pistoia è completata dalla piantumazione di gelsi lungo la strada, in modo da garantire che la produzione di seta toscana non dipenda soltanto dalle esportazioni. In quest'ultimo caso il tentativo non riesce, ma più per la congiuntura negativa dell'industria serica italiana che per un'errata conduzione da parte degli uomini del granduca.
La strategia volta ad assicurare la pace e la prosperità del granducato prevede anche un ruolo attivo nella politica e nella diplomazia internazionale. In questo campo Ferdinando si rifà spesso all'esperienza romana: del resto la città eterna, dove pure non ritorna più, è sempre al centro dei suoi interessi. A Roma mantiene uomini fidati e fa concludere o rafforzare accordi che hanno ripercussioni europee. Inoltre nel primo decennio di governo egli tratta con Roma, con Venezia e con Mantova per contrastare il predominio spagnolo in Italia.
Al contrario del fratello, che si era alleato a Filippo II, Ferdinando è convinto che la Spagna abbia fatto il suo tempo e quindi opera in modo da sganciarsi dall'ingombrante alleato. In chiave antispagnola egli cerca perciò sostegno in Francia, nonostante questa sia divisa dalle guerre di religione. Grazie ai buoni uffici di Caterina de' Medici, sposa nel 1589 Cristina di Lorena. Nello stesso anno contatta inoltre Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV, che finanzia e assiste nell'ascesa al trono francese.
Ferdinando cura con attenzione questo suo investimento politico ed economico e fa comprendere al suo protetto che Firenze non è soltanto una banca. Così nel 1591 fa occupare dalle sue navi il castello d'If, di fronte a Marsiglia. Lo scopo dichiarato è quello di impedire che cada nelle mani degli spagnoli. In realtà il castello è da lui considerato un pegno della fedeltà francese: lo rende infatti soltanto nel 1598, facendosi tra l'altro pagare profumatamente la restituzione.
Nel suo gioco complicato, Ferdinando fa da tramite fra Roma e la Francia. Nel 1593 consiglia a Enrico IV di convertirsi al cattolicesimo e in seguito opera affinché la conversione sia accettata dal papa. A tal fine organizza una complicata partita di scambio. Clemente VIII infatti riconosce Enrico IV e questi contraccambia appoggiando il pontefice in Polonia. In particolare convince Sigismondo III Vasa, nuovo re polacco, dall'affidabilità di Roma, nonostante che Annibale Di Capua, nunzio in Polonia, abbia sostenuto la candidatura di Massimiliano d'Asburgo quale successore di Stefano Bathòry.
La politica antiasburgica in Polonia non fa che ribadire la posizione antispagnola del granduca. Nell'ultimo decennio del secolo si rivolge persino all'Inghilterra, con la quale i mercanti toscani intrattengono da tempo rapporti amichevoli. Ferdinando va tuttavia ben oltre i semplici scambi commerciali e nel 1591 fa sapere alla regina Elisabetta la data di partenza dall'Avana della flotta spagnola. Nel messaggio è anche specificato che il carico è prezioso e che bisogna avvertire Francis Drake, il famoso corsaro.
Anche con l'Inghilterra Ferdinando ricorre comunque a una politica del bastone e della carota. Quando quattro navi pirate inglesi entrano nel Tirreno senza previo avvertimento, il granduca le fa arrembare e sequestrare. Gli inglesi possono associarsi a lui nella guerra di corsa, ma non devono sottovalutarlo. D'altra parte è ben difficile considerarlo un semplice uomo di paglia. Formatosi nella Curia romana, Ferdinando non punta mai su un solo tavolo e interviene dovunque possa guadagnare qualcosa. In Polonia taglia la strada agli Asburgo, ma nel 1594 finanzia la guerra contro i turchi dell'imperatore Rodolfo II. Nel 1595 manda una spedizione in Transilvania per aiutare Sigismondo Bathòry contro i turchi. Nel 1601 invia il fratellastro Giovanni de' Medici in aiuto di Rodolfo II.
Queste precauzioni si rivelano ben fondate. I termini della pace di Vervins (1598) tra Francia e Spagna non piacciono al granduca, nonostante siano stati contrattati da un membro della sua famiglia (vedi più avanti): Ferdinando teme infatti di essere piantato in asso dall'alleato francese. Egli cerca dapprima di rafforzare i legami con Enrico IV, cui dà in sposa Maria de' Medici, figlia di Francesco I, il 5 ottobre 1600. Neppure un anno dopo, però, il re francese cede ai Savoia il marchesato di Saluzzo, da tempo appetito da Ferdinando I. Quest'ultimo giudica allora che la situazione si è fatta troppo pericolosa, tanto più che la Spagna preme sui confini toscani: Garcia di Toledo, vicerè di Napoli, fa costruire la fortezza di Portolongone all'Elba e Filippo III fa occupare il feudo degli estinti Appiani di Piombino. Nel 1602 Ferdinando sonda quindi la disponibilità del monarca spagnolo, presso il quale fa valere l'assistenza finanziaria e militare agli Asburgo nell'Europa orientale e al quale offre anche aiuto nelle Fiandre.
