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Investite sui vostri errori

Nel campo della finanza, che cosa viene considerato un errore? Certo, ci sono quelli evidenti, quando la gente, semplicemente, sbaglia i numeri. L’8 dicembre 2005, la società d’investimenti giapponese Mizuho Securities mandò un ordine alla borsa di Tokyo per vendere una singola azione della compagnia J-COM Co. Ltd per 610.000 yen (pari, all’epoca, a circa 3000 sterline). O meglio: pensavano di vendere un’azione per 610.000 yen, ma la persona che doveva inserire l’ordine scambiò per sbaglio i numeri e mise in vendita 610.000 azioni per 1 yen ciascuna.

I responsabili della Mizuho cercarono disperatamente di bloccare l’ordine, ma la borsa di Tokyo fece resistenza. Altre società si buttarono al volo sull’affare e il giorno seguente, quando gli scambi furono sospesi, la Mizuho Securities si trovava di fronte a un minimo di 27 miliardi di yen di perdite (ben oltre 100 milioni di sterline). L’episodio venne descritto come un caso di «errore del dito grasso». Io lo avrei definito «del dito distratto», o magari «del dito che dovrebbe imparare a controllare due volte i dati importanti ma che, comunque, ora è stato probabilmente licenziato».

L’errore ebbe conseguenze di ampia portata: nell’intera borsa di Tokyo ci fu un crollo della fiducia e l’indice Nikkei perse l’1,95 per cento in un singolo giorno. Alcune società che avevano comprato le azioni a prezzo scontato si offrirono di restituirle. Una successiva sentenza del tribunale distrettuale di Tokyo stabilì che la colpa andava in parte imputata alla borsa di Tokyo, il cui sistema non aveva consentito alla Mizuho di cancellare l’ordine sbagliato. Ciò non fa che confermare la mia teoria secondo cui qualunque cosa è migliore quando prevede un pulsante «Annulla».

Questo sbaglio è l’equivalente numerico di un errore di battitura. Si tratta di errori vecchi come la civiltà. Sono orgoglioso di affermare che l’ascesa della civiltà è stata possibile grazie alla padronanza della matematica: a meno che non siate in grado di fare un sacco di conti, la logistica di un insediamento umano delle dimensioni di una città è qualcosa di impossibile. E da quando gli uomini hanno iniziato a fare conti, ci sono stati errori numerici. Il testo accademico Archaic Bookkeeping è nato da un progetto della Freie Universität di Berlino. Si tratta di un’analisi dei più antichi scritti mai scoperti: i testi proto-cuneiformi costituiti da simboli incisi su tavolette di argilla. Non era ancora una lingua completamente formata ma, piuttosto, un sistema di contabilità assai complesso. Completo di errori.

Queste tavolette di argilla vengono dalla città sumera di Uruk (nell’odierno Iraq meridionale) e risalgono al 3400-3000 a.C., ossia a più di cinquemila anni fa. A quanto pare, i Sumeri non svilupparono la scrittura per diffondere le opere in prosa ma per tenere la contabilità delle scorte nei magazzini. È uno degli esempi più antichi di come la matematica consenta al cervello umano di fare cose superiori a quelle per cui è stato costruito. Finché vivete in una piccola comunità, potete tenere a mente chi possiede che cosa e condurre degli scambi di base; ma quando vivete in una città, con le tasse e le condivisioni di proprietà che questo implica, avete bisogno di tenere dei registri su un supporto fisico. Inoltre, i registri scritti rendono possibile la fiducia tra due individui che magari non si conoscono personalmente. (È quindi ironico che oggi, online, proprio la scrittura stia cancellando la fiducia tra gli uomini; ma non corriamo troppo.)

A quanto pare, alcuni degli antichi registri sumeri sono stati compilati da una persona chiamata Kushim e controfirmati dal supervisore dei contabili, Nisa. Secondo alcuni storici, Kushim è il primo essere umano di cui conosciamo il nome; il primo uomo il cui nome è giunto fino a noi attraverso millenni di storia, quindi, non era un governante, un guerriero o un sacerdote, bensì… un contabile. Le diciotto tavolette d’argilla firmate da Kushim indicano che il lavoro di quei contabili consisteva nel controllare i livelli delle scorte in un magazzino dove venivano custodite le materie prime per la produzione della birra. Sono cose che si fanno ancora oggi: un mio amico gestisce una fabbrica di birra e il suo lavoro è esattamente quello. (Tra parentesi, si chiama Rich, nel caso questo libro sia uno dei pochi oggetti a sopravvivere all’apocalisse e lui diventi così, in un lontano futuro, il nuovo primo uomo dal nome conosciuto.)

