Parte III
Personaggi italiani sulla scena francese
Nelle due parti precedenti l'Italia è entrata solo di straforo. In questa il suo ruolo non sarà maggiore, tuttavia si cercherà di mostrare che alcuni personaggi di origine italiana hanno giocato un ruolo importante, o per lo meno significativo nel contesto di quegli anni. In questo caso la ricerca è soltanto agli inizi, come menzionato nell'introduzione, ma già indica piste da esplorar. Meritano infatti di essere ristudiate le relazioni tra le casate francesi e quelle italiane, nonché la presenza in Francia di così tanti italiani. Inoltre gli Archivi Segreti Vaticani si rivelano uno straordinario forziere, nel quale si trova un vero tesoro di informazioni sulla Francia delle guerre di religione, nonché sugli italiani oltralpe. Infine si intuisce che nell'ambito della presenza italiana, dobbiamo affrontare anche le vicende dei diplomatici e degli amministratori inviati dalla Santa Sede a Parigi o ad Avignone.
Anna d'Este
La vita di Anna d'Este (Ferrara, 16 novembre
1531 - Parigi, 17 maggio 1607) ci rivela la vicenda quasi
romanzesca di una donna, mandata in terra straniera per ragioni
dinastiche, che sa ritagliarsi un proprio spazio diplomatico e
sentimentale in mezzo alle guerre di religione francesi.
Nell'estate del 1547 Enrico II di Francia invia Lancelot de Carle a
Ferrara per sondare il duca Ercole II. In particolare l'uomo del
sovrano francese deve proporre al duca il matrimonio tra sua figlia
Anna d'Este, cugina germana del re di Francia, e Francesco di
Lorena, figlio di Claudio di Guisa. Ercole II tergiversa,
accampando la giovane età della figlia. In realtà il duca l'ha già
rifiutata a Orazio Farnese, nipote del pontefice Paolo III, e sta
tentando di darla in sposa a Sigismondo II, erede al trono polacco.
Vista la situazione Enrico II decide d'intervenire personalmente e,
nell'agosto dell'anno successivo, convoca in Piemonte il duca di
Ferrara, che è infine convinto dalla promessa che il pagamento
della dote sarà anticipato dalla corona francese. Il 15 settembre è
quindi celebrato il matrimonio per procura, mentre le nozze vere e
proprie devono attendere il 16 dicembre 1548.
Anna si trasferisce così in Francia, dove funge da emissaria del
padre. Nel frattempo dà al marito sette figli e una figlia.
Impegnata dalle gravidanze, che si succedono quasi senza soluzione
di continuità, la giovane ferrarese rimane ai margini della corte
francese, pur legandosi con Caterina de' Medici, consorte di Enrico
II. Lentamente, però, si avvicina al marito che inizia a seguire
nelle campagne militari e negli incontri diplomatici. Alla fine
degli anni 1550 rompe addirittura con la famiglia paterna,
ritenendo che essa non compia quanto necessario per sostenere
l'ascesa francese dei Guisa.
Il 1 marzo 1562 Anna è a fianco del marito, quando questi dà il via
al massacro dei protestanti di Vassy. La duchessa dichiara in
seguito di temere una rappresaglia, ma i Guisa la invitano a non
preoccuparsi. Invece, neanche un anno dopo, Francesco di Lorena è
mortalmente ferito dal protestante Jean Voltrot. Anna accorre al
capezzale dello sposo, che le consiglia di a rimettersi alle
decisioni del re. Il 26 settembre 1663 la giovane vedova accusa
invece pubblicamente Gaspard de Coligny di essere il mandante di
Voltrot. Carlo IX, il figlio di Caterina de' Medici ed Enrico II,
desidera, però, arrivare alla pace e non vuole ascoltare le accuse
di Anna. Anzi questa è obbligata a riconciliarsi con il
Coligny.
In cuor suo Anna non rinuncia a vendicarsi, ma nel frattempo decide
di trovare un altro marito, che la metta al riparo da nuovi
attacchi. Così nel 1566 sposa Giacomo di Savoia, duca di Nemours,
un uomo d'arme da sempre legato ai Guisa. Dal nuovo matrimonio
nascono altri due figli e la vendetta pare allontanarsi per sempre.
Ma nel 1572 Caterina de' Medici, all'insaputa di Carlo IX, chiede
ad Anna di eliminare Coligny. La duchessa di Nemours ne discute con
i figli di primo letto ed Enrico di Lorena, suo primogenito e duca
di Guisa, le suggerisce di uccidere di sua mano il loro avversario.
La duchessa non si fida, però, della propria abilità di tiratrice e
assolda un sicario, che, come abbiamo visto nella prima parte,
riesce soltanto a ferire Coligny. La responsabilità di Anna è
lampante, tanto che la duchessa teme un'immediata e violenta
ritorsione. Senonché Coligny è trucidato assieme alla maggioranza
dei protestanti francese nella già menzionata notte di s.
Bartolomeo.
Negli anni successivi Anna ritrova dunque la tranquillità e può
dedicarsi alle faccende familiari, complicate dalla necessità di
contemperare i desideri e le richieste dei figli di primo letto e
di secondo letto, nonché di un figlio illegittimo del secondo
marito. Nel frattempo si riavvicina a Caterina de' Medici e nel
1579, per favorirla, seda il contenzioso tra il cardinale Luigi
d'Este, suo fratello, e Giano Fregoso, vescovo di Agen. In cambio
Caterina fà ratificare a Enrico III la cessione della contea di
Tenda a Emanuele Filiberto di Savoia, cugino del duca di
Nemours.
Anna scopre allora che grazie al fratello cardinale può proporsi
quale mediatrice tra la corte francese e la Santa Sede. Iniziò per
lei un periodo di notevole prestigio, che la vede addirittura
manovrare per far succedere al fratello Alfonso II, duca di
Ferrara, il nipote Carlo di Lorena, figlio di Enrico duca di Guisa.
La morte del marito nel 1585 e quella del fratello Luigi nel 1586
gettano all'aria questi piani e Anna si trova nuovamente nei
guai.
Caterina de' Medici inizia infatti a osteggiare le mire di Anna per
i due figli avuti dal duca di Nemours. Allo stesso tempo, i figli
di primo letto radicalizzano la propria posizione antiprotestante,
contro il volere della madre. Nel dicembre 1588 Anna viene a sapere
che Enrico III di Francia vuole uccidere Enrico di Guisa. Avverte
il figlio nella notte tra il 22 e il 23 dicembre, ma questi non
vuole crederle. La mattina successiva cade così sotto il pugnale
dei sicari del re ed è seguito il giorno dopo dal fratello, il
cardinale Luigi di Lorena. Enrico III fa inoltre arrestare Anna, il
figlio primogenito del defunto duca di Guisa e Charles-Emmanuel de
Savoie. Quest'ultimo riesce a fuggire, mentre la duchessa è
imprigionata nel castello di Blois, quindi trasferita in quello di
Amboise e infine liberata.
Tornata a Parigi si rende conto che lo spazio di manovra è molto
ridotto e che la guida dei Guisa è ormai in mano al duca di
Mayenne. Forse per questo appare meno combattiva del solito nella
divisione dei beni del cardinale Luigi d'Este. Nel frattempo i
figli di primo e di secondo letto di Anna si affrontano
violentemente per godere la parte dell'eredità toccata alla
madre.
Nel 1595 si spenge Charles-Emmanuel de Savoie. Due anni dopo con la
morte senza eredi di Alfonso II si estingue invece il ramo
principale della famiglia d'Este. Nonostante queste disgrazie, agli
inizi del nuovo secolo la vecchia duchessa è ancora al centro della
ragnatela diplomatica che collega Roma e Parigi. E' quindi trattata
con riguardo dal nuovo re, Enrico IV.
Nel 1602 Vincenzo Ungarino, segretario del nunzio a Parigi, scrive
che la vecchia duchessa sta perdendo la risolutezza che l'ha
contraddistinta in gioventù. Nel 1604 altre fonti segnalano
l'inizio del decadimento mentale. Negli ultimi anni della sua vita
Anna si chiude nel palazzo parigino dei Nemours, dove infine muore
il 17 maggio 1607. Ha nel frattempo chiesto e ottenuto che il suo
cuore sia portato al castello di Joinville e posto accanto al primo
marito. Il suo corpo è invece sepolto a Notre-Dame di Annecy nella
tomba del secondo marito. Le sue viscere sono infine inumate nella
chiesa des Augustins a Parigi, dove è letto un appassionato elogio
funebre di Severin Bertrand.
L'eco di questo elogio, rafforzata da quanto aveva detto su di lei
il signore di Brantôme, nelle Vite delle dame
galanti (1583-1584), e di un sonetto di Pierre de Ronsard
rimane viva a lungo e ispira le lodi postume alla bellezza e al
coraggio della duchessa. E' stato anche ipotizzato che Marie
Madeleine, contessa de La Fayette, si sia ispirata ad Anna d'Este
per raffigurare la protagonista di La
principessa di Clèves (1678). La bellezza di Anna d'Este è
testimoniata dai numerosi ritratti che la duchessa si è fatta fare
nel corso della sua vita. Essi tuttavia non rendono conto
dell'abilità con la quale Anna d'Este ha saputo destreggiarsi,
mantenendo fede agli impegni presi con la famiglia paterna e agli
obblighi contratti con le famiglie dei due mariti.
Domenico Grimaldi
Domenico Grimaldi nasce a Genova nella prima
metà del Cinquecento da una delle più importanti famiglie locali.
Suo padre, Giambattista, ha combattuto per Carlo V e numerosi suoi
fratelli servono la corona spagnola. Domenico è invece avviato alla
carriera ecclesiastica, ma non per questo abbandona le tradizioni
familiari: anzi, servendo la Chiesa, ha modo di combattere sia sul
mare, sia sulla terra.
Nell'inverno del 1570 Pio V lo incarica di approntare le galere per
la guerra ai turchi e, quale commissario della flotta pontificia,
Grimaldi segue Marcantonio Colonna nella campagna navale, che porta
alla vittoria di Lepanto. Il giovane commissario pontificio
combatte così a fianco dei fratelli, che hanno armato due galere
della squadra genovese. La sua campagna non è, però, gloriosa. Le
sue lettere a Roma rivelano soprattutto le preoccupazioni di chi
deve occuparsi del vettovagliamento e tratta con i mercanti
siciliani, veneziani e ragusani per ottenere vino e viveri al
prezzo più basso. Inoltre Grimaldi è accusato da Marcantonio
Colonna d'incompetenza e obbligato a discolparsi davanti al
cardinale Tolomeo Galli, segretario di stato di Gregorio XIII.
Riesce a scusarsi adducendo a motivo della scarsità delle
vettovaglie, i pochi fondi affidatigli
In ogni caso il papa apprezza l'impegno del giovane genovese, che,
al ritorno a Roma, è nominato referendario delle due segnature e
diviene un funzionario della curia pontificia. Il suo destino si
allontana quindi dai campi di battaglia, ma pochi anni dopo torna a
calcarli in Francia. Quest'ultima è allora divisa, come abbiamo
visto, dalle guerre di religione e gli ugonotti minacciano i
possedimenti avignonesi del papa. Il 18 marzo 1577 Grimaldi è
quindi nominato rettore del Contado venassino e gli è confidata
l'autorità straordinaria di commissario per il tempo della guerra.
