Un movimento fece sì che il sudore, su una fronte ampia e intellettuale, brillasse all'improvviso nell'oscurità.
«Bist du krank?» domandò allora, sospettando che il ragazzo - poiché non era più di un ragazzo — non si sentisse bene.
La voce scaturì, finalmente. «Nein.»
L'Arcivescovo Ralph posò la lampadina tascabile sul pavimento, si fece avanti, mise la mano sotto il mento del soldato e lo costrinse ad alzare la faccia per fissare gli occhi scuri, ancor più scuri nelle tenebre.
«Che cosa c'è?» domandò in tedesco, e rise. «Ecco!» continuò, sempre in tedesco. «Tu non lo sai, ma questo è sempre stato il compito più importante della mia vita... domandare alla gente che cosa c'è. E, consentimi di dirtelo, è una domanda che mi ha cacciato in un sacco di guai, ai miei tempi.»
«Sono venuto per pregare» disse il ragazzo, con una voce troppo profonda per la sua età, e uno spiccato accento bavarese.
«Che cosa è accaduto, ti hanno chiuso dentro?»
«Sì, ma non è questo che conta.»
L'Arcivescovo riprese la lampadina tascabile. «Be', non puoi restare qui tutta la notte, e io non ho la chiave per aprire le porte. Vieni con me.» Cominciò a tornare indietro verso la scala privata che conduceva al palazzo papale, parlando in tono sommesso e dolce. «Anch'io ero venuto a pregare, in effetti. Grazie al tuo Alto Comando, questa è stata una giornata alquanto sgradevole. Lassù, cioè... Dovremo sperare che il personale del Santo Padre non mi creda in arresto, ma si renda conto che sono io a fare da scorta, non tu.»
In seguito, camminarono per altri dieci minuti in silenzio, lungo corridoi, attraverso cortili e giardini e atrii, su per scaloni; il giovane tedesco non sembrava affatto impaziente di allontanarsi dal fianco del suo protettore, poiché gli restava vicino. Infine l'Arcivescovo aprì una porta, fece entrare il compagno in un salottino arredato umilmente, con il minimo indispensabile, accese una lampada e chiuse la porta.
Rimasero in piedi fissandosi a vicenda, ora che ci vedevano. Il soldato tedesco scorse un uomo alto di statura, con un bel viso e occhi perspicaci, azzurri; l'Arcivescovo Ralph scorse un bambino infagottato nell'uniforme che tutta l'Europa trovava paurosa e minacciosa. Un bambino: non poteva avere più di sedici anni, senza alcun dubbio. Magro e di statura media, aveva una struttura che prometteva robustezza e forza; le braccia erano lunghissime. La faccia aveva fattezze alquanto italiane, bruna e nobile, attraente all'estremo; grandi occhi di un castano scuro, con lunghe ciglia nere, e magnifici capelli neri ondulati. Non esisteva alcunché di consueto o di comune in lui, tutto sommato, anche se la sua parte nella guerra era umilissima; sebbene avesse anelato a parlare con un uomo medio e comune, l'Arcivescovo era interessato.
«Siedi» disse al ragazzo, avvicinandosi a uno stipo e togliendone una bottiglia di Marsala. Versò un po' di vino in due bicchieri, ne porse uno al ragazzo, e portò il suo fino alla poltrona dalla quale avrebbe potuto osservare comodamente le fattezze incantevoli. «Sono ridotti al punto di dover arruolare bambini per le loro battaglie?» domandò, accavallando le gambe.
«Non lo so» rispose il ragazzo. «Io mi trovavo in un orfanotrofio e quindi mi avrebbero preso presto in ogni caso.»
«Come ti chiami, figliolo?»
«Rainer Moerling Hartheim» rispose lui, pronunciando il nome con molto orgoglio.
«Un nome magnifico» disse il prelato, con gravità.