Kushim e Nisa sono ai miei occhi due individui particolarmente speciali, non perché sono i primi uomini di cui conosciamo i nomi ma perché sono quelli che hanno commesso il più antico errore matematico della storia, o perlomeno il più antico che sia giunto fino a noi (per essere ancora più precisi, il più antico che sono riuscito a trovare; qualora ne trovaste un altro più antico, fatemelo sapere). Come un moderno trader di Tokyo che sbaglia a digitare i numeri su un computer, Kushim commise degli errori nell’incidere alcuni numeri cuneiformi su una tavoletta d’argilla.

Queste tavolette ci insegnano qualcosa sulla matematica che veniva usata a quei tempi. Per iniziare, alcuni dei registri delle scorte d’orzo coprono un periodo amministrativo di trentasette mesi, che corrisponde a tre anni composti da dodici mesi più un mese aggiuntivo; il che ci dice che forse i Sumeri usavano già un calendario lunare di dodici mesi, con un mese extra ogni tre anni. Inoltre, per fare i conti non si servivano di un sistema numerico a base fissa ma di una serie di simboli che erano tre, cinque, sei o dieci volte più grandi l’uno dell’altro.

Vi basta ricordare che un punto grosso vale dieci punti piccoli. E quelle altre cose.

Vi basta ricordare che un punto grosso vale dieci punti piccoli. E quelle altre cose.

Una volta che abbiamo preso dimestichezza con questo sistema numerico alieno, vediamo che gli errori commessi dai contabili sumeri sono così familiari che potremmo commetterli anche noi oggi. In una tavoletta, Kushim si dimentica semplicemente di includere tre simboli quando fa la somma di una quantità d’orzo; in un’altra, usa il simbolo dell’uno al posto di quello del dieci. Penso di aver fatto anch’io entrambi questi errori nel tenere la mia contabilità. Come specie, noi uomini siamo molto bravi in matematica, ma negli ultimi millenni non siamo affatto migliorati. Sono sicuro che se controllassimo i conti fatti da un uomo tra cinquemila anni, troveremmo ancora questi stessi errori. E probabilmente ci sarà ancora la birra.

In questa tavoletta, sia Nisa sia Kushim hanno messo la loro firma su un errore matematico.

In questa tavoletta, sia Nisa sia Kushim hanno messo la loro firma su un errore matematico.

In questa tavoletta, sia Nisa sia Kushim hanno messo la loro firma su un errore matematico.

A volte, mentre bevo una birra, mi metto a pensare a Kushim che lavorava nel magazzino della birreria sotto la supervisione di Nisa. Il loro lavoro, e quello di altri come loro, avrebbe portato alla matematica e alla scrittura che usiamo oggi. Kushim e Nisa non avevano idea di quanto sarebbero stati importanti, loro e la birra, per lo sviluppo della civiltà umana. Come ho detto prima, la vita nelle città fu una delle cose che portò gli uomini ad affidarsi alla matematica. Ma quale parte della vita cittadina è testimoniata nei documenti matematici più antichi giunti fino a noi? La produzione della birra. La birra ci ha dato alcuni dei primi calcoli dell’umanità, e tuttora continua ad aiutarci a fare errori.

Errori con i soldi digitali

Oggi i nostri sistemi finanziari girano sui computer, e questo permette agli uomini di commettere i loro errori in modo più efficiente e più rapido di quanto sia mai stato possibile. Il progresso informatico ha aperto le porte al moderno trading ad alta velocità, dove un singolo cliente di una borsa valori può inserire più di centomila scambi al secondo. Certo, nessun essere umano sarebbe in grado di prendere decisioni a una tale velocità; i trader, quindi, si limitano a immettere i requisiti nei programmi da loro progettati per decidere in automatico che cosa acquistare o vendere e quando.

I mercati finanziari sono sempre stati un mezzo per armonizzare le intuizioni e le conoscenze di migliaia di persone che fanno simultaneamente i loro scambi; i prezzi sono quindi il frutto della mente collettiva degli operatori. Se uno dei prodotti finanziari inizia ad allontanarsi dal suo vero valore, i trader cercheranno di sfruttare quella leggera differenza creando una forza che spingerà i prezzi a tornare al loro valore «corretto». Quando però il mercato diventa un luogo di confronto tra sciami di algoritmi di trading ad alta velocità, le cose cominciano a cambiare.

In teoria, il risultato delle operazioni degli algoritmi ad alta frequenza dovrebbe essere lo stesso ottenuto dai trader in carne e ossa – sincronizzare i prezzi tra i diversi mercati e ridurre le differenze tra i valori – ma su una scala ancora più piccola e precisa: gli algoritmi, infatti, sono scritti per sfruttare le minime differenze di prezzo e rispondere nel giro di pochi millisecondi. Tuttavia, se in quegli algoritmi ci sono degli errori, le conseguenze possono essere devastanti.

