Parte II

Spagna, Olanda e Inghilterra

Come abbiamo visto l'andamento delle guerre di religione francesi non è soltanto determinato dagli avvenimenti interni, ma subisce prepotentemente l'influsso di quelli esterni al regno. In primo luogo la politica di Filippo II, ma anche i due fronti che vedono questi impegnato contro gli inglesi e gli olandesi. L'incastro di questi elementi è stato variamente saggiato dalla letteratura storiografica otto-novecentesca, tuttavia vale qui la pena di ripercorre le linee principali della strategia del sovrano spagnolo e poi vedere come quest'ultima non abbia funzionato, soprattutto nel caso inglese e olandese. A proposito della rivoluzione olandese, verranno riassunte le vicende della Rivoluzione sino al 1598, mentre per il conflitto fra Spagna e Inghilterra l'attenzione sarà focalizzata sul solo, emblematico episodio dell'Invincibile Armata.

Filippo II

La morte di Filippo II (1527-1598) chiude il secolo dell'espansione spagnola. Il regno iberico va allora dal Vecchio al Nuovo Mondo. In Europa comprende la penisola iberica, Napoli e Milano, e i Paesi Bassi. In Africa è attestato a sud-est e sud-ovest dello stretto di Gibilterra. Nelle Americhe occupa il subcontinente centro-meridionale, il Messico e la Florida. In Asia include le Filippine. La maggior parte di questo impero è frutto delle conquiste e delle strategie matrimoniali dei re precedenti. Filippo vi ha soltanto aggiunto il Portogallo e le Filippine. In compenso ha dovuto continuamente difendere i propri domini dalle pressioni interne ed esterne.
Al tradizionale nemico francese, temuto persino durante le guerre di religione (vedi la prima parte), si sono infatti aggiunti altri agguerriti avversari. I Paesi Bassi in rivolta hanno impegnato le armate di Filippo in una guerra senza fine, che, per sventura dei successivi re spagnoli, continuerà sino alla metà del secolo successivo (vedi più avanti). Gli inglesi hanno sfidato pervicacemente Filippo, depredandone galeoni e avamposti americani. Infine hanno preso le parti degli olandesi nel 1585 e inflitto alla Spagna una significativa sconfitta sul mare (vedi più avanti). L'impero ottomano è stato infine il nemico più lontano, ma anche più pericoloso. Ha continuato a minacciare traffici e terre spagnole persino dopo la sconfitta di Lepanto (1571): ha infatti conquistato nel 1574 Tunisi e nel 1576 quasi tutto il Marocco. La sua sola presenza ha vincolato la Spagna alla difesa del Mediterraneo e le ha impedito di schiacciare gli olandesi e gli inglesi.
Le spinte centrifughe non sono state meno dannose. La stessa rivolta olandese è in fondo espressione di esse, ma non va dimenticato che tutta la vicenda iberica è allora contraddistinta dalla turbolenza interna: si pensi al brigantaggio catalano o alla resistenza aragonese. Inoltre tutti i domini spagnoli chiedono maggiori privilegi o un miglior trattamento politico-fiscale: è il caso ancora dei Paesi Bassi, ma anche delle proteste italiane, in particolare siciliane. Infine le colonie americane hanno sempre preteso di essere aiutate, senza mai rinunciare alle rivendicazioni autonomistiche (si pensi all'agitazione endemica in Perù e all'insurrezione messicana del 1565) e soprattutto al contrabbando, che lede i diritti economici della madrepatria.
Proprio la vicenda americana ci mostra quale è stato il vero problema di Filippo II. Egli ha dovuto infatti amministrare un impero assai vasto, le cui componenti a malincuore hanno contribuito alle enormi spese amministrativo-militari. La sola campagna navale di Lepanto è costata 800.000 ducati alla Spagna e 400.000 all'Italia spagnola. La difesa del Mediterraneo ha comportato bilanci oscillanti tra i 700.000 ducati e il milione e mezzo. Per l'esercito nei Paesi Bassi si è arrivati a spendere più di 3.700.000 ducati l'anno. Infine la sconfitta dell'Invincibile Armata ha vanificato un investimento di oltre dieci milioni di ducati.
Per secoli gli storici hanno spiegato che i tesori americani hanno permesso alla Spagna di finanziare la strenua difesa dei propri confini. Tuttavia i diplomatici veneziani del tempo sono convinti che i domini nelle Americhe non rendevano quanto serviva a Filippo: "la nuova Spagna detta il Perù, et altre isole, che son situate fuor dello stretto di Gibilterra, dette l'Indie, sono ricchissime e d'oro e d'argento, e di perle, mà con tutto ciò non danno a S. M.à maggior' benefitio, che di 500 mila scudi l'anno" (Antonio Tiepolo).
L'America offre alla madrepatria giusto quello che la Spagna stessa produce, anzi meno. Michele Soriano calcola nel 1560 che le entrate della Corona iberica sono pari a cinque milioni di scudi (quindici anni più tardi sono aumentate di appena mezzo milione, ma nel 1598 raggiungono i nove milioni settecento mila): mezzo milione viene dalle Indie tutte (e quindi Soriano vi include anche il frutto dei domini nel Pacifico), un altro mezzo dalla Spagna, due dai possessi italiani - equamente ripartiti fra Milano e Napoli - e due dai Paesi Bassi e dalle Fiandre. L'Italia e i Paesi Bassi sono perciò la chiave di volta dell'impero, sborsando quattro milioni sui cinque annualmente incassati.
I veneziani sottolineano quanto questa cifra sia lontana dai sei milioni di uscita necessari nei rari anni di pace. Il bilancio imperiale è quindi sempre in rosso e il deficit cresce, quando Filippo difende i suoi domini. D'altra parte rinunciare a tale difesa comporterebbe la perdita di cospicue entrate, soprattutto nel caso dei Paesi Bassi. Filippo II cerca allora di rastrellare denaro aumentando le tasse sino al 140% e indebitandosi. Purtroppo i prestiti alla Corona erodono implacabilmente le entrate, tanto che alla morte del re gli interessi sul debito pubblico sono pari all'85% di quelle.
Filippo è probabilmente impreparato a gestire una situazione così esplosiva. Il padre lo ha fatto educare in Spagna per frenare le rivendicazioni di quest'ultima, che non voleva un regnante straniero. Filippo II manca quindi del respiro europeo di Carlo V, inoltre la sua educazione è molto ritardata, tanto che a sette anni non sa leggere, né scrivere. Agli inizi degli anni 1540 Filippo è comunque un perfetto spagnolo: nel 1543 diviene reggente di Spagna e si sposa con Maria di Portogallo, rinnovando l'alleanza già ratificata dalle nozze del padre e della madre Isabella. Il suo orizzonte è quindi ristretto alla sola penisola iberica. Nel 1548 Carlo decide perciò di farsi raggiungere dal figlio nei Paesi Bassi e di completarne l'istruzione politica.
Nel frattempo la prima moglie di Filippo è morta (1545), dando alla luce il figlio Carlos. Il reggente di Spagna è quindi utilizzabile per nuovi accordi dinastici. Carlo V pensa allora di farlo sposare con una principessa francese, ma nel frattempo lo manda a vedere l'Italia, la Germania e i Paesi Bassi.
Il matrimonio francese non riesce e nel 1554 Carlo V fa sposare il figlio con Maria Tudor, regina d'Inghilterra. Nel 1555 gli affida i Paesi Bassi e nel 1556 lo designa re di Spagna, anche se Filippo rimane in Europa settentrionale sino al 1559. Spera infatti di mantenere il controllo dell'Inghilterra, che tuttavia gli sfugge, quando la moglie spira nel 1558. In quell'anno muore anche Carlo V, dopo un biennio di convulse lotte contro i francesi. Filippo riesce a conchiudere la pace a Cateau-Cambrésis in una posizione di netto vantaggio, ma deve ormai decidere da solo.
