Parte II
Spagna, Olanda e Inghilterra
Come abbiamo visto l'andamento delle guerre di religione francesi non è soltanto determinato dagli avvenimenti interni, ma subisce prepotentemente l'influsso di quelli esterni al regno. In primo luogo la politica di Filippo II, ma anche i due fronti che vedono questi impegnato contro gli inglesi e gli olandesi. L'incastro di questi elementi è stato variamente saggiato dalla letteratura storiografica otto-novecentesca, tuttavia vale qui la pena di ripercorre le linee principali della strategia del sovrano spagnolo e poi vedere come quest'ultima non abbia funzionato, soprattutto nel caso inglese e olandese. A proposito della rivoluzione olandese, verranno riassunte le vicende della Rivoluzione sino al 1598, mentre per il conflitto fra Spagna e Inghilterra l'attenzione sarà focalizzata sul solo, emblematico episodio dell'Invincibile Armata.
Filippo II
La morte di Filippo II (1527-1598) chiude il
secolo dell'espansione spagnola. Il regno iberico va allora dal
Vecchio al Nuovo Mondo. In Europa comprende la penisola iberica,
Napoli e Milano, e i Paesi Bassi. In Africa è attestato a sud-est e
sud-ovest dello stretto di Gibilterra. Nelle Americhe occupa il
subcontinente centro-meridionale, il Messico e la Florida. In Asia
include le Filippine. La maggior parte di questo impero è frutto
delle conquiste e delle strategie matrimoniali dei re precedenti.
Filippo vi ha soltanto aggiunto il Portogallo e le Filippine. In
compenso ha dovuto continuamente difendere i propri domini dalle
pressioni interne ed esterne.
Al tradizionale nemico francese, temuto persino durante le guerre
di religione (vedi la prima parte), si sono infatti aggiunti altri
agguerriti avversari. I Paesi Bassi in rivolta hanno impegnato le
armate di Filippo in una guerra senza fine, che, per sventura dei
successivi re spagnoli, continuerà sino alla metà del secolo
successivo (vedi più avanti). Gli inglesi hanno sfidato
pervicacemente Filippo, depredandone galeoni e avamposti americani.
Infine hanno preso le parti degli olandesi nel 1585 e inflitto alla
Spagna una significativa sconfitta sul mare (vedi più avanti).
L'impero ottomano è stato infine il nemico più lontano, ma anche
più pericoloso. Ha continuato a minacciare traffici e terre
spagnole persino dopo la sconfitta di Lepanto (1571): ha infatti
conquistato nel 1574 Tunisi e nel 1576 quasi tutto il Marocco. La
sua sola presenza ha vincolato la Spagna alla difesa del
Mediterraneo e le ha impedito di schiacciare gli olandesi e gli
inglesi.
Le spinte centrifughe non sono state meno dannose. La stessa
rivolta olandese è in fondo espressione di esse, ma non va
dimenticato che tutta la vicenda iberica è allora contraddistinta
dalla turbolenza interna: si pensi al brigantaggio catalano o alla
resistenza aragonese. Inoltre tutti i domini spagnoli chiedono
maggiori privilegi o un miglior trattamento politico-fiscale: è il
caso ancora dei Paesi Bassi, ma anche delle proteste italiane, in
particolare siciliane. Infine le colonie americane hanno sempre
preteso di essere aiutate, senza mai rinunciare alle rivendicazioni
autonomistiche (si pensi all'agitazione endemica in Perù e
all'insurrezione messicana del 1565) e soprattutto al contrabbando,
che lede i diritti economici della madrepatria.
Proprio la vicenda americana ci mostra quale è stato il vero
problema di Filippo II. Egli ha dovuto infatti amministrare un
impero assai vasto, le cui componenti a malincuore hanno
contribuito alle enormi spese amministrativo-militari. La sola
campagna navale di Lepanto è costata 800.000 ducati alla Spagna e
400.000 all'Italia spagnola. La difesa del Mediterraneo ha
comportato bilanci oscillanti tra i 700.000 ducati e il milione e
mezzo. Per l'esercito nei Paesi Bassi si è arrivati a spendere più
di 3.700.000 ducati l'anno. Infine la sconfitta dell'Invincibile
Armata ha vanificato un investimento di oltre dieci milioni di
ducati.
Per secoli gli storici hanno spiegato che i tesori americani hanno
permesso alla Spagna di finanziare la strenua difesa dei propri
confini. Tuttavia i diplomatici veneziani del tempo sono convinti
che i domini nelle Americhe non rendevano quanto serviva a Filippo:
"la nuova Spagna detta il Perù, et altre isole, che son situate
fuor dello stretto di Gibilterra, dette l'Indie, sono ricchissime e
d'oro e d'argento, e di perle, mà con tutto ciò non danno a S. M.à
maggior' benefitio, che di 500 mila scudi l'anno" (Antonio
Tiepolo).
L'America offre alla madrepatria giusto quello che la Spagna stessa
produce, anzi meno. Michele Soriano calcola nel 1560 che le entrate
della Corona iberica sono pari a cinque milioni di scudi (quindici
anni più tardi sono aumentate di appena mezzo milione, ma nel 1598
raggiungono i nove milioni settecento mila): mezzo milione viene
dalle Indie tutte (e quindi Soriano vi include anche il frutto dei
domini nel Pacifico), un altro mezzo dalla Spagna, due dai possessi
italiani - equamente ripartiti fra Milano e Napoli - e due dai
Paesi Bassi e dalle Fiandre. L'Italia e i Paesi Bassi sono perciò
la chiave di volta dell'impero, sborsando quattro milioni sui
cinque annualmente incassati.
I veneziani sottolineano quanto questa cifra sia lontana dai sei
milioni di uscita necessari nei rari anni di pace. Il bilancio
imperiale è quindi sempre in rosso e il deficit cresce, quando
Filippo difende i suoi domini. D'altra parte rinunciare a tale
difesa comporterebbe la perdita di cospicue entrate, soprattutto
nel caso dei Paesi Bassi. Filippo II cerca allora di rastrellare
denaro aumentando le tasse sino al 140% e indebitandosi. Purtroppo
i prestiti alla Corona erodono implacabilmente le entrate, tanto
che alla morte del re gli interessi sul debito pubblico sono pari
all'85% di quelle.
Filippo è probabilmente impreparato a gestire una situazione così
esplosiva. Il padre lo ha fatto educare in Spagna per frenare le
rivendicazioni di quest'ultima, che non voleva un regnante
straniero. Filippo II manca quindi del respiro europeo di Carlo V,
inoltre la sua educazione è molto ritardata, tanto che a sette anni
non sa leggere, né scrivere. Agli inizi degli anni 1540 Filippo è
comunque un perfetto spagnolo: nel 1543 diviene reggente di Spagna
e si sposa con Maria di Portogallo, rinnovando l'alleanza già
ratificata dalle nozze del padre e della madre Isabella. Il suo
orizzonte è quindi ristretto alla sola penisola iberica. Nel 1548
Carlo decide perciò di farsi raggiungere dal figlio nei Paesi Bassi
e di completarne l'istruzione politica.
Nel frattempo la prima moglie di Filippo è morta (1545), dando alla
luce il figlio Carlos. Il reggente di Spagna è quindi utilizzabile
per nuovi accordi dinastici. Carlo V pensa allora di farlo sposare
con una principessa francese, ma nel frattempo lo manda a vedere
l'Italia, la Germania e i Paesi Bassi.
Il matrimonio francese non riesce e nel 1554 Carlo V fa sposare il
figlio con Maria Tudor, regina d'Inghilterra. Nel 1555 gli affida i
Paesi Bassi e nel 1556 lo designa re di Spagna, anche se Filippo
rimane in Europa settentrionale sino al 1559. Spera infatti di
mantenere il controllo dell'Inghilterra, che tuttavia gli sfugge,
quando la moglie spira nel 1558. In quell'anno muore anche Carlo V,
dopo un biennio di convulse lotte contro i francesi. Filippo riesce
a conchiudere la pace a Cateau-Cambrésis in una posizione di netto
vantaggio, ma deve ormai decidere da solo.