Le trattative con la Spagna durano sei anni: infine il 28 giugno 1608 è siglato l'accordo e il futuro Cosimo II sposa Maria Maddalena d'Austria. La Toscana rientra nell'orbita spagnola e Ferdinando ottiene l'investitura del feudo di Pitigliano, cedutogli dagli Orsini nel 1606. Il granduca è quindi caduto in piedi, ma il ribaltamento di alleanze non è spiegabile solamente come reazione obbligata al mancato appoggio francese. Ancora una volta Ferdinando guarda più avanti degli altri regnanti della Penisola e nutre sogni inimmaginabili per i suoi contemporanei italiani.
Nell'ultimo decennio del Cinquecento l'alleanza con la Francia gli ha permesso di liberarsi dalla tutela spagnola e di trattare con l'Inghilterra. Quest'ultima lo ha messo in contatto con i mercanti olandesi in lotta con la Spagna e Ferdinando ha potuto limitare i danni della grande carestia del 1590-1591, proprio grazie al grano trasportato a Livorno dalle navi olandesi. Il rapporto con l'Inghilterra è ora ben saldo e, una volta chiarite le precedenze per la pirateria nel Mediterraneo, il granduca non disdegna di spartire il bottino dei pirati inglesi.
Il bersaglio di queste azioni di pirateria non sono tuttavia le sole navi spagnole, ma anche quelle turche. Livorno non è soltanto un porto commerciale, ma anche la base della flotta militare medicea, che viene potenziata da Ferdinando I in modo da contrastare la supremazia ottomana. Inoltre egli affida ai cavalieri di Santo Stefano la lotta contro navi e avamposti turchi.
Il distacco dalla Francia rafforza gli intenti antiturchi e il primo decennio del Seicento vede un crescendo di imprese militari e diplomatiche contro l'impero ottomano. Nel 1607 i cavalieri di Santo Stefano tentano di sbarcare a Famagosta e devastano Bona, sulla costa nordafricana. Nel 1608 catturano al largo di Rodi 40 navi della famosa Caravana d'Egitto. Inoltre Ferdinando allaccia rapporti con Giambulat, pascià di Aleppo, e con Fakhr-ed-Din, principe dei Drusi di Siria, fomentando la costruzione di un fronte avverso al Sultano.
In questo quadro l'avvicinamento alla Spagna garantisce alla Toscana basi e sostegno nel Mediterraneo. Offre inoltre uno sbocco oceanico alla flotta medicea, che inizia ad affacciarsi sulla costa atlantica dell'Africa. Nel 1604 firma un trattato con il re di Fez e ottiene il libero uso del porto atlantico di Larache, che diviene la base per il contrabbando toscano nel Brasile. Nel 1608 il granduca si interessa addirittura alla possibilità di colonizzare la Sierra Leone.
Nel contesto di questi traffici su scala mondiale il porto franco di Livorno conosce uno sviluppo rapidissimo, diventando una piattaforma di interscambi tra il Levante e l'Europa, tra l'area mediterranea e quella atlantica. Le stesse franchigie commerciali o religiose (in difesa dei protestanti, degli Ebrei e persino dei "mori") trasformano il piccolo porto nel terminale delle grandi correnti dei traffici internazionali. Nel 1605 le navi che vi attraccano sono quintuplicate rispetto al 1578. Contemporaneamente cresce anche la potenza economica di Ferdinando che agli inizi del secolo controlla ormai il mercato internazionale dei grani. E' universalmente noto come uno degli uomini più ricchi di tutto il continente europeo e opera al centro di una rete di corrispondenti (soci, fattori, informatori, vere e proprie spie) che si estende dall'Europa centro-orientale all'Inghilterra, dalla penisola iberica alle Americhe, dall'Italia al Levante e alle Indie orientali.
Nel 1600 Bartolomeo Cenami stima a 300.000 scudi annui le entrate granducali, frutto del commercio, ma anche di imprese meno lecite. Tra queste vi è sempre la guerra di corsa e infatti Ferdinando continua a finanziare l'arrembaggio inglese ai galeoni spagnoli. Ormai, però, il granduca ha mire ancora più alte: non vuole più raccogliere le briciole della colonizzazione del Nuovo Mondo, ma desidera partecipare direttamente alle imprese coloniali e imitare le compagnie commerciali inglesi. Nella scia della compagnia della Moscovia entra in contatto con lo zar Boris Godunov, inoltre inizia a pensare alle Indie Occidentali e a quelle Orientali.
Già ai tempi della Tipografia Orientale a Roma, Ferdinando aveva chiesto a Filippo Sassetti informazioni sull'India. Nel 1606 riprende questa idea e convoca Francesco Carletti, che rientra a Firenze dopo un giro del mondo iniziato nel 1591. Carletti narra le sue peripezie al granduca ed è incaricato di studiare la possibilità che Livorno diventi un centro di traffici con l'Estremo Oriente. L'India e il Giappone si rivelano, però, fuori della portata toscana; Ferdinando si volge allora alle Indie Occidentali, contando di sfruttare i buoni rapporti con Spagna e inghilterra. Nel 1604 chiede al suo ambasciatore a Madrid ragguagli sulla Nuova Spagna e sul Perù, dove vorrebbe ottenere feudi per i figli minori.