Il suo lungo regno ha caratteristiche diverse da quello paterno. In primo luogo Filippo non ha i domini asburgici, né il titolo imperiale, che vanno allo zio Ferdinando. In secondo luogo non vuole essere un sovrano itinerante, come era stato il padre, e accentra a Madrid il controllo di tutti i territori regi. In terzo luogo è deciso a governare da solo. Accentra quindi tutto nelle proprie mani. In breve la mole di lavoro diviene enorme e dal 1573 Filippo deve farsi aiutare da un segretario particolare, che smista la corrispondenza in arrivo e risponde alle questioni di minor importanza. In ogni caso varie testimonianze sottolineano come il re passi allo scrittoio otto o nove ore ogni giorno.
Nel 1570 Filippo sposa Anna d'Austria, che muore dieci anni più tardi dopo avergli dato sette figli, tra i quali sopravvive soltanto il futuro Filippo III. La situazione dinastica non è quindi delle più sicure. Inoltre il re è in difficoltà su molti fronti. In particolare teme di perdere il controllo religioso della Spagna: per questa ragione, a partire dal 1570, appoggia con sempre maggior decisione l'Inquisizione (lotta ai conversos, gli ebrei convertitisi, e ai cripto-protestanti) e la persecuzione dei moriscos (insorti nel 1569 e deportati nel 1571). Con lo stesso impegno sostiene nelle colonie i missionari che tentano di estirpare i culti indigeni.
In questo periodo inizia a paventare congiure familiari contro il legittimo erede.
In precedenza ha già provveduto al primogenito Carlos. Questi era affetto da gravi turbe psichiche, che peggioravano ad ogni assenza del padre. Nel 1560 si ammala gravemente, forse di malaria. Poi perde la vista per una caduta dalle scale e la recupera grazie a un'operazione cranica, che, però, ne aggrava i problemi mentali. Filippo si allontana allora dal figlio, disperando di farne un re: Carlos reagisce abbandonandosi a terribili scoppi d'ira. Infine si prepara a fuggire, forse alla volta dei Paesi Bassi (1567), ma il padre lo fa rinchiudere. Il principe intraprende lo sciopero della fame e i suoi carcerieri lo lasciano morire d'inedia.
Dopo la dipartita di Carlos, Filippo si preoccupa soprattutto del fratellastro Giovanni d'Austria. A tal scopo ricorre ad Antonio Perez, che utilizza Juan de Escobedo, segretario di don Giovanni, per impedire qualsiasi tentativo di usurpare il potere. Senonché Escobedo inizia a ricattare Perez, minacciando di rivelare tutto, e nel 1578 il re ordina di pugnalarlo, dando il via a una penosa querelle. Perez è accusato di essere il mandante dell'omicidio, ma il sovrano lo fa condannare solo a una pena pecuniaria. Nuove rivelazioni compromettono, però, la posizione di Perez, che nel 1590 è condannato a morte. Riesce, però, a fuggire nella natia Aragona e accusa Filippo di aver ordito nell'ombra l'assassinio di Escobedo. Il tentativo di farlo tacere con la forza provoca la sollevazione dell'Aragona: deve intervenire l'esercito, che doma la rivolta nell'ottobre del 1591. Perez passa in Francia, dove muore in miseria nel 1611: ha, però, nel frattempo pubblicato più versioni delle Relaciones sulle male azioni del re.
Tali avvenimenti non contribuiscono al buon nome del sovrano, tanto più che la crescita del debito pubblico e l'aumento delle imposte si accompagnano a una nuova crisi agricola e al progressivo impoverirsi del paese. Il malcontento popolare genera sommosse e persino nella capitale scoppiano tumulti. La situazione non è migliore sul fronte internazionale. Filippo non è infatti riuscito a piegare inglesi, olandesi e turchi. Inoltre la sua vita si chiude sulla pace di Vervins, che riconosce nuovamente alla Francia lo status di grande potenza.
Gli stessi spagnoli criticano il re appena morto. Inoltre le Relaciones di Perez diffondono in tutta Europa il ritratto di un sovrano meschino e crudele. Questo stereotipo è oculatamente sviluppato dagli scrittori francesi e inglesi del secolo successivo, magari aggiungendovi qualche accusa tratta dall'Apologia (1581) di Guglielmo d'Orange. Nel tardo Settecento due tragedie, Filippo di Vittorio Alfieri (1783) e Don Carlos di Friedrich Schiller (1787), confermano l'immagine negativa del personaggio. Nel secolo successivo è quindi facile siglare la sua definitiva condanna. Per gli storici anglo-protestanti diviene dunque il despota per antonomasia e questo giudizio influenza la cultura novecentesca. E' infatti ripreso dagli storici e reiterato dai romanzieri, che, a loro volta, servono di base a film di successo che esaltano i corsari inglesi di Elisabetta, come difensori della libertà.
Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, Fernand Braudel e Geoffrey Parker sottolineano le difficoltà di governare un impero di quelle dimensioni e cercano di cancellare i tratti più grotteschi del tradizionale ritratto di Filippo II. Più recentemente una parte della storiografia spagnola, ispirata dal revanscismo del nuovo governo di destra, ha tentato di rivalutarlo per aspetti, quali la centralizzazione e il cattolicesimo integralista, che erano stati condannati dagli storici liberali. Ne è seguita la riproposizione dell'antico stereotipo, sia pure a potenzialità rovesciata. Per molti versi Filippo II resta quindi un personaggio storico ancora da scoprire.

La rivoluzione olandese

Nella prima metà del Cinquecento i Paesi Bassi sono una parte dell'eredità borgognona che Carlo V ingrandisce e unifica. Essi comprendono 17 province, il cui territorio complessivo corrisponde agli odierni Belgio, Olanda, Lussemburgo più alcune regioni della Francia Settentrionale: Fiandre francesi, Hainaut e Artois. Queste ultime costituiscono tre province distinte cui si aggiungono altre regioni di analoga grandezza (Brabante, Limburgo, Lussemburgo, Zelanda, Olanda, Gheldria, Overijssel, Frisia) e i territori di alcune città (Anversa, Groninga, Malines, Namur, Utrecht, Zutpen).
L'intero territorio è retto da un organismo federativo, gli Stati Generali, che ha sede a Bruxelles, dove alloggia anche il governatore generale nominato da Carlo V. Le decisioni degli Stati Generali devono, però, essere ratificate dai singoli Stati provinciali, composti dai deputati della nobiltà, del clero e delle città locali. Inoltre le singole province sono a loro volta rette da un governatore (stathouder) con autonomi poteri.
Sotto Carlo V i Paesi Bassi godono di una notevole autonomia e di un forte prestigio: essi hanno infatti assistito il suo acquisto del trono imperiale e i grandi esponenti della loro nobiltà sono tra i consiglieri dell'imperatore. Quest'ultimo d'altronde è, per cultura e affetti familiari, un borgognone e quindi più vicino ai Paesi Bassi che alla Spagna. Tali legami sono evidenti nella stessa scelta del governatore generale: a Bruxelles delega infatti la zia Margherita di Asburgo, anche lei allevata nel ricordo della grandezza borgognona.
Come abbiamo visto, Filippo II è invece educato in Spagna e non considera i Paesi Bassi come il centro della propria eredità. Li ritiene piuttosto un ricco dominio periferico, da sfruttare come meglio gli aggrada. Dopo la sua ascesa al trono spagnolo, gli aristocratici dei Paesi Bassi non contano più niente a corte, mentre nelle loro province aumenta la pressione fiscale spagnola.