Il suo lungo regno ha caratteristiche diverse da quello paterno. In
primo luogo Filippo non ha i domini asburgici, né il titolo
imperiale, che vanno allo zio Ferdinando. In secondo luogo non
vuole essere un sovrano itinerante, come era stato il padre, e
accentra a Madrid il controllo di tutti i territori regi. In terzo
luogo è deciso a governare da solo. Accentra quindi tutto nelle
proprie mani. In breve la mole di lavoro diviene enorme e dal 1573
Filippo deve farsi aiutare da un segretario particolare, che smista
la corrispondenza in arrivo e risponde alle questioni di minor
importanza. In ogni caso varie testimonianze sottolineano come il
re passi allo scrittoio otto o nove ore ogni giorno.
Nel 1570 Filippo sposa Anna d'Austria, che muore dieci anni più
tardi dopo avergli dato sette figli, tra i quali sopravvive
soltanto il futuro Filippo III. La situazione dinastica non è
quindi delle più sicure. Inoltre il re è in difficoltà su molti
fronti. In particolare teme di perdere il controllo religioso della
Spagna: per questa ragione, a partire dal 1570, appoggia con sempre
maggior decisione l'Inquisizione (lotta ai conversos, gli ebrei convertitisi, e ai
cripto-protestanti) e la persecuzione dei moriscos (insorti nel 1569 e deportati nel 1571).
Con lo stesso impegno sostiene nelle colonie i missionari che
tentano di estirpare i culti indigeni.
In questo periodo inizia a paventare congiure familiari contro il
legittimo erede.
In precedenza ha già provveduto al primogenito Carlos. Questi era
affetto da gravi turbe psichiche, che peggioravano ad ogni assenza
del padre. Nel 1560 si ammala gravemente, forse di malaria. Poi
perde la vista per una caduta dalle scale e la recupera grazie a
un'operazione cranica, che, però, ne aggrava i problemi mentali.
Filippo si allontana allora dal figlio, disperando di farne un re:
Carlos reagisce abbandonandosi a terribili scoppi d'ira. Infine si
prepara a fuggire, forse alla volta dei Paesi Bassi (1567), ma il
padre lo fa rinchiudere. Il principe intraprende lo sciopero della
fame e i suoi carcerieri lo lasciano morire d'inedia.
Dopo la dipartita di Carlos, Filippo si preoccupa soprattutto del
fratellastro Giovanni d'Austria. A tal scopo ricorre ad Antonio
Perez, che utilizza Juan de Escobedo, segretario di don Giovanni,
per impedire qualsiasi tentativo di usurpare il potere. Senonché
Escobedo inizia a ricattare Perez, minacciando di rivelare tutto, e
nel 1578 il re ordina di pugnalarlo, dando il via a una penosa
querelle. Perez è accusato di essere il
mandante dell'omicidio, ma il sovrano lo fa condannare solo a una
pena pecuniaria. Nuove rivelazioni compromettono, però, la
posizione di Perez, che nel 1590 è condannato a morte. Riesce,
però, a fuggire nella natia Aragona e accusa Filippo di aver ordito
nell'ombra l'assassinio di Escobedo. Il tentativo di farlo tacere
con la forza provoca la sollevazione dell'Aragona: deve intervenire
l'esercito, che doma la rivolta nell'ottobre del 1591. Perez passa
in Francia, dove muore in miseria nel 1611: ha, però, nel frattempo
pubblicato più versioni delle Relaciones
sulle male azioni del re.
Tali avvenimenti non contribuiscono al buon nome del sovrano, tanto
più che la crescita del debito pubblico e l'aumento delle imposte
si accompagnano a una nuova crisi agricola e al progressivo
impoverirsi del paese. Il malcontento popolare genera sommosse e
persino nella capitale scoppiano tumulti. La situazione non è
migliore sul fronte internazionale. Filippo non è infatti riuscito
a piegare inglesi, olandesi e turchi. Inoltre la sua vita si chiude
sulla pace di Vervins, che riconosce nuovamente alla Francia lo
status di grande potenza.
Gli stessi spagnoli criticano il re appena morto. Inoltre le
Relaciones di Perez diffondono in tutta
Europa il ritratto di un sovrano meschino e crudele. Questo
stereotipo è oculatamente sviluppato dagli scrittori francesi e
inglesi del secolo successivo, magari aggiungendovi qualche accusa
tratta dall'Apologia (1581) di Guglielmo
d'Orange. Nel tardo Settecento due tragedie, Filippo di Vittorio Alfieri (1783) e Don Carlos di Friedrich Schiller (1787), confermano
l'immagine negativa del personaggio. Nel secolo successivo è quindi
facile siglare la sua definitiva condanna. Per gli storici
anglo-protestanti diviene dunque il despota per antonomasia e
questo giudizio influenza la cultura novecentesca. E' infatti
ripreso dagli storici e reiterato dai romanzieri, che, a loro
volta, servono di base a film di successo che esaltano i corsari
inglesi di Elisabetta, come difensori della libertà.
Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, Fernand Braudel e
Geoffrey Parker sottolineano le difficoltà di governare un impero
di quelle dimensioni e cercano di cancellare i tratti più
grotteschi del tradizionale ritratto di Filippo II. Più
recentemente una parte della storiografia spagnola, ispirata dal
revanscismo del nuovo governo di destra, ha tentato di rivalutarlo
per aspetti, quali la centralizzazione e il cattolicesimo
integralista, che erano stati condannati dagli storici liberali. Ne
è seguita la riproposizione dell'antico stereotipo, sia pure a
potenzialità rovesciata. Per molti versi Filippo II resta quindi un
personaggio storico ancora da scoprire.
La rivoluzione olandese
Nella prima metà del Cinquecento i Paesi Bassi
sono una parte dell'eredità borgognona che Carlo V ingrandisce e
unifica. Essi comprendono 17 province, il cui territorio
complessivo corrisponde agli odierni Belgio, Olanda, Lussemburgo
più alcune regioni della Francia Settentrionale: Fiandre francesi,
Hainaut e Artois. Queste ultime costituiscono tre province distinte
cui si aggiungono altre regioni di analoga grandezza (Brabante,
Limburgo, Lussemburgo, Zelanda, Olanda, Gheldria, Overijssel,
Frisia) e i territori di alcune città (Anversa, Groninga, Malines,
Namur, Utrecht, Zutpen).
L'intero territorio è retto da un organismo federativo, gli Stati
Generali, che ha sede a Bruxelles, dove alloggia anche il
governatore generale nominato da Carlo V. Le decisioni degli Stati
Generali devono, però, essere ratificate dai singoli Stati
provinciali, composti dai deputati della nobiltà, del clero e delle
città locali. Inoltre le singole province sono a loro volta rette
da un governatore (stathouder) con autonomi
poteri.
Sotto Carlo V i Paesi Bassi godono di una notevole autonomia e di
un forte prestigio: essi hanno infatti assistito il suo acquisto
del trono imperiale e i grandi esponenti della loro nobiltà sono
tra i consiglieri dell'imperatore. Quest'ultimo d'altronde è, per
cultura e affetti familiari, un borgognone e quindi più vicino ai
Paesi Bassi che alla Spagna. Tali legami sono evidenti nella stessa
scelta del governatore generale: a Bruxelles delega infatti la zia
Margherita di Asburgo, anche lei allevata nel ricordo della
grandezza borgognona.
Come abbiamo visto, Filippo II è invece educato in Spagna e non
considera i Paesi Bassi come il centro della propria eredità. Li
ritiene piuttosto un ricco dominio periferico, da sfruttare come
meglio gli aggrada. Dopo la sua ascesa al trono spagnolo, gli
aristocratici dei Paesi Bassi non contano più niente a corte,
mentre nelle loro province aumenta la pressione fiscale
spagnola.
Dopo il trattato di Cateau-Cambrésis (1559), i Paesi Bassi
divengono per gli spagnoli una marca di frontiera da presidiare
senza tanti riguardi verso la popolazione locale. Questa soffre
quindi doppiamente le vessazioni di una guarnigione insolente e
irrispettosa degli antichi privilegi della grande nobiltà locale.