«Sì, non è vero? L'ho scelto io stesso. Mi chiamavano Rainer Schmidt, all'orfanotrofio, ma quando sono andato sotto le armi l'ho modificato, adottando il nome che avevo sempre desiderato.»
«Sei orfano?»
«Le suore dicevano che ero un figlio dell'amore.»
L'Arcivescovo Ralph si sforzò di non sorridere; il ragazzo aveva una tale dignità, e una tale padronanza di se stesso, ora che era stato abbandonato dalla paura! Ma che cosa lo aveva spaventato? La possibilità di non essere trovato, e di rimanere chiuso nella basilica?
«Perché avevi tanta paura, Rainer?»
Il ragazzo sorseggiò il Marsala guardingo, poi alzò gli occhi con un'aria soddisfatta. «Buono, è dolce.» Si sistemò più comodamente sulla poltrona. «Volevo vedere San Pietro perché le suore ce ne parlavano sempre, ce ne mostravano fotografie. Così, quando ci hanno trasferiti a Roma, sono stato contento. Siamo arrivati stamane. Non appena ho potuto, sono venuto.» Si accigliò. «Ma non è stato come mi aspettavo. Credevo di sentirmi più vicino a Nostro Signore, trovandomi nella Sua chiesa. Invece, era soltanto enorme e fredda e non l'ho sentito.»
L'Arcivescovo Ralph sorrise. «So che cosa vuoi dire. Ma, sai, San Pietro in realtà non è una chiesa. Non come lo sono quasi tutte le chiese. San Pietro è la chiesa. Mi occorse molto tempo per abituarmici, rammento.»
«Volevo pregare per due cose» disse il ragazzo, facendo di sì con la testa per lasciar capire che aveva udito, ma che non voleva sentirsi dire questo.
«Per le cose che ti spaventano?»
«Sì. Pensavo che trovarmi a San Pietro potesse giovarmi.»
«Quali sono le cose che ti spaventano, Rainer?»
«Che decidano ch'io sono un ebreo, e che il mio reggimento venga mandato in Russia.»
«Capisco. Non ci si può stupire se hai paura. Esiste davvero la possibilità che ti dichiarino ebreo?»
«Be', mi guardi!» si limitò a dire il ragazzo. «Quando stavano scrivendo le mie particolarità fisiche, dissero che avrebbero dovuto controllare. Non so se possano o no, ma le suore, presumo, potrebbero sapere più di quello che rivelarono a me.»
«Se è così, non parleranno» lo rassicurò Ralph, consolante. «Capiranno il perché delle domande.»
«Lo crede davvero? Oh, lo spero!»
«Ti turba l'idea di avere sangue ebreo nelle vene?»
«Il sangue che ho non conta» disse Rainer. «Sono nato tedesco, questa è la sola cosa importante.»
«Solo che loro non si prospettano la cosa in questo modo, vero?»
«No.»
«E la Russia? Puoi fare a meno di preoccuparti per la Russia adesso, senza dubbio. Ti trovi a Roma, nella direzione opposta.»
«Stamane ho udito dire dal nostro comandante che potrebbero ancora mandarci in Russia, nonostante tutto. Le cose non stanno andando bene, laggiù.»
«Sei un bambino» disse l'Arcivescovo Ralph, brusco. «Dovresti essere a scuola.»
«Non ci sarei in ogni caso, ormai.» Il ragazzo sorrise. «Ho sedici anni, e quindi lavorerei.» Sospirò. «Mi sarebbe piaciuto continuare ad andare a scuola. Imparare è importante.»
L'Arcivescovo si mise a ridere, poi si alzò e tornò a riempire i bicchieri. «Non badare a me, se rido, Rainer. Mi sto comportando in modo assurdo. Sono soltanto pensieri, che si susseguono uno dopo l'altro. Questa è l'ora che dedico ai pensieri. Non sono un grande anfitrione, vero?»
«È perfetto» disse il ragazzo.