Suo compito precipuo è quello di fermare le aggressioni ugonotte.
Il genovese mostra di meritare la fiducia accordatagli e, dopo aver
convocato a Carpentras la nobiltà cattolica, guida un'armata
italo-francese alla conquista di Menerbes, roccaforte
ugonotta.
Negli anni successivi si dedica alla difesa dei confini del Contado
venassino e al mantenimento dell'ordine interno. In particolare
cerca di prevenire le discordie fra i nobili locali e a tal scopo
interrompe ai primi del 1580 un duello alle porte di Carpentras.
Uno dei due contendenti, Esprit Suquet, signore di Maizan, protesta
con vemenza e poca cordialità; per tutta risposta Grimaldi lo
stende con un colpo di piatto.
Ripresosi, Suquet sfida il genovese, chiedendo di lavare con il
sangue l'offesa subita. Il funzionario pontificio deve ovviamente
declinare la sfida e ricorre al cardinale d'Armagnac, co-legato di
Avignone, per far calmare Suquet. Quest'ultimo finge di
accondiscendere e chiede addirittura scusa al rettore del Contado
venassino, ma in realtà medita la vendetta. Poco tempo dopo
Grimaldi scorta, assieme al fratello Tommaso e a venti cavalieri,
Henri de Valois-Angoulême, figlio naturale di Enrico II. Appena
fuori Avignone, Suquet piomba con i suoi sulla piccola scorta e,
grazie al numero preponderante, uccide quattro cavalieri e Tommaso
Grimaldi. Domenico si difende bravamente e riesce a salvarsi,
nonostante che gli abbiano abbattuto il cavallo.
Rientrato in città, organizza l'inseguimento dell'assalitore, ma
questi abbandona i possedimenti pontifici e al rettore del Contado
venassino non resta che sequestrargli i beni. La vicenda spaventa
moltissimo i superiori di Grimaldi, che è richiamato a Roma nel
maggio 1580. Tenta allora di ottenere un nuovo incarico in curia,
ma dopo soltanto due mesi è rimandato in Francia, non senza, però,
essere riuscito a strappare la promessa di nuovi benefici. Di fatti
l'anno successivo è nominato vescovo di Savona, ma gode soltanto
delle rendite di questa diocesi, perché rimane rettore del Contado
venassino sino al 1584. Soltanto il 20 febbraio 1584 è infatti
sostituito in questa carica dal suo uditore e luogotenente, Pompeo
Rocchi. Tale avvicendamento non permette, però, al nostro vescovo
di tornare in Italia, ché anzi il suo ruolo nel Contado diviene
ancora più importante.
Proprio agli inizi del 1584 il già citato Tolomeo Galli suggerisce
a Girolamo Ragazzoni, nunzio in Francia, di affidare Avignone a
Grimaldi, nel frattempo trasferito alla diocesi di Cavaillon, visto
che non riusciva a seguire adeguatamente Savona, troppo distante
dal Venassino. L'occasione per promuovere Domenico si presenta
nell'autunno del 1584, quando muore Baldassarre Boschetti,
comandante delle truppe avignonesi. Il cardinale Galli scrive
nuovamente a Ragazzoni e gli fa sapere che il comando deve essere
affidato a Grimaldi, se il re di Francia è d'accordo. Enrico III,
interpellato nel gennaio 1585, risponde che quel posto spetta a un
soldato e Ragazzoni ribatte che Grimaldi proprio quello è, come
dimostrano i suoi precedenti a Lepanto e nella lotta contro gli
ugonotti. Il nunzio alla fine la spunta, grazie all'aiuto della
regina madre, che apprezza molto il genovese, e nel gennaio del
1585 quest'ultimo diviene comandante delle truppe avignonesi. Nel
giro di pochi mesi è quindi designato vice-legato, nonché
arcivescovo di Avignone.
In quest'ultima qualità segue con attenzione i problemi della
chiesa locale: fonda un seminario e indice tre sinodi diocesani nel
1586, 1589 e nel 1592. Tuttavia i suoi interessi e i suoi doveri
più impellenti restano sempre in ambito amministrativo-militare. Le
cronache ci tramandano così il ricordo di un vescovo che preferisce
la corazza alle vesti ecclesiastiche e che si preoccupa della
costruzione di forti piuttosto che di quella delle chiese. D'altro
canto la situazione militare non è in quel momento favorevole. Gli
ugonotti del Delfinato hanno infatti ripreso a premere su Avignone;
inoltre alle loro minacce si assommano quelle cattoliche. Enrico
III ha infatti incaricato Jean de Nogaret, duca di Épernon, e suo
fratello Bernard, duca di La Valette, di riconquistare Oranges,
caduta in mano degli ugonotti, ma i due pensano di mettere a sacco
la stessa Avignone. Grimaldi è avvertito del pericolo nel settembre
1586 e ricorre a Caterina de' Medici per giungere a un accordo con
i Nogaret nell'ottobre dello stesso anno.
Il pericolo di un sacco da parte cattolica è evitato, ma da allora
Jean de Nogaret si guarda bene dal proteggere Avignone. Il
vice-legato si deve quindi impegnare in prima persona per
rafforzare la difesa dei possessi pontifici. In accordo con Sisto
V, intavola trattative con Enrico di Montmorency e, tramite questi,
con gli ugonotti della regione, riuscendo infine a ottenere una
tregua agli inizi del 1589.
A questo punto Grimaldi pensa di poter restare per sempre ad
Avignone, ma nel frattempo Roma ha ricevuto numerose critiche
contro il suo operato. Da una parte, gli viene rinfacciato di
mostrarsi troppo ben disposto verso il Montmorency, accusa della
quale gli è facile difendersi, ricordando a Sisto V le istruzioni
ricevute. Dall'altra, è accusato di aver "defraudato il denaro
della camera". Quest'imputazione è più grave, anche perché
accompagnata da una serie di pasquinate in francese, nelle quali si
ribadisce che Grimaldi si preoccupa soltanto di "succer le sang du
pais pour senrichir [sic!]". Da Roma è quindi avvertito che sarebbe
stato nominato un nuovo vice-legato e che deve tenersi pronto a
rientrare.
Il ritorno è, però, rinviato a causa del pericolo ugonotto.
Grimaldi continua a fortificare i dintorni di Avignone, dove resta
sino all'anno successivo. Il 23 giugno 1589 scrive infine al
cardinale Montalto che la situazione si è stabilizzata e che il
vescovo di Cavaillon, il fido Pompeo Rocchi, può sostituirlo. Nel
frattempo è stato nominato il nuovo vicelegato, Domenico Petrucci,
vescovo di Bisignano, che il 23 luglio dello stesso anno arriva a
Nizza, dove, però, è bloccato per almeno un mese. Non è quindi
chiaro quando esattamente sia avvenuto il passaggio delle consegne
e quando Grimaldi sia infine partito per Roma.
Il nuovo vice-legato trova subito le prove che il suo predecessore
si è in effetti arricchito al di là del lecito, o comunque
dell'usuale. In particolare ricostruisce la storia di come Grimaldi
sia stato nominato dal re di Francia abate commendatario di
St-Pierre Montmajeur d'Arles, che vale almeno 4.000 scudi. Il
precedente abate si era infatti rifugiato ad Avignone, dopo aver
messo incinta una suora. Grimaldi lo aveva protetto e gli aveva
fatto ottenere la diocesi di Tolone, pretendendo in cambio la
commenda della ricca abbazia. A Roma si decide di non tener conto
delle accuse di Petrucci e si provvede a ratificare nel febbraio
1590 la nomina dell'arcivescovo di Avignone ad abate di St-Pierre
Montmajeur. Il papa ha di nuovo bisogno dei suoi servizi di uomo
d'arme e non vuole scontentarlo.
Nei domini pontifici in Italia il banditismo è allora entrato in
una fase acuta e Sisto V ha deciso che Grimaldi è l'uomo in grado
di pacificare le Marche. L'arcivescovo di Avignone quindi non perde
il suo arcivescovato e i vari benefici ed è nominato governatore
delle Marche. Nel 1590 elegge quindi Ascoli a sua residenza e da
questa città muove contro le formazioni dei banditi, concludendo
vittoriosamente la sua campagna nella primavera del 1591.
A questo punto Grimaldi conta di rimanere in Italia e pare di
capire che abbia persino sperato di divenire cardinale. E' invece
rimandato ad Avignone, dove la situazione è di nuovo peggiorata dal
punto di vista militare e da quello amministrativo. Nell'aprile del
1592 rientra quindi nella sua arcidiocesi e riprende il vecchio
incarico di vice-legato. Questa volta, però, deve affrontare un
nemico più implacabile di tutti quelli, che ha sino allora piegato:
nel giro di pochi mesi un cancro allo stomaco lo porta alla tomba.
Il 1° agosto i fratelli, Francesco e Giacomo, lo fanno tumulare
nella cattedrale, dove una lapide ricorda i suoi trascorsi
militari.
Le scarne parole dei fratelli - che non ricordano la data di
nascità o l'età di Domenico, ma sottolineano le sue imprese di
guerra - sono probabilmente il migliore epitaffio per un vescovo,
che in fondo è stato soprattutto un soldato. Una volta riconosciuto
questo non bisogna tuttavia sottovalutare il rilievo della carriera
amministrativa di Domenico Grimaldi e soprattutto la sua importanza
nell'ambito della storia avignonese. Per quindici anni ha retto le
sorti di Avignone e del Contado venassino, passando da una carica
all'altra e talvolta cumulandone più di una. Questa forte
centralizzazione dell'amministrazione avignonese è il frutto di una
situazione eccezionale, ma permette anche a Roma d'imporre
definitivamente la figura dei vice-legati, spariti durante la lunga
legazione del cardinale Charles de Bourbon, come gerenti della
città e di preparare il passaggio dal legato di origine francese a
quella dei legati italiani. Grimaldi, cumulando l'autorità civile,
quella militare e quella ecclesiastica, non ha infatti rivali
all'interno del dominio avignonese, se non quelli causati dalla
gelosia della nobiltà locale.
I successi di Grimaldi - che comunque conosce anche smacchi
cocenti, basti pensare all'assassinio del fratello - non sono
dovuti soltanto alla guerra, ma anche ai contatti diplomatici che
egli sa instaurare. In occasione di un incontro con il re nel 1584,
il cardinale Galli consiglia al nunzio Ragazzoni di portarsi dietro
il genovese, perché questi era "assai informato de li humori et del
procedere del paese, et è amato da tutti li ministri di S. M.tà in
quelle parti". Grimaldi ha saputo infatti sfruttare i legami tra la
propria famiglia (un ramo della quale regge ancora oggi il
principato monegasco), Genova e il Mezzogiorno francese per
rafforzare il controllo di Roma su Avignone. Tale situazione era
vantaggiosa per Roma e per i Grimaldi, non a caso Domenico è sempre
coadiuvato da qualcuno dei suoi numerosissimi fratelli, ma lo era
anche per Genova. Avignone è infatti un importante centro
d'informazioni importanti e funziona da relé tra Parigi e le
capitali italiane. Di conseguenza nei secoli successivi molti
genovesi chiedono e ottengono il posto di vice-legato ad
Avignone.