La tensione sale quando il nuovo governatore generale, Margherita
di Parma, sorellastra di Filippo II, chiama sì alcuni nobili a far
parte della sua giunta, ma di fatto segue soltanto i consigli di
una ristretta cerchia designata dal re spagnolo.
La nobiltà e il patriziato urbano sono allora progressivamente
emarginati dai centri di potere e paventano la crescente
intolleranza religiosa. Da decenni infatti nei Paesi Bassi
settentrionali si è diffuso il calvinismo, ma l'autonomia locale ha
impedito l'applicazione rigida delle leggi contro l'eresia. Filippo
e Margherita di Parma non rispettano invece la moderazione
tradizionale e il loro attacco stimola la resistenza dei riformati
e minaccia di far esplodere una situazione sino allora abbastanza
tranquilla.
Le prime proteste sono eminentemente politiche. I grandi signori -
tutti cattolici, come il conte di Egmont, il conte di Hoorn e
Guglielmo di Nassau, principe d'Orange - si scontrano con il
principale consigliere di Margherita di Parma, Antoine de
Granvelle, cardinale-vescovo di Malines, e ne ottengono nel 1564
l'allontanamento. A questo punto essi si aspettano l'ammorbidimento
della legislazione anti-protestante e maggior rispetto dei propri
privilegi, ma nel 1565 Filippo II ordina d’intensificare la
repressione e fa capire che non è disposto a dar loro
retta.
Tra il 1565 e il 1566 alcuni esponenti del fronte nobiliare cercano
di incontrare il re, ma ogni confronto viene evitato dal re di
Spagna e dai suoi rappresentanti. I nobili dei Paesi Bassi sono
anzi ingannati e irrisi: il 3 aprile Carlo di Berlaymont,
consigliere della governatrice, li definisce pubblicamente
"pezzenti" (gueux). Il mancato accordo con
le autorità regie spinge i nobili cattolici a trattare con la
borghesia calvinista del Nord. Due giorni dopo l'insulto, il 5
aprile 1566 è firmato il compromesso di Breda, cui segue, il 14
luglio dello stesso anno, l'alleanza di Saint-Trond, vero e proprio
accordo antispagnolo tra cattolici e calvinisti. Il conte di Egmont
cerca ancora una volta di raggiungere il re, ma il suo tentativo di
mediazione cade nel vuoto. La protesta è ora pronta ad esplodere e
i suoi esponenti si autodefiniscono "pezzenti", a simboleggiare il
loro reciso rifiuto di ogni compromesso.
In realtà l'alleanza tra cattolici e calvinisti non funziona al
meglio. Nell'agosto 1566 i calvinisti scatenano un violento moto
che non minaccia tanto gli spagnoli, quanto i cattolici. Nell'arco
di qualche mese la violenza spontanea si coagula in una parvenza di
sollevazione armata, che Filippo II decide di reprimere duramente.
Nel 1567 giunge quindi nei Paesi Bassi Fernando Alvarez di Toledo,
duca d'Alba, uno dei migliori generali spagnoli.
Guglielmo di Orange, nel frattempo avvicinatosi ai riformati,
abbandona i Paesi Bassi e si rifugia in Germania, dove cerca di
formare un vero esercito. La grande aristocrazia cattolica spera
ancora di trattare con i rappresentanti della Spagna, ma l'armata
del duca d'Alba è un esercito invasore che non vuole dar quartiere
ad alcuno. Il suo generale teorizza infatti la terra bruciata come
metodo per spengere qualsiasi spinta antispagnola e
anticattolica.
Il duca non ha soltanto l'autorità di un governatore generale, ma
anche il titolo di vicerè e pieni poteri per estirpare l'eresia.
Non rispetta quindi l'autonomia dei governi provinciali, che anzi
guarda con sospetto per aver protetto quello che egli ritiene un
pericoloso moto ereticale. Non tratta perciò con la nobiltà locale
e crea un tribunale speciale, definito dagli olandesi Bloedraad (consiglio sanguinario), che condanna a
morte quasi 8.000 persone. Tra questi vi sono anche i conti
d'Egmont e di Hoorn, accusati di essere i principali responsabili
della sommossa e decapitati sulla Piazza Grande di Bruxelles il 5
giugno 1568.
La stessa Margherita di Parma teme che si sia andati troppo oltre,
alienandosi completamente i Paesi Bassi. Il duca d'Alba tiene duro
e respinge con facilità un nuovo sollevamento, provocato dal
rientro dell'Orange. Alla fine del decennio i Paesi Bassi sembrano
quindi in mano alla Spagna e nel 1570 Filippo II concede ai ribelli
il perdono solenne, in cambio di nuovi gettiti fiscali. In realtà
la rivolta cova ancora. I seguaci di Guglielmo d'Orange hanno le
loro roccaforti sulle coste della Zelanda e da qui muovono
all'arrembaggio dei galeoni spagnoli di ritorno dalle Americhe.
Inoltre la Spagna è nel mirino di varie potenze straniere, che, non
potendola attaccare direttamente, appoggiano finanziariamente i
ribelli.
Nel 1572 questi ultimi occupano il porto di La Brielle, alla foce
della Mosa; poco dopo, appoggiati da corsari francesi e inglesi,
bloccano anche la foce dell'Escaut. Nel frattempo l'ammiraglio di
Coligny, capo carismatico degli ugonotti francesi, cerca di
convincere il suo re ad inviare un'armata al fianco dei "pezzenti".
Sperando in questo aiuto, Guglielmo d'Orange si impadronisce di
Mons e Valenciennes. Gli spagnoli hanno buon gioco a respingere
questi attacchi, ma al nord le province dell'Olanda e della Zelanda
proclamano l'Orange loro stathouder e si
scrollano di dosso il gioco spagnolo.
Come sappiamo, la notte di s. Bartolomeo decima la leadership degli
ugonotti francesi e provoca la morte di Coligny. Per gli spagnoli
scompare quindi il pericolo di un attacco alle spalle e il duca
d'Alba può avviare la riconquista delle province settentrionali
(1572-1573). L'armata spagnola si distingue ancora una volta per la
sua ferocia: Malines, Zupten, Naarden e Haarlem sono espugnate e i
loro abitanti sono fatti letteralmente a pezzi.
Tuttavia gli spagnoli non riescono a piegare le province ribelli:
non possono infatti impiegare nella regione grandi forze, essendo
allo stesso tempo impegnati contro i turchi. Inoltre Filippo ha
bisogno di denaro per tener fede a tutti i suoi impegni: pensa
quindi di diminuire la pressione militare in cambio dell'aumento di
quella fiscale. Il duca d'Alba viene quindi sostituito dal più
morbido marchese di Requesens. Senonché nel 1576 il nuovo
governatore generale muore senza aver pacificato la regione. Viene
sostituito da don Giovanni d'Austria, il fratellastro del re, che
lascia, però, ai rivoltosi il tempo di riorganizzarsi. L'8 novembre
1576 le province cattoliche e quelle calviniste formano l'Unione di
Gand, che prevede l'indipendenza nazionale e la libertà
religiosa.
Resosi conto del pericolo, don Giovanni offre nel 1577 la partenza
delle truppe spagnole in cambio del ritorno del paese al
cattolicesimo e all'obbedienza verso il re, ma Guglielmo d'Orange
rifiuta e guida i confederati alla lotta aperta. A Bruxelles il
potere passa nelle mani di un comitato rivoluzionario e il principe
d'Orange è nominato luogotenente generale dei Paesi Bassi. Tuttavia
ancora una volta il fronte antispagnolo non è realmente omogeneo. I
calvinisti del Nord tentano infatti di sfruttare la situazione per
sradicare il cattolicesimo dalle Fiandre. Giovanni d'Austria
approfitta di queste divisioni e blocca Anversa, mentre si avvicina
da sud un'armata spagnola condotta da Alessandro Farnese. Un
attacco di tifo porta via il fratellastro di Filippo II, il 1
ottobre 1578, proprio mentre progettava di riacquisire il parziale
controllo dei Paesi Bassi, varcare la Manica, liberare Maria Stuart
e conquistare l'Inghilterra, togliendo così ogni rifornimento ai
calvinisti olandesi.