«Oh, dunque» disse l'Arcivescovo, rimettendosi a sedere. «Spiega te stesso, Rainer Moerling Hartheim.»
Una strana fierezza trasparì dalla faccia giovanile. «Sono tedesco, e cattolico. Voglio fare della Germania un paese in cui razza e religione non significhino persecuzione, e dedicherò la mia vita a questo scopo, se vivrò.»
«Pregherò per te... perché tu viva e riesca.»
«Davvero?» domandò il ragazzo, timidamente. «Pregherebbe davvero per me, personalmente, ricordando il mio nome?»
«Certo. In effetti, tu mi hai insegnato una cosa. Che, nella mia vocazione, posso disporre di una sola arma... la preghiera. Non posso fare altro.»
«Chi è lei?» domandò Rainer, mentre il vino cominciava a fargli battere le palpebre, sonnacchiosamente.
«Sono l'Arcivescovo Ralph de Bricassart.»
«Oh! Credevo che fosse un semplice prete!»
«Sono un semplice prete. Niente di più.»
«Stringerò un patto con lei!» disse il ragazzo, gli occhi scintillanti. «Preghi per me, Padre, e, se vivrò abbastanza a lungo per ottenere quello che voglio, tornerò a Roma per dimostrarle che cosa avranno ottenuto le sue preghiere.»
Gli occhi azzurri gli sorrisero con tenerezza. «Sta bene, il patto è concluso. E quando verrai, ti dirò come saranno state esaudite secondo me le mie preghiere.» Si alzò. «Resta lì, piccolo uomo politico. Ti troverò qualcosa da mangiare.»
Conversarono finché l'alba non risplendette intorno alle cupole e ai campanili e le ali dei piccioni non cominciarono a frullare fuori della finestra. Poi l'Arcivescovo condusse l'ospite attraverso gli appartamenti ufficiali del palazzo, osservando con delizia il suo timore reverenziale, e lo fece uscire nell'aria frizzante e fresca. Sebbene non lo sapesse, il ragazzo dallo splendido nome doveva davvero andare in Russia, portando con sé un ricordo stranamente dolce e rassicurante: il ricordo del fatto che a Roma, nella Chiesa di Nostro Signore, un uomo pregava per lui, personalmente, ogni giorno.
Quando la Nona fu pronta per essere imbarcata e trasferita nella Nuova Guinea, tutto era ormai finito, tranne i rastrellamenti. Scontente, le migliori divisioni della storia militare australiana poterono soltanto sperare che vi fosse gloria da mietere altrove, inseguendo i giapponesi attraverso l'Indonesia. Guadalcanal aveva annientato tutte le speranze del Giappone di arrivare all'Australia. Eppure, come i tedeschi, essi cedevano lentamente, a malincuore. Sebbene le loro risorse fossero ridotte allo stremo e i loro eserciti si stessero sfasciando per mancanza di rinforzi e rifornimenti, facevano pagar caro agli americani e agli australiani ogni metro di terreno riconquistato. Ritirandosi, i giapponesi abbandonarono comunque Buna, Gona, Salamaua, e risalirono la costa settentrionale fino a Lae e Finschafen.
Il 5 settembre 1943, la Nona Divisione venne sbarcata subito a est di Lae. Il caldo era soffocante, l'umidità del cento per cento, e pioveva ogni pomeriggio, sebbene mancassero ancora due interi mesi alla «piovosa». La minaccia della malaria costringeva tutti a prendere l'Atebrina, e le piccole compresse gialle facevano star male gli uomini come se fossero stati davvero malarici. Già la costante umidità faceva sì che scarpe e calze fossero sempre bagnate; i piedi diventavano spugnosi, la pelle tra le dita si ulcerava e sanguinava. Le morsicature degli insetti e delle zanzare si infiammavano e si infettavano.