Il 30 agosto 1608 Baccio da Filicaia gli invia una lettera da Lisbona, nella quale è ricostruita la storia della conquista portoghese del Brasile. Neanche un mese più tardi una caravella e una tartana sono armate a Livorno e sono affidate al capitano Robert Thornton, giunto in quel porto tre anni prima rimorchiando una preda di guerra. Il viaggio è preparato con cura e Ferdinando fa chiedere a Robert Dudley, che ha visitato l'Amazzonia nel 1595, una mappa e istruzioni per Thornton. Dudley consiglia a quest'ultimo di cercare l'oro sulle rive del Rio delle Amazzoni e dell'Orinoco. Ferdinando più prosaico fa caricare balle di merci e pensa alla possibilità di un avamposto commerciale brasiliano. Thornton approda in Guyana e in Brasile, esplora i due fiumi e visita anche la Caienna e Trinidad. Rientra infine il 12 luglio 1609 a Livorno, ma il 7 febbraio di quell'anno Ferdinando I è deceduto e il capitano inglese non trova nessuno cui riferire la sua avventura.
Alla sua morte Ferdinando è celebrato soprattutto per aver salvaguardato i sudditi dalla fame. L'intera popolazione toscana infatti dipende ormai dai rifornimenti granducali. Ferdinando ha ottenuto così un duplice risultato: ha avuto in pugno i suoi sudditi ed è divenuto uno dei più grandi uomini d'affari d'Europa. Tuttavia non si è fermato qui e, unico fra i principi italiani, ha sognato di trasformare la Toscana in una vera potenza internazionale. Potenza commerciale e marittima, in grado di trattare da pari a pari con l'impero spagnolo e con quello ottomano e soprattutto capace di fuoriuscire dal Mediterrano.

Alessandro de' Medici

Alessandro de' Medici nasce a Firenze il 2 giugno 1536 in un ramo collaterale della famiglia ducale. Sembra che, rimasto orfano di padre, sia affascinato dall’insegnamento del domenicano Vincenzo Ercolani. La madre, temendo che l’unico figlio maschio entri in religione, per giunta in ambiente ancora intriso del ricordo di Savonarola, chiede aiuto a Cosimo I, cugino in secondo grado del giovane. Il duca se lo tiene vicino, ma non vuole immischiarsi nelle scelte del parente.
Nel 1560 Alessandro accompagna il duca a Roma e si ferma dal cugino Giovanni Battista Salviati, che lo presenta a Filippo Neri, dal quale è molto colpito. Rientrato a Firenze prosegue a frequentare la corte e ambienti religiosi. La madre spira nel 1566, lasciandolo libero di disporre della propria esistenza. Alessandro decide quindi di prendere gli ordini con il consenso di Cosimo I, del cardinal Francesco Salviati e di Antonio Altoviti, arcivescovo di Firenze.
E' ordinato sacerdote da Altoviti il 22 luglio 1567 e nello stesso anno è nominato da Cosimo I cavaliere di S. Stefano. Si ritira poi nelle vicinanze di Firenze, ma il duca lo richiama per designarlo ambasciatore a Roma, il 10 giugno 1569, desiderando avere qualcuno della famiglia accanto al cardinal Ferdinando. Alessandro non conosce, però, l’ambiente romano e Francesco de' Medici si preoccupa di raccomandarlo alla benevolenza di Guglielmo Sirleto. Inoltre è posto sotto la protezione del cardinale Francesco Pacheco, che, assieme a Michele Bonelli, lo presenta a Pio V, cui il fiorentino fa buona impressione. Inizia così sotto i migliori auspici una permanenza destinata a durare sino al febbraio 1584. E' nominato protonotario apostolico il 20 giugno 1569 e si deve subito mettere all’opera per giustificare la posizione della Corona francese nella guerra di religione in corso. Il 3 agosto di quell’anno segnala al duca che il papa è mal disposto verso il re francese, perché quest’ultimo non ha schiacciato gli ugonotti dopo la vittoria di Jarnac.
In quei primi anni deve soprattutto affrontare gli attacchi spagnoli alla politica filofrancese di Firenze. Tale opposizione cresce, quando Cosimo I tenta di far avere a Caterina de’ Medici la dispensa per il matrimonio di Enrico di Navarra, il futuro Enrico IV, e Margherita di Valois, sorella di Enrico III. Il 28 agosto 1571 Alessandro de’ Medici, su consiglio di e accompagnato da Antonio Maria Salviati, si presenta a Pio V, sollecitandone l’intervento, ma in questo e in successivi incontri il papa dichiara di essere disposto ad acconsentire solo se il Navarra e l’ammiraglio Gaspard di Coligny si convertono.