Ferdinando de' Medici
Sin dalla nascita nel 1549 Ferdinando de'
Medici appare destinato al palcoscenico internazionale. Figlio di
Cosimo I e Leonora di Toledo, è tenuto a battesimo da Ferdinando
d'Asburgo, fratello dell'imperatore Carlo V e re di Boemia e
d'Ungheria. Senonché è soltanto il quintogenito e quindi, per il
momento, tutti gli onori sono per i fratelli maggiori: Francesco,
che deve succedere al padre; Giovanni, destinato a divenire
cardinale; e Garzia, cui spetta il patrimonio materno. Ma la sorte
ha in serbo per lui ben altre possibilità.
Nell'ottobre del 1562 Cosimo va a caccia in Maremma e porta con sé
Giovanni, Garzia e Ferdinando. Tutti e tre i figli sono colpiti
dalla malaria, ma soltanto il più giovane sopravvive. Alcune
malelingue sussurrano che quell'adolescente dall'aria un po' ottusa
ha fatto fuori i fratelli maggiori per incamerare i loro beni.
Altre voci asseriscono invece che Garzia avrebbe ferito mortalmente
Giovanni e poi sarebbe stato ucciso dal padre.
Quest'ultimo ignora i pettegolezzi e decide che Ferdinando deve
prendere il posto di Giovanni nel collegio cardinalizio. In un
primo tempo Pio IV si oppone, adducendo la malaria contratta dal
giovane, ma infine acconsente. Il 6 gennaio 1563 Ferdinando è
quindi creato cardinale; è, però, troppo malato per recarsi a Roma,
dove giunge solamente l'anno successivo. Nel frattempo il padre ha
lasciato a Francesco il governo degli affari correnti. Il vecchio
granduca non abbandona comunque il giovane cardinale e cerca di
fargli avere un posto di prestigio nella Curia. Ferdinando invece
non è così desideroso d'impegnarsi nella vita romana. Torna spesso
a Firenze e soprattutto non prende i voti: decisione che più tardi
sarà considerata una delle prove che egli ha scientemente
pianificato l'eliminazione di tutti i suoi fratelli.
Il 9 dicembre 1565 muore Pio IV e Ferdinando agisce allora come
portaparola del padre, che vorrebbe influenzare l'elezione del
nuovo pontefice. Il cardinale è, però, troppo poco addentro alle
faccende romane per contare veramente. Di conseguenza non riesce a
impedire l'ascesa al soglio pontificio di Pio V Ghislieri, avverso
ai Medici.
A questo punto Cosimo teme addirittura per la sicurezza del figlio
e lo richiama a Firenze. Dopo poco, tuttavia, i rapporti tra il
papa e i Medici si distendono e Ferdinando è rimandato a Roma, dove
inizia il suo apprendistato politico. Il giovane cardinale adesso
risiede stabilmente nel palazzo di famiglia a Campo Marzio,
all'angolo tra piazza Firenze e via dei Prefetti, e si dimostra
all'altezza delle aspettative paterne. In poco tempo conquista la
fiducia della cerchia di Pio V e in particolare si lega a Michele
Bonelli, nipote e consigliere del papa.
Nel conclave del 1572 sfrutta le sue nuove amicizie per sbarrare la
strada ad Alessandro Farnese e appoggiare l'ascesa di Gregorio XIII
Boncompagni. Il nuovo papa lo ascrive alla Congregazione per le
strade e le fontane, una posizione che gli tornerà utile in
seguito. Inoltre il patto elettivo rende strettissimi i legami tra
le due casate. Nel 1576 Ferdinando organizza il matrimonio di
Giacomo, figlio del pontefice, e Costanza Sforza di Santa Fiora. Il
28 settembre dell'anno successivo Giacomo lo accompagna al
battesimo dell'unico erede di Francesco de' Medici.
Quest'ultimo è intanto divenuto il secondo granduca di Toscana. Il
21 aprile 1574 Cosimo I de' Medici è infatti morto e ha lasciato a
Ferdinando metà del palazzo Firenze a Roma e una rendita vitalizia
di 80.000 scudi l'anno. Un appannaggio assai gradito, perché il
cardinale mantiene un treno di vita dispendioso - nelle scuderie ha
ben 100 cavalli - che gli serve per spiccare nella Curia. Inoltre,
sempre per distinguersi, versa pingui offerte all'Arciconfraternita
della SS. Trinità dei Pellegrini, della quale è cardinale
protettore.
La sua esistenza non è comunque improntata ai soli valori del lusso
e della beneficenza. Egli è un protagonista della vita cittadina,
anche nei suoi aspetti più misteriosi. Nel 1576, mentre rientra di
notte, è, assalito e ferito assieme a un suo staffiere; un altro
suo accompagnatore è invece ucciso. Una vendetta dei Farnese? Una
tentata rapina? Un regolamento dei conti? Una risposta alla
violenza esercitata altre volte dal turbolento seguito del Medici?
Le fonti non sciolgono i dubbi, ma i gusti del cardinale offrono
altre possibili spiegazioni. Ferdinando ama infatti le compagnie
femminili, anche quelle che dovrebbe evitare, perché protette da
familiari gelosi, e soprattutto il gioco. Il 27 agosto 1575
Gregorio XIII si vede costretto a biasimarlo pubblicamente per aver
perso 30.000 scudi al gioco e lo invita a un comportamento più
idoneo alla porpora cardinalizia. Visto che c'è, lo esorta anche a
prendere gli ordini sacri. Il Medici non segue i consigli del
pontefice, anzi qualche anno più tardi si prende addirittura la
rivincita sul figlio di Gregorio XIII e, che nel luglio 1583, lo
alleggerisce, assieme a Orazio Ruccellai e al cardinale Maffei, di
ben 150.000 scudi.
Ferdinando non è comunque soltanto un gaudente spendaccione. Con il
tempo diventa anche uno dei maggiori mecenati romani. Pure in
questo campo il suo avversario è il cardinale Farnese. Questi
spende somme enormi nella chiesa del Gesù, nel completamento del
palazzo di famiglia, nell'acquisto dell'antica villa suburbana di
Agostino Chigi (detta da allora la Farnesina), negli Orti
Farnesiani sul Palatino e soprattutto nella villa-castello di
Caprarola. Ferdinando al contrario non disperde i suoi sforzi e
cerca qualcosa che gli dia la massima pubblicità.
Il suo interesse per l'arte inizia in sordina nel 1566, quando fa
intagliare i soffitti di Santa Maria in Domnica con le imprese
della Vergine. Sei anni più tardi fa affrescare a Jacopo Zucchi le
volte del palazzo di famiglia. Commissiona inoltre allo stesso
pittore la Messa di San Gregorio, nella
quale si fa effigiare, per l'altare dell'oratorio (oggi si trova
nella sacrestia) della SS. Trinità dei Pellegrini in via delle
Zoccolette.
Nel decennio successivo si volge anche ai libri di pregio. Nel 1584
fa costruire la Tipografia Orientale, che affida al famoso incisore
Giovan Battista Raimondi. Nello stesso anno manda Girolamo e
Giambattista Vecchietti alla ricerca di codici asiatici. Nel 1586
invia invece Giovan Battista Britti in Etiopia. Inoltre domanda a
Filippo Sassetti di procurargli manoscritti dall'India. Molte di
queste richieste sono esaudite e alcune delle opere riportategli
sono oggi fra i tesori della Biblioteca Apostolica Vaticana, di
quella Mediceo-Laurenziana e della sezione Magliabechiana della
Nazionale di Firenze. Sassetti inoltre rifornisce il cardinale di
stoffe e sementi indiane.
L'acquisto nel 1576 della villa del cardinale Ricci al Pincio è il
colpo più spettacolare, nel campo della magnificenza e del
mecenatismo. Essa è già una delle più famose residenze romane, ma
Ferdinando la ingrandisce, tra il 1577 e il 1585, e trasforma il
giardino in un museo all'aperto. Nel 1583 acquista a tal scopo il
gruppo delle Niobidi, da poco ritrovate in una vigna della villa
Altieri sull'Esquilino. Nel 1584 compra anche la collezione di
antichità che orna il palazzo Valle, allora di proprietà dei
Capranica. Nel 1587 compra per 200 scudi la conca antica di marmo
granito che era dei frati di San Salvatore in Lauro. La risonanza è
altissima. Nel 1579 Gregorio XIII si fa ospitare nella villa. Nel
marzo 1580 essa è visitata da Montaigne, che la giudica una delle
più belle di Roma. Infine l'inviato di Mantova decreta che è senza
dubbio la più bella di tutta la città.
Ferdinando è ormai molto conosciuto ed è in grado di affrontare da
pari a pari lo scontro finale con Alessandro Farnese. Scontro che
si complica per alcuni risvolti boccacceschi. Nel 1585 viene
infatti appeso alla statua di Pasquino un cartello sibillino: "il
Medico cavalca la mula Farnese". Per i romani ben informati è
un'evidente allusione alla tresca tra il Medici e Clelia Cesarini,
figlia illegittima del cardinale Farnese. Quest'ultimo ha allora 75
anni: la successione a Gregorio XIII è quindi la sua ultima
chance di divenire papa. Tra i due
cardinali si scatena una lotta serrata, che coinvolge anche i
partiti spagnolo e francese.
Questo duello è di fondamentale importanza per Firenze. Il granduca
paventa infatti di essere preso nella morsa dei Farnese, che
possiedono il ducato di Parma e Piacenza a nord della Toscana e il
ducato di Castro a sud. Francesco de' Medici non dubita delle
capacità di Ferdinando, ormai ritenuto da molti il più intelligente
fra tutti i cardinali. Tuttavia teme il suo carattere impetuoso e
il suo disprezzo per chi non sia di sangue principesco. Gli
affianca allora il proprio segretario Belisario Vinta e spera che
quest'ultimo sappia tenerlo a freno.
Ferdinando si comporta invece benissimo e recupera una situazione
apparentemente compromessa. Alessandro Farnese guadagna subito
l'appoggio di Filippo Boncompagni e dei cardinali spagnoli; però,
il Medici gli contrappone il cardinale Alessandrino e Marco
Sittich, capo dei cardinali fatti da Pio V. I due avversari sono
ora in posizione di stallo, ma Ferdinando riesce a convincere il
cardinale Madruzzo, appena giunto a Roma, dell'improponibilità del
Farnese. Madruzzo si adopera quindi presso gli altri membri del
partito spagnolo, affinché non sostengano la candidatura
farnesiana.