Dopo il trattato di Cateau-Cambrésis (1559), i Paesi Bassi divengono per gli spagnoli una marca di frontiera da presidiare senza tanti riguardi verso la popolazione locale. Questa soffre quindi doppiamente le vessazioni di una guarnigione insolente e irrispettosa degli antichi privilegi della grande nobiltà locale. La tensione sale quando il nuovo governatore generale, Margherita di Parma, sorellastra di Filippo II, chiama sì alcuni nobili a far parte della sua giunta, ma di fatto segue soltanto i consigli di una ristretta cerchia designata dal re spagnolo.
La nobiltà e il patriziato urbano sono allora progressivamente emarginati dai centri di potere e paventano la crescente intolleranza religiosa. Da decenni infatti nei Paesi Bassi settentrionali si è diffuso il calvinismo, ma l'autonomia locale ha impedito l'applicazione rigida delle leggi contro l'eresia. Filippo e Margherita di Parma non rispettano invece la moderazione tradizionale e il loro attacco stimola la resistenza dei riformati e minaccia di far esplodere una situazione sino allora abbastanza tranquilla.
Le prime proteste sono eminentemente politiche. I grandi signori - tutti cattolici, come il conte di Egmont, il conte di Hoorn e Guglielmo di Nassau, principe d'Orange - si scontrano con il principale consigliere di Margherita di Parma, Antoine de Granvelle, cardinale-vescovo di Malines, e ne ottengono nel 1564 l'allontanamento. A questo punto essi si aspettano l'ammorbidimento della legislazione anti-protestante e maggior rispetto dei propri privilegi, ma nel 1565 Filippo II ordina d’intensificare la repressione e fa capire che non è disposto a dar loro retta.
Tra il 1565 e il 1566 alcuni esponenti del fronte nobiliare cercano di incontrare il re, ma ogni confronto viene evitato dal re di Spagna e dai suoi rappresentanti. I nobili dei Paesi Bassi sono anzi ingannati e irrisi: il 3 aprile Carlo di Berlaymont, consigliere della governatrice, li definisce pubblicamente "pezzenti" (gueux). Il mancato accordo con le autorità regie spinge i nobili cattolici a trattare con la borghesia calvinista del Nord. Due giorni dopo l'insulto, il 5 aprile 1566 è firmato il compromesso di Breda, cui segue, il 14 luglio dello stesso anno, l'alleanza di Saint-Trond, vero e proprio accordo antispagnolo tra cattolici e calvinisti. Il conte di Egmont cerca ancora una volta di raggiungere il re, ma il suo tentativo di mediazione cade nel vuoto. La protesta è ora pronta ad esplodere e i suoi esponenti si autodefiniscono "pezzenti", a simboleggiare il loro reciso rifiuto di ogni compromesso.
In realtà l'alleanza tra cattolici e calvinisti non funziona al meglio. Nell'agosto 1566 i calvinisti scatenano un violento moto che non minaccia tanto gli spagnoli, quanto i cattolici. Nell'arco di qualche mese la violenza spontanea si coagula in una parvenza di sollevazione armata, che Filippo II decide di reprimere duramente. Nel 1567 giunge quindi nei Paesi Bassi Fernando Alvarez di Toledo, duca d'Alba, uno dei migliori generali spagnoli.
Guglielmo di Orange, nel frattempo avvicinatosi ai riformati, abbandona i Paesi Bassi e si rifugia in Germania, dove cerca di formare un vero esercito. La grande aristocrazia cattolica spera ancora di trattare con i rappresentanti della Spagna, ma l'armata del duca d'Alba è un esercito invasore che non vuole dar quartiere ad alcuno. Il suo generale teorizza infatti la terra bruciata come metodo per spengere qualsiasi spinta antispagnola e anticattolica.
Il duca non ha soltanto l'autorità di un governatore generale, ma anche il titolo di vicerè e pieni poteri per estirpare l'eresia. Non rispetta quindi l'autonomia dei governi provinciali, che anzi guarda con sospetto per aver protetto quello che egli ritiene un pericoloso moto ereticale. Non tratta perciò con la nobiltà locale e crea un tribunale speciale, definito dagli olandesi Bloedraad (consiglio sanguinario), che condanna a morte quasi 8.000 persone. Tra questi vi sono anche i conti d'Egmont e di Hoorn, accusati di essere i principali responsabili della sommossa e decapitati sulla Piazza Grande di Bruxelles il 5 giugno 1568.
La stessa Margherita di Parma teme che si sia andati troppo oltre, alienandosi completamente i Paesi Bassi. Il duca d'Alba tiene duro e respinge con facilità un nuovo sollevamento, provocato dal rientro dell'Orange. Alla fine del decennio i Paesi Bassi sembrano quindi in mano alla Spagna e nel 1570 Filippo II concede ai ribelli il perdono solenne, in cambio di nuovi gettiti fiscali. In realtà la rivolta cova ancora. I seguaci di Guglielmo d'Orange hanno le loro roccaforti sulle coste della Zelanda e da qui muovono all'arrembaggio dei galeoni spagnoli di ritorno dalle Americhe. Inoltre la Spagna è nel mirino di varie potenze straniere, che, non potendola attaccare direttamente, appoggiano finanziariamente i ribelli.
Nel 1572 questi ultimi occupano il porto di La Brielle, alla foce della Mosa; poco dopo, appoggiati da corsari francesi e inglesi, bloccano anche la foce dell'Escaut. Nel frattempo l'ammiraglio di Coligny, capo carismatico degli ugonotti francesi, cerca di convincere il suo re ad inviare un'armata al fianco dei "pezzenti". Sperando in questo aiuto, Guglielmo d'Orange si impadronisce di Mons e Valenciennes. Gli spagnoli hanno buon gioco a respingere questi attacchi, ma al nord le province dell'Olanda e della Zelanda proclamano l'Orange loro stathouder e si scrollano di dosso il gioco spagnolo.
Come sappiamo, la notte di s. Bartolomeo decima la leadership degli ugonotti francesi e provoca la morte di Coligny. Per gli spagnoli scompare quindi il pericolo di un attacco alle spalle e il duca d'Alba può avviare la riconquista delle province settentrionali (1572-1573). L'armata spagnola si distingue ancora una volta per la sua ferocia: Malines, Zupten, Naarden e Haarlem sono espugnate e i loro abitanti sono fatti letteralmente a pezzi.
Tuttavia gli spagnoli non riescono a piegare le province ribelli: non possono infatti impiegare nella regione grandi forze, essendo allo stesso tempo impegnati contro i turchi. Inoltre Filippo ha bisogno di denaro per tener fede a tutti i suoi impegni: pensa quindi di diminuire la pressione militare in cambio dell'aumento di quella fiscale. Il duca d'Alba viene quindi sostituito dal più morbido marchese di Requesens. Senonché nel 1576 il nuovo governatore generale muore senza aver pacificato la regione. Viene sostituito da don Giovanni d'Austria, il fratellastro del re, che lascia, però, ai rivoltosi il tempo di riorganizzarsi. L'8 novembre 1576 le province cattoliche e quelle calviniste formano l'Unione di Gand, che prevede l'indipendenza nazionale e la libertà religiosa.
Resosi conto del pericolo, don Giovanni offre nel 1577 la partenza delle truppe spagnole in cambio del ritorno del paese al cattolicesimo e all'obbedienza verso il re, ma Guglielmo d'Orange rifiuta e guida i confederati alla lotta aperta. A Bruxelles il potere passa nelle mani di un comitato rivoluzionario e il principe d'Orange è nominato luogotenente generale dei Paesi Bassi. Tuttavia ancora una volta il fronte antispagnolo non è realmente omogeneo. I calvinisti del Nord tentano infatti di sfruttare la situazione per sradicare il cattolicesimo dalle Fiandre. Giovanni d'Austria approfitta di queste divisioni e blocca Anversa, mentre si avvicina da sud un'armata spagnola condotta da Alessandro Farnese. Un attacco di tifo porta via il fratellastro di Filippo II, il 1 ottobre 1578, proprio mentre progettava di riacquisire il parziale controllo dei Paesi Bassi, varcare la Manica, liberare Maria Stuart e conquistare l'Inghilterra, togliendo così ogni rifornimento ai calvinisti olandesi.