In quei mesi l’ambasciatore fiorentino a Roma, coadiuvato anche dal suo omologo in Francia, Giovanni Maria Petrucci, si adopera per scalzare il nunzio pontificio a Parigi, Flavio Mirto Frangipani. Questi è infatti ritenuto il principale ostacolo al matrimonio in questione e Alessandro ritiene che sia lui ad aver convinto il papa a tenere duro, persino di fronte alle minacce di scisma ventilate da Caterina de’ Medici. Petrucci diffonde quindi la voce che Frangipani è uomo dei Guisa e di Filippo II; Alessandro de’ Medici fa sapere alla Curia romana che lo stesso è invece troppo legato a Caterina de’ Medici per badare agli interessi del papa e che avversa Firenze perché del partito di Ferrara. Le accuse sono troppo disparate, ma i fiorentini vogliono allontanare ad ogni costo il loro avversario. D’altronde nel loro gioco entra pure il tornaconto privato: Antonio Maria Salviati conta infatti di prendere il posto di Frangipani. Alessandro spera invece di minare la credibilità degli inviati spagnoli, tanto più che il papa tiene i fiorentini all’oscuro di quanto discusso nella Lega antiturca. Entrambe le manovre falliscono, quando la vittoria di Lepanto rafforza la posizione spagnola e riduce il credito fiorentino in Curia. Il 19 ottobre Alessandro de’ Medici deve così rivelare al duca che la fiducia del pontefice in Frangipani è solidissima.
In questa prima fase della sua carriera, Alessandro è molto legato al cardinal Ferdinando de' Medici, con il quale ha una consuetudine quotidiana. Tuttavia il suo maggior referente romano resta Filippo Neri, con il quale riannoda i contatti non appena arrivato a Roma. L’ambasciatore mediceo diviene allora ospite abituale dell’Oratorio e si lega fortemente a quell’ambiente, tra l’altro molto favorevole alla Francia.
I suoi primi passi non gli valgono la confidenza granducale, né quella del cardinale Ferdinando e, quando muore Pio V, Cosimo invia a Roma Bartolomeo Concini, suo primo segretario, e Belisario Vinta. Concini alloggia presso l'ambasciatore, ma, a dire di quest’ultimo, non tiene conto dei suoi suggerimenti. Alessandro de' Medici non cerca di imporsi, tanto più che spera come il duca nell'elezione del cardinale Ugo Boncompagni. Utilizza quindi le proprie conoscenze per coadiuvare gli sforzi di quello che sarebbe divenuto Gregorio XIII e boicottare la campagna avversa condotta dal cardinal Farnese.
Dopo l’elezione sia Concini, sia Ferdinando de' Medici si attribuiscono ogni merito: in particolare il cardinale di casa Medici si dice sicuro della riconoscenza del nuovo pontefice. Alessandro, relegato in secondo piano, è meno convinto della possibilità di avvantaggiarsi dell’ascesa di Gregorio XIII e sfrutta la propria amicizia con Diomede Leoni, vecchio e astuto curiale, per entrare in contatto con Matteo Contarelli, il nuovo datario. Ha così un accesso privilegiato al pontefice, che gli conferma stima ed amicizia. Tale favore gli torna presto utile, quando si apre la successione alla diocesi pistoiese: Ferdinando infatti non vede di buon occhio la nomina del cugino e cerca di dissuaderlo. Ad Alessandro pare invece un’ottima occasione, che gli potrebbe permettere di abbandonare la posizione di ambasciatore e di sfuggire alle sfuriate di Firenze e del cardinale de’ Medici. Con l'appoggio pontificio riesce quindi a farsi nominare vescovo di Pistoia il 9 marzo 1573.
Medici deve comunque rimanere a Roma, ma governa la diocesi tramite Bastiano de’ Medici e fa applicare i decreti tridentini, in particolare costringe i parroci a rispettare l’obbligo di residenza. Ha, però, poco tempo per occuparsi di Pistoia. Il 27 dicembre 1573 Francesco de’ Medici scrive infatti a Gregorio XIII, comunicandogli la grave malattia di Altoviti, l’arcivescovo di Firenze. Due giorni dopo ne annuncia la morte e sottolinea che Cosimo I avrebbe accolto con piacere la nomina di Alessandro. Il 4 gennaio 1574 il cardinale Tolomeo Galli risponde a nome del papa che a Roma tutti concordano con la scelta del duca.
In realtà il cardinale Ferdinando de’ Medici non è affatto d’accordo, tanto più che ormai considera Alessandro non soltanto come il controllore impostogli dal padre e dal fratello, ma anche come un pericoloso concorrente. Ancora una volta, però, la volontà granducale trova riscontro nel rapporto privilegiato tra l’ambasciatore fiorentino e Gregorio XIII: il 15 gennaio 1574 Alessandro è quindi traslato da Pistoia a Firenze. Anche in questo caso è obbligato a restare a Roma, tuttavia amministra senza problemi la diocesi, utilizzando sempre Bastiano de' Medici come vicario. In particolare si preoccupa della riforma del clero regolare e di quello secolare e già nel 1575 promuove una visita pastorale, condotta da Paolo Ceccarelli, cancelliere pistoiese.
Il suo governo a distanza, pur apprezzato da molti, non è, però, esente da critiche: ciò soprattutto perché il nuovo arcivescovo e i suoi uomini entrano in conflitto con i canonici della cattedrale, dei quali non rispettano i privilegi, e soprattutto con l’ambiente nutrito di ideali savonaroliani. Su questa opposizione Medici si dilunga in due lettere del 1583 a Francesco I, nelle quali sottolinea come i suoi avversari mirino a indebolire l’autorità ecclesiastica e quella granducale. In questo scontro Medici ha l’appoggio di papi e granduchi, nonché quello della Curia generale dei Domenicani: nel gennaio 1585 Sisto Fabbri, generale dell’Ordine, conduce una visita per stroncare l’opposizione all’arcivescovo. Tuttavia non riesce a impedire il ricorrere delle polemiche e il protratto braccio di ferro con oppositori che sono profondamente radicati nella città e nella Chiesa fiorentine.