Comunque i cattolici, che si vedono tra l'incudine calvinista e il
martello spagnolo, decidono di organizzarsi autonomamente e di
trattare con la Spagna. Le province a maggioranza cattolica
(Artois, Fiandra, Hainaut e Wallonie) formano nel 1578 l'Unione di
Arras, che si propone di arrivare alla libertà religiosa auspicata
dalla Pace di Gand e di raggiungere un compromesso con Filippo II.
In risposta il 6 gennaio 1579 i calvinisti formano l'Unione di
Utrecht, che raggruppa Olanda, Zelanda, Frisia, Groningue, Utrecht,
Gheldria e Overijssel. L'Unione rifiuta ogni accordo con la Spagna
e proclama la Repubblica delle Province Unite.
La contrapposizione tra i due schieramenti passa attraverso un
ultimo tentativo di mediazione internazionale. Già nel 1578 le
province vallone hanno chiesto a Francesco, duca d'Angiò e fratello
di Enrico III di Francia, di prendere il comando degli Stati
Generali ribelli. Nonostante l'opposizione di Guglielmo d'Orange,
il francese è pronto ad accettare, ma la situazione internazionale
lo obbliga infine a rinunciare. Nel 1580 Angiò diviene comunque
signore delle Province Unite, su suggerimento proprio del principe
di Orange, ma non sfrutta questa posizione per accerchiare gli
spagnoli, anzi varca la Manica per corteggiare la regina
Elisabetta. Nel frattempo Alessandro Farnese guadagna
definitivamente la fiducia le province cattoliche e si va alla
divisione del paese. Il 2 luglio 1581 l'Atto dell'Aia proclama
l'indipendenza delle Province Unite, rette dallo stathouder generale, Guglielmo d'Orange, fermo
restando il rispetto dell'autonomia delle singole province. Le
province meridionali, quelle dell'Unione di Arras, formano invece i
Paesi Bassi spagnoli.
Nel 1582 il duca d'Angiò rientra, ma la sua avventura volge
rapidamente al termine, coinvolgendo tra l'altro la Francia in una
fallita invasione dei Paesi Bassi (1583), e quindi muore nel 1584.
Nello stesso anno viene assassinato Guglielmo d'Orange e la
situazione volge a vantaggio della Spagna. La regina d'Inghilterra
propone allora la candidatura del conte di Leicester a guida delle
Province Unite. Il tentativo non riesce e nel frattempo Alessandro
Farnese porta avanti la riconquista dei territori ribelli: nel
1584-1585 assedia e cattura Anversa; nei due anni successivi
riprende possesso di quasi tutta l'area centrale degli antichi
Paesi Bassi.
Nel 1587 i domini spagnoli comprendono non soltanto le province
dell'Unione di Arras, ma anche Bruxelles, Namur, il Brabante, la
regione di Anversa. Farnese potrebbe addirittura schiacciare le
province settentrionali, se il suo re non lo implicasse in una
serie di sfortunate imprese internazionali contro l'Inghilterra e
contro la Francia. Intanto i maggiori funzionari spagnoli nei Paesi
Bassi si scontrano fra loro per la preminenza, Bruxelles è in preda
all'anarchia e in molte guarnigioni i soldati si ammutinano,
chiedendo le paghe arretrate.
Questi avvenimenti facilitano la riorganizzazione delle Province
Unite. Queste sono rette dal pensionario generale Johann van
Oldenbarnvelt e dallo stathouder Maurizio
di Nassau, figlio di Guglielmo d'Orange. Maurizio è un eccellente
uomo d'arme e con l'aiuto del cugino Guglielmo-Luigi, stathouder di Frisia e Groningue, ristruttura le
armate ribelli. Le sue forze conseguono quindi importanti vittorie
sulla Mosa e sul Reno e, nel 1591-1594 e nel 1597 riconquistano
tutto il nord-est.
Ormai comunque la guerra nei Paesi Bassi è inestricabilmente legata
allo scacchiere internazionale. Francia e Inghilterra sono
impegnate a schiacciare la tracotanza spagnola e a sostenere le
Province Unite. Filippo II accetta infine il fatto compiuto e nel
1598, poco prima di morire, ratifica implicitamente l'indipendenza
delle province settentrionali, donando i Paesi Bassi spagnoli alla
figlia Isabella e al genero Alberto, arciduca d'Austria, con la
clausola di un ritorno alla Spagna se la coppia morisse senza eredi
diretti.
L'Invincibile Armata
La sconfitta dell'Invincibile Armata è quasi
sempre raccontata in termini drammatici. La disfatta spagnola
nell'estate del 1588 ha avuto infatti grande importanza nella
storia dell'Occidente: ha assicurato all'Inghilterra la definitiva
supremazia sui mari; ha rivelato la debolezza spagnola; ha
rafforzato la determinazione olandese a liberarsi dal giogo
ispanico; infine ha convinto Enrico III di Francia che non era
necessario sottomettersi ai Guisa, alleati di Filippo II. Tuttavia
l'avvenimento non ha avuto in sé nulla di grandioso: il tentativo
spagnolo è in realtà fallito per l'insipienza della sua
preparazione piuttosto che per l'abilità dei marinai inglesi o per
le tempeste nell'Atlantico.
Probabilmente la flotta inglese, che non era per numero di navi
inferiore a quella spagnola, avrebbe comunque vinto, ma gli
ammiragli di Elisabetta non hanno avuto modo di mostrare la loro
maestria. I loro avversari erano infatti condannati alla sconfitta
dall'assenza di un piano strategico, da navi mal ristrutturate e
dalla mancanza di viveri. Nessun contemporaneo e pochi storici
successivi hanno, però, amato concentrarsi su questi aspetti poco
eroici. Si è quindi preferito attribuire la sconfitta spagnola
all'abilità degli inglesi - ritenuti tradizionalmente inferiori per
numero - e allo scatenarsi degli elementi: in particolare i venti
contrari e il mal tempo normale nel nord dell'Atlantico alla fine
dell'estate sono stati visti come un giudizio divino, sfavorevole
al tetro e dispotico monarca spagnolo. D'altra parte non era forse
possibile giustificare altrimenti un insuccesso così clamoroso, per
giunta dopo una preparazione durata alcuni anni.
Le difficili relazioni tra Filippo II, re di Spagna, e i Tudor
rimontano infatti al sesto decennio del secolo. Come già
menzionato, il 27 luglio 1554 il ventiseienne arciduca Filippo
sposa Maria Tudor, trentottenne regina d'Inghilterra. Il matrimonio
è combinato dal padre dello sposo, l'imperatore Carlo V, che vuole
accerchiare la Francia, già minacciata a ovest (Spagna), sud
(Italia) ed est (impero germanico e Paesi Bassi).
Il futuro sovrano spagnolo si reca allora in Inghilterra e tenta
invano di mettere incinta la moglie. Nel frattempo la guerra mossa
alla Francia porta alla sconfitta inglese e alla perdita di Calais,
appena quattro mesi dopo il matrimonio. Filippo si trattiene ancora
per qualche tempo in Inghilterra e poi raggiunge il padre nei Paesi
Bassi. Quando Carlo V abdica, l'arciduca diviene re di Spagna, dove
infine rientra, e non vede più la moglie. Tuttavia non rinuncia ai
piani paterni e, alla morte di Maria (1558), vorrebbe sposare
Elisabetta Tudor. Quest'ultima elude le proposte matrimoniali
dell'ex-cognato e riporta il proprio paese alla religione anglicana
nell'inverno 1558-1559.
Filippo continua tuttavia a chiedere alla regina inglese di
convertirsi al cattolicesimo e di rinnovare l'alleanza con la
Spagna. In un secondo tempo le propone persino di divenire la
moglie del figlio dell'imperatore Ferdinando. Intanto, assieme ai
cugini d'Austria, protegge l'Inghilterra dalle folgori di Roma.