Comunque i cattolici, che si vedono tra l'incudine calvinista e il martello spagnolo, decidono di organizzarsi autonomamente e di trattare con la Spagna. Le province a maggioranza cattolica (Artois, Fiandra, Hainaut e Wallonie) formano nel 1578 l'Unione di Arras, che si propone di arrivare alla libertà religiosa auspicata dalla Pace di Gand e di raggiungere un compromesso con Filippo II. In risposta il 6 gennaio 1579 i calvinisti formano l'Unione di Utrecht, che raggruppa Olanda, Zelanda, Frisia, Groningue, Utrecht, Gheldria e Overijssel. L'Unione rifiuta ogni accordo con la Spagna e proclama la Repubblica delle Province Unite.
La contrapposizione tra i due schieramenti passa attraverso un ultimo tentativo di mediazione internazionale. Già nel 1578 le province vallone hanno chiesto a Francesco, duca d'Angiò e fratello di Enrico III di Francia, di prendere il comando degli Stati Generali ribelli. Nonostante l'opposizione di Guglielmo d'Orange, il francese è pronto ad accettare, ma la situazione internazionale lo obbliga infine a rinunciare. Nel 1580 Angiò diviene comunque signore delle Province Unite, su suggerimento proprio del principe di Orange, ma non sfrutta questa posizione per accerchiare gli spagnoli, anzi varca la Manica per corteggiare la regina Elisabetta. Nel frattempo Alessandro Farnese guadagna definitivamente la fiducia le province cattoliche e si va alla divisione del paese. Il 2 luglio 1581 l'Atto dell'Aia proclama l'indipendenza delle Province Unite, rette dallo stathouder generale, Guglielmo d'Orange, fermo restando il rispetto dell'autonomia delle singole province. Le province meridionali, quelle dell'Unione di Arras, formano invece i Paesi Bassi spagnoli.
Nel 1582 il duca d'Angiò rientra, ma la sua avventura volge rapidamente al termine, coinvolgendo tra l'altro la Francia in una fallita invasione dei Paesi Bassi (1583), e quindi muore nel 1584. Nello stesso anno viene assassinato Guglielmo d'Orange e la situazione volge a vantaggio della Spagna. La regina d'Inghilterra propone allora la candidatura del conte di Leicester a guida delle Province Unite. Il tentativo non riesce e nel frattempo Alessandro Farnese porta avanti la riconquista dei territori ribelli: nel 1584-1585 assedia e cattura Anversa; nei due anni successivi riprende possesso di quasi tutta l'area centrale degli antichi Paesi Bassi.
Nel 1587 i domini spagnoli comprendono non soltanto le province dell'Unione di Arras, ma anche Bruxelles, Namur, il Brabante, la regione di Anversa. Farnese potrebbe addirittura schiacciare le province settentrionali, se il suo re non lo implicasse in una serie di sfortunate imprese internazionali contro l'Inghilterra e contro la Francia. Intanto i maggiori funzionari spagnoli nei Paesi Bassi si scontrano fra loro per la preminenza, Bruxelles è in preda all'anarchia e in molte guarnigioni i soldati si ammutinano, chiedendo le paghe arretrate.
Questi avvenimenti facilitano la riorganizzazione delle Province Unite. Queste sono rette dal pensionario generale Johann van Oldenbarnvelt e dallo stathouder Maurizio di Nassau, figlio di Guglielmo d'Orange. Maurizio è un eccellente uomo d'arme e con l'aiuto del cugino Guglielmo-Luigi, stathouder di Frisia e Groningue, ristruttura le armate ribelli. Le sue forze conseguono quindi importanti vittorie sulla Mosa e sul Reno e, nel 1591-1594 e nel 1597 riconquistano tutto il nord-est.
Ormai comunque la guerra nei Paesi Bassi è inestricabilmente legata allo scacchiere internazionale. Francia e Inghilterra sono impegnate a schiacciare la tracotanza spagnola e a sostenere le Province Unite. Filippo II accetta infine il fatto compiuto e nel 1598, poco prima di morire, ratifica implicitamente l'indipendenza delle province settentrionali, donando i Paesi Bassi spagnoli alla figlia Isabella e al genero Alberto, arciduca d'Austria, con la clausola di un ritorno alla Spagna se la coppia morisse senza eredi diretti.

L'Invincibile Armata

La sconfitta dell'Invincibile Armata è quasi sempre raccontata in termini drammatici. La disfatta spagnola nell'estate del 1588 ha avuto infatti grande importanza nella storia dell'Occidente: ha assicurato all'Inghilterra la definitiva supremazia sui mari; ha rivelato la debolezza spagnola; ha rafforzato la determinazione olandese a liberarsi dal giogo ispanico; infine ha convinto Enrico III di Francia che non era necessario sottomettersi ai Guisa, alleati di Filippo II. Tuttavia l'avvenimento non ha avuto in sé nulla di grandioso: il tentativo spagnolo è in realtà fallito per l'insipienza della sua preparazione piuttosto che per l'abilità dei marinai inglesi o per le tempeste nell'Atlantico.
Probabilmente la flotta inglese, che non era per numero di navi inferiore a quella spagnola, avrebbe comunque vinto, ma gli ammiragli di Elisabetta non hanno avuto modo di mostrare la loro maestria. I loro avversari erano infatti condannati alla sconfitta dall'assenza di un piano strategico, da navi mal ristrutturate e dalla mancanza di viveri. Nessun contemporaneo e pochi storici successivi hanno, però, amato concentrarsi su questi aspetti poco eroici. Si è quindi preferito attribuire la sconfitta spagnola all'abilità degli inglesi - ritenuti tradizionalmente inferiori per numero - e allo scatenarsi degli elementi: in particolare i venti contrari e il mal tempo normale nel nord dell'Atlantico alla fine dell'estate sono stati visti come un giudizio divino, sfavorevole al tetro e dispotico monarca spagnolo. D'altra parte non era forse possibile giustificare altrimenti un insuccesso così clamoroso, per giunta dopo una preparazione durata alcuni anni.
Le difficili relazioni tra Filippo II, re di Spagna, e i Tudor rimontano infatti al sesto decennio del secolo. Come già menzionato, il 27 luglio 1554 il ventiseienne arciduca Filippo sposa Maria Tudor, trentottenne regina d'Inghilterra. Il matrimonio è combinato dal padre dello sposo, l'imperatore Carlo V, che vuole accerchiare la Francia, già minacciata a ovest (Spagna), sud (Italia) ed est (impero germanico e Paesi Bassi).
Il futuro sovrano spagnolo si reca allora in Inghilterra e tenta invano di mettere incinta la moglie. Nel frattempo la guerra mossa alla Francia porta alla sconfitta inglese e alla perdita di Calais, appena quattro mesi dopo il matrimonio. Filippo si trattiene ancora per qualche tempo in Inghilterra e poi raggiunge il padre nei Paesi Bassi. Quando Carlo V abdica, l'arciduca diviene re di Spagna, dove infine rientra, e non vede più la moglie. Tuttavia non rinuncia ai piani paterni e, alla morte di Maria (1558), vorrebbe sposare Elisabetta Tudor. Quest'ultima elude le proposte matrimoniali dell'ex-cognato e riporta il proprio paese alla religione anglicana nell'inverno 1558-1559.