A Port Moresby avevano veduto in quali misere condizioni si trovassero gli indigeni della Nuova Guinea; e, se quegli uomini non riuscivano a sopportare il clima senza ammalarsi di framboesia, di beri-beri, di malaria, di polmonite, di infermità croniche della pelle, di fegato e milza ingrossati, non restavano molte speranze per i bianchi. A Port Moresby esistevano anche superstiti di Kokoda, vittime non tanto dei giapponesi quanto della Nuova Guinea, emaciati, coperti di piaghe, deliranti per la febbre. La polmonite, a duemilasettecento metri di altezza ove si gelava dal freddo con le sottili uniformi tropicali, aveva fatto dieci volte più vittime dei giapponesi. Un fango liquido e appiccicoso, foreste che non sembravano di questo mondo e nelle quali, una volta discesa l'oscurità, baluginava il freddo, spettrale e fioco bagliore dei funghi fosforescenti, dirupi che dominavano un viluppo inestricabile di radici esposte a nudo, per cui chiunque passasse di là era un bersaglio ideale per i cecchini. Tutto ciò non avrebbe potuto essere più diverso dall'Africa Settentrionale, e gli uomini della Nona non si dispiacquero affatto di essere rimasti a combattere nelle due battaglie di Alamein, invece di trovarsi sulla pista di Kokoda.
Lae era una cittadina costiera, tra pascoli ricchi di foreste, lontana dalle altezze di tremilatrecento metri che si raggiungevano nell'interno, e di gran lunga più salubre, come campo di battaglia, di Kokoda. Poche case costruite all'europea, un distributore di benzina e un gruppo di capanne indigene. I giapponesi erano come sempre risoluti, ma poco numerosi e malconci, logorati dalla Nuova Guinea quanto gli australiani contro i quali si erano battuti, e altrettanto minati dalle malattie. Dopo i massicci concentramenti di fuoco e l'estrema meccanizzazione del Nord Africa, sembrava strano non vedere mai un mortaio né un pezzo di artiglieria da campagna; soltanto fucili Owen, con la baionetta sempre inastata. A Jims e a Patsy piaceva il combattimento a corpo a corpo, amavano avvicinarsi insieme al nemico, proteggersi a vicenda. Si trattava però di un tracollo tremendo dopo l'Afrika Korps, quanto a questo non sussistevano dubbi. Ometti quelli che, a quanto pareva, portavano tutti gli occhiali e avevano i denti sporgenti. Privi di un qualsiasi aspetto marziale.
Due settimane dopo lo sbarco della Nona a Lae, non esistevano più giapponesi. Era, per la primavera della Nuova Guinea, una giornata splendida. Con l'umidità ridotta del venti per cento, con il sole che splendeva in un cielo improvvisamente azzurro, anziché vaporosamente bianco, e con lo spartiacque che si elevava verde, viola e lilla al di là della cittadina. La disciplina si era rilassata, e tutti sembravano concedersi una vacanza, per giocare al cricket, per passeggiare qua e là, e stuzzicare gli indigeni facendoli ridere affinché mostrassero le gengive rosse e sdentate, risultato della masticazione del betel. Jims e Patsy stavano camminando tra l'erba alta fuori dell'abitato, perché ricordava loro Drogheda; aveva lo stesso colore argenteo e fulvo, ed era alta come quella di Drogheda dopo una stagione di piogge abbondanti.
«Non ci vorrà molto, ormai, per tornare a casa, Patsy» disse Jims. «Abbiamo messo in fuga i gialli, oltre che i mangia-patate. A casa, Patsy, di nuovo a Drogheda! Non vedo l'ora di esserci.»
«Già» disse Patsy.