Elisabetta approfitta di queste buone disposizioni per aiutare gli
ugonotti francesi contro il loro re e i ribelli dei Paesi Bassi
contro quello di Spagna. Inoltre le sue navi non si fanno scrupolo
di contrabbandare e depredare nelle acque dell'America
spagnola.
La Spagna tenta allora timide ritorsioni, ma è evidente la sua
inferiorità navale. Filippo cerca quindi nuovi mezzi per
addomesticare Elisabetta e pensa a un matrimonio tra il suo
primogenito, il folle e deforme don Carlos, e Maria Stuart, regina
di Scozia e legittima erede al trono inglese agli occhi di tutti i
cattolici. La regina scozzese è, però, imprigionata nel 1567 dai
suoi stessi nobili e abdica a favore del figlio Giacomo. Nel 1568
riesce a fuggire, ma si mette sotto la protezione di Elisabetta e
quindi fuori dalla portata spagnola.
A questo punto i rapporti tra la potenza iberica e quella inglese
sono sempre più tesi, mentre gli strali cattolici si appuntano
contro la regina, anche se con risultati poco eclatanti. Nel 1569
scoppia in Inghilterra una rivolta di nobili cattolici e Pio V
interviene a favore dei ribelli scomunicando Elisabetta il 25
febbraio 1570. La rivolta è invece sconfitta e la scomunica pone in
una difficile situazione i cattolici, divisi tra la fedeltà a Roma
e quella al loro paese. Nel decennio successivo persino i cattolici
esiliati tentano di appianare questo contrasto e cercano un accordo
con la loro regina. Nel frattempo Filippo II prima spera di poter
in qualche modo sottomettere l'Inghilterra e poi, nel 1574,
propende per un riavvicinamento. Ancora una volta, però, le sue
manovre non hanno esito: Elisabetta prosegue ad appoggiare gli
ugonotti francesi e i ribelli olandesi con l'argento depredato agli
spagnoli.
Nel 1578 don Giovanni, il vincitore di Lepanto, fratellastro di
Filippo II e governatore dei Paesi Bassi spagnoli, progetta, come
già ricordato, di varcare la Manica, liberare Maria Stuart e
conquistare l'Inghilterra. Don Giovanni muore poco dopo, ma il suo
piano resta impresso nella mente degli strateghi spagnoli. Tuttavia
essi ritengono che non basti attaccare dai Paesi Bassi, ma che
questa mossa debba essere appoggiata da una flotta salpata dalle
coste spagnole. Dopo la conquista del Portogallo nel 1581, Alvaro
Bazán, marchese di Santa Cruz, suggerisce al re che Lisbona offre
il porto necessario per organizzare la spedizione contro
l'Inghilterra.
Per il momento Filippo non è intenzionato a organizzare realmente
una spedizione. Paventa infatti che la deposizione di Elisabetta
porti sul trono Giacomo Stuart, re di Scozia, sospettato di
simpatie per la Francia. Per evitare tale pericolo fa quindi
costruire dai suoi esperti un albero genealogico che gli permetta
di rivendicare la corona d'Inghilterra: i genealogisti di corte non
lo deludono e dimostrano che, da parte materna, egli discende da
due nipoti di Edoardo III (1312-1377). A questo punto riprende in
considerazione il piano propostogli dal marchese di Santa Cruz, ma
non riesce a decidersi.
Nel frattempo i suoi ambasciatori a Londra appoggiano vari
tentativi di assassinare Elisabetta ed entrano in contatto con
Maria Stuart. Quest'ultima fa loro pervenire il 20 maggio 1586 una
rinuncia ai propri diritti sul trono inglese in favore del sovrano
spagnolo. Ora Filippo II medita seriamente d'invadere
l'Inghilterra, ma il marchese di Santa Cruz gli propone un piano
che richiede 150 navi da guerra e 360 ausiliarie, 90.000 uomini e
2.200 pezzi di artiglieria. Il costo totale si aggira sui 4 milioni
di ducati, una cifra troppo elevata per le casse spagnole. Il re
ripiega quindi sul vecchio progetto di don Giovanni d'Austria e
propone ad Alessandro Farnese, duca di Parma e governatore dei
Paesi Bassi spagnoli, di organizzare l'invasione. Farnese non è
molto convinto e la discussione sui dettagli organizzativi va per
le lunghe. Senonché il 18 febbraio 1587 Maria Stuart è decapitata e
nello stesso anno Francis Drake affonda la flotta spagnola ancorata
nel porto di Cadice. Filippo si sente apertamente sfidato e ordina
quindi ai suoi sottoposti di accelerare i preparativi. Inoltre
decide che l'attacco deve essere portato congiuntamente dal
marchese di Santa Cruz, sia pure con una flotta ridotta, e dal duca
di Parma.
Quest'ultimo è più che mai certo che non si possa invadere
l'Inghilterra, ma non dichiara la sua opposizione ai piani del re,
poiché quest'ultimo appare sicuro della buona riuscita del duplice
sbarco. Bernardino de Mendoza, ambasciatore spagnolo a Parigi, gli
ha infatti inviato i rapporti di fuoriusciti inglesi, che, per
guadagnarsi la paga d'informatori, esaltano l'esasperazione del
popolo inglese, stanco della dispotica regina. Filippo II è quindi
convinto che basti la semplice apparizione della flotta spagnola
per scatenare la rivolta e non si preoccupa della possibilità che
l'Inghilterra possa difendersi.
Tutta la preparazione dell'attacco è inficiata da questa
convinzione e dalla contemporanea, sotterranea resistenza del
Farnese. Inoltre il re non conosce i problemi della guerra sul mare
e pretende di preparare tutto a tavolino. Nei suoi ordini non è
chiaro come l'armata dei Paesi Bassi possa varcare la Manica, né si
capisce cosa dovrebbe fare la flotta una volta in vista
dell'Inghilterra. In ogni caso egli vuole che le sue navi salpino
da Lisbona il prima possibile e ordina addirittura di partire in
pieno inverno. Il marchese di Santa Cruz si oppone tenacemente a
questa eventualità e rimanda di settimana in settimana la partenza.
Contemporaneamente il duca di Parma cerca di far intendere che la
spedizione dai Paesi Bassi non può avere buon esito senza un
adeguato numero di vascelli per trasportare i soldati. Ma il re non
si dà per vinto e si dice certissimo dell'appoggio
divino.
Il 30 gennaio 1588 il marchese di Santa Cruz muore e al suo posto è
chiamato don Alonso Perez de Guzmán, duca di Medina Sidonia. Questi
cerca di rifiutare l'incarico, ma è l'unico ad avere quarti di
nobiltà tali da poter sostituire il marchese di Sanza Cruz senza
sollevare obiezioni. Inoltre gli è stata affidata negli anni
precedenti la difesa del commercio delle Indie e quindi ha già
avuto a che fare con alcuni dei più famosi capitani inglesi. Per
tutti e per il re per primo egli è l'uomo giusto al momento
giusto.
La flotta spagnola salpa infine da Lisbona l'11 maggio 1588. E'
composta da 130 navi: 65 galeoni e grandi navi da guerra, 25 olche
(navi da carico baltiche), 32 battelli più piccoli (per lo più
pinasse da usare per le comunicazioni), 4 galeazze napoletane
(bastimenti a vela e a remi) e 4 piccole galee portoghesi
(anch'esse a remi). E' numericamente imponente e apparentemente
invincibile, ma non priva di difetti. La Spagna non ha rinunciato a
difendere le sue postazioni navali nell'America, nel Mediterraneo e
nel Pacifico. Molte navi da guerra, tra le quali l'ammiraglia
stessa, sono state di conseguenza requisite ai portoghesi e non
sono adeguatamente riattrezzate. Altri legni erano originariamente
destinati a compiti non militari: soltanto 21 galeoni e 4 galeazze
sono effettivamente navi da guerra, il resto sono bastimenti per il
trasporto di granaglie nel Mediterraneo o nel Baltico,
ristrutturati con l'aggiunta di castelli da combattimento a prua e
a poppa e armati. Questi navigli sono molto lenti e soprattutto non
sono capaci di manovrare in spazi ristretti.