Il 1° agosto 2012, uno degli algoritmi ad alta frequenza della società di trading Knight Capital impazzì. La società era un cosiddetto «market maker», che è una sorta di cambiavalute, ma per le azioni. Un cambiavalute guadagna perché c’è chi è disposto a vendere le divise straniere a un prezzo più basso per la comodità di concludere subito lo scambio; il cambiavalute terrà quindi quei soldi stranieri finché non riuscirà a venderli a un prezzo più alto a qualcuno che si presenterà a chiederli. È per questo che ci possono anche essere differenze marcate tra i prezzi di acquisto e di vendita della stessa divisa proposti ai turisti dai vari cambiavalute. La Knight Capital faceva la stessa cosa, ma con le azioni, e a volte poteva vendere un’azione che aveva appena acquistato in meno di un secondo.

Nell’agosto del 2012, la borsa di New York diede il via a un nuovo Retail Liquidity Program («Programma di liquidità al dettaglio»), il che significava che, in certe situazioni, i trader potevano offrire azioni agli acquirenti al dettaglio a prezzi un po’ più bassi. Il programma venne approvato dalle autorità di regolamentazione solo un mese prima del suo lancio, il 1° agosto. La Knight Capital si affrettò quindi ad aggiornare i propri algoritmi di trading ad alta frequenza in modo che potessero operare nell’ambiente finanziario leggermente diverso; tuttavia, durante l’aggiornamento qualche parte del codice venne danneggiata.

Non appena fu messo online, il software della Knight Capital iniziò a comprare azioni di 154 diverse società quotate nella borsa di New York a un prezzo superiore a quello a cui avrebbe potuto venderle. Anche se i computer vennero spenti nel giro di un’ora, quando le acque si erano calmate la Knight Capital dovette constatare di aver accumulato in un solo giorno perdite per 461,1 milioni di dollari (una cifra più o meno pari a quella dei profitti realizzati nel corso dei due anni precedenti).

I dettagli sulla natura precisa del problema non sono mai stati resi pubblici. Stando a una teoria, il programma di trading principale fece accidentalmente partire qualche vecchia parte di codice che era stata creata solo a scopo di test e che non avrebbe mai dovuto essere attivata per gli scambi reali; questa ipotesi è in linea con le voci che correvano al tempo, secondo le quali l’errore era stato dovuto a «una singola riga di codice». In ogni caso, quali che ne siano state le cause, un errore negli algoritmi ebbe conseguenze molto tangibili nel mondo reale. La Knight Capital dovette vendere alla Goldman Sachs (a prezzi scontati) le azioni che aveva comprato accidentalmente e fu quindi salvata da un gruppo che includeva la banca d’investimenti Jefferies in cambio del 73 per cento delle sue quote di proprietà; tre quarti della società persi a causa di una singola riga di codice.

Ma quello è stato soltanto il frutto di un errore di programmazione. E diciamocelo pure: la finanza non è l’unico ambito in cui un codice scritto male può causare problemi. Un codice malfatto può dare problemi praticamente ovunque. Nell’ambiente finanziario, gli algoritmi di trading automatico si fanno più interessanti quando iniziano a interagire fra di loro. A quanto pare, la complessa rete di algoritmi che si scambia prodotti finanziari dovrebbe mantenere il mercato stabile. Questo, s’intende, finché non cadono in uno spiacevole ciclo di retroazione che porta a un nuovo tipo di disastro finanziario: il «flash crash», o «crollo lampo».

Il 6 maggio 2010, l’indice Dow Jones crollò del 9 per cento. Se non ci fosse stata una ripresa, sarebbe stata la più grande perdita percentuale in un singolo giorno dai tempi dei crolli del 1929 e del 1987; tuttavia, nel giro di qualche minuto, i prezzi rimbalzarono tornando a valori normali e l’indice concluse la giornata perdendo solo il 3 per cento. Dopo che le contrattazioni avevano avuto un avvio altalenante, il crollo si era verificato tra le 14:40 e le 15:00 ora di New York.

Furono venti minuti a dir poco frenetici, nei quali vennero scambiati due miliardi di azioni per un volume totale di più di 56 miliardi di dollari. Più di ventimila scambi furono fatti a prezzi che si discostavano di oltre il 60 per cento dai valori registrati alle 14:40, e in molti casi si trattava di «prezzi irrazionali», come 0,01 dollari o 100.000 dollari per azione. Il mercato sembrava improvvisamente impazzito; poi però, quasi altrettanto in fretta, riprese il controllo e tornò alla normalità. Fu un’ondata di frenesia conclusasi con la stessa velocità con cui era iniziata, come una sorta di Harlem Shake dei crolli finanziari.

Provate a indovinare qual è stato il momento in cui tutti i cuori si sono fermati.

Provate a indovinare qual è stato il momento in cui tutti i cuori si sono fermati.