Camminavano spalla contro spalla, molto più vicini di quanto fosse ammissibile tra uomini normali; di tanto in tanto si toccavano vicendevolmente, senza rendersene conto, come un uomo tocca il proprio corpo, per liberarsi da un leggero prurito, o per accertarsi di essere ancora tutto di un pezzo. Com'era piacevole sentire il vero tepore del sole sulla faccia, invece di avere l'impressione di sciogliersi in un bagno turco! Di quando in quando alzavano la faccia verso il cielo e dilatavano le narici per assorbire il profumo della calda luce sull'erba simile a quella di Drogheda, e per sognare di ritrovarsi già là, diretti verso un albero wilga nell'aria abbacinata di mezzogiorno e sdraiarsi nel colmo della calura a leggere un libro o appisolarsi. Rotolarsi, sentire la terra amica e meravigliosa attraverso la pelle, sentire un cuore possente battere là sotto, in qualche punto, come il cuore di una madre contro il bambino addormentato.
«Jims, guarda! Un pappagallino di Drogheda!» esclamò Patsy, talmente sorpreso da rinunciare al mutismo.
Forse i pappagallini verdi esistevano anche nella regione di Lae, ma lo stato d'animo della giornata e quel memento del tutto inaspettato della casa scatenarono a un tratto una selvaggia esultanza in Patsy. Ridendo, sentendo l'erba solleticargli le gambe nude, si mise a inseguire l'uccello strappandosi il berretto dalla testa e tendendolo, come se davvero credesse di poter catturare il pappagallo che svaniva. Sorridente, Jims rimase immobile a guardarlo.
Suo fratello era forse lontano un venti metri quando la mitragliatrice falciò l'erba intorno a lui, facendola volar via da ogni parte; Jims lo vide alzare le braccia, piroettare su se stesso, per cui le braccia parvero tendersi come in un gesto di supplica. Dalla vita alle ginocchia era tutto vivido sangue, sangue vitale.
«Patsy! Patsy!» urlò Jims; sentendo le pallottole in ogni cellula del proprio corpo, sentendosi egli stesso svuotare, morire.
Aprì le gambe in una enorme falcata, prendendo lo slancio per correre, poi la prudenza militare ebbe il sopravvento e si gettò lungo disteso tra l'erba, proprio mentre la mitragliatrice riapriva il fuoco.
«Patsy, Patsy, stai bene?» gridò stupidamente, poiché aveva veduto il sangue.
Eppure, incredibilmente, «Sì» giunse una fioca risposta.
Centimetro per centimetro, Jims si trascinò avanti tra l'erba fragrante, ascoltando il vento e i fruscii del proprio progredire.
Quando fu giunto accanto al fratello, gli appoggiò il capo alla spalla nuda e pianse.
«Piantala» disse Patsy. «Non sono ancora morto.»
«Quanto è grave la ferita?» domandò Jims, abbassandogli i calzoncini impregnati di sangue e vedendo carne zuppa di sangue, rabbrividendo.
«Non ho l'impressione di essere in punto di morte, a ogni modo.»
Apparvero uomini da ogni parte, i giocatori di cricket ancora con i parastinchi e i guantoni; qualcuno tornò indietro a prendere una barella mentre gli altri si accingevano a eliminare l'arma al lato opposto della radura.
La distrussero con più spietatezza del solito, perché tutti erano affezionati a Harpo. Se gli fosse accaduto qualcosa, Jims non sarebbe più stato lo stesso.
Una giornata splendida; il pappagallino era scomparso da un pezzo, ma altri uccelli trillavano e cinguettavano impavidi, tacitati soltanto dalla sparatoria.
«Patsy è maledettamente fortunato» disse l'ufficiale medico a Jims qualche tempo dopo. «Deve avere in corpo una dozzina di pallottole, ma lo hanno colpito quasi tutte alle cosce. Le due o tre più in alto sembrano essere penetrate nell'osso pelvico o nel muscolo. A quanto posso arguire, ha le budella intatte, e così la vescica. C'è solo una cosa...»
«Ebbene, quale?» lo incitò Jims, impaziente; stava ancora tremando ed era blu intorno alla bocca.