Filippo continua tuttavia a chiedere alla regina inglese di convertirsi al cattolicesimo e di rinnovare l'alleanza con la Spagna. In un secondo tempo le propone persino di divenire la moglie del figlio dell'imperatore Ferdinando. Intanto, assieme ai cugini d'Austria, protegge l'Inghilterra dalle folgori di Roma. Elisabetta approfitta di queste buone disposizioni per aiutare gli ugonotti francesi contro il loro re e i ribelli dei Paesi Bassi contro quello di Spagna. Inoltre le sue navi non si fanno scrupolo di contrabbandare e depredare nelle acque dell'America spagnola.
La Spagna tenta allora timide ritorsioni, ma è evidente la sua inferiorità navale. Filippo cerca quindi nuovi mezzi per addomesticare Elisabetta e pensa a un matrimonio tra il suo primogenito, il folle e deforme don Carlos, e Maria Stuart, regina di Scozia e legittima erede al trono inglese agli occhi di tutti i cattolici. La regina scozzese è, però, imprigionata nel 1567 dai suoi stessi nobili e abdica a favore del figlio Giacomo. Nel 1568 riesce a fuggire, ma si mette sotto la protezione di Elisabetta e quindi fuori dalla portata spagnola.
A questo punto i rapporti tra la potenza iberica e quella inglese sono sempre più tesi, mentre gli strali cattolici si appuntano contro la regina, anche se con risultati poco eclatanti. Nel 1569 scoppia in Inghilterra una rivolta di nobili cattolici e Pio V interviene a favore dei ribelli scomunicando Elisabetta il 25 febbraio 1570. La rivolta è invece sconfitta e la scomunica pone in una difficile situazione i cattolici, divisi tra la fedeltà a Roma e quella al loro paese. Nel decennio successivo persino i cattolici esiliati tentano di appianare questo contrasto e cercano un accordo con la loro regina. Nel frattempo Filippo II prima spera di poter in qualche modo sottomettere l'Inghilterra e poi, nel 1574, propende per un riavvicinamento. Ancora una volta, però, le sue manovre non hanno esito: Elisabetta prosegue ad appoggiare gli ugonotti francesi e i ribelli olandesi con l'argento depredato agli spagnoli.
Nel 1578 don Giovanni, il vincitore di Lepanto, fratellastro di Filippo II e governatore dei Paesi Bassi spagnoli, progetta, come già ricordato, di varcare la Manica, liberare Maria Stuart e conquistare l'Inghilterra. Don Giovanni muore poco dopo, ma il suo piano resta impresso nella mente degli strateghi spagnoli. Tuttavia essi ritengono che non basti attaccare dai Paesi Bassi, ma che questa mossa debba essere appoggiata da una flotta salpata dalle coste spagnole. Dopo la conquista del Portogallo nel 1581, Alvaro Bazán, marchese di Santa Cruz, suggerisce al re che Lisbona offre il porto necessario per organizzare la spedizione contro l'Inghilterra.
Per il momento Filippo non è intenzionato a organizzare realmente una spedizione. Paventa infatti che la deposizione di Elisabetta porti sul trono Giacomo Stuart, re di Scozia, sospettato di simpatie per la Francia. Per evitare tale pericolo fa quindi costruire dai suoi esperti un albero genealogico che gli permetta di rivendicare la corona d'Inghilterra: i genealogisti di corte non lo deludono e dimostrano che, da parte materna, egli discende da due nipoti di Edoardo III (1312-1377). A questo punto riprende in considerazione il piano propostogli dal marchese di Santa Cruz, ma non riesce a decidersi.
Nel frattempo i suoi ambasciatori a Londra appoggiano vari tentativi di assassinare Elisabetta ed entrano in contatto con Maria Stuart. Quest'ultima fa loro pervenire il 20 maggio 1586 una rinuncia ai propri diritti sul trono inglese in favore del sovrano spagnolo. Ora Filippo II medita seriamente d'invadere l'Inghilterra, ma il marchese di Santa Cruz gli propone un piano che richiede 150 navi da guerra e 360 ausiliarie, 90.000 uomini e 2.200 pezzi di artiglieria. Il costo totale si aggira sui 4 milioni di ducati, una cifra troppo elevata per le casse spagnole. Il re ripiega quindi sul vecchio progetto di don Giovanni d'Austria e propone ad Alessandro Farnese, duca di Parma e governatore dei Paesi Bassi spagnoli, di organizzare l'invasione. Farnese non è molto convinto e la discussione sui dettagli organizzativi va per le lunghe. Senonché il 18 febbraio 1587 Maria Stuart è decapitata e nello stesso anno Francis Drake affonda la flotta spagnola ancorata nel porto di Cadice. Filippo si sente apertamente sfidato e ordina quindi ai suoi sottoposti di accelerare i preparativi. Inoltre decide che l'attacco deve essere portato congiuntamente dal marchese di Santa Cruz, sia pure con una flotta ridotta, e dal duca di Parma.
Quest'ultimo è più che mai certo che non si possa invadere l'Inghilterra, ma non dichiara la sua opposizione ai piani del re, poiché quest'ultimo appare sicuro della buona riuscita del duplice sbarco. Bernardino de Mendoza, ambasciatore spagnolo a Parigi, gli ha infatti inviato i rapporti di fuoriusciti inglesi, che, per guadagnarsi la paga d'informatori, esaltano l'esasperazione del popolo inglese, stanco della dispotica regina. Filippo II è quindi convinto che basti la semplice apparizione della flotta spagnola per scatenare la rivolta e non si preoccupa della possibilità che l'Inghilterra possa difendersi.
Tutta la preparazione dell'attacco è inficiata da questa convinzione e dalla contemporanea, sotterranea resistenza del Farnese. Inoltre il re non conosce i problemi della guerra sul mare e pretende di preparare tutto a tavolino. Nei suoi ordini non è chiaro come l'armata dei Paesi Bassi possa varcare la Manica, né si capisce cosa dovrebbe fare la flotta una volta in vista dell'Inghilterra. In ogni caso egli vuole che le sue navi salpino da Lisbona il prima possibile e ordina addirittura di partire in pieno inverno. Il marchese di Santa Cruz si oppone tenacemente a questa eventualità e rimanda di settimana in settimana la partenza. Contemporaneamente il duca di Parma cerca di far intendere che la spedizione dai Paesi Bassi non può avere buon esito senza un adeguato numero di vascelli per trasportare i soldati. Ma il re non si dà per vinto e si dice certissimo dell'appoggio divino.
Il 30 gennaio 1588 il marchese di Santa Cruz muore e al suo posto è chiamato don Alonso Perez de Guzmán, duca di Medina Sidonia. Questi cerca di rifiutare l'incarico, ma è l'unico ad avere quarti di nobiltà tali da poter sostituire il marchese di Sanza Cruz senza sollevare obiezioni. Inoltre gli è stata affidata negli anni precedenti la difesa del commercio delle Indie e quindi ha già avuto a che fare con alcuni dei più famosi capitani inglesi. Per tutti e per il re per primo egli è l'uomo giusto al momento giusto.
La flotta spagnola salpa infine da Lisbona l'11 maggio 1588. E' composta da 130 navi: 65 galeoni e grandi navi da guerra, 25 olche (navi da carico baltiche), 32 battelli più piccoli (per lo più pinasse da usare per le comunicazioni), 4 galeazze napoletane (bastimenti a vela e a remi) e 4 piccole galee portoghesi (anch'esse a remi). E' numericamente imponente e apparentemente invincibile, ma non priva di difetti. La Spagna non ha rinunciato a difendere le sue postazioni navali nell'America, nel Mediterraneo e nel Pacifico. Molte navi da guerra, tra le quali l'ammiraglia stessa, sono state di conseguenza requisite ai portoghesi e non sono adeguatamente riattrezzate. Altri legni erano originariamente destinati a compiti non militari: soltanto 21 galeoni e 4 galeazze sono effettivamente navi da guerra, il resto sono bastimenti per il trasporto di granaglie nel Mediterraneo o nel Baltico, ristrutturati con l'aggiunta di castelli da combattimento a prua e a poppa e armati. Questi navigli sono molto lenti e soprattutto non sono capaci di manovrare in spazi ristretti.