Le possibili cause del flash crash del 2010 sono oggetto di dibattito ancora oggi. Qualcuno ha parlato di un errore del «dito grasso», ma non è mai emersa alcuna prova in tal senso. La spiegazione migliore che ho trovato è quella data nel rapporto ufficiale congiunto pubblicato il 30 settembre 2010 dalla Commodity Futures Trading Commission e dalla Securities and Exchange Commission degli Stati Uniti; anche se non è stata universalmente accettata, penso che sia la spiegazione più fondata che abbiamo.

A quanto pare, un trader aveva deciso di vendere un sacco di «futures» su una borsa di Chicago. I futures sono contratti per acquistare o vendere qualcosa in futuro a un prezzo pre-concordato; questi contratti possono essere a loro volta comprati e venduti. Sono un prodotto finanziario derivato interessante, ma le complessità del loro funzionamento non sono rilevanti in questa sede. La cosa importante è che il trader aveva deciso di vendere 75.000 di questi contratti – chiamati «E-Mini» – tutti insieme, per un valore complessivo di circa 4,1 miliardi di dollari. Era la terza vendita più grande di prodotti di questo genere condotta negli ultimi dodici mesi; ma mentre le due precedenti erano state fatte gradualmente nel corso di una giornata, questa fu portata a termine nel giro di venti minuti.

Le vendite di queste proporzioni possono essere condotte in diversi modi e, se vengono fatte gradualmente (come quando sono supervisionate da un trader in carne e ossa), di solito non danno problemi. In questa operazione venne usato per l’intero lotto un singolo algoritmo di vendita che si basava solo sull’attuale volume degli scambi e non prendeva in considerazione il prezzo o la velocità a cui le vendite venivano fatte.

Il 6 maggio 2010 il mercato era già un po’ fragile per via dell’aggravarsi della crisi del debito in Grecia e delle elezioni generali in corso nel Regno Unito. L’improvvisa ondata di E-Mini si abbatté sul mercato facendo impazzire gli scambi ad alta frequenza: i contratti futures in vendita sommersero presto ogni domanda e i trader ad alta frequenza iniziarono a venderseli tra di loro. Nei quattordici secondi tra le 14:45:13 e le 14:45:27, più di 27.000 contratti passarono da un algoritmo all’altro, un volume pari a quello di tutti gli altri scambi.

Il caos si diffuse anche in altri mercati. Poi però, quasi con la stessa rapidità con cui il crollo era iniziato, gli algoritmi di trading ad alta frequenza sistemarono il problema e i mercati tornarono a una situazione normale. Alcuni degli algoritmi prevedevano meccanismi di sicurezza per interrompere gli scambi qualora i prezzi fossero cambiati troppo e per riprenderli solo dopo un controllo di che cosa stesse accadendo. Alcuni operatori ipotizzarono che da qualche parte nel mondo fosse successo qualcosa di catastrofico di cui non avevano sentito nulla. In realtà, però, si era trattato soltanto delle interazioni fra gli algoritmi di trading. Il grande corto circuito.

La mosca nell’algoritmo

Qui sulla mia scrivania c’è una copia del «libro più costoso del mondo»: The Making of a Fly, un testo accademico del 1992 sulla genetica che era stato messo in vendita su Amazon al modico prezzo di 23.698.655,93 dollari (più 3,99 dollari per le spese di spedizione).

Io, però, sono riuscito a comprarlo con uno sconto del 99,9999423 per cento. Per quanto ne so, The Making of a Fly non è mai stato venduto per 23 milioni di dollari; quello era semplicemente il prezzo indicato. E in ogni caso, anche se fossero riusciti a venderlo, molte persone oggi considerano uno dei quaderni di Leonardo da Vinci, acquistato da Bill Gates per 30,8 milioni di dollari, come il libro più costoso mai venduto. È chiaro che, oltre ad avere un debole per i dadi non-transitivi, Bill e io ne abbiamo uno anche per i materiali di lettura costosi. Penso che The Making of a Fly detenga il record del prezzo più alto mai chiesto per un libro che non sia unico nel suo genere. Per fortuna, la mia copia mi è costata solo 10,07 sterline (pari, all’epoca, a circa 13,68 dollari); e per giunta la spedizione era gratis.

Il libro più costoso che io non ho pagato a prezzo pieno.

Il libro più costoso che io non ho pagato a prezzo pieno.

Il prezzo di The Making of a Fly raggiunse il picco su Amazon nel 2011, quando negli USA erano disponibili delle copie nuove presso due soli venditori, Bordeebook e Profnath. Su Amazon ci sono sistemi che permettono ai venditori di fissare un prezzo tramite un algoritmo, e sembra che Profnath avesse adottato la semplice regola di «vendi il mio libro a un prezzo inferiore dello 0,07 per cento rispetto all’altra opzione più economica». Probabilmente, avevano una copia di The Making of a Fly e avevano deciso di venderla proponendola al prezzo più basso – di un piccolo margine – su Amazon. Come quando un concorrente di Price is Right vince indicando un prezzo superiore di 1 dollaro rispetto a quello ipotizzato da un suo avversario; sarà anche stata una scorrettezza ma era comunque fatta nel rispetto delle regole.