«È difficile dirlo con certezza, in questo momento, e io non sono un genio della chirurgia come certi tipi di Moresby. Loro potranno dirti molto di più. Ma l'uretra è stata lesionata, e così molti dei minuscoli nervi nel perineo. Sono quasi certo che si possa rimetterlo in sesto come nuovo, eccezion fatta, forse, per i nervi. I nervi non guariscono troppo bene, sfortunatamente.» Si schiarì la voce. «Insomma, sto cercando di dire che potrebbe non avere mai più molta sensibilità nella zona genitale.»
Jims abbassò la testa e fissò il terreno attraverso una vitrea parete di lacrime. «Per lo meno è vivo» disse.
Gli venne concessa una licenza per recarsi in aereo a Port Moresby con il fratello e per trattenervisi finché Patsy non fosse stato dichiarato fuori pericolo. Le ferite erano poco meno che miracolose. Le pallottole si erano sparpagliate dappertutto sulla parte bassa dell'addome, senza penetrarla. Ma l'ufficiale medico della Nona aveva avuto ragione; la sensibilità della parte bassa della pelvi risultava gravemente menomata. Fino a qual punto avrebbe potuto ricuperarla, nessuno se la sentiva di dirlo.
«Non ha molta importanza» disse Patsy, dalla barella sulla quale veniva portato in aereo a Sydney. «Non ci ho mai tenuto molto ad ammogliarmi, del resto. E ora abbi cura di te, Jims, capito? Mi spiace da matti di doverti lasciare.»
«Avrò cura di me, Patsy. Cribbio!» sogghignò Jims, stringendo forte la mano del fratello. «Pensa un po', dover trascorrere il resto della guerra senza il mio miglior camerata. Ma scriverò e ti dirò come sarà. Salutami la signora Smith e Meggie e Ma' e i fratellini, eh? In fondo, sei fortunato a tornare a Drogheda.»
Fee e la signora Smith si recarono in aereo a Sydney per aspettare l'apparecchio americano che portava Patsy da Townsville; Fee si trattenne soltanto per pochi giorni, ma la signora Smith prese alloggio in un albergo nella Randwick, vicino all'ospedale militare Principe di Galles. Patsy vi rimase per tre mesi. Il suo contributo alla guerra era finito. La signora Smith aveva versato molte lacrime; ma c'erano anche parecchie ragioni per essere riconoscenti. In un certo senso non avrebbe mai potuto vivere una vita piena, ma sarebbe stato in grado di fare ogni altra cosa: cavalcare, camminare, correre. Il matrimonio non sembrava essere il pallino dei Cleary, del resto. Quando fu dimesso dall'ospedale, Meggie venne da Gilly con la Rolls-Royce e le due donne lo sistemarono sul sedile posteriore, tra coperte e riviste, pregando Dio che facesse loro ancora una grazia: il ritorno a casa anche di Jims.
16
Soltanto dopo che il plenipotenziario dell'Imperatore Hirohito ebbe firmato la resa ufficiale del Giappone, il distretto di Gillanbone si persuase che la guerra era finalmente terminata. La notizia giunse una domenica, il 2 settembre del 1945, vale a dire sei anni esatti dopo l'inizio dei conflitto. Sei anni di sofferenze. E quanti posti vuoti che non sarebbero stati occupati mai più: Rory, il figlio di Dominic O'Rourke, John, il figlio di Horry Hopeton, Cormac, il figlio di Eden Carmichael. Il figlio minore di Ross MacMCQueen non avrebbe più camminato; il figlio di Anthony King, David, avrebbe camminato, ma senza vedere dove stesse andando; il figlio di Paddy Cleary, Patsy, non avrebbe mai avuto figli. E c'erano quelli le cui ferite non erano visibili, ma con cicatrici altrettanto profonde: coloro che erano partiti allegramente, impazienti e sorridenti, ma che avevano fatto ritorno a casa spenti, e parlavano poco, e ridevano di rado. Chi avrebbe potuto prevedere, all'inizio, che la guerra avrebbe avuto una simile durata e imposto tanti sacrifici?