In ogni caso l'Armata è effettivamente la flotta più grande sino allora messa in mare dalla Spagna e porta sui suoi ponti un esercito di oltre 30.000 uomini: 146 gentiluomini e 238 ufficiali, accompagnati complessivamente da 728 domestici; 8.052 marinai; 18.973 soldati; 2.088 rematori per le galee e le galeazze; 167 cannonieri; 180 religiosi; una dozzina di medici e chirurghi e 62 infermieri. L'Armata trasporta inoltre 2.431 pezzi d'artiglieria e 123.000 palle di ferro, nonché viveri per sei mesi di navigazione: 11.000 barili di acqua dolce e 14.000 di vino; 11 milioni di libbre di gallette, 600.000 di carne di porco sotto sale, 800.000 di formaggio e altrettante di riso. A questo carico bisogna aggiungere altre vettovaglie (olio, aceto, fagioli, ceci) e il necessario per invadere l'Inghilterra: armi, scarpe, fiasche per la polvere da sparo, affusti di cannone per le battaglie campali e persino 40 muli e numerosi cavalli. Tutte le navi sono quindi sovraccaricate.
La partenza è impeccabile, ma l'ammiraglia non ha ancora raggiunto il mare aperto, che il vento gira e la marea blocca la flotta, che resta ferma per altri quindici giorni. Durante questa sosta forzata il duca di Medina Sidonia e i suoi collaboratori leggono le istruzioni ricevute alla partenza. Secondo il re essi dovrebbero far rotta sulla Cornovaglia, imboccare la Manica senza accettare battaglia e ricongiungersi con le forze del duca di Parma, una volta raggiunto il porto di Margate. I capitani spagnoli palesano al loro comandante alcune perplessità. In primo luogo non sono sicuri di poter calare le ancore a Margate, inoltre si chiedono come il Farnese possa varcare il canale. Il duca di Medina Sidonia incarica allora l'ammiraglio Luis Martínez de Recalde di scrivere al re, chiedendo maggiori chiarimenti e criticando sottilmente il piano iniziale. L'ammiraglio suggerisce con tatto che la flotta dovrebbe prendere terra nella zona dei Downs, oltre Margate, e di lì proteggere la traversata degli uomini del duca di Parma. Questi, però, dovrebbe procurarsi da solo le imbarcazioni necessarie.
Il 30 maggio la flotta esce in mare aperto senza che sia giunta una risposta dal re. La rotta è verso capo Finisterre, ma i venti contrari allontanano l'Armata dalla meta. La navigazione è estremamente penosa, perché i castelli da combattimento, apposti alle navi mercantili, impacciano le virate e rendono impossibile navigare contro vento. Nel frattempo il duca di Medina Sidonia scrive al Farnese di non potergli venire incontro a Dunkerque, dove egli ipotizza che il generale possa portare le sue truppe, né di potergli fornire fanti di appoggio: l'Armata ha infatti bisogno di tutti gli uomini imbarcati. Il duca di Parma, che conta su 16.000 uomini e non ha battelli per la traversata della Manica, scrive indignato al re, ma questi non trasmette la lettera a Medina Sidonia, che perciò si convince che l'armata dei Paesi Bassi sia numerosa e soprattutto dotata di proprie navi.
Come se non bastasse, quando la flotta giunge in vista di Finisterre il 14 giugno, i capitani scoprono che le provviste imbarcate si stanno già deteriorando e che i barili d'acqua perdono: i fornitori portoghesi hanno bellamente truffato gli uomini del re o si sono accordati con loro per vendere derrate avariate e barili scassati. Il duca di Medina Sidonia chiede alle autorità di terra viveri e acqua, ma non riceve risposta. Per quattro giorni incrocia al largo di Finisterre, poi decide di entrare con 40 navi nella baia di La Coruña, dove spera di trovare rifornimenti. Gli altri legni restano al largo e la notte tra il 19 e il 20 sono dispersi da un'improvvisa burrasca. La situazione è ormai grottesca e il 24 Medina Sidonia scrive al re chiedendo di sospendere l'operazione. Dopo 10 giorni arriva in risposta l'ordine di salpare entro il 10 luglio, a meno che non manchino troppe navi. L'Armata riesce a ricomporsi, ma il 10 la partenza è rimandata sino al 12, perché troppi vascelli sono ancora danneggiati.
Nel frattempo la flotta inglese si è pericolosamente avvicinata. Essa non è inferiore per numero e per grandezza delle navi a quella spagnola. Conta infatti 140 vascelli: 35 grandi legni e pinasse della regina, altrettanti di armatori privati dediti alla pirateria e 70 mercantili armati in fretta. Alcune navi inglesi sono molto vecchie, più vecchie mediamente di quelle spagnole: sono, però, state riattrezzate con attenzione e non imbarcano acqua, né hanno problemi di navigazione. Inoltre almeno dieci vascelli sono di qualità decisamente superiore: appartengono infatti alla classe di navi da guerra race-built, costruite cioè per ingaggiare veloci confronti sul mare e non appesantite dai castelli da combattimento. Infine la flotta inglese è superiore per numero e qualità dei cannoni: questi sono per di più facili da ricaricare, grazie all'affusto montato su ruote, mentre le navi spagnole hanno difficoltà a bissare la prima bordata.
Gli inglesi potrebbero risolvere lo scontro attaccando al largo di La Coruña, ma non si muovono con sufficiente rapidità: non sono abituati a una flotta di tale entità e inoltre gli ordini della regina sono vaghi. Per decidere la strategia migliore Charles Howard, Lord di Effingham e Grande Ammiraglio, consulta Francis Drake, John Hawkins, Martin Frobisher e Thomas Fenner. Drake, che nel 1587 ha attaccato Cadice, convince gli altri ad andare incontro all'Armata e a bloccarla in mare aperto, ma il 20 luglio il vento gira in favore degli spagnoli e obbliga gli inglesi a rientrare alla base. Due giorni dopo gli spagnoli salpano alla volta della Cornovaglia, ma il 26 il vento cade di nuovo e il 27 si scatena una piccola tempesta, che affonda quattro galee e un galeone. Il 29 luglio le vedette spagnole avvistano finalmente la costa inglese e il giorno successivo le due flotte si incontrano al largo di capo Eddystone. Gli inglesi manovrano in modo di tenersi sopravvento, ma gli spagnoli si schierano in maniera che gli avversari non possano incunearsi tra le loro fila. Ne consegue un guardingo fronteggiarsi, interrotto da qualche salve di artiglieria.
Dopo la scaramuccia il duca di Medina decide di avanzare nella Manica e Lord Howard di tallonarlo per impedirgli di sbarcare. Le due flotte procedono quindi di conserva, mentre l'ammiraglio spagnolo invia una pinassa a contattare il Farnese. Il duca di Parma, però, non risponde e il duca di Medina avanza alla cieca, non sapendo dove possa avvenire il ricongiungimento delle forze spagnole e perdendo altre navi per incidenti di navigazione. Il 2 agosto viene nuovamente impegnata battaglia: lo scontro è senza esito, ma rivela che gli spagnoli non sono in grado di abbordare gli inglesi. Questi ultimi scoprono invece di poter danneggiare gli avversari, adottando la formazione in linea di fila nota fin dal secolo precedente, ma sino ad allora poco sfruttata, che permette di impegnare tutti i pezzi di una fiancata.