A questo punto si mormora che Felice Peretti potrebbe divenire
papa, ma il Farnese è sicuro che Ferdinando non possa avallare
questa scelta. Francesco Peretti, nipote di Felice, è stato ucciso
da Paolo Giordano Orsini, cognato di Ferdinando. Quindi, sostenendo
Peretti, il Medici rischia di far condannare un congiunto.
Alessandro Farnese sottovaluta, però, Ferdinando che gioca il tutto
per tutto per eliminare il suo avversario. Il cardinale fiorentino
si accorda con i colleghi d'Este, Bonelli e Altemps e appoggia
l'elezione di Sisto V Peretti il 24 aprile 1585.
Questa mossa è indubbiamente coraggiosa e mette a tacere per sempre
Alessandro Farnese. Tuttavia il futuro è ora incerto per i Medici e
i loro congiunti. Inizialmente tutto procede per il meglio. Gli
Orsini sono perdonati dal nuovo papa. Ferdinando è promosso al
titolo di S. Eustachio ed è nominato presidente della commissione
per il ripristino dell'Acqua Alessandrina, in virtù del suo
precedente incarico alle strade e fontane.
Proprio da questa nomina nascono, però, i primi screzi. Il papa ha
fretta di realizzare il progetto, che da lui prenderà il nome di
Acqua Felice, ma Ferdinando è contrario a spese esagerate e
soprattutto a lavori affrettati. Nel 1585 Sisto V comanda al
cardinale di acquistare una vena d'acqua, che scaturisce dal monte
al di là del "Pantano de' Grifi", e di utilizzarla per rifornire la
piazza antistante S. Maria degli Angeli: due anni dopo l'ordine non
è ancora eseguito. L'acquedotto Felice è infine realizzato con le
economie desiderate dal Medici, il quale si scontra più volte con
il papa. Quest'ultimo comunque concede nel 1587 alcune once
dell'Acqua Felice al cardinale, che così risolve, una volta per
tutte, il rifornimento idrico della villa sul Pincio. La stessa
sceneggiatura si ripete quando Ferdinando entra nella commissione
per l'erezione dell'obelisco di piazza di San Pietro. Quasi
naturalmente Sisto V e il Medici patrocinano due progetti diversi.
Questa volta è, però, il papa ad avere la meglio, forse perché
Ferdinando non ha in questo campo un interesse materiale da
difendere.
I dissensi tra Felice Peretti e Ferdinando de' Medici divengono
presto numerosi e violenti. Tuttavia il secondo non abbandona la
posizione di privilegio nella Curia, anzi si rivela attivo
collaboratore della politica estera del papa, in particolare per
quanto concerne la difesa del cattolicesimo in Polonia e i rapporti
con la Spagna. Nonostante gli screzi, il 7 gennaio del 1587
Ferdinando ottiene il titolo cardinalizio di S. Maria in via Lata e
diviene il primo dei cardinali diaconi.
Stravince quindi su tutta la linea, ma i Farnese si prendono
l'ultima vendetta. Il 27 giugno 1587 Ferdinando è invitato a una
partita di caccia alle rondini nei pressi di Ponte Milvio. Mentre è
fuori Roma, il cardinale Farnese obbliga Clelia Cesarini a seguirlo
a Ronciglione. Alla fine dell'estate l'amante di Ferdinando è
scortata da ben 150 armati nel ducato di Parma e le è impedito di
rientrare nella città eterna. Gli Avvisi di
Roma, la gazzetta del tempo, sottolineano che la rappresaglia
farnesiana è avvenuta con il consenso del papa. Nei mesi successivi
è tutto un susseguirsi di pettegolezzi. Si lascia intendere che
Clelia è incinta, si dà per certo che i Farnese hanno fatto sposare
e partire da Roma tutte le damigelle della giovane. Una notizia del
1 luglio rivela che Ferdinando ha arruolato "altre lance spezzate",
che lo seguono dovunque vada. Una settimana dopo il papa si reca a
Villa Medici, ma, a dire dei gazzettieri, si sarebbe portato da
mangiare e da bere. Infine è annunciato il matrimonio di Clelia
Cesarini con il marchese di Sassuolo.
Non è possibile ipotizzare cosa sarebbe accaduto, se Ferdinando
fosse rimasto ancora in Curia. Poteva divenire l'erede di papa
Peretti? Sarebbe stato alla fine scacciato? Avrebbe saldato i conti
con il papa e i Farnese? Sono interrogativi del tutto accademici,
perché la sua vita conosce una nuova svolta: ancora una volta
grazie alla morte improvvisa di un fratello.
Negli anni 1580 la successione a Firenze si riapre. Francesco I è
malandato ed inoltre privo di erede. L'unico figlio maschio di
primo letto è infatti morto, mentre la seconda moglie, Bianca
Cappello, non ha generato un erede ufficiale. Ferdinando aspira al
granducato; però, Bianca e il granduca hanno avuto un figlio prima
delle nozze e Francesco potrebbe riconoscerne la legittimità. Il
cardinale si preoccupa quindi di acquistare appoggi a corte e di
seguire gli accadimenti da presso.
Nell'ottobre 1587 è chiamato a Firenze: il fratello giace
gravemente ammalato di malaria nella villa di Poggio a Caiano. La
notte del 19 ottobre 1587 Francesco muore improvvisamente, seguito
nelle prime ore del 20 dalla moglie, vittima della stessa malattia.
Ferdinando coglie al volo l'occasione e fa occupare i punti nodali
del granducato da uomini a lui fedeli. Il 20 stesso entra poi a
Firenze, pronto a tutto. Invece è acclamato dal popolo che spera
nella sua fama di munifico. Nessuno quindi si preoccupa dei diritti
di Antonio, il figlio illegittimo del granduca e di Bianca
Cappello.
Naturalmente non passa inosservato che per la seconda volta
Ferdinando tragga benefici della morte di un fratello, tanto più
che Bianca Cappello è deceduta così rapidamente. Ora tornano
nuovamente di moda le chiacchiere sull'uccisione di Giovanni e
Garzia de' Medici: sembra che la malaria sia un'alleata stretta di
Ferdinando ed è facile fare insinuazioni sull'uso sapiente dei
veleni da parte di chi ha vissuto tanto a lungo nella Curia che era
stata dei Borgia! Ferdinando non si difende direttamente, ma fa
diffondere la voce che il fratello sia morto per sbaglio. Avrebbe
infatti mangiato una torta avvelenata, che Bianca Cappello aveva
preparato proprio per il cardinale. La granduchessa si sarebbe
suicidata, una volta scoperta.
Una settimana dopo la morte del fratello, Ferdinando ha saldamente
in mano il granducato e lascia per sempre Roma, dove non mette più
piede. Sisto V non intralcia i piani del nuovo granduca, che già da
semplice cardinale era un alleato assai ingombrante. Tuttavia esige
che rinunzi al cardinalato prima di prendere moglie. Ferdinando,
che a lungo indossa ancora la veste cardinalizia, accetta di dare
le dimissioni soltanto nel novembre 1588, ma contratta la propria
successione. Il terzo granduca di Toscana è infatti un diplomatico
integrale, che trae spunto per contrattare da qualsiasi
contingenza.
Alla fine dell'ottobre 1587 Ferdinando de' Medici è sicuro della
successione al fratello Francesco I e decide di riprendere i
disegni di Cosimo I per fare del granducato una potenza europea. In
particolare tenta di assicurare ai propri domini la stabilità
necessaria al pieno sviluppo delle capacità commerciali toscane e
della propria famiglia.
Nei successivi venti anni la politica di Ferdinando procede quindi
su due piani paralleli, nei quali gli interventi in quanto granduca
non sono mai disgiunti dall'attività di affarista internazionale.
Tuttavia nel primo lustro di governo la precedenza è data alla
ricerca della stabilità interna.
Non appena ha in mano le redini, Ferdinando rivoluziona
l'amministrazione medicea. Dodici giorni dopo la morte del fratello
amplia la segreteria granducale introducendovi uomini fidati. In
genere, tuttavia, non espelle dagli organi dello stato i membri
dell'aristocrazia entrativi in precedenza, né il ceto burocratico
formatosi sotto il padre e il fratello. Fa invece in modo che
nessun funzionario possa muoversi senza che egli ne abbia
sentore.
Il granduca infatti non vuole soltanto il controllo a breve termine
degli organi governativi, ma vuole realizzare trasformazioni
istituzionali tali da garantire il proprio potere assoluto. In
questa prospettiva riforma le magistrature dello stato di Siena
(1588), gli statuti delle arti della lana (1589), l'Ordine di Santo
Stefano (1590), gli statuti dei mercatanti (1592). Si tratta solo
di ritocchi, ma comunque mirati a indebolire le pretese e il raggio
d'azione dei funzionari.
Contemporaneamente si impegna in una guerra senza quartiere al
banditismo e a qualsiasi spinta centrifuga. Crea nuove
circoscrizioni giurisdizionali, quali il Capitanato della Montagna
dell'Amiata (1590), che in poco tempo gli permettono di far
accerchiare i banditi e cacciarli dalla Maremma senese, dalla Val
di Magra, dalla Bassa Lunigiana, dalla Romagna fiorentina, dalla
montagna pistoiese e dai confini con i feudi dei Malaspina e con i
ducati di Parma e di Modena. In cinque anni riconquista con le armi
quella pace interna che il fratello non era riuscito a
salvaguardare e soprattutto garantisce la sicurezza delle zone di
confine, dove spesso banditi e aristocratici avevano operato di
conserva ai nemici di Firenze.
Il predominio militare non basta comunque al granduca: egli infatti
ritiene che una combinazione di costrizione e consenso assicuri una
maggiore stabilità e guadagni più sicuri. Per impedire che il
banditismo rinasca, Ferdinando affronta quindi il problema delle
carestie e tenta di aumentare la resa agricola della Toscana. Da un
lato, quindi, assicura l'approvvigionamento cerealicolo;
dall'altro, punta a migliorare la produzione agricola.
Per raggiungere il primo obiettivo incrementa i commerci con
l'Europa del Nord: già durante la carestia del 1590-1591 navi
olandesi e inglesi scaricano a Livorno ingenti quantitativi di
grano. Il granduca scongiura così la fame e le sue inevitabili
ripercussioni sociali. Inoltre realizza lauti guadagni: un terzo
delle importazioni è infatti di sua proprietà personale. Negli anni
successivi accresce continuamente le importazioni e il proprio
monopolio. Conquista così il controllo di tutti i movimenti di
cereali in Toscana e nel primo decennio del secolo successivo non
vi è più partita di grano che non dipenda in qualche modo da
lui.
Per incrementare la produzione il granduca fa bonificare alcune
aree paludose, in particolare la Val di Chiana, la Maremma senese,
la Valdinievole e la piana pistoiese. Nelle terre di sua proprietà
- Ferdinando è uno dei maggiori proprietari della regione -
bonifica fasce che sono poi coltivate a grano, oppure impianta
risaie. In tale contesto ingrandisce le ville familiari e le
trasforma in centri di raccolta e di controllo.