L’altro venditore, Bordeebook, voleva invece realizzare un discreto margine di guadagno, e la sua regola era probabilmente qualcosa come «vendi il mio libro a un prezzo superiore del 27 per cento rispetto all’opzione più economica». Una possibile spiegazione di questo comportamento è che i gestori di Bordeebook non erano in possesso di una copia del libro, ma sapevano che, qualora qualcuno l’avesse acquistato da loro, avrebbero avuto un margine sufficiente a procurarsi una copia più economica da rivendere. I venditori come questo si basano sulle proprie recensioni eccellenti per attirare quegli acquirenti che sono disposti a pagare un po’ di più pur di non correre rischi.

Se ci fosse stato almeno un altro libro in vendita, il sistema avrebbe funzionato perfettamente: la copia di Profnath sarebbe stata leggermente più economica del terzo libro e quella di Bordeebook sarebbe stata parecchio più cara. Tuttavia, dato che i libri erano solo due, i prezzi si avvitarono in un circolo vizioso, inseguendosi a vicenda: poiché 1,27 × 0,9983 = 1,268, i prezzi salivano di circa il 26,8 per cento a ogni ciclo di controllo degli algoritmi e arrivarono infine a raggiungere le decine di milioni di dollari. A quanto pare, nessuno dei due algoritmi aveva un limite superiore a cui fermarsi qualora il prezzo diventasse ridicolmente alto. Alla fine, Profnath deve essersi accorto del problema (oppure, il loro algoritmo aveva di fatto un limite che, però, era davvero parecchio alto…): il loro prezzo scese infatti a un livello molto più normale, 106,23 dollari, e quello di Bordeebook si allineò subito.

Lo scandaloso prezzo di The Making of a Fly venne notato da Michael Eisen e dai suoi colleghi dell’Università della California di Berkeley, che usavano i moscerini della frutta nelle loro ricerche e avevano bisogno di quel libro per una consultazione accademica. Rimasero sbigottiti quando videro due copie in vendita per 1.730.045,91 e 2.198.177,95 dollari, prezzi che continuavano a salire di giorno in giorno. Misero quindi da parte le ricerche biologiche e crearono un foglio di calcolo per tener traccia delle variazioni dei prezzi su Amazon, scoprendo così le percentuali che Profnath e Bordeebook stavano applicando (Bordeebook usava un curioso valore specifico: il 27,0589 per cento). Fu l’ennesima dimostrazione che, nella vita, ci sono ben pochi problemi che non possono essere risolti con un foglio di calcolo.

Dopo che i prezzi di The Making of a Fly erano stati corretti, un collega di Eisen poté comprarne una copia senza spendere una fortuna e il laboratorio abbandonò le sue operazioni di ingegneria inversa sugli algoritmi di vendita dei libri per tornare a studiare il funzionamento dei geni. E io sono rimasto con la mia copia di The Making of a Fly (che ho preso di seconda mano: anche il «prezzo normale» dei libri di testo americani è al di là del mio budget). Mi sono anche impegnato al massimo per leggerlo. Immaginavo che ci dovesse essere qualche collegamento tra quanto era successo al prezzo del libro e il modo in cui gli algoritmi genetici permettono alle mosche di volare. Potrei lasciare l’ultima parola al libro stesso. Questo è il passo migliore che sono riuscito a trovare:

Dagli studi su questo tipo di crescita si ricava l’impressione che ci sia una qualche sorta di controllo matematicamente preciso che opera in modo indipendente nelle diverse parti del corpo.

– Peter Lawrence, The Making of a Fly, p. 50

Penso che possiamo tutti imparare qualcosa da questa lezione. E, sul piano tecnico, potrei ora detrarre il prezzo del libro – anche se non quello originale, probabilmente – dalle tasse.

Se non fosse stato per le leggi della fisica, l’avrebbero anche fatta franca

Nel trading ad alta velocità, i dati sono il re. Se un operatore ha accesso a informazioni esclusive su quale andamento avrà il prezzo di un bene, può disporre i suoi ordini prima che il mercato abbia la possibilità di riallinearsi. O, meglio, quei dati possono finire direttamente in un algoritmo che fa l’ordine al posto suo, prendendo le decisioni a velocità incredibili, misurate nell’ordine dei millisecondi. Nel 2015, Hibernia Networks ha speso 300 milioni di dollari per stendere un nuovo cavo in fibra ottica tra New York e Londra con lo scopo di cercare di ridurre i tempi di comunicazione di 6 millisecondi. In un millesimo di secondo possono accadere un sacco di cose; figuriamoci in sei.