Il 3 agosto è giorno di tregua. Medina aspetta invano una risposta dal Farnese. Gli inglesi invece si riforniscono di palle di cannone e di polvere da sparo. Il 4 dividono la flotta in quattro squadre, affidate a Howard, Drake, Frobisher e Hawkins, e tentano di accerchiare il nemico. Gli spagnoli decidono allora di sbarcare sull'isola di Wight, ma la marea ancora debole e i venti contrari impediscono la manovra, mentre gli inglesi iniziano ad attaccare. L'Armata riprende la navigazione lungo la Manica e gli inglesi ritornano a distanza di sicurezza, ormai sicuri di avere in pugno la situazione e di dover soltanto aspettare il momento propizio per distruggere l'avversario senza subire perdite.
Il duca di Medina prosegue a mandare messaggi al Farnese, chiedendogli di intervenire, ma il duca di Parma invia a Filippo II tutte le lettere scrittegli dall'ammiraglio, specificando di non poter soccorrerlo e di non poter uscire in mare, se non sono allontanate la flotta inglese e quella olandese. Infine Medina Sidonia decide di attraccare a Dunkerque, ma i piloti gli rivelano che i bassi fondali, le dimensioni minime dell'unico canale navigabile e le postazioni olandesi impediscono l'entrata dell'Armata. Quest'ultima cala dunque le ancore 24 miglia al largo di Dunkerque, mentre gli inglesi si fermano fuori tiro. Le navi spagnole sono disposte in fila orizzontale in piena corrente e così, la notte del 7 agosto, gli inglesi affidano a quest'ultima otto navi incendiarie, che non mietono vittime, ma obbligano gli spagnoli a salpare e ad impegnare battaglia, la mattina successiva, sottovento e con le spalle alla costa. Ancora una volta lo scontro è brevissimo, tuttavia gli spagnoli perdono tre navi e seicento uomini, più un numero imprecisato di feriti e ingenti danni a molte navi.
L'Armata riesce comunque a sganciarsi, ma a causa dei venti deve intraprendere il periplo delle isole britaniche per poter rientrare in Spagna. Inoltre gli spagnoli temono di essere spinti sulle coste irlandesi a loro ignote: decidono quindi di doppiare le Shetland per poi puntare verso capo Finisterre, tenendosi sempre molto al largo. Gli inglesi inseguono l'Armata sino a Newcastle: qui attraccano, avendo compreso il piano nemico e ritenendo che l'Atlantico basti a sistemare una flotta così malconcia. Di fatti il 21 agosto le navi spagnole iniziano a disperdersi per il vento. La maggior parte di loro non è infatti adatta alla navigazione atlantica e nessuna è stata carenata durante l'estate: la loro tenuta è quindi pessima, tanto più che sono ancora sovraccariche di cannoni, salmerie e animali da carico e da guerra. Muli e cavalli sono gettati in mare, assieme a quanto non serve per la navigazione, ma molti vascelli si aprono letteralmente in due e sono inghiottiti dai flutti.
In queste condizioni alcuni capitani tentano di riguadagnare le Orcadi, le Shetland o la Scozia, oppure fanno vela direttamente sull'Inghilterra: chi ci riesce, attende per mesi di essere riscattato e rimpatriato. Altri puntano o sono spinti dai venti verso l'Irlanda, dove lord William Fitzwilliam, il governatore inglese, è avvertito il 18 settembre del loro possibile arrivo. Egli ordina di sterminare i nemici e mantiene questa decisione, anche quando scopre che si tratta di naufraghi, più che di invasori. Non tutti gli spagnoli sono vittime degli inglesi; la popolazione locale non si mostra più clemente. Complessivamente 3.000 membri dell'Armata sono uccisi dagli inglesi e altrettanti periscono per mano degli irlandesi o annegano.
Parte della flotta riesce comunque a rientrare in Spagna. Il 24 settembre il duca di Medina Sidonia giunge in vista di Santander. Nelle settimane successive arrivano altre navi. Una lista stesa verso la metà di ottobre mostra che alla fine sono rientrate 65 navi, la metà di quelle partite da Lisbona alla fine di maggio. Iniziano allora a diffondersi le differenti versioni sull'avvenimento. Gli spagnoli insistono sulle sfortunate circostanze atmosferiche (in realtà assolutamente prevedibili). Gli inglesi elaborano il mito della grande e definitiva vittoria navale.
La partita invece non è chiusa e Filippo II invia altre tre flotte contro l'Inghilterra: nel novembre 1596 una nuova Armata parte alla volta dell'Irlanda ed è travolta da una tempesta; la stessa sorte colpisce la spedizione che doveva sbarcare in Cornovaglia l'anno successivo; infine un terzo convoglio percorre nel 1598 la Manica e porta soccorso alle armate spagnole nei Paesi Bassi. L'Inghilterra è in vantaggio sui mari, ma per la vittoria definitiva deve attendere ancora quasi un secolo e mezzo.

Nota bibliografica

Per un quadro delle lotte europee nel secondo Cinquecento sono ancora validi J.H. Elliott, Europe divided 1559-1598, London, Fontana, 1968, e Corrado Vivanti, Lotta politica e pace religiosa nell'Europa del '500, Torino, Einaudi, 1974. Sulla conflittualità e gli sviluppi dell'arte bellica sono invece utili: John R. Hale, Guerra e società nell'Europa del Rinascimento, Roma-Bari, Laterza 1987; Geoffrey Parker, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell'Occidente, Bologna, Il Mulino, 1990; Piero Del Negro, Guerre ed eserciti da Machiavelli a Napoleone, Roma-Bari, Roma-Bari, Laterza, 2001. Il libro di Parker ha scatenato un vivo dibattito, per il quale si veda l'appena citata opera di Del Negro, nonché Joël Cornette, La révolution militaire et l'État moderne, "Revue d'histoire moderne et contemporaine", 41 (1994), pp. 696-709, e The Military Revolution Debate: Readings on the Military Transformation of Early Modern Europe, Boulder, Co., Westview, 1995. Brian M. Downing, The Military Revolution and Political Change. Origins of Democracy and Autocracy in Early Modern Europe, Princeton, Princeton University Press, 1992, ha fatto della rivoluzione militare l'asse privilegiato della storia europea nell'età moderna. Sulla stessa linea, ma meno radicali, sono Jeremy Black, A Military Revolution? Military Change and European Society, Atantic Highlands NJ, Humanities Press, 1991, e Frank Tallett, War and Society in Early-Modern Europe, 1495-1715, London-New York, Routledge, 1992. A cura di Black sono recentemente usciti due volumi, nei quali si possono trovare ulteriori indicazioni: European Warfare, 1453-1815, New York, St. Martin's Press, 1999, e War in the early modern world, Boulder Co., Westview Press, 1999. Per un sussidio sul Web, si digiti l'indirizzo dell'Internet History Sourcebooks Project (www.fordham.edu/halsall/).
Le biografie di Filippo II e le opere di sintesi sul suo periodo sono numerose e soprattutto famose, vedi per esempio: Geoffrey Parker, Un solo re, un solo impero: Filippo II di Spagna, Bologna, Il Mulino, 1985, e Ferdinand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, Torino, Einaudi, 1986. Mía J. Rodríguez-Salgado, Metamorfosi di un impero: la politica asburgica da Carlo 5. a Filippo 2. (1551-1559), Milano, Vita e Pensiero, 1994, puntualizza i rapporti tra la strategia paterna e quella di Filippo. Gli scopi di quest'ultimo sono ulteriormente precisati da: Henry Kamen, Philip of Spain, New Haven-London, Yale University Press, 1997; Geoffrey Parker, The Grand Strategy of Philip II, New Haven-London, Yale University Press, 1998; Felipe II (1527-1598). Europa y la Monarquía Católica, a cura di José Martínez Millán, Madrid, Editorial Parteluz, 1998. Un suggestivo quadro della politica estera spagnola è offerto da H.G. Koenigsberger: L'Europa occidentale e la potenza spagnola, in Cambridge University Press, Storia del Mondo moderno, III, La controriforma e la rivoluzione dei prezzi (1559-1610), a cura di Richard Bruce Wernham, Milano, Garzanti, 1968, pp. 651-691, e Politicians and Virtuosi. Essays in Early Modern History, London, Hambledon Press, 1986. Sul Web sono a disposizione il sito dell'Escorial, che contiene anche materiali su Filippo e sull'Armata (http://www.escorial.com), e quello degli studiosi che hanno promosso i centenari di Filippo II e Carlo V (http://www.felipe2carlos5.es). La Brigham Young University dello Utah sta raccogliendo e mettendo in linea lettere e altri materiali inediti del sovrano spagnolo (http://lib3.byu.edu/~rdh/phil2/).