Attorno a Montevettolini, Artimino, l'Ambrogiana e Poggio a Caiano
si articolano le sue proprietà più importanti e più dinamiche, che
sono continuamente ampliate mediante donazioni più o meno forzate.
I beni dei cavalieri di S. Stefano di Altopascio vanno, per
esempio, ad aumentare i possessi medicei nella bassa Valdinievole e
sono amministrati dalla villa di Montevettolini.
La strategia granducale non si ferma qui, ché, anzi, a partire
dalle proprie ville Ferdinando cerca di attuare il collegamento tra
produzione sul luogo e mercato. Sempre a Montevettolini
l'ampliamento e la riorganizzazione della proprietà medicea sono
subito seguiti dalla creazione di una fiera settimanale. Questa a
sua volta comporta la costruzione di una loggia per i mercanti,
l'allargamento della strada e il miglioramento del sistema
idrico.
Interventi simili sono realizzati dovunque Ferdinando I voglia
incrementare la resa agricola e facilitare la commercializzazione
di quanto prodotto. L'elenco dei lavori pubblici compiuti in tal
senso è degno di nota. In tutta la Toscana egli fa curare la rete
stradale e quella fluviale, il sistema idrico e persino quello
fognario. Tali lavori procedono sempre di pari passo con lo
sviluppo dell'agricoltura, anzi spesso quest'ultimo è previsto come
corollario. La risistemazione delle arterie Firenze-Pisa e
Firenze-Pistoia è completata dalla piantumazione di gelsi lungo la
strada, in modo da garantire che la produzione di seta toscana non
dipenda soltanto dalle esportazioni. In quest'ultimo caso il
tentativo non riesce, ma più per la congiuntura negativa
dell'industria serica italiana che per un'errata conduzione da
parte degli uomini del granduca.
La strategia volta ad assicurare la pace e la prosperità del
granducato prevede anche un ruolo attivo nella politica e nella
diplomazia internazionale. In questo campo Ferdinando si rifà
spesso all'esperienza romana: del resto la città eterna, dove pure
non ritorna più, è sempre al centro dei suoi interessi. A Roma
mantiene uomini fidati e fa concludere o rafforzare accordi che
hanno ripercussioni europee. Inoltre nel primo decennio di governo
egli tratta con Roma, con Venezia e con Mantova per contrastare il
predominio spagnolo in Italia.
Al contrario del fratello, che si era alleato a Filippo II,
Ferdinando è convinto che la Spagna abbia fatto il suo tempo e
quindi opera in modo da sganciarsi dall'ingombrante alleato. In
chiave antispagnola egli cerca perciò sostegno in Francia,
nonostante questa sia divisa dalle guerre di religione. Grazie ai
buoni uffici di Caterina de' Medici, sposa nel 1589 Cristina di
Lorena. Nello stesso anno contatta inoltre Enrico di Navarra, il
futuro Enrico IV, che finanzia e assiste nell'ascesa al trono
francese.
Ferdinando cura con attenzione questo suo investimento politico ed
economico e fa comprendere al suo protetto che Firenze non è
soltanto una banca. Così nel 1591 fa occupare dalle sue navi il
castello d'If, di fronte a Marsiglia. Lo scopo dichiarato è quello
di impedire che cada nelle mani degli spagnoli. In realtà il
castello è da lui considerato un pegno della fedeltà francese: lo
rende infatti soltanto nel 1598, facendosi tra l'altro pagare
profumatamente la restituzione.
Nel suo gioco complicato, Ferdinando fa da tramite fra Roma e la
Francia. Nel 1593 consiglia a Enrico IV di convertirsi al
cattolicesimo e in seguito opera affinché la conversione sia
accettata dal papa. A tal fine organizza una complicata partita di
scambio. Clemente VIII infatti riconosce Enrico IV e questi
contraccambia appoggiando il pontefice in Polonia. In particolare
convince Sigismondo III Vasa, nuovo re polacco, dall'affidabilità
di Roma, nonostante che Annibale Di Capua, nunzio in Polonia, abbia
sostenuto la candidatura di Massimiliano d'Asburgo quale successore
di Stefano Bathòry.
La politica antiasburgica in Polonia non fa che ribadire la
posizione antispagnola del granduca. Nell'ultimo decennio del
secolo si rivolge persino all'Inghilterra, con la quale i mercanti
toscani intrattengono da tempo rapporti amichevoli. Ferdinando va
tuttavia ben oltre i semplici scambi commerciali e nel 1591 fa
sapere alla regina Elisabetta la data di partenza dall'Avana della
flotta spagnola. Nel messaggio è anche specificato che il carico è
prezioso e che bisogna avvertire Francis Drake, il famoso
corsaro.
Anche con l'Inghilterra Ferdinando ricorre comunque a una politica
del bastone e della carota. Quando quattro navi pirate inglesi
entrano nel Tirreno senza previo avvertimento, il granduca le fa
arrembare e sequestrare. Gli inglesi possono associarsi a lui nella
guerra di corsa, ma non devono sottovalutarlo. D'altra parte è ben
difficile considerarlo un semplice uomo di paglia. Formatosi nella
Curia romana, Ferdinando non punta mai su un solo tavolo e
interviene dovunque possa guadagnare qualcosa. In Polonia taglia la
strada agli Asburgo, ma nel 1594 finanzia la guerra contro i turchi
dell'imperatore Rodolfo II. Nel 1595 manda una spedizione in
Transilvania per aiutare Sigismondo Bathòry contro i turchi. Nel
1601 invia il fratellastro Giovanni de' Medici in aiuto di Rodolfo
II.
Queste precauzioni si rivelano ben fondate. I termini della pace di
Vervins (1598) tra Francia e Spagna non piacciono al granduca,
nonostante siano stati contrattati da un membro della sua famiglia
(vedi più avanti): Ferdinando teme infatti di essere piantato in
asso dall'alleato francese. Egli cerca dapprima di rafforzare i
legami con Enrico IV, cui dà in sposa Maria de' Medici, figlia di
Francesco I, il 5 ottobre 1600. Neppure un anno dopo, però, il re
francese cede ai Savoia il marchesato di Saluzzo, da tempo appetito
da Ferdinando I. Quest'ultimo giudica allora che la situazione si è
fatta troppo pericolosa, tanto più che la Spagna preme sui confini
toscani: Garcia di Toledo, vicerè di Napoli, fa costruire la
fortezza di Portolongone all'Elba e Filippo III fa occupare il
feudo degli estinti Appiani di Piombino. Nel 1602 Ferdinando sonda
quindi la disponibilità del monarca spagnolo, presso il quale fa
valere l'assistenza finanziaria e militare agli Asburgo nell'Europa
orientale e al quale offre anche aiuto nelle Fiandre.
Le trattative con la Spagna durano sei anni: infine il 28 giugno
1608 è siglato l'accordo e il futuro Cosimo II sposa Maria
Maddalena d'Austria. La Toscana rientra nell'orbita spagnola e
Ferdinando ottiene l'investitura del feudo di Pitigliano, cedutogli
dagli Orsini nel 1606. Il granduca è quindi caduto in piedi, ma il
ribaltamento di alleanze non è spiegabile solamente come reazione
obbligata al mancato appoggio francese. Ancora una volta Ferdinando
guarda più avanti degli altri regnanti della Penisola e nutre sogni
inimmaginabili per i suoi contemporanei italiani.
Nell'ultimo decennio del Cinquecento l'alleanza con la Francia gli
ha permesso di liberarsi dalla tutela spagnola e di trattare con
l'Inghilterra. Quest'ultima lo ha messo in contatto con i mercanti
olandesi in lotta con la Spagna e Ferdinando ha potuto limitare i
danni della grande carestia del 1590-1591, proprio grazie al grano
trasportato a Livorno dalle navi olandesi. Il rapporto con
l'Inghilterra è ora ben saldo e, una volta chiarite le precedenze
per la pirateria nel Mediterraneo, il granduca non disdegna di
spartire il bottino dei pirati inglesi.
Il bersaglio di queste azioni di pirateria non sono tuttavia le
sole navi spagnole, ma anche quelle turche. Livorno non è soltanto
un porto commerciale, ma anche la base della flotta militare
medicea, che viene potenziata da Ferdinando I in modo da
contrastare la supremazia ottomana. Inoltre egli affida ai
cavalieri di Santo Stefano la lotta contro navi e avamposti
turchi.
Il distacco dalla Francia rafforza gli intenti antiturchi e il
primo decennio del Seicento vede un crescendo di imprese militari e
diplomatiche contro l'impero ottomano. Nel 1607 i cavalieri di
Santo Stefano tentano di sbarcare a Famagosta e devastano Bona,
sulla costa nordafricana. Nel 1608 catturano al largo di Rodi 40
navi della famosa Caravana d'Egitto. Inoltre Ferdinando allaccia
rapporti con Giambulat, pascià di Aleppo, e con Fakhr-ed-Din,
principe dei Drusi di Siria, fomentando la costruzione di un fronte
avverso al Sultano.
In questo quadro l'avvicinamento alla Spagna garantisce alla
Toscana basi e sostegno nel Mediterraneo. Offre inoltre uno sbocco
oceanico alla flotta medicea, che inizia ad affacciarsi sulla costa
atlantica dell'Africa. Nel 1604 firma un trattato con il re di Fez
e ottiene il libero uso del porto atlantico di Larache, che diviene
la base per il contrabbando toscano nel Brasile. Nel 1608 il
granduca si interessa addirittura alla possibilità di colonizzare
la Sierra Leone.
Nel contesto di questi traffici su scala mondiale il porto franco
di Livorno conosce uno sviluppo rapidissimo, diventando una
piattaforma di interscambi tra il Levante e l'Europa, tra l'area
mediterranea e quella atlantica. Le stesse franchigie commerciali o
religiose (in difesa dei protestanti, degli Ebrei e persino dei
"mori") trasformano il piccolo porto nel terminale delle grandi
correnti dei traffici internazionali. Nel 1605 le navi che vi
attraccano sono quintuplicate rispetto al 1578. Contemporaneamente
cresce anche la potenza economica di Ferdinando che agli inizi del
secolo controlla ormai il mercato internazionale dei grani. E'
universalmente noto come uno degli uomini più ricchi di tutto il
continente europeo e opera al centro di una rete di corrispondenti
(soci, fattori, informatori, vere e proprie spie) che si estende
dall'Europa centro-orientale all'Inghilterra, dalla penisola
iberica alle Americhe, dall'Italia al Levante e alle Indie
orientali.
Nel 1600 Bartolomeo Cenami stima a 300.000 scudi annui le entrate
granducali, frutto del commercio, ma anche di imprese meno lecite.
Tra queste vi è sempre la guerra di corsa e infatti Ferdinando
continua a finanziare l'arrembaggio inglese ai galeoni spagnoli.