Quella di Gillanbone non era una comunità particolarmente superstiziosa, ma anche il più cinico dei suoi abitanti rabbrividì, domenica 2 settembre. Poiché, lo stesso giorno in cui la guerra ebbe termine, terminò anche la più lunga siccità nella storia dell'Australia. Per quasi dieci anni non vi erano state precipitazioni di una qualche utilità, ma quel giorno oscure nubi invasero il cielo a banchi spessi centinaia di metri, e si aprirono tuonando e riversando sulla terra assetata trecento millimetri di pioggia. Venticinque millimetri di pioggia possono non porre termine alla siccità, poiché potrebbero non essere seguiti da altre precipitazioni, ma trecento millimetri di pioggia significano erba.
Meggie, Fee, Bob, Jack, Hughie e Patsy, in piedi sulla veranda, osservarono l'acquazzone nell'oscurità, aspirando il profumo intollerabilmente soave della pioggia sulla terra riarsa e polverosa. Cavalli, pecore, buoi e maiali divaricarono le gambe per non scivolare sul terreno che si ammorbidiva e lasciarono che l'acqua si riversasse sui loro corpi guizzanti; quasi tutti erano nati dopo che un diluvio come quello aveva inondato il loro mondo. Nel cimitero, la pioggia lavò la polvere, rese bianca ogni cosa, ripulì le ali aperte del blando angelo botticelliano. Nel torrente si ingolfò un'onda di piena, il cui impeto ruggente si unì al tamburellare dell'acquazzone che tutto imbeveva. Pioggia, pioggia! Pioggia. Come una benedizione prodigata da qualche mano enorme e imperscrutabile, da lungo tempo negata e finalmente concessa. La pioggia benedetta, meravigliosa. Poiché pioggia significava erba, e l'erba era vita.
Apparve una lanugine di un verde pallido. Spinse i suoi steli minuscoli verso il cielo, si ramificò, divenne di un verde più scuro man mano che cresceva, poi si scolorì e si ispessì, trasformandosi nell'erba verde-argentea di Drogheda, alta fino alle ginocchia. Lo Home Paddock assunse l'aspetto di un campo di frumento, che ondeggiava a ogni sbuffo di vento, e nei giardini intorno alla grande dimora esplosero i colori, si aprirono grossi bocciuoli, gli eucalipti tornarono improvvisamente a essere bianchi e verde-limone dopo essere stati insudiciati per nove anni dalla polvere. Poiché, sebbene la pazzesca proliferazione di cisterne per l'acqua, voluta da Michael Carson, fosse stata sufficiente a mantenere in vita i giardini della casa, la polvere si era posata lo stesso su ogni foglia e su ogni petalo. E un'antica leggenda aveva dimostrato di essere vera: Drogheda disponeva realmente di acqua bastante per farle sormontare dieci anni di siccità, ma soltanto nell'ambito della dimora.
Bob, Jack, Hughie e Patsy tornarono nei recinti e cominciarono a studiare il modo migliore di ripopolare l'allevamento; Fee svitò il tappo di un flacone d'inchiostro nero, nuovo di zecca, e riavvitò selvaggiamente quello del flacone di inchiostro rosso; Meggie intravide la fine imminente delle sue fatiche in sella, poiché, di lì a non molto, Jims sarebbe tornato a casa, e inoltre cominciavano a presentarsi uomini in cerca di lavoro.
Dopo nove anni rimanevano pochissime pecore e pochissimi bovini, tranne i riproduttori pregiati, il nucleo dell'allevamento, arieti e tori che venivano sempre tenuti in appositi recinti e foraggiati a mano con qualsiasi tempo. Bob si recò all'est, sulle cime del Western Slopes, ad acquistare pecore di buona razza in allevamenti non così duramente provati dalla siccità. Jims tornò a casa. Otto guardiani figurarono sul ruolino paga di Drogheda. Meggie appese la sella nella scuderia.