Nel frattempo Alessandro utilizza la relazione tra Francesco I de’ Medici e Bianca Cappello, per guadagnarsi la fiducia del primo. Naturalmente ciò aggrava il suo dissenso con Ferdinando, il quale mette in giro la voce che l’ambasciatore-arcivescovo non si preoccupa più del benessere della propria città, ma mira soltanto al cardinalato. Ferdinando inoltre cerca di imporsi come mediatore tra Alessandro e i canonici della cattedrale di Firenze, a tutto svantaggio del primo, tanto che alla fine deve intervenire Gregorio XIII in difesa del presule. Nonostante l’opposizione del potente cugino, Alessandro ottiene comunque il cappello cardinalizio il 12 dicembre 1583.
A più riprese Medici ha tentato di abbandonare Roma: la lontananza dalla sede episcopale è infatti in evidente contraddizione con i principi che difende, come gli fa notare nel 1582 Carlo Borromeo. Tuttavia nel 1583 Gregorio XIII gli dice esplicitamente che non può abbandonare la città eterna senza il consenso granducale. Questo infine giunge e il 12 maggio 1584 l’arcivescovo prende possesso della sua diocesi. La sua attività riformatrice diviene ancora più veemente e culmina nel sinodo del 1589. In esso e grazie ad esso l’arcivescovo cerca di ridelineare la figura morale del sacerdote in generale e del parroco in particolare. Ribadisce inoltre l’importanza dell’Indice dei libri proibiti e impone uno strettissimo, ma di fatto spesso disatteso, controllo sulle botteghe librarie.
Medici passa il resto degli anni 1580 nella sua diocesi, dove diviene un punto di riferimento per i nunzi pontifici a Firenze. D’accordo con il granduca Ferdinando I, succeduto al fratello, opera per rivalutare il passato religioso della città, tramite la ricognizione delle reliquie dei santi, e contribusce all’introduzione delle Quaranta Ore.
Non abbandona comunque lo scenario romano, anzi rafforza i suoi contatti, cosicché il cardinal Alessandro Peretti, pronipote di Sisto V, lo presenta come papabile nel conclave che elegge nel 1590 Niccolò Sfondrati (Gregorio XIV). E' riproposto anche nel 1591, quando la ferma opposizione spagnola gli fa preferire Gian Antonio Facchinetti (Innocenzo IX). In questa circostanza Alessandro decide di appoggiare il proprio avversario, scatenando le ire di Ferdinando I, cui il cardinale risponde duramente di non essere il suo "schiavo".
Dal 1590 Alessandro vive stabilmente a Roma e la sua posizione diviene centrale sotto Clemente VIII, che lo ascrive alle Congregazioni dei Riti e delle Strade e lo fa partecipare, come Alessandro spiega a Ferdinando I il 30 maggio 1592, "a tutte le cose di fabbrica e di palazzo e di suore". Da Roma comunque preme sul cugino, perché appoggi la riforma dei monasteri, soprattutto femminili. In cambio il cardinale agisce nuovamente da intermediario fiorentino nella città eterna. Così nel 1592 tratta con Clemente VIII per la riduzione della manomorta ecclesiastica nello stato mediceo, ma il papa resta fermo sulla sua posizione e il cardinale e il granduca non sanno dargli torto, pur sperando in un qualche contenimento delle sue pretese.
Alessandro de' Medici riprende inoltre a interessarsi delle questioni francesi, spinto da Ferdinando I e da Filippo Neri. In particolare utilizza il suo ascendente per chiedere al papa di assolvere dalle censure Enrico IV di Francia, convertitosi a Saint-Denis il 25 luglio 1593. Il pontefice è favorevole a un’apertura alla Francia, ma teme la reazione spagnola: Medici lo conforta e contemporaneamente guida abilmente il cardinale Jacques Davy Du Perron, venuto a Roma per difendere la causa del suo sovrano. Clemente assolve il re francese il 17 settembre 1595, nel corso di una fastosa cerimonia.
E' quindi inevitabile che il pontefice pensi al cardinale de’ Medici, quando si prospetta la necessità d’inviare in Francia un legato affiancato dal nunzio Francesco Gonzaga. Alessandro non è particolarmente contento per la nomina, ma fa in modo di ottenere in cambio numerosi benefici.
La sua missione ha fini ad un tempo diplomatici (ricerca della pace fra Spagna e Francia per organizzare una crociata contro i turchi ed allontanare la Francia dall’Inghilterra e dall’Olanda) e religiosi (restaurare la religione cattolica e appianare le situazioni irregolari provocate dalla vacanza di numerosi seggi episcopali). Per ottenere questo secondo scopo il legato deve far ratificare a Enrico IV l’atto d’abiura e ottenere la pubblicazione dei decreti tridentini e il rientro degli Ordini religiosi in Francia. Entrambi gli obiettivi stanno particolarmente a cuore al papa, che spesso sostituisce il nipote Pietro Aldobrandini nel valutare la situazione e rispondere alle lettere del suo inviato, come mostrano le annotazioni di suo pugno.