Per la situazione nel Mediterraneo e lo scontro con i turchi, confronta: Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze, Olschki, 1974; I Turchi, il Mediterraneo e l'Europa, a cura di Giovanna Motta, Milano, Angeli, 1998. Per l'espansione spagnola nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, si consulti J.H. Elliott, La Spagna imperiale, Bologna, Il Mulino, 1982. Raffaele Puddu (Il soldato gentiluomo, Bologna, Il Mulino, 1982, e I nemici del re. Il racconto della guerra nella Spagna di Filippo II, Roma, Carocci, 2000) approfondisce l'aspetto psicologico-culturale della guerra nell'impero spagnolo. Per i riflessi italiani, vedi La Espada y la Pluma. Il mondo militare nella Lombardia spagnola cinquecentesca. Atti del convegno internazionale di Pavia, Viareggio-Lucca, Baroni Editore, 2000. Per un tema specifico, quello della Lombardia spagnola, confronta inoltre: Mario Rizzo, Militari e civili nello Stato di Milano durante la seconda metà del Cinquecento. In tema di alloggiamenti militari, "Clio", XXIII. 4 (1987), pp. 563-596, e Competizione politico-militare, geopolitica e mobilitazione delle risorse nell'Europa cinquecentesca. Lo stato di Milano nell'età di Filippo II, in La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzi di ricerca, a cura di Elena Brambilla e Giovanni Muto, Milano, Unicopli, 1997, pp. 370-387; Lombardia borromaica Lombardia spagnola 1554-1659, a cura di Paolo Pissavino e Gianvittorio Signorotto, Roma, Bulzoni, 1995. Per la Sicilia spagnola, si guardi invece Domenico Ligresti, L'organizzazione militare del Regno di Sicilia (1575-1635), "Rivista Storica Italiana", CV (1993), pp. 647-678.
Per l'immagine anche storiografica della Spagna del secondo Cinquecento, si parta da Spagna: immagine e autorappresentazione, a cura di Giuliana Di Febo, "Dimensioni e problemi della ricerca storica", II (1995). Contengono spunti fondamentali Anthony Pagden, Spanish Imperialism and the Political Imagination, New Haven-London, Yale University Press, 1990, e Governare il mondo. L'impero spagnolo dal XV al XIX secolo, a cura di Massimo Ganci e Ruggiero Romano, Palermo, Società italiana per la storia patria, 1991. Le citazioni dei nunzi veneziani sono tratte dall'Archivio Segreto Vaticano, Fondo Bolognetti, vol. 24.
Per inquadrare la rivoluzione olandese nello sviluppo europeo moderno e contemporaneo, si confronti Charles Tilly, Le rivoluzioni europee 1492-1992, Roma-Bari, Laterza, 1993, e Alberto Tenenti, Dalle rivolte alle rivoluzioni, Il Mulino, Bologna, 1997. Per un'introduzione generale alla rivoluzione olandese, vedi Geoffrey Parker, The Dutch Revolt, London, Penguin, 1990. Lo stesso autore (The Army of Flanders and the Spanish Road, 1567-1659, Cambridge, Cambridge University Press, 1972) esplora la logistica spagnola nel conflitto. Sulla nascita e la crescita della repubblica olandese, consulta Jonathan I. Israel, The Dutch Republic. Its Rise, Greatness, and Fall 1477-1806, Oxford, Clarendon Press, 1995. Un'interessante prospettiva sui contatti fra Olanda e Inghilterra è indicata da Raingard Esser, News Across the Channel. Contact and Communication Between the Dutch and Wallon Refugees in Norwich and Their Families in Flanders, 1565-1640, "Immigrants and Minorities", 14, 2 (1995), pp. 139-152. Matthew C. Waxman, Strategic Terror: Philip II and Sixteenth-Century Warfare, "War in History", 4, 3 (1997), pp. 339-347, approfondisce le ragioni che ispiravano la crudeltà spagnola.
Sulla disastrosa impresa della flotta spagnola, che doveva conquistare l'Inghilterra, è disponibile in italiano il libro, un po' troppo giornalistico, di David Howarth, L'Invincibile Armada, Milano, Mondadori, 1984. Una valutazione più scientifica è offerta da C.J.M. Martin e Geoffrey Parker, The Spanish Armada, New York, Norton, 1988. I principali risultati di questo studio, basato su fonti d'archivio e archeologiche, sono riassunti dallo stesso Parker in un capitolo del già citato La rivoluzione militare. Sempre sugli scontri navali, vedi ancora di Parker Ships of the Line 1500-1650, in The Cambridge Illustrated History of Warfare, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. Un quadro generale, datato ma molto ben scritto, è offerto da Carlo Maria Cipolla, Vele e cannoni, Bologna, Il Mulino, 1983. Lo studio più aggiornato è invece Jan Glete, Warfare at Sea, 1500-1650: Maritime Conflicts and the Transformation of Europe, London-New York, Routledge, 2000.
Tornando alla strategia navale spagnola, vale la pena di consultare ancora R.A. Strandling, The Armada of Flanders. Spanish Maritime Policy and European War, 1568-1668, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, mentre sullo svilupppo della flotta inglese si guardi D. M. Loades, The Tudor Navy. An Administrative, Political and Military History, Aldershot, Scolar Press , 1992. Paul E.J. Hammer, Myth-Making: Politics, Propaganda and the Capture of Cadiz in 1596, "The Historical Journal", 40, 3 (1997), pp. 621-642, esplora un versante particolare dello scontro anglo-spagnolo. Peter Pierson, Commander of the Armada: the seventh duke of Medina Sidonia, New Haven-London, Yale University Press, 1989, presenta il punto di vista spagnolo, mentre R.B. Wenham, The return of the Armadas: the last years of the Elizabethan war against Spain 1595-1603, Oxford, Oxford University Press, 1994, descrive il proseguimento dello scontro anglo-spagnolo.
Per comprendere appieno la capacità di resistenza inglese, bisogna riflettere sulla progressiva ascesa di quel paese. Un buon punto di partenza è la lettura di due classici, quali Christopher Hill, La formazione della potenza inglese, Torino, Einaudi, 1977, e Conrad Russell, Alle origini dell'Inghilterra moderna, Bologna, Il Mulino, 1988. Bisgona, però, tener presente che il loro punto di vista è contrapposto. La letteratura storica su Elisabetta I è vastissima, tanto che la sola Library of Congress di Washington scheda quasi duecento volumi su di lei. Per quel che ci riguarda, basta qui citare due opere recentissime: Susan Doran, Elizabeth I and foreign policy, 1568-1603, London-New York, Routledge, 2000, e Miriam Greenblatt, Elizabeth I and Tudor England, New York, Bedmark Books, 2001. Si tenga inoltre conto che Elisabetta è una star della rete con le oltre 60.000 citazioni. Tra queste vale la pena di ricordare il sito http://www.elizabethi.org, dilettantesco, ma ricchissimo di materiale (bibliografie, notizie, link), e The Works of Elizabeth I (poesie, traduzioni, discorsi e lettere) a http://www.luminarium,org/renlit/elizabib.htm.