In ogni caso l'Armata è effettivamente la flotta più grande sino
allora messa in mare dalla Spagna e porta sui suoi ponti un
esercito di oltre 30.000 uomini: 146 gentiluomini e 238 ufficiali,
accompagnati complessivamente da 728 domestici; 8.052 marinai;
18.973 soldati; 2.088 rematori per le galee e le galeazze; 167
cannonieri; 180 religiosi; una dozzina di medici e chirurghi e 62
infermieri. L'Armata trasporta inoltre 2.431 pezzi d'artiglieria e
123.000 palle di ferro, nonché viveri per sei mesi di navigazione:
11.000 barili di acqua dolce e 14.000 di vino; 11 milioni di libbre
di gallette, 600.000 di carne di porco sotto sale, 800.000 di
formaggio e altrettante di riso. A questo carico bisogna aggiungere
altre vettovaglie (olio, aceto, fagioli, ceci) e il necessario per
invadere l'Inghilterra: armi, scarpe, fiasche per la polvere da
sparo, affusti di cannone per le battaglie campali e persino 40
muli e numerosi cavalli. Tutte le navi sono quindi
sovraccaricate.
La partenza è impeccabile, ma l'ammiraglia non ha ancora raggiunto
il mare aperto, che il vento gira e la marea blocca la flotta, che
resta ferma per altri quindici giorni. Durante questa sosta forzata
il duca di Medina Sidonia e i suoi collaboratori leggono le
istruzioni ricevute alla partenza. Secondo il re essi dovrebbero
far rotta sulla Cornovaglia, imboccare la Manica senza accettare
battaglia e ricongiungersi con le forze del duca di Parma, una
volta raggiunto il porto di Margate. I capitani spagnoli palesano
al loro comandante alcune perplessità. In primo luogo non sono
sicuri di poter calare le ancore a Margate, inoltre si chiedono
come il Farnese possa varcare il canale. Il duca di Medina Sidonia
incarica allora l'ammiraglio Luis Martínez de Recalde di scrivere
al re, chiedendo maggiori chiarimenti e criticando sottilmente il
piano iniziale. L'ammiraglio suggerisce con tatto che la flotta
dovrebbe prendere terra nella zona dei Downs, oltre Margate, e di
lì proteggere la traversata degli uomini del duca di Parma. Questi,
però, dovrebbe procurarsi da solo le imbarcazioni
necessarie.
Il 30 maggio la flotta esce in mare aperto senza che sia giunta una
risposta dal re. La rotta è verso capo Finisterre, ma i venti
contrari allontanano l'Armata dalla meta. La navigazione è
estremamente penosa, perché i castelli da combattimento, apposti
alle navi mercantili, impacciano le virate e rendono impossibile
navigare contro vento. Nel frattempo il duca di Medina Sidonia
scrive al Farnese di non potergli venire incontro a Dunkerque, dove
egli ipotizza che il generale possa portare le sue truppe, né di
potergli fornire fanti di appoggio: l'Armata ha infatti bisogno di
tutti gli uomini imbarcati. Il duca di Parma, che conta su 16.000
uomini e non ha battelli per la traversata della Manica, scrive
indignato al re, ma questi non trasmette la lettera a Medina
Sidonia, che perciò si convince che l'armata dei Paesi Bassi sia
numerosa e soprattutto dotata di proprie navi.
Come se non bastasse, quando la flotta giunge in vista di
Finisterre il 14 giugno, i capitani scoprono che le provviste
imbarcate si stanno già deteriorando e che i barili d'acqua
perdono: i fornitori portoghesi hanno bellamente truffato gli
uomini del re o si sono accordati con loro per vendere derrate
avariate e barili scassati. Il duca di Medina Sidonia chiede alle
autorità di terra viveri e acqua, ma non riceve risposta. Per
quattro giorni incrocia al largo di Finisterre, poi decide di
entrare con 40 navi nella baia di La Coruña, dove spera di trovare
rifornimenti. Gli altri legni restano al largo e la notte tra il 19
e il 20 sono dispersi da un'improvvisa burrasca. La situazione è
ormai grottesca e il 24 Medina Sidonia scrive al re chiedendo di
sospendere l'operazione. Dopo 10 giorni arriva in risposta l'ordine
di salpare entro il 10 luglio, a meno che non manchino troppe navi.
L'Armata riesce a ricomporsi, ma il 10 la partenza è rimandata sino
al 12, perché troppi vascelli sono ancora danneggiati.
Nel frattempo la flotta inglese si è pericolosamente avvicinata.
Essa non è inferiore per numero e per grandezza delle navi a quella
spagnola. Conta infatti 140 vascelli: 35 grandi legni e pinasse
della regina, altrettanti di armatori privati dediti alla pirateria
e 70 mercantili armati in fretta. Alcune navi inglesi sono molto
vecchie, più vecchie mediamente di quelle spagnole: sono, però,
state riattrezzate con attenzione e non imbarcano acqua, né hanno
problemi di navigazione. Inoltre almeno dieci vascelli sono di
qualità decisamente superiore: appartengono infatti alla classe di
navi da guerra race-built, costruite cioè
per ingaggiare veloci confronti sul mare e non appesantite dai
castelli da combattimento. Infine la flotta inglese è superiore per
numero e qualità dei cannoni: questi sono per di più facili da
ricaricare, grazie all'affusto montato su ruote, mentre le navi
spagnole hanno difficoltà a bissare la prima bordata.
Gli inglesi potrebbero risolvere lo scontro attaccando al largo di
La Coruña, ma non si muovono con sufficiente rapidità: non sono
abituati a una flotta di tale entità e inoltre gli ordini della
regina sono vaghi. Per decidere la strategia migliore Charles
Howard, Lord di Effingham e Grande Ammiraglio, consulta Francis
Drake, John Hawkins, Martin Frobisher e Thomas Fenner. Drake, che
nel 1587 ha attaccato Cadice, convince gli altri ad andare incontro
all'Armata e a bloccarla in mare aperto, ma il 20 luglio il vento
gira in favore degli spagnoli e obbliga gli inglesi a rientrare
alla base. Due giorni dopo gli spagnoli salpano alla volta della
Cornovaglia, ma il 26 il vento cade di nuovo e il 27 si scatena una
piccola tempesta, che affonda quattro galee e un galeone. Il 29
luglio le vedette spagnole avvistano finalmente la costa inglese e
il giorno successivo le due flotte si incontrano al largo di capo
Eddystone. Gli inglesi manovrano in modo di tenersi sopravvento, ma
gli spagnoli si schierano in maniera che gli avversari non possano
incunearsi tra le loro fila. Ne consegue un guardingo
fronteggiarsi, interrotto da qualche salve di
artiglieria.
Dopo la scaramuccia il duca di Medina decide di avanzare nella
Manica e Lord Howard di tallonarlo per impedirgli di sbarcare. Le
due flotte procedono quindi di conserva, mentre l'ammiraglio
spagnolo invia una pinassa a contattare il Farnese. Il duca di
Parma, però, non risponde e il duca di Medina avanza alla cieca,
non sapendo dove possa avvenire il ricongiungimento delle forze
spagnole e perdendo altre navi per incidenti di navigazione. Il 2
agosto viene nuovamente impegnata battaglia: lo scontro è senza
esito, ma rivela che gli spagnoli non sono in grado di abbordare
gli inglesi. Questi ultimi scoprono invece di poter danneggiare gli
avversari, adottando la formazione in linea di fila nota fin dal
secolo precedente, ma sino ad allora poco sfruttata, che permette
di impegnare tutti i pezzi di una fiancata.
Il 3 agosto è giorno di tregua. Medina aspetta invano una risposta
dal Farnese. Gli inglesi invece si riforniscono di palle di cannone
e di polvere da sparo. Il 4 dividono la flotta in quattro squadre,
affidate a Howard, Drake, Frobisher e Hawkins, e tentano di
accerchiare il nemico. Gli spagnoli decidono allora di sbarcare
sull'isola di Wight, ma la marea ancora debole e i venti contrari
impediscono la manovra, mentre gli inglesi iniziano ad attaccare.