Medici parte da Roma l'11 maggio 1596 con un seguito di oltre 200 persone. Si ferma a Firenze il 17 maggio e il granduca lo vuole ospitare a palazzo Pitti. Il 6 giugno è invece ospite di Carlo Emanuele I di Savoia, che gli rivela la sua stanchezza per il continuo guerreggiare, ma adombra anche il sospetto che Medici porti l’oro di Ferdinando I a Enrico IV.
A causa della peste il legato non può passare per Chambery e il 15 giugno prende la strada per il colle del Monginevro: il 22 è a a Lione e il 16 luglio a Montlhéry, dove gli viene incontro il re. Il 21 si rimette in marcia per Parigi, dove entra solennemente. Nel frattempo è scoppiata la polemica sulle sue facoltà: il re ha ovviamente dato il suo placet, ma il Parlamento parigino non vuole accettare i riferimenti al Concilio di Trento nelle bolle papali. Il legato fa allora sapere che non accetta clausole restrittive. La registrazione e la pubblicazione delle facoltà avviene infine con riserva. Comunque il re continua a esprimere pubblicamente il suo favore e il 19 agosto 1596 firma l’atto solenne della propria riconciliazione con la Chiesa.
Alessandro de' Medici rimane ancora due anni in Francia. In questo periodo non risede sempre a Parigi. Dall’8 dicembre 1596 al 2 febbraio 1597 soggiorna a Rouen assieme alla Corte; dall’ottobre 1597 al giugno 1598 si reca in Piccardia, dapprima a Saint-Quentin e poi a Vervins, dove si sposta la conferenza che deve portare alla pace omonima. Nel frattempo il papa decide d'inviare anche Bonaventura Secusi da Caltagirone, generale dei Minori osservanti, per coadiuvare gli sforzi del legato. Il francescano si preoccupa di tenere i contatti fra Enrico IV, Filippo II e il cardinale-arciduca Alberto d’Austria, governatore dei Paesi Bassi. Intanto Medici, le cui facoltà sono state ampliate nel giugno 1597, risolve le questioni d’etichetta e di precedenza e mette d’accordo i plenipotenziari spagnoli e francesi. In particolare presiede senza segni visibili di cedimento, nonostante i sessantatré anni sonati, i negoziati che si susseguono dal 9 febbraio al 2 maggio 1598.
Una volta firmata la pace il cardinale e gli ambasciatori si attardano sino alla fine di maggio a Vervins, quindi Alessandro de’ Medici rientra a Parigi, dopo aver incontrato il re ad Amiens. La sua entrata parigina è trionfale, ma il 5 maggio Enrico IV dichiara a Francesco Bonciani, rappresentante fiorentino, di essere soddisfattissimo di quel che ha fatto il legato, ma anche di non aver intenzione d’accontentarlo per quanto riguarda l’applicazione dei dettami tridentini e il ritorno degli Ordini in Francia. In effetti il re non vuole inimicarsi il parlamento di Parigi. Inoltre Gabriella d’Estrée, la sua amante ufficiale, teme le manovre di alessandro a pro’ di un matrimonio che unisca la Corona francese e i Medici.
Il cardinale ha dubitato sin dall’inizio di ottenere tutto quel che Clemente VIII si aspettava: è stato infatti negativamente sorpreso per la resistenza del Parlamento e per l’accordo tra cattolici e protestanti. Ora la situazione gli pare peggiorata e in luglio confessa a Francesco Contarini, ambasciatore veneziano, di sperare soltanto in un pronto rientro a Roma: desiderio che d’altronde nutre almeno dalla fine dell’anno precedente. In agosto il re lo invita infine a prendere la strada del ritorno, anche se poi nell’ultima udienza (1o settembre) cerca di addolcire i contrasti. Il legato, riflettendo sulla propria permanenza francese, commenta il 14 settembre che ha fatto quanto poteva, o meglio tutto quello che il re aveva auspicato che lui facesse: le cose, per il resto, non erano come si sperava a Roma, ma non erano neanche senza speranza.
Il 9 settembre Medici è a Digione, il 13 a Mâcon, il 30 a Thonon. Passa quindi per Lione, il passo del Sempione, la val d’Ossola, il lago Maggiore e Piacenza. Raggiunge infine Clemente VIII a Ferrara, dove è ricevuto in concistoro il 10 novembre 1598. Il pontefice non soltanto lo loda, ma ne scrive anche al re di Francia; inoltre lo designa prefetto della Congregazione dei vescovi.