Ormai, però, il granduca ha mire ancora più alte: non vuole più
raccogliere le briciole della colonizzazione del Nuovo Mondo, ma
desidera partecipare direttamente alle imprese coloniali e imitare
le compagnie commerciali inglesi. Nella scia della compagnia della
Moscovia entra in contatto con lo zar Boris Godunov, inoltre inizia
a pensare alle Indie Occidentali e a quelle Orientali.
Già ai tempi della Tipografia Orientale a Roma, Ferdinando aveva
chiesto a Filippo Sassetti informazioni sull'India. Nel 1606
riprende questa idea e convoca Francesco Carletti, che rientra a
Firenze dopo un giro del mondo iniziato nel 1591. Carletti narra le
sue peripezie al granduca ed è incaricato di studiare la
possibilità che Livorno diventi un centro di traffici con l'Estremo
Oriente. L'India e il Giappone si rivelano, però, fuori della
portata toscana; Ferdinando si volge allora alle Indie Occidentali,
contando di sfruttare i buoni rapporti con Spagna e inghilterra.
Nel 1604 chiede al suo ambasciatore a Madrid ragguagli sulla Nuova
Spagna e sul Perù, dove vorrebbe ottenere feudi per i figli
minori.
Il 30 agosto 1608 Baccio da Filicaia gli invia una lettera da
Lisbona, nella quale è ricostruita la storia della conquista
portoghese del Brasile. Neanche un mese più tardi una caravella e
una tartana sono armate a Livorno e sono affidate al capitano
Robert Thornton, giunto in quel porto tre anni prima rimorchiando
una preda di guerra. Il viaggio è preparato con cura e Ferdinando
fa chiedere a Robert Dudley, che ha visitato l'Amazzonia nel 1595,
una mappa e istruzioni per Thornton. Dudley consiglia a
quest'ultimo di cercare l'oro sulle rive del Rio delle Amazzoni e
dell'Orinoco. Ferdinando più prosaico fa caricare balle di merci e
pensa alla possibilità di un avamposto commerciale brasiliano.
Thornton approda in Guyana e in Brasile, esplora i due fiumi e
visita anche la Caienna e Trinidad. Rientra infine il 12 luglio
1609 a Livorno, ma il 7 febbraio di quell'anno Ferdinando I è
deceduto e il capitano inglese non trova nessuno cui riferire la
sua avventura.
Alla sua morte Ferdinando è celebrato soprattutto per aver
salvaguardato i sudditi dalla fame. L'intera popolazione toscana
infatti dipende ormai dai rifornimenti granducali. Ferdinando ha
ottenuto così un duplice risultato: ha avuto in pugno i suoi
sudditi ed è divenuto uno dei più grandi uomini d'affari d'Europa.
Tuttavia non si è fermato qui e, unico fra i principi italiani, ha
sognato di trasformare la Toscana in una vera potenza
internazionale. Potenza commerciale e marittima, in grado di
trattare da pari a pari con l'impero spagnolo e con quello ottomano
e soprattutto capace di fuoriuscire dal Mediterrano.
Alessandro de' Medici
Alessandro de' Medici nasce a Firenze il 2
giugno 1536 in un ramo collaterale della famiglia ducale. Sembra
che, rimasto orfano di padre, sia affascinato dall’insegnamento del
domenicano Vincenzo Ercolani. La madre, temendo che l’unico figlio
maschio entri in religione, per giunta in ambiente ancora intriso
del ricordo di Savonarola, chiede aiuto a Cosimo I, cugino in
secondo grado del giovane. Il duca se lo tiene vicino, ma non vuole
immischiarsi nelle scelte del parente.
Nel 1560 Alessandro accompagna il duca a Roma e si ferma dal cugino
Giovanni Battista Salviati, che lo presenta a Filippo Neri, dal
quale è molto colpito. Rientrato a Firenze prosegue a frequentare
la corte e ambienti religiosi. La madre spira nel 1566, lasciandolo
libero di disporre della propria esistenza. Alessandro decide
quindi di prendere gli ordini con il consenso di Cosimo I, del
cardinal Francesco Salviati e di Antonio Altoviti, arcivescovo di
Firenze.
E' ordinato sacerdote da Altoviti il 22 luglio 1567 e nello stesso
anno è nominato da Cosimo I cavaliere di S. Stefano. Si ritira poi
nelle vicinanze di Firenze, ma il duca lo richiama per designarlo
ambasciatore a Roma, il 10 giugno 1569, desiderando avere qualcuno
della famiglia accanto al cardinal Ferdinando. Alessandro non
conosce, però, l’ambiente romano e Francesco de' Medici si
preoccupa di raccomandarlo alla benevolenza di Guglielmo Sirleto.
Inoltre è posto sotto la protezione del cardinale Francesco
Pacheco, che, assieme a Michele Bonelli, lo presenta a Pio V, cui
il fiorentino fa buona impressione. Inizia così sotto i migliori
auspici una permanenza destinata a durare sino al febbraio 1584. E'
nominato protonotario apostolico il 20 giugno 1569 e si deve subito
mettere all’opera per giustificare la posizione della Corona
francese nella guerra di religione in corso. Il 3 agosto di
quell’anno segnala al duca che il papa è mal disposto verso il re
francese, perché quest’ultimo non ha schiacciato gli ugonotti dopo
la vittoria di Jarnac.
In quei primi anni deve soprattutto affrontare gli attacchi
spagnoli alla politica filofrancese di Firenze. Tale opposizione
cresce, quando Cosimo I tenta di far avere a Caterina de’ Medici la
dispensa per il matrimonio di Enrico di Navarra, il futuro Enrico
IV, e Margherita di Valois, sorella di Enrico III. Il 28 agosto
1571 Alessandro de’ Medici, su consiglio di e accompagnato da
Antonio Maria Salviati, si presenta a Pio V, sollecitandone
l’intervento, ma in questo e in successivi incontri il papa
dichiara di essere disposto ad acconsentire solo se il Navarra e
l’ammiraglio Gaspard di Coligny si convertono.
In quei mesi l’ambasciatore fiorentino a Roma, coadiuvato anche dal
suo omologo in Francia, Giovanni Maria Petrucci, si adopera per
scalzare il nunzio pontificio a Parigi, Flavio Mirto Frangipani.
Questi è infatti ritenuto il principale ostacolo al matrimonio in
questione e Alessandro ritiene che sia lui ad aver convinto il papa
a tenere duro, persino di fronte alle minacce di scisma ventilate
da Caterina de’ Medici. Petrucci diffonde quindi la voce che
Frangipani è uomo dei Guisa e di Filippo II; Alessandro de’ Medici
fa sapere alla Curia romana che lo stesso è invece troppo legato a
Caterina de’ Medici per badare agli interessi del papa e che
avversa Firenze perché del partito di Ferrara. Le accuse sono
troppo disparate, ma i fiorentini vogliono allontanare ad ogni
costo il loro avversario. D’altronde nel loro gioco entra pure il
tornaconto privato: Antonio Maria Salviati conta infatti di
prendere il posto di Frangipani. Alessandro spera invece di minare
la credibilità degli inviati spagnoli, tanto più che il papa tiene
i fiorentini all’oscuro di quanto discusso nella Lega antiturca.
Entrambe le manovre falliscono, quando la vittoria di Lepanto
rafforza la posizione spagnola e riduce il credito fiorentino in
Curia. Il 19 ottobre Alessandro de’ Medici deve così rivelare al
duca che la fiducia del pontefice in Frangipani è
solidissima.
In questa prima fase della sua carriera, Alessandro è molto legato
al cardinal Ferdinando de' Medici, con il quale ha una consuetudine
quotidiana. Tuttavia il suo maggior referente romano resta Filippo
Neri, con il quale riannoda i contatti non appena arrivato a Roma.
L’ambasciatore mediceo diviene allora ospite abituale dell’Oratorio
e si lega fortemente a quell’ambiente, tra l’altro molto favorevole
alla Francia.
I suoi primi passi non gli valgono la confidenza granducale, né
quella del cardinale Ferdinando e, quando muore Pio V, Cosimo invia
a Roma Bartolomeo Concini, suo primo segretario, e Belisario Vinta.
Concini alloggia presso l'ambasciatore, ma, a dire di quest’ultimo,
non tiene conto dei suoi suggerimenti. Alessandro de' Medici non
cerca di imporsi, tanto più che spera come il duca nell'elezione
del cardinale Ugo Boncompagni. Utilizza quindi le proprie
conoscenze per coadiuvare gli sforzi di quello che sarebbe divenuto
Gregorio XIII e boicottare la campagna avversa condotta dal
cardinal Farnese.
Dopo l’elezione sia Concini, sia Ferdinando de' Medici si
attribuiscono ogni merito: in particolare il cardinale di casa
Medici si dice sicuro della riconoscenza del nuovo pontefice.
Alessandro, relegato in secondo piano, è meno convinto della
possibilità di avvantaggiarsi dell’ascesa di Gregorio XIII e
sfrutta la propria amicizia con Diomede Leoni, vecchio e astuto
curiale, per entrare in contatto con Matteo Contarelli, il nuovo
datario. Ha così un accesso privilegiato al pontefice, che gli
conferma stima ed amicizia. Tale favore gli torna presto utile,
quando si apre la successione alla diocesi pistoiese: Ferdinando
infatti non vede di buon occhio la nomina del cugino e cerca di
dissuaderlo. Ad Alessandro pare invece un’ottima occasione, che gli
potrebbe permettere di abbandonare la posizione di ambasciatore e
di sfuggire alle sfuriate di Firenze e del cardinale de’ Medici.
Con l'appoggio pontificio riesce quindi a farsi nominare vescovo di
Pistoia il 9 marzo 1573.
Medici deve comunque rimanere a Roma, ma governa la diocesi tramite
Bastiano de’ Medici e fa applicare i decreti tridentini, in
particolare costringe i parroci a rispettare l’obbligo di
residenza. Ha, però, poco tempo per occuparsi di Pistoia. Il 27
dicembre 1573 Francesco de’ Medici scrive infatti a Gregorio XIII,
comunicandogli la grave malattia di Altoviti, l’arcivescovo di
Firenze. Due giorni dopo ne annuncia la morte e sottolinea che
Cosimo I avrebbe accolto con piacere la nomina di Alessandro. Il 4
gennaio 1574 il cardinale Tolomeo Galli risponde a nome del papa
che a Roma tutti concordano con la scelta del duca.
In realtà il cardinale Ferdinando de’ Medici non è affatto
d’accordo, tanto più che ormai considera Alessandro non soltanto
come il controllore impostogli dal padre e dal fratello, ma anche
come un pericoloso concorrente. Ancora una volta, però, la volontà
granducale trova riscontro nel rapporto privilegiato tra
l’ambasciatore fiorentino e Gregorio XIII: il 15 gennaio 1574
Alessandro è quindi traslato da Pistoia a Firenze. Anche in questo
caso è obbligato a restare a Roma, tuttavia amministra senza
problemi la diocesi, utilizzando sempre Bastiano de' Medici come
vicario. In particolare si preoccupa della riforma del clero
regolare e di quello secolare e già nel 1575 promuove una visita
pastorale, condotta da Paolo Ceccarelli, cancelliere
pistoiese.