L'Armata riprende la navigazione lungo la Manica e gli inglesi
ritornano a distanza di sicurezza, ormai sicuri di avere in pugno
la situazione e di dover soltanto aspettare il momento propizio per
distruggere l'avversario senza subire perdite.
Il duca di Medina prosegue a mandare messaggi al Farnese,
chiedendogli di intervenire, ma il duca di Parma invia a Filippo II
tutte le lettere scrittegli dall'ammiraglio, specificando di non
poter soccorrerlo e di non poter uscire in mare, se non sono
allontanate la flotta inglese e quella olandese. Infine Medina
Sidonia decide di attraccare a Dunkerque, ma i piloti gli rivelano
che i bassi fondali, le dimensioni minime dell'unico canale
navigabile e le postazioni olandesi impediscono l'entrata
dell'Armata. Quest'ultima cala dunque le ancore 24 miglia al largo
di Dunkerque, mentre gli inglesi si fermano fuori tiro. Le navi
spagnole sono disposte in fila orizzontale in piena corrente e
così, la notte del 7 agosto, gli inglesi affidano a quest'ultima
otto navi incendiarie, che non mietono vittime, ma obbligano gli
spagnoli a salpare e ad impegnare battaglia, la mattina successiva,
sottovento e con le spalle alla costa. Ancora una volta lo scontro
è brevissimo, tuttavia gli spagnoli perdono tre navi e seicento
uomini, più un numero imprecisato di feriti e ingenti danni a molte
navi.
L'Armata riesce comunque a sganciarsi, ma a causa dei venti deve
intraprendere il periplo delle isole britaniche per poter rientrare
in Spagna. Inoltre gli spagnoli temono di essere spinti sulle coste
irlandesi a loro ignote: decidono quindi di doppiare le Shetland
per poi puntare verso capo Finisterre, tenendosi sempre molto al
largo. Gli inglesi inseguono l'Armata sino a Newcastle: qui
attraccano, avendo compreso il piano nemico e ritenendo che
l'Atlantico basti a sistemare una flotta così malconcia. Di fatti
il 21 agosto le navi spagnole iniziano a disperdersi per il vento.
La maggior parte di loro non è infatti adatta alla navigazione
atlantica e nessuna è stata carenata durante l'estate: la loro
tenuta è quindi pessima, tanto più che sono ancora sovraccariche di
cannoni, salmerie e animali da carico e da guerra. Muli e cavalli
sono gettati in mare, assieme a quanto non serve per la
navigazione, ma molti vascelli si aprono letteralmente in due e
sono inghiottiti dai flutti.
In queste condizioni alcuni capitani tentano di riguadagnare le
Orcadi, le Shetland o la Scozia, oppure fanno vela direttamente
sull'Inghilterra: chi ci riesce, attende per mesi di essere
riscattato e rimpatriato. Altri puntano o sono spinti dai venti
verso l'Irlanda, dove lord William Fitzwilliam, il governatore
inglese, è avvertito il 18 settembre del loro possibile arrivo.
Egli ordina di sterminare i nemici e mantiene questa decisione,
anche quando scopre che si tratta di naufraghi, più che di
invasori. Non tutti gli spagnoli sono vittime degli inglesi; la
popolazione locale non si mostra più clemente. Complessivamente
3.000 membri dell'Armata sono uccisi dagli inglesi e altrettanti
periscono per mano degli irlandesi o annegano.
Parte della flotta riesce comunque a rientrare in Spagna. Il 24
settembre il duca di Medina Sidonia giunge in vista di Santander.
Nelle settimane successive arrivano altre navi. Una lista stesa
verso la metà di ottobre mostra che alla fine sono rientrate 65
navi, la metà di quelle partite da Lisbona alla fine di maggio.
Iniziano allora a diffondersi le differenti versioni
sull'avvenimento. Gli spagnoli insistono sulle sfortunate
circostanze atmosferiche (in realtà assolutamente prevedibili). Gli
inglesi elaborano il mito della grande e definitiva vittoria
navale.
La partita invece non è chiusa e Filippo II invia altre tre flotte
contro l'Inghilterra: nel novembre 1596 una nuova Armata parte alla
volta dell'Irlanda ed è travolta da una tempesta; la stessa sorte
colpisce la spedizione che doveva sbarcare in Cornovaglia l'anno
successivo; infine un terzo convoglio percorre nel 1598 la Manica e
porta soccorso alle armate spagnole nei Paesi Bassi. L'Inghilterra
è in vantaggio sui mari, ma per la vittoria definitiva deve
attendere ancora quasi un secolo e mezzo.
Nota bibliografica
Per un quadro delle lotte europee nel secondo
Cinquecento sono ancora validi J.H. Elliott, Europe divided 1559-1598, London, Fontana, 1968, e
Corrado Vivanti, Lotta politica e pace
religiosa nell'Europa del '500, Torino, Einaudi, 1974. Sulla
conflittualità e gli sviluppi dell'arte bellica sono invece utili:
John R. Hale, Guerra e società nell'Europa del
Rinascimento, Roma-Bari, Laterza 1987; Geoffrey Parker,
La rivoluzione militare. Le innovazioni
militari e il sorgere dell'Occidente, Bologna, Il Mulino, 1990;
Piero Del Negro, Guerre ed eserciti da
Machiavelli a Napoleone, Roma-Bari, Roma-Bari, Laterza, 2001.
Il libro di Parker ha scatenato un vivo dibattito, per il quale si
veda l'appena citata opera di Del Negro, nonché Joël Cornette,
La révolution militaire et l'État moderne,
"Revue d'histoire moderne et contemporaine", 41 (1994), pp.
696-709, e The Military Revolution Debate:
Readings on the Military Transformation of Early Modern Europe,
Boulder, Co., Westview, 1995. Brian M. Downing, The Military Revolution and Political Change. Origins of
Democracy and Autocracy in Early Modern Europe, Princeton,
Princeton University Press, 1992, ha fatto della rivoluzione
militare l'asse privilegiato della storia europea nell'età moderna.
Sulla stessa linea, ma meno radicali, sono Jeremy Black, A Military Revolution? Military Change and European
Society, Atantic Highlands NJ, Humanities Press, 1991, e Frank
Tallett, War and Society in Early-Modern
Europe, 1495-1715, London-New York, Routledge, 1992. A cura di
Black sono recentemente usciti due volumi, nei quali si possono
trovare ulteriori indicazioni: European
Warfare, 1453-1815, New York, St. Martin's Press, 1999, e
War in the early modern world, Boulder Co.,
Westview Press, 1999. Per un sussidio sul Web, si digiti
l'indirizzo dell'Internet History Sourcebooks Project
(www.fordham.edu/halsall/).
Le biografie di Filippo II e le opere di sintesi sul suo periodo
sono numerose e soprattutto famose, vedi per esempio: Geoffrey
Parker, Un solo re, un solo impero: Filippo II
di Spagna, Bologna, Il Mulino, 1985, e Ferdinand Braudel,
Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di
Filippo II, Torino, Einaudi, 1986. Mía J. Rodríguez-Salgado,
Metamorfosi di un impero: la politica asburgica
da Carlo 5. a Filippo 2. (1551-1559), Milano, Vita e Pensiero,
1994, puntualizza i rapporti tra la strategia paterna e quella di
Filippo. Gli scopi di quest'ultimo sono ulteriormente precisati da:
Henry Kamen, Philip of Spain, New
Haven-London, Yale University Press, 1997; Geoffrey Parker,
The Grand Strategy of Philip II, New
Haven-London, Yale University Press, 1998; Felipe II (1527-1598). Europa y la Monarquía
Católica, a cura di José Martínez Millán, Madrid, Editorial
Parteluz, 1998. Un suggestivo quadro della politica estera spagnola
è offerto da H.G. Koenigsberger: L'Europa
occidentale e la potenza spagnola, in Cambridge University
Press, Storia del Mondo moderno, III,
La controriforma e la rivoluzione dei prezzi
(1559-1610), a cura di Richard Bruce Wernham, Milano, Garzanti,
1968, pp. 651-691, e Politicians and Virtuosi.