Una volta a Roma, Alessandro non abbandona le trattative francesi e continua ad adoperarsi perché Enrico IV sposi Maria de’ Medici, figlia di Francesco I. Questa iniziativa gli è già valsa le critiche del nunzio Gonzaga e di Orazio Ruccellai, che hanno scritto al cardinale Pietro Aldobrandini per sottolineare quanto la lentezza dell’operato di Medici sia legata al suo desiderio di sistemare gli affari di famiglia. Adesso si dà da fare per far sciogliere il matrimonio di Enrico IV ed è proprio lui a presiedere il 10 settembre 1599 la congregazione cardinalizia che permette al re francese di risposarsi. Nel frattempo (aprile 1599) Gabriella d’Estrées è morta ed è più facile convincere il sovrano a sposare Maria de’ Medici. A sottolineare il ruolo del cardinale i due sposi gli chiedono nel 1602 di battezzare il futuro Luigi XIII, ma egli rifiuta temendo di offendere i congiunti filospagnoli di Clemente VIII.
In effetti l’anziano cardinale vuole capitalizzare la sua influenza romana. Il 30 agosto 1600 è stato designato cardinale vescovo di Albano e il 17 giugno 1602 di Palestrina; intanto si riparla di lui come papabile, grazie anche agli ottimi rapporti con Alessandro Peretti e Pietro Aldobrandini, nipote del papa regnante. Nel frattempo non abbandona la cura a distanza della sua diocesi e prosegue a interessarsi della riforma dei monasteri, come mostra il suo Trattato sopra il governo dei monasteri.
Il peggiorare della salute di Clemente VIII spinge intanto le grandi potenze a preparare la futura elezione. Il 28 ottobre 1604 Enrico IV di Francia esorta i suoi cardinali a tenersi uniti in caso di conclave e ad appoggiare il suo "congiunto" Alessandro de' Medici oppure Cesare Baronio, amico fedele della Francia. Il 7 marzo 1605 il re torna sulla questione, prospettando al cardinal François Joyeuse la possibilità di comprare l'appoggio di Pietro Aldobrandini e il 16 ripete allo stesso che gli raccomanda "sur toutes choses le cardinal de Florence". Da tempo invece la Spagna avversa la candidatura del Medici. Filippo III e i suoi consiglieri sperano infatti in Tolomeo Galli, settantanovenne ispanofilo facilmente condizionabile.
Alla morte di Clemente VIII il Sacro Collegio è composto da sessantanove cardinali, di cui cinquantasei italiani, sei francesi, quattro spagnoli, due tedeschi e uno polacco. Nove non partecipano al conclave, aperto il 14 marzo 1605, e i restanti sono divisi in numerosi partiti. Gli uomini del cardinal Peretti si avvicinano agli spagnoli e Aldobrandini porta i suoi a fianco dei francesi. Nel conclave si discutono ben ventuno nomi di papabili, più di un terzo dei presenti. In realtà, però, i veri candidati sono Medici e Baronio. Gli Spagnoli ovviamente li avversano, ma verso il secondo nutrono un tale odio che non sanno fermare l’avanzata del primo. Questi è infatti abile a difendere il collega e a sfruttare l’occasione per screditare il partito spagnolo. Infine, come d’altra parte si pensava da tempo, Peretti si dichiara disposto a far convergere su di lui i suoi voti e il cardinale di Firenze supera i due terzi dei voti nella notte tra l'1 e il 2 aprile. Ascende così al Soglio con il nome di Leone XI.
Una delle prime e delle poche questioni di cui si occupa durante i 27 giorni del suo pontificato è l'appoggio degli imperiali in Ungheria contro i Turchi. Al proposito si dichiara, per il tramite del cardinal Ludovico Madruzzo, pronto a portare soccorso, anche se le casse della Santa Sede sono esauste. Una Congregazione dei cardinali per gli affari ungheresi delibera in tal senso il 13 aprile 1605. Inoltre, conformemente alla capitolazione elettorale, Leone XI convoca una Congregazione cardinalizia per riformare il conclave: vuole infatti abolire l'uso di eleggere il pontefice mediante l'adorazione pubblica, sostituendola con la votazione segreta. La notizia sorprende i testimoni, soprattutto francesi, che vi vedono un modo per liberare il partito aldobrandiniano dal controllo del suo leader, ma anche per rimettere in gioco gli spagnoli. Altre sorprese attendono i francesi: il papa non si considera infatti creatura di Enrico IV e comunica al marchese di Villena, ambasciatore spagnolo, che il re di Spagna ha trovato in lui un amico.
Il suo pontificato è comunque troppo breve per giudicare quale avrebbe potuto esserne il corso. Di fatto l’aspetto maggiore del suo brevissimo regno sono i festeggiamenti, che hanno luogo a Roma e Firenze. Proprio durante la presa di possesso del Laterano Leone XI prende freddo e cade preda della malattia che lo porta alla morte dieci giorni dopo. La sua dipartita provoca molto cordoglio a Roma, Firenze e in Francia.

Nota bibliografica

Per la bibliografia su Anna d'Este, si confronti la nota in calce alla mia voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLIII. Alle opere ivi citate si possono aggiungere: Anne Puaux, La huguenote Renée de France, Paris, Hermann, 1998; il già citato Jean-Marie Costant, Les Guise, Paris, Hachette, 1984; e il romanzesco Emmanuel Bourassin, L'assassinat du duc de Guise, Paris, Perrin, 1994.