Il suo governo a distanza, pur apprezzato da molti, non è, però,
esente da critiche: ciò soprattutto perché il nuovo arcivescovo e i
suoi uomini entrano in conflitto con i canonici della cattedrale,
dei quali non rispettano i privilegi, e soprattutto con l’ambiente
nutrito di ideali savonaroliani. Su questa opposizione Medici si
dilunga in due lettere del 1583 a Francesco I, nelle quali
sottolinea come i suoi avversari mirino a indebolire l’autorità
ecclesiastica e quella granducale. In questo scontro Medici ha
l’appoggio di papi e granduchi, nonché quello della Curia generale
dei Domenicani: nel gennaio 1585 Sisto Fabbri, generale
dell’Ordine, conduce una visita per stroncare l’opposizione
all’arcivescovo. Tuttavia non riesce a impedire il ricorrere delle
polemiche e il protratto braccio di ferro con oppositori che sono
profondamente radicati nella città e nella Chiesa
fiorentine.
Nel frattempo Alessandro utilizza la relazione tra Francesco I de’
Medici e Bianca Cappello, per guadagnarsi la fiducia del primo.
Naturalmente ciò aggrava il suo dissenso con Ferdinando, il quale
mette in giro la voce che l’ambasciatore-arcivescovo non si
preoccupa più del benessere della propria città, ma mira soltanto
al cardinalato. Ferdinando inoltre cerca di imporsi come mediatore
tra Alessandro e i canonici della cattedrale di Firenze, a tutto
svantaggio del primo, tanto che alla fine deve intervenire Gregorio
XIII in difesa del presule. Nonostante l’opposizione del potente
cugino, Alessandro ottiene comunque il cappello cardinalizio il 12
dicembre 1583.
A più riprese Medici ha tentato di abbandonare Roma: la lontananza
dalla sede episcopale è infatti in evidente contraddizione con i
principi che difende, come gli fa notare nel 1582 Carlo Borromeo.
Tuttavia nel 1583 Gregorio XIII gli dice esplicitamente che non può
abbandonare la città eterna senza il consenso granducale. Questo
infine giunge e il 12 maggio 1584 l’arcivescovo prende possesso
della sua diocesi. La sua attività riformatrice diviene ancora più
veemente e culmina nel sinodo del 1589. In esso e grazie ad esso
l’arcivescovo cerca di ridelineare la figura morale del sacerdote
in generale e del parroco in particolare. Ribadisce inoltre
l’importanza dell’Indice dei libri proibiti e impone uno
strettissimo, ma di fatto spesso disatteso, controllo sulle
botteghe librarie.
Medici passa il resto degli anni 1580 nella sua diocesi, dove
diviene un punto di riferimento per i nunzi pontifici a Firenze.
D’accordo con il granduca Ferdinando I, succeduto al fratello,
opera per rivalutare il passato religioso della città, tramite la
ricognizione delle reliquie dei santi, e contribusce
all’introduzione delle Quaranta Ore.
Non abbandona comunque lo scenario romano, anzi rafforza i suoi
contatti, cosicché il cardinal Alessandro Peretti, pronipote di
Sisto V, lo presenta come papabile nel conclave che elegge nel 1590
Niccolò Sfondrati (Gregorio XIV). E' riproposto anche nel 1591,
quando la ferma opposizione spagnola gli fa preferire Gian Antonio
Facchinetti (Innocenzo IX). In questa circostanza Alessandro decide
di appoggiare il proprio avversario, scatenando le ire di
Ferdinando I, cui il cardinale risponde duramente di non essere il
suo "schiavo".
Dal 1590 Alessandro vive stabilmente a Roma e la sua posizione
diviene centrale sotto Clemente VIII, che lo ascrive alle
Congregazioni dei Riti e delle Strade e lo fa partecipare, come
Alessandro spiega a Ferdinando I il 30 maggio 1592, "a tutte le
cose di fabbrica e di palazzo e di suore". Da Roma comunque preme
sul cugino, perché appoggi la riforma dei monasteri, soprattutto
femminili. In cambio il cardinale agisce nuovamente da
intermediario fiorentino nella città eterna. Così nel 1592 tratta
con Clemente VIII per la riduzione della manomorta ecclesiastica
nello stato mediceo, ma il papa resta fermo sulla sua posizione e
il cardinale e il granduca non sanno dargli torto, pur sperando in
un qualche contenimento delle sue pretese.
Alessandro de' Medici riprende inoltre a interessarsi delle
questioni francesi, spinto da Ferdinando I e da Filippo Neri. In
particolare utilizza il suo ascendente per chiedere al papa di
assolvere dalle censure Enrico IV di Francia, convertitosi a
Saint-Denis il 25 luglio 1593. Il pontefice è favorevole a
un’apertura alla Francia, ma teme la reazione spagnola: Medici lo
conforta e contemporaneamente guida abilmente il cardinale Jacques
Davy Du Perron, venuto a Roma per difendere la causa del suo
sovrano. Clemente assolve il re francese il 17 settembre 1595, nel
corso di una fastosa cerimonia.
E' quindi inevitabile che il pontefice pensi al cardinale de’
Medici, quando si prospetta la necessità d’inviare in Francia un
legato affiancato dal nunzio Francesco Gonzaga. Alessandro non è
particolarmente contento per la nomina, ma fa in modo di ottenere
in cambio numerosi benefici.
La sua missione ha fini ad un tempo diplomatici (ricerca della pace
fra Spagna e Francia per organizzare una crociata contro i turchi
ed allontanare la Francia dall’Inghilterra e dall’Olanda) e
religiosi (restaurare la religione cattolica e appianare le
situazioni irregolari provocate dalla vacanza di numerosi seggi
episcopali). Per ottenere questo secondo scopo il legato deve far
ratificare a Enrico IV l’atto d’abiura e ottenere la pubblicazione
dei decreti tridentini e il rientro degli Ordini religiosi in
Francia. Entrambi gli obiettivi stanno particolarmente a cuore al
papa, che spesso sostituisce il nipote Pietro Aldobrandini nel
valutare la situazione e rispondere alle lettere del suo inviato,
come mostrano le annotazioni di suo pugno.
Medici parte da Roma l'11 maggio 1596 con un seguito di oltre 200
persone. Si ferma a Firenze il 17 maggio e il granduca lo vuole
ospitare a palazzo Pitti. Il 6 giugno è invece ospite di Carlo
Emanuele I di Savoia, che gli rivela la sua stanchezza per il
continuo guerreggiare, ma adombra anche il sospetto che Medici
porti l’oro di Ferdinando I a Enrico IV.
A causa della peste il legato non può passare per Chambery e il 15
giugno prende la strada per il colle del Monginevro: il 22 è a a
Lione e il 16 luglio a Montlhéry, dove gli viene incontro il re. Il
21 si rimette in marcia per Parigi, dove entra solennemente. Nel
frattempo è scoppiata la polemica sulle sue facoltà: il re ha
ovviamente dato il suo placet, ma il
Parlamento parigino non vuole accettare i riferimenti al Concilio
di Trento nelle bolle papali. Il legato fa allora sapere che non
accetta clausole restrittive. La registrazione e la pubblicazione
delle facoltà avviene infine con riserva. Comunque il re continua a
esprimere pubblicamente il suo favore e il 19 agosto 1596 firma
l’atto solenne della propria riconciliazione con la
Chiesa.
Alessandro de' Medici rimane ancora due anni in Francia. In questo
periodo non risede sempre a Parigi. Dall’8 dicembre 1596 al 2
febbraio 1597 soggiorna a Rouen assieme alla Corte; dall’ottobre
1597 al giugno 1598 si reca in Piccardia, dapprima a Saint-Quentin
e poi a Vervins, dove si sposta la conferenza che deve portare alla
pace omonima. Nel frattempo il papa decide d'inviare anche
Bonaventura Secusi da Caltagirone, generale dei Minori osservanti,
per coadiuvare gli sforzi del legato. Il francescano si preoccupa
di tenere i contatti fra Enrico IV, Filippo II e il
cardinale-arciduca Alberto d’Austria, governatore dei Paesi Bassi.
Intanto Medici, le cui facoltà sono state ampliate nel giugno 1597,
risolve le questioni d’etichetta e di precedenza e mette d’accordo
i plenipotenziari spagnoli e francesi. In particolare presiede
senza segni visibili di cedimento, nonostante i sessantatré anni
sonati, i negoziati che si susseguono dal 9 febbraio al 2 maggio
1598.
Una volta firmata la pace il cardinale e gli ambasciatori si
attardano sino alla fine di maggio a Vervins, quindi Alessandro de’
Medici rientra a Parigi, dopo aver incontrato il re ad Amiens. La
sua entrata parigina è trionfale, ma il 5 maggio Enrico IV dichiara
a Francesco Bonciani, rappresentante fiorentino, di essere
soddisfattissimo di quel che ha fatto il legato, ma anche di non
aver intenzione d’accontentarlo per quanto riguarda l’applicazione
dei dettami tridentini e il ritorno degli Ordini in Francia. In
effetti il re non vuole inimicarsi il parlamento di Parigi. Inoltre
Gabriella d’Estrée, la sua amante ufficiale, teme le manovre di
alessandro a pro’ di un matrimonio che unisca la Corona francese e
i Medici.
Il cardinale ha dubitato sin dall’inizio di ottenere tutto quel che
Clemente VIII si aspettava: è stato infatti negativamente sorpreso
per la resistenza del Parlamento e per l’accordo tra cattolici e
protestanti. Ora la situazione gli pare peggiorata e in luglio
confessa a Francesco Contarini, ambasciatore veneziano, di sperare
soltanto in un pronto rientro a Roma: desiderio che d’altronde
nutre almeno dalla fine dell’anno precedente. In agosto il re lo
invita infine a prendere la strada del ritorno, anche se poi
nell’ultima udienza (1o settembre)
cerca di addolcire i contrasti. Il legato, riflettendo sulla
propria permanenza francese, commenta il 14 settembre che ha fatto
quanto poteva, o meglio tutto quello che il re aveva auspicato che
lui facesse: le cose, per il resto, non erano come si sperava a
Roma, ma non erano neanche senza speranza.
Il 9 settembre Medici è a Digione, il 13 a Mâcon, il 30 a Thonon.
Passa quindi per Lione, il passo del Sempione, la val d’Ossola, il
lago Maggiore e Piacenza. Raggiunge infine Clemente VIII a Ferrara,
dove è ricevuto in concistoro il 10 novembre 1598. Il pontefice non
soltanto lo loda, ma ne scrive anche al re di Francia; inoltre lo
designa prefetto della Congregazione dei vescovi.