Essays in Early Modern History, London, Hambledon Press, 1986.
Sul Web sono a disposizione il sito dell'Escorial, che contiene
anche materiali su Filippo e sull'Armata (http://www.escorial.com),
e quello degli studiosi che hanno promosso i centenari di Filippo
II e Carlo V (http://www.felipe2carlos5.es). La Brigham Young
University dello Utah sta raccogliendo e mettendo in linea lettere
e altri materiali inediti del sovrano spagnolo (http://lib3.byu.edu/~rdh/phil2/).
Per la situazione nel Mediterraneo e lo scontro con i turchi,
confronta: Il Mediterraneo nella seconda metà
del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze,
Olschki, 1974; I Turchi, il Mediterraneo e
l'Europa, a cura di Giovanna Motta, Milano, Angeli, 1998. Per
l'espansione spagnola nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, si consulti
J.H. Elliott, La Spagna imperiale, Bologna,
Il Mulino, 1982. Raffaele Puddu (Il soldato
gentiluomo, Bologna, Il Mulino, 1982, e I
nemici del re. Il racconto della guerra nella Spagna di Filippo
II, Roma, Carocci, 2000) approfondisce l'aspetto
psicologico-culturale della guerra nell'impero spagnolo. Per i
riflessi italiani, vedi La Espada y la Pluma.
Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del
convegno internazionale di Pavia, Viareggio-Lucca, Baroni
Editore, 2000. Per un tema specifico, quello della Lombardia
spagnola, confronta inoltre: Mario Rizzo, Militari e civili nello Stato di Milano durante la
seconda metà del Cinquecento. In tema di alloggiamenti
militari, "Clio", XXIII. 4 (1987), pp. 563-596, e Competizione politico-militare, geopolitica e
mobilitazione delle risorse nell'Europa cinquecentesca. Lo stato di
Milano nell'età di Filippo II, in La
Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di Elena
Brambilla e Giovanni Muto, Milano, Unicopli, 1997, pp. 370-387;
Lombardia borromaica Lombardia spagnola
1554-1659, a cura di Paolo Pissavino e Gianvittorio Signorotto,
Roma, Bulzoni, 1995. Per la Sicilia spagnola, si guardi invece
Domenico Ligresti, L'organizzazione militare
del Regno di Sicilia (1575-1635), "Rivista Storica Italiana",
CV (1993), pp. 647-678.
Per l'immagine anche storiografica della Spagna del secondo
Cinquecento, si parta da Spagna: immagine e
autorappresentazione, a cura di Giuliana Di Febo, "Dimensioni e
problemi della ricerca storica", II (1995). Contengono spunti
fondamentali Anthony Pagden, Spanish
Imperialism and the Political Imagination, New Haven-London,
Yale University Press, 1990, e Governare il
mondo. L'impero spagnolo dal XV al XIX secolo, a cura di
Massimo Ganci e Ruggiero Romano, Palermo, Società italiana per la
storia patria, 1991. Le citazioni dei nunzi veneziani sono tratte
dall'Archivio Segreto Vaticano, Fondo Bolognetti, vol.
24.
Per inquadrare la rivoluzione olandese nello sviluppo europeo
moderno e contemporaneo, si confronti Charles Tilly, Le rivoluzioni europee 1492-1992, Roma-Bari,
Laterza, 1993, e Alberto Tenenti, Dalle rivolte
alle rivoluzioni, Il Mulino, Bologna, 1997. Per un'introduzione
generale alla rivoluzione olandese, vedi Geoffrey Parker, The Dutch Revolt, London, Penguin, 1990. Lo stesso
autore (The Army of Flanders and the Spanish
Road, 1567-1659, Cambridge, Cambridge University Press, 1972)
esplora la logistica spagnola nel conflitto. Sulla nascita e la
crescita della repubblica olandese, consulta Jonathan I. Israel,
The Dutch Republic. Its Rise, Greatness, and
Fall 1477-1806, Oxford, Clarendon Press, 1995. Un'interessante
prospettiva sui contatti fra Olanda e Inghilterra è indicata da
Raingard Esser, News Across the Channel.
Contact and Communication Between the Dutch and Wallon Refugees in
Norwich and Their Families in Flanders, 1565-1640, "Immigrants
and Minorities", 14, 2 (1995), pp. 139-152. Matthew C. Waxman,
Strategic Terror: Philip II and
Sixteenth-Century Warfare, "War in History", 4, 3 (1997), pp.
339-347, approfondisce le ragioni che ispiravano la crudeltà
spagnola.
Sulla disastrosa impresa della flotta spagnola, che doveva
conquistare l'Inghilterra, è disponibile in italiano il libro, un
po' troppo giornalistico, di David Howarth, L'Invincibile Armada, Milano, Mondadori, 1984. Una
valutazione più scientifica è offerta da C.J.M. Martin e Geoffrey
Parker, The Spanish Armada, New York,
Norton, 1988. I principali risultati di questo studio, basato su
fonti d'archivio e archeologiche, sono riassunti dallo stesso
Parker in un capitolo del già citato La
rivoluzione militare. Sempre sugli scontri navali, vedi ancora
di Parker Ships of the Line 1500-1650, in
The Cambridge Illustrated History of
Warfare, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. Un quadro
generale, datato ma molto ben scritto, è offerto da Carlo Maria
Cipolla, Vele e cannoni, Bologna, Il
Mulino, 1983. Lo studio più aggiornato è invece Jan Glete,
Warfare at Sea, 1500-1650: Maritime Conflicts
and the Transformation of Europe, London-New York, Routledge,
2000.
Tornando alla strategia navale spagnola, vale la pena di consultare
ancora R.A. Strandling, The Armada of Flanders.
Spanish Maritime Policy and European War, 1568-1668, Cambridge,
Cambridge University Press, 1992, mentre sullo svilupppo della
flotta inglese si guardi D. M. Loades, The
Tudor Navy. An Administrative, Political and Military History,
Aldershot, Scolar Press , 1992. Paul E.J. Hammer, Myth-Making: Politics, Propaganda and the Capture of
Cadiz in 1596, "The Historical Journal", 40, 3 (1997), pp.
621-642, esplora un versante particolare dello scontro
anglo-spagnolo. Peter Pierson, Commander of the
Armada: the seventh duke of Medina Sidonia, New Haven-London,
Yale University Press, 1989, presenta il punto di vista spagnolo,
mentre R.B. Wenham, The return of the Armadas:
the last years of the Elizabethan war against Spain 1595-1603,
Oxford, Oxford University Press, 1994, descrive il proseguimento
dello scontro anglo-spagnolo.
Per comprendere appieno la capacità di resistenza inglese, bisogna
riflettere sulla progressiva ascesa di quel paese. Un buon punto di
partenza è la lettura di due classici, quali Christopher Hill,
La formazione della potenza inglese,
Torino, Einaudi, 1977, e Conrad Russell, Alle
origini dell'Inghilterra moderna, Bologna, Il Mulino, 1988.
Bisgona, però, tener presente che il loro punto di vista è
contrapposto. La letteratura storica su Elisabetta I è vastissima,
tanto che la sola Library of Congress di Washington scheda quasi
duecento volumi su di lei. Per quel che ci riguarda, basta qui
citare due opere recentissime: Susan Doran, Elizabeth I and foreign policy, 1568-1603,
London-New York, Routledge, 2000, e Miriam Greenblatt, Elizabeth I and Tudor England, New York, Bedmark
Books, 2001. Si tenga inoltre conto che Elisabetta è una star della
rete con le oltre 60.000 citazioni. Tra queste vale la pena di
ricordare il sito http://www.elizabethi.org, dilettantesco, ma
ricchissimo di materiale (bibliografie, notizie, link), e The Works of Elizabeth I (poesie, traduzioni,
discorsi e lettere) a http://www.luminarium,org/renlit/elizabib.htm.