Per i dati finanziari, il tempo è – letteralmente – denaro. L’Università del Michigan pubblica un Indice della fiducia dei consumatori (Index of Consumer Sentiment) che misura le impressioni degli americani riguardo all’andamento dell’economia; è il frutto delle interviste telefoniche a circa 500 persone e può avere un impatto diretto sui mercati finanziari, cosa che rende importante il modo in cui questi dati vengono resi pubblici. Una volta pronto, il nuovo indice veniva caricato dalla Thomson Reuters sul proprio sito web pubblico alle 10:00 precise, in modo che tutti potessero accedervi allo stesso momento; per avere questo contratto esclusivo che le consentiva di pubblicare i dati gratis, la Thomson Reuters pagava all’Università del Michigan più di un milione di dollari.

E perché pagavano per poi dover distribuire i dati gratis? Il contratto concedeva alla Thomson Reuters il diritto di dare i numeri ai suoi sottoscrittori con cinque minuti di anticipo; così, tutti quelli che avevano pagato una sottoscrizione potevano accedere ai dati – e iniziare quindi i loro scambi basati sulle nuove informazioni – cinque minuti prima del resto del mercato. E i sottoscrittori della loro «piattaforma di distribuzione a latenza ultra-bassa» li ricevevano con altri due secondi di anticipo, alle 9:54:58 (più o meno mezzo secondo), pronti per essere inseriti negli algoritmi di trading. Nella prima metà di secondo dopo la pubblicazione di questi dati, in un singolo fondo potevano già esserci stati scambi per un controvalore di oltre 40 milioni di dollari. I babbei che aspettavano le 10:00 per ottenere i dati gratis scoprivano che il mercato si era ormai già adeguato.

L’etica – e, probabilmente, la legalità – di questa pratica è un po’ dubbia. Le istituzioni private possono pubblicare i loro dati in qualunque modo vogliano, a patto che lo facciano con trasparenza. E la Thomson Reuters indirizzava a una pagina del proprio sito web in cui delineava queste tempistiche: l’equivalente in Internet di incrociare le dita dietro alla schiena. Di fatto, il pubblico venne realmente a conoscenza di questa situazione solo quando la CNBC (Consumer News and Business Channel) fece un servizio su questo nel 2013; dopo non molto tempo, la pratica venne abbandonata.

«Fiducia, Collaborazione, Innovazione, Performance. I nostri valori». Se questa pubblicità della Thomson Reuters fosse un diagramma di Venn, sarebbe di un’onestà sorprendente.

«Fiducia, Collaborazione, Innovazione, Performance. I nostri valori». Se questa pubblicità della Thomson Reuters fosse un diagramma di Venn, sarebbe di un’onestà sorprendente.

Le regole per la pubblicazione dei dati provenienti da una fonte governativa sono molto più chiare e definite: vanno divulgati simultaneamente a tutti e nessuno deve avere la possibilità di usarli prima degli altri negli scambi. Quando la US Federal Reserve deve fare qualche annuncio – per esempio, se ha intenzione di portare avanti un programma di acquisto dei titoli di Stato – quella notizia può avere un grosso impatto sulle quotazioni nei mercati finanziari; se qualcuno la conoscesse in anticipo, potrebbe iniziare a comprare cose il cui valore è destinato a crescere.

Così, la Fed esercita un ferreo controllo sulla procedura con cui tali informazioni escono dal suo quartier generale di Washington D.C. Per esempio, il 18 settembre 2013, quando era atteso un annuncio per le 14:00 in punto, i giornalisti dovettero entrare in una sala speciale nell’edificio della Fed che venne chiusa alle 13:45, e ricevettero delle copie della notizia alle 13:50, per avere il tempo di leggerla.

Quindi, alle 13:58, i giornalisti delle televisioni ottennero il permesso di uscire su uno speciale balcone dove erano state predisposte le telecamere. Qualche momento prima delle 14:00, i reporter avviarono un collegamento telefonico con i loro giornali ma dovettero aspettare a comunicare le informazioni fino alle 14:00 precise, misurate da un orologio atomico. I trader di tutto il mondo vogliono essere i primi a conoscere i dati di questo tipo; se un operatore di Chicago riuscisse ad averli anche solo qualche millisecondo prima dei suoi concorrenti, si ritroverebbe in una posizione di vantaggio. Ma a che velocità possono viaggiare i dati?

Le due tecnologie in competizione sono i cavi in fibra ottica e i ponti radio a microonde. In un cavo in fibra ottica, la luce viaggia a circa il 69 per cento della velocità massima che può raggiungere nel vuoto, il che significa che può coprire un po’ più di 200.000 chilometri al secondo. Per contro, le microonde si muovono nell’aria quasi alla velocità massima della luce, 299.792 chilometri al secondo, ma in compenso, a causa della curvatura della Terra, devono essere ritrasmesse da una stazione radio all’altra, passando da diversi ripetitori.