Una volta a Roma, Alessandro non abbandona le trattative francesi e
continua ad adoperarsi perché Enrico IV sposi Maria de’ Medici,
figlia di Francesco I. Questa iniziativa gli è già valsa le
critiche del nunzio Gonzaga e di Orazio Ruccellai, che hanno
scritto al cardinale Pietro Aldobrandini per sottolineare quanto la
lentezza dell’operato di Medici sia legata al suo desiderio di
sistemare gli affari di famiglia. Adesso si dà da fare per far
sciogliere il matrimonio di Enrico IV ed è proprio lui a presiedere
il 10 settembre 1599 la congregazione cardinalizia che permette al
re francese di risposarsi. Nel frattempo (aprile 1599) Gabriella
d’Estrées è morta ed è più facile convincere il sovrano a sposare
Maria de’ Medici. A sottolineare il ruolo del cardinale i due sposi
gli chiedono nel 1602 di battezzare il futuro Luigi XIII, ma egli
rifiuta temendo di offendere i congiunti filospagnoli di Clemente
VIII.
In effetti l’anziano cardinale vuole capitalizzare la sua influenza
romana. Il 30 agosto 1600 è stato designato cardinale vescovo di
Albano e il 17 giugno 1602 di Palestrina; intanto si riparla di lui
come papabile, grazie anche agli ottimi rapporti con Alessandro
Peretti e Pietro Aldobrandini, nipote del papa regnante. Nel
frattempo non abbandona la cura a distanza della sua diocesi e
prosegue a interessarsi della riforma dei monasteri, come mostra il
suo Trattato sopra il governo dei
monasteri.
Il peggiorare della salute di Clemente VIII spinge intanto le
grandi potenze a preparare la futura elezione. Il 28 ottobre 1604
Enrico IV di Francia esorta i suoi cardinali a tenersi uniti in
caso di conclave e ad appoggiare il suo "congiunto" Alessandro de'
Medici oppure Cesare Baronio, amico fedele della Francia. Il 7
marzo 1605 il re torna sulla questione, prospettando al cardinal
François Joyeuse la possibilità di comprare l'appoggio di Pietro
Aldobrandini e il 16 ripete allo stesso che gli raccomanda "sur
toutes choses le cardinal de Florence". Da tempo invece la Spagna
avversa la candidatura del Medici. Filippo III e i suoi consiglieri
sperano infatti in Tolomeo Galli, settantanovenne ispanofilo
facilmente condizionabile.
Alla morte di Clemente VIII il Sacro Collegio è composto da
sessantanove cardinali, di cui cinquantasei italiani, sei francesi,
quattro spagnoli, due tedeschi e uno polacco. Nove non partecipano
al conclave, aperto il 14 marzo 1605, e i restanti sono divisi in
numerosi partiti. Gli uomini del cardinal Peretti si avvicinano
agli spagnoli e Aldobrandini porta i suoi a fianco dei francesi.
Nel conclave si discutono ben ventuno nomi di papabili, più di un
terzo dei presenti. In realtà, però, i veri candidati sono Medici e
Baronio. Gli Spagnoli ovviamente li avversano, ma verso il secondo
nutrono un tale odio che non sanno fermare l’avanzata del primo.
Questi è infatti abile a difendere il collega e a sfruttare
l’occasione per screditare il partito spagnolo. Infine, come
d’altra parte si pensava da tempo, Peretti si dichiara disposto a
far convergere su di lui i suoi voti e il cardinale di Firenze
supera i due terzi dei voti nella notte tra l'1 e il 2 aprile.
Ascende così al Soglio con il nome di Leone XI.
Una delle prime e delle poche questioni di cui si occupa durante i
27 giorni del suo pontificato è l'appoggio degli imperiali in
Ungheria contro i Turchi. Al proposito si dichiara, per il tramite
del cardinal Ludovico Madruzzo, pronto a portare soccorso, anche se
le casse della Santa Sede sono esauste. Una Congregazione dei
cardinali per gli affari ungheresi delibera in tal senso il 13
aprile 1605. Inoltre, conformemente alla capitolazione elettorale,
Leone XI convoca una Congregazione cardinalizia per riformare il
conclave: vuole infatti abolire l'uso di eleggere il pontefice
mediante l'adorazione pubblica, sostituendola con la votazione
segreta. La notizia sorprende i testimoni, soprattutto francesi,
che vi vedono un modo per liberare il partito aldobrandiniano dal
controllo del suo leader, ma anche per rimettere in gioco gli
spagnoli. Altre sorprese attendono i francesi: il papa non si
considera infatti creatura di Enrico IV e comunica al marchese di
Villena, ambasciatore spagnolo, che il re di Spagna ha trovato in
lui un amico.
Il suo pontificato è comunque troppo breve per giudicare quale
avrebbe potuto esserne il corso. Di fatto l’aspetto maggiore del
suo brevissimo regno sono i festeggiamenti, che hanno luogo a Roma
e Firenze. Proprio durante la presa di possesso del Laterano Leone
XI prende freddo e cade preda della malattia che lo porta alla
morte dieci giorni dopo. La sua dipartita provoca molto cordoglio a
Roma, Firenze e in Francia.
Nota bibliografica
Per la bibliografia su Anna d'Este, si
confronti la nota in calce alla mia voce nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLIII.
Alle opere ivi citate si possono aggiungere: Anne Puaux, La huguenote Renée de France, Paris, Hermann, 1998;
il già citato Jean-Marie Costant, Les
Guise, Paris, Hachette, 1984; e il romanzesco Emmanuel
Bourassin, L'assassinat du duc de Guise,
Paris, Perrin, 1994.
Per la carriera avignonese di Domenico Grimaldi, si veda il mio
La vicelegazione di Avignone come tappa della
carriera di alcuni curiali romani. appunti per una ricerca, in
Il buon senso o la ragione? Miscellanea di
studi in onore di Giovanni Crapulli, a cura di Nadia Boccara -
Gaetano Platania, Viterbo, Sette Città, 1997, pp. 267-276. Per la
sua lotta al banditismo, cfr. Irene Polverini Fosi, La società violenta. Il banditismo nello stato
pontificio nella seconda metà del Cinquecento, Roma, Edizioni
dell'Ateneo, 1985. Per la sua biografia e in particolare per
Lepanto e Avignone ho utilizzata la documentazione nell'Archivio
Segreto Vaticano, soprattutto quella della Legazione di Avignone,
delle Lettere di soldati e delle Lettere di vescovi.
Per la biografia di Ferdinando de' Medici, rimando a Mario e Matteo
Sanfilippo, Profilo biografico d'un cardinale
di Santa Romana Chiesa poi Granduca di Toscana: Ferdinando de'
Medici, in Fondazione RomaEuropa, Roma
Europa, la piazza delle culture, Roma, Presidenza del Consiglio
dei Ministri, 1991, pp. 78-101, ed Elena Fasano Guarini, Ferdinando I de' Medici, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. XLVI. Per
la sua vita romana, leggi anche Alberto Tinto, La tipografia medicea orientale, Lucca, Pacini
Fazzi, 1987; AA.VV., La Villa Médicis,
Rome, École Française de Rome, 1991; Stefano Calonaci, Ferdinando dei Medici: la formazione di un cardinale
principe (1563-1572), "Archivio Storico Italiano", 570 (1996),
pp. 635-690; Elena Fasano Guarini, "Roma
officina di tutte le pratiche del mondo": dalle lettere del
Cardinal Ferdinando de' Medici a Cosimo I e a Francesco I, in
La corte di Roma tra Cinque e Seicento.
"Teatro" della politica europea, a cura di Gianvittorio
Signorotto e Maria Antonietta Visceglia, Roma, Bulzoni, 1998, pp.
265-297. Sullo scandalo con Clelia Cesarini è ricco d'informazioni
Roberto Zapperi (La leggenda del papa Paolo
III. Arte e censura nella Roma pontificia, Torino, Bollati
Boringhieri, 1998, pp. 104-106, e Farnese,
Clelia, in Dizionario Biografico degli
Italiani, XLV). Si consideri che l'Archivio Segreto Vaticano,
la Biblioteca Apostolica Vaticana e l'Archivio di Stato di Firenze,
fondo Mediceo del Principato, contengono molto materiale non ancora
pienamente sfruttato. Personalmente ho utilizzato qualche lettera
della Biblioteca vaticana e qualche documento fiorentino.
Per il quadro storico, nel quale agisce Ferdinando I una volta
granduca, si consulti Furio Diaz, Il granducato
di Toscana. I Medici, Torino, Utet, 1979; Giovanni Cipriani,
Il mito etrusco nel rinascimento
fiorentino, Firenze, Olschki, 1980; AA.VV., Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del
'500, Firenze, Olschki, 1983; Anna Maria Pult Quaglia,
"Per provvedere ai popoli". Il sistema
annonario nella Toscana dei Medici, Firenze, Olschki, 1990;
Matteo Casini, I gesti del principe. La festa
politica a Firenze e Venezia in età rinascimentale, Venezia,
Marsilio, 1996. Alessandro Baragona, Ferdinando
I de' Medici tra Mediterraneo e Atlantico, "Miscellanea di
Storia delle Esplorazioni", VIII (1983), pp. 71-99, e Leonardo
Rombai, Attività marinare e aspirazioni
coloniali toscane nel Nuovo Mondo al tempo di Ferdinando I de'
Medici (1587-1609), in Momenti e problemi
della geografia contemporanea. Atti del Convegno Internazionale in
onore di Giuseppe Caraci, Roma, Centro Italiano per gli Studi
Storico-Geografici, 1995, pp. 409-425, studiano le imprese
finanziate dal granduca sulle coste dell'Atlantico. Caterina Volpi,
Meraviglie misteriose dell'Est, "Ars", II,
10 (ottobre 1999), pp. 110-113, accenna alle sue curiosità verso
l'Estremo Oriente. Rita Mazzei, A proposito di
un lucchese al servizio dei Vasa nella seconda metà del
Cinquecento: corrispondenza di Lorenzo Cagnoli con Francesco I e
Ferdinando dei Medici, "Actum", 19 (1990), pp. 87-109, fornisce
notizie sui suoi interessi nell'Europa centrale. Per i suoi
rapporti con l'impero, si guardino le lettere nell'Archivio di
Stato di Firenze, nel già citato fondo Mediceo del Principato, e le
copie in Biblioteca Apostolica Vaticana, Manoscritti, Fondo
Patetta, ms. 2193.
Per la bibliografia su Alessandro de' Medici, vedi le indicazioni
nella mia voce sull'Enciclopedia dei Papi,
III, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2000. Le fonti
archivistiche sono copiosissime e poco sfruttate. Da ricordare
quelle vaticane (Archivio Segreto e Biblioteca Apostolica) e quelle
fiorentine (Archivio di Stato, fondo Mediceo del Principato, e
Biblioteca Marucelliana), ma anche la Vita del
cardinale di Firenze [...] insino al tempo
che fu mandato in Francia [...] (Roma, Biblioteca Casanatense,
cod. 4201): tutte quante utilizzate per questo testo. La permanenza
in Francia ha lasciato una documentazione altrettanto vasta, in
particolare cinque registri di suppliche e tre di bolle alla
Biblioteca Nazionale di Parigi nel fondo Manuscrits latins, oltre a vari materiali nel fondo
Manuscrits français della stessa.