Per la carriera avignonese di Domenico Grimaldi, si veda il mio La vicelegazione di Avignone come tappa della carriera di alcuni curiali romani. appunti per una ricerca, in Il buon senso o la ragione? Miscellanea di studi in onore di Giovanni Crapulli, a cura di Nadia Boccara - Gaetano Platania, Viterbo, Sette Città, 1997, pp. 267-276. Per la sua lotta al banditismo, cfr. Irene Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello stato pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma, Edizioni dell'Ateneo, 1985. Per la sua biografia e in particolare per Lepanto e Avignone ho utilizzata la documentazione nell'Archivio Segreto Vaticano, soprattutto quella della Legazione di Avignone, delle Lettere di soldati e delle Lettere di vescovi.
Per la biografia di Ferdinando de' Medici, rimando a Mario e Matteo Sanfilippo, Profilo biografico d'un cardinale di Santa Romana Chiesa poi Granduca di Toscana: Ferdinando de' Medici, in Fondazione RomaEuropa, Roma Europa, la piazza delle culture, Roma, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1991, pp. 78-101, ed Elena Fasano Guarini, Ferdinando I de' Medici, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLVI. Per la sua vita romana, leggi anche Alberto Tinto, La tipografia medicea orientale, Lucca, Pacini Fazzi, 1987; AA.VV., La Villa Médicis, Rome, École Française de Rome, 1991; Stefano Calonaci, Ferdinando dei Medici: la formazione di un cardinale principe (1563-1572), "Archivio Storico Italiano", 570 (1996), pp. 635-690; Elena Fasano Guarini, "Roma officina di tutte le pratiche del mondo": dalle lettere del Cardinal Ferdinando de' Medici a Cosimo I e a Francesco I, in La corte di Roma tra Cinque e Seicento. "Teatro" della politica europea, a cura di Gianvittorio Signorotto e Maria Antonietta Visceglia, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 265-297. Sullo scandalo con Clelia Cesarini è ricco d'informazioni Roberto Zapperi (La leggenda del papa Paolo III. Arte e censura nella Roma pontificia, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 104-106, e Farnese, Clelia, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLV). Si consideri che l'Archivio Segreto Vaticano, la Biblioteca Apostolica Vaticana e l'Archivio di Stato di Firenze, fondo Mediceo del Principato, contengono molto materiale non ancora pienamente sfruttato. Personalmente ho utilizzato qualche lettera della Biblioteca vaticana e qualche documento fiorentino.
Per il quadro storico, nel quale agisce Ferdinando I una volta granduca, si consulti Furio Diaz, Il granducato di Toscana. I Medici, Torino, Utet, 1979; Giovanni Cipriani, Il mito etrusco nel rinascimento fiorentino, Firenze, Olschki, 1980; AA.VV., Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del '500, Firenze, Olschki, 1983; Anna Maria Pult Quaglia, "Per provvedere ai popoli". Il sistema annonario nella Toscana dei Medici, Firenze, Olschki, 1990; Matteo Casini, I gesti del principe. La festa politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia, Marsilio, 1996. Alessandro Baragona, Ferdinando I de' Medici tra Mediterraneo e Atlantico, "Miscellanea di Storia delle Esplorazioni", VIII (1983), pp. 71-99, e Leonardo Rombai, Attività marinare e aspirazioni coloniali toscane nel Nuovo Mondo al tempo di Ferdinando I de' Medici (1587-1609), in Momenti e problemi della geografia contemporanea. Atti del Convegno Internazionale in onore di Giuseppe Caraci, Roma, Centro Italiano per gli Studi Storico-Geografici, 1995, pp. 409-425, studiano le imprese finanziate dal granduca sulle coste dell'Atlantico. Caterina Volpi, Meraviglie misteriose dell'Est, "Ars", II, 10 (ottobre 1999), pp. 110-113, accenna alle sue curiosità verso l'Estremo Oriente. Rita Mazzei, A proposito di un lucchese al servizio dei Vasa nella seconda metà del Cinquecento: corrispondenza di Lorenzo Cagnoli con Francesco I e Ferdinando dei Medici, "Actum", 19 (1990), pp. 87-109, fornisce notizie sui suoi interessi nell'Europa centrale. Per i suoi rapporti con l'impero, si guardino le lettere nell'Archivio di Stato di Firenze, nel già citato fondo Mediceo del Principato, e le copie in Biblioteca Apostolica Vaticana, Manoscritti, Fondo Patetta, ms. 2193.
Per la bibliografia su Alessandro de' Medici, vedi le indicazioni nella mia voce sull'Enciclopedia dei Papi, III, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2000. Le fonti archivistiche sono copiosissime e poco sfruttate. Da ricordare quelle vaticane (Archivio Segreto e Biblioteca Apostolica) e quelle fiorentine (Archivio di Stato, fondo Mediceo del Principato, e Biblioteca Marucelliana), ma anche la Vita del cardinale di Firenze [...] insino al tempo che fu mandato in Francia [...] (Roma, Biblioteca Casanatense, cod. 4201): tutte quante utilizzate per questo testo. La permanenza in Francia ha lasciato una documentazione altrettanto vasta, in particolare cinque registri di suppliche e tre di bolle alla Biblioteca Nazionale di Parigi nel fondo Manuscrits latins, oltre a vari materiali nel fondo Manuscrits français della stessa.