Ci sono poi i problemi relativi ai posti dove è possibile costruire dei ripetitori per le microonde e stendere cavi in fibra ottica; così, il percorso seguito dai dati per andare da Washington a Chicago non sarà il tragitto più breve possibile. Comunque, per prendere un limite minimo, possiamo assumere che i dati seguano la linea più breve possibile tra l’edificio della Fed a Washington e quello del Chicago Mercantile Exchange (955,65 chilometri) muovendosi alla massima velocità della luce (e i nuovi cavi in fibra ottica a cristallo fotonico possono raggiungere il 99,7 per cento della velocità della luce), e calcolare quindi un tempo di percorrenza di 3,19 millisecondi. Facendo un calcolo simile per il tragitto più breve tra Washington e New York, otteniamo un tempo di 1,09 millisecondi.

Un laser pronto a sparare dati finanziari tra le città. Questo detiene il record mondiale di laser più noioso di sempre.

Un laser pronto a sparare dati finanziari tra le città. Questo detiene il record mondiale di laser più noioso di sempre.

Questi tempi si basano sull’assunzione che i dati corrano lungo un cavo in fibra ottica che segue la curvatura della Terra; un viaggio in linea retta sarebbe leggermente più veloce. Esistono già dei sistemi di comunicazione laser in «linea di vista» per la trasmissione dei dati finanziari dove tra il punto di partenza e quello d’arrivo c’è soltanto aria: per esempio, quelli che trasmettono le informazioni tra alcuni edifici di New York e altri edifici nel New Jersey. Per viaggiare in linea retta da Washington a Chicago, però, i segnali dovrebbero passare attraverso la Terra.

Ma anche questa ipotesi non può essere esclusa. I fisici hanno infatti scoperto delle particelle esotiche, come i neutrini, che possono muoversi attraverso la normale materia senza quasi incontrare alcuna resistenza; la loro rilevazione alla fine del percorso sarebbe una grossa sfida tecnologica, ma resta il fatto che un sistema di questo genere, che consenta di trasmettere i dati attraverso il pianeta alla massima velocità della luce, è fisicamente plausibile. In questo modo, comunque, si guadagnerebbero soltanto 3 microsecondi circa – 0,003 millisecondi – nel tempo di viaggio da Washington a Chicago (e ancora di meno per New York). I più brevi tempi di percorrenza possibili, consentiti dalle leggi della fisica, per i dati che partono dall’edificio della Fed sono quindi 3,18 millisecondi per arrivare a Chicago e 1,09 millisecondi per giungere a New York.

Questo rende molto sospetto il fatto che alle 14:00 del 18 settembre 2013, quando la Federal Reserve rese pubblici i suoi dati, a Chicago e a New York gli scambi iniziarono simultaneamente: se i dati arrivavano da Washington, infatti, i mercati di New York sarebbero dovuti partire leggermente prima di quelli di Chicago. Qualcuno aveva quindi ricevuto i dati prima e aveva poi cercato di far sembrare che gli scambi fossero iniziati nel primo istante possibile, dimenticandosi però delle leggi della fisica. La truffa è stata smascherata grazie al valore finito della velocità della luce!

Be’, ho detto che la truffa è stata smascherata, ma in realtà non è mai emerso nulla in proposito. Non si è scoperto chi aveva fatto quegli scambi e chi gli aveva mandato i dati. Inoltre, non era neppure del tutto chiaro se trasferire i dati su un computer esterno all’edificio senza però renderli pubblici fino alle 14:00 fosse una pratica strettamente vietata dai regolamenti della Fed. A quanto pare, le leggi della finanza sono molto più flessibili di quelle della fisica.

Incomprensioni matematiche

Sarebbe una negligenza, da parte mia, non dire qualcosa sulla crisi finanziaria globale del 2007-2008 (che venne innescata dalla crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti per poi diffondersi rapidamente nei Paesi di tutto il mondo), in quanto vi entrarono in gioco diversi interessanti aspetti matematici. I miei preferiti sono quei prodotti finanziari noti come «obbligazioni di debito collateralizzato» (CDO). Una CDO raccoglie un gruppo di investimenti rischiosi sulla base dell’assunzione che non è possibile che vadano tutti male.

Spoiler: ognuno di quegli investimenti andò male. Una volta ammessa la possibilità che le CDO contenessero altre CDO, venne a formarsi una rete matematica che ben poche persone erano in grado di comprendere; anch’io, nonostante il mio amore per la matematica, guardando in retrospettiva la crisi finanziaria globale nel suo complesso, non posso affermare di aver capito che cosa sia andato storto. Se volete studiarla più approfonditamente, ci sono innumerevoli libri dedicati a questo argomento; oppure (se siete già abbastanza vecchi e non avete tutto questo tempo) potete guardare il film La grande scommessa. Non dirò nulla in proposito, ma mi limiterò a parlare di un esempio più interessante e concreto di persone che non comprendono la matematica: i consigli di amministrazione delle aziende che assegnano i premi salariali agli amministratori delegati (CEO) incaricati di dirigere le medesime.

Oggi negli Stati Uniti un CEO può guadagnare cifre incredibili, a volte anche decine di milioni di dollari l’anno. Prima degli anni Novanta, solo i CEO che fondavano o possedevano una compagnia guadagnavano dei «supersalari», ma tra il 1992 e il 2001 la paga media dei CEO delle società quotate nell’indice S&P 500 negli USA è salita da 2,9 a 9,3 milioni di dollari l’anno (in dollari del 2011, al netto dell’inflazione), triplicando nell’arco di un decennio. La crescita esplosiva si è poi fermata: un decennio dopo, nel 2011, la paga media dei CEO era ancora di circa 9 milioni di dollari.

Alcuni ricercatori dell’Università di Chicago e del Dartmouth College hanno notato che, durante quel periodo di crescita esplosiva, i salari effettivi e i valori delle azioni date ai CEO non avevano registrato aumenti simili. Il boom veniva da una singola, particolare forma di remunerazione concessa ai CEO: le stock option.

Una stock option è un contratto che consente a qualcuno di comprare una determinata azione («stock») in futuro a un «prezzo d’esercizio» pre-concordato. Pertanto, se avete una stock option per comprare un’azione di una certa società a 100 dollari entro un anno e durante quell’anno il suo prezzo sale a 120 dollari, potete esercitare il vostro diritto di comprarla a 100 dollari per poi rivenderla immediatamente sul mercato a 120; se invece il prezzo dell’azione scende a 80 dollari, stracciate la vostra stock option e non comprate nulla. Una stock option ha quindi un certo valore intrinseco: potete solo guadagnare (o, al limite, andare in pari). È per questo che il loro acquisto iniziale ha un prezzo e in seguito possono essere scambiate.

Il metodo per calcolare il valore delle stock option non è affatto semplice ed è stato messo a punto solo nel 1973, con la formula di Black-Scholes-Merton (per la quale Scholes e Merton hanno poi vinto il premio Nobel per l’economia nel 1997; Black era nel frattempo deceduto). Per determinare il prezzo di queste opzioni occorre tener conto di tutta una serie di fattori, come la probabilità che il valore dell’azione cambi e la quantità di interessi che il denaro speso per l’opzione avrebbe potuto fruttare nel frattempo. Tutti calcoli fattibili, che comunque portano a una formula dall’aria complessa; ed è qui che i consigli di amministrazione hanno iniziato a sbagliare.

Il collegamento diretto tra il numero di stock option e il valore della paga che veniva data ai CEO non era immediatamente chiaro a tutti i membri dei consigli di amministrazione. Guardate che cosa succede quando confrontiamo altri tipi di compensazione con i loro valori reali:

Valore del salario = [numero di dollari] × $1

Valore delle azioni = [numero di titoli] × [valore di ogni titolo]

Valore delle opzioni =

[numero delle opzioni] ×

dove

S = prezzo corrente dell’azione

T = tempo prima che l’opzione possa essere esercitata

r = tasso d’interesse privo di rischio

N = distribuzione cumulativa normale standardizzata

σ = volatilità dei profitti sull’azione (stimata con deviazione standard)

Anche se la formula sembra complessa, in breve possiamo dire che la S davanti significa che il valore delle stock option si basa sul valore corrente dell’azione. Ma mentre i consigli di amministrazione riducevano il numero di azioni date a un CEO quando il valore di queste ultime cresceva, nella distribuzione delle stock option – come emerso dalle ricerche dell’Università di Chicago e del Dartmouth College – i direttori soffrivano di una sorta di «rigidità numerica»: il numero delle opzioni da loro concesse era cioè sorprendentemente rigido. Anche dopo un frazionamento azionario, quando i CEO ricevevano il doppio delle azioni per compensare il fatto che il loro valore si era dimezzato, il numero delle stock option non cambiava. I consigli continuavano ad assegnare lo stesso numero di stock option, senza in apparenza curarsi del loro valore. E fra gli anni Novanta e i primi anni Duemila, quel valore era cresciuto un sacco.

Poi però, nel 2006, un cambiamento nei regolamenti obbligò le compagnie a usare la formula di Black-Scholes-Merton per dichiarare il valore delle stock option con cui pagavano i loro CEO. Quando i membri dei consigli di amministrazione si ritrovarono costretti a calcolare il valore effettivo delle stock option, la rigidità numerica sparì e il numero di opzioni concesse venne regolato in base al loro valore; di conseguenza, la crescita esplosiva delle paghe dei CEO subì una battuta d’arresto. Ciò non significa che ritornarono ai livelli precedenti: i livelli raggiunti erano ormai acquisiti e le forze del mercato non li avrebbero lasciati calare. Così, le enormi buste paga che i CEO continuano a percepire sono un fossile dell’epoca in cui i consigli di amministrazione non facevano i conti.