E, non molto tempo dopo, ricevette una lettera di Luke, la seconda da quando lo aveva lasciato, che diceva:
«Non ci vorrà ancora molto, ormai, credo. Qualche anno ancora nelle piantagioni di canne da zucchero dovrebbe farmi arrivare in porto. La vecchia schiena mi duole un po', adesso, ma posso ancora tagliare canne insieme ai migliori, otto o nove tonnellate al giorno. Arne e io abbiamo dodici altre squadre che tagliano per noi, formate tutte da bravi uomini. Il denaro sta affluendo facilmente, l'Europa ha bisogno di tutto lo zucchero che possiamo produrre. Io sto guadagnando più di cinquemila sterline all'anno e le risparmio quasi tutte. Non ci vorrà molto, ormai, Meg, prima che mi sistemi dalle parti di Kynuna. Forse, quando mi sarò sistemato, tu vorrai tornare con me. Ti ho dato il marmocchio che volevi? È buffo quanto ci tengano le donne ad avere figli. È stato questo in realtà, credo, a dividerci, eh? Fammi sapere come stai e in che modo Drogheda ha superato la siccità. Tuo,
Luke
Fee uscì sulla veranda, dove Meggie sedeva con la lettera in mano, contemplando distrattamente il verde smagliante dei prati intorno alla dimora.
«Che cosa dice Luke?»
«Le stesse cose di sempre, Ma'. Non è cambiato affatto. Continua a dire che taglierà ancora per qualche tempo quelle dannate canne da zucchero, e a parlare dell'allevamento che avrà un giorno dalle parti di Kynuna.»
«Credi che lo acquisterà davvero?»
«Penso di sì, un giorno.»
«Torneresti con lui, Meggie?»
«Nemmeno tra un milione di anni.»
Fee sedette su una poltroncina di canna, accanto a sua figlia, e la spostò in modo da poter vedere bene Meggie. In lontananza, uomini urlavano, martelli battevano; finalmente le verande e le finestre al primo piano della dimora venivano chiuse con fitte reti metalliche per tener fuori le mosche. Per anni Fee si era opposta, caparbia. Per quante potessero essere le mosche, le linee della casa non sarebbero mai state rovinate da antiestetiche zanzariere. Ma, quanto più la siccità continuava, tanto più le mosche aumentavano, finché, due settimane prima delle piogge, Fee non aveva ceduto e incaricato un'impresa di isolare tutti gli edifici dell'allevamento, non soltanto la dimora, ma anche tutti gli edifici annessi e gli alloggi del personale.
Dell'elettricità, però, non voleva saperne, sebbene sin dal 1915 esistesse un generatore, un «somaro», come lo chiamavano i tosatori, per fornire energia al capannone della tosatura. Drogheda senza la dolce luce diffusa delle lampade a petrolio? Impensabile! Tuttavia c'era una delle nuove cucine a gas che funzionava con bombole, e avevano inoltre adottato una dozzina di nuovi frigoriferi a kerosene. L'industria australiana non era ancora passata alla produzione del tempo di pace, ma, prima o poi, i nuovi elettrodomestici sarebbero arrivati.
«Meggie, perché non divorzi da Luke e non ti risposi?» domandò Fee, a un tratto. «Enoch Davies non esiterebbe un secondo a chiederti, non ha mai guardato nessun'altra.»
I begli occhi di Meggie osservarono meravigliati la madre. «Santo Cielo, Ma', credo proprio che tu mi stia parlando da donna a donna!»
Fee non sorrise, sorrideva di rado. «Be', se ormai non sei una donna, non lo sarai più. Direi che hai dimostrato di esserlo. E si vede che io sto invecchiando; mi sento portata alla loquacità.»
Meggie rise, felice per la confidenza di sua madre, e timorosa di distruggere quel nuovo stato d'animo. «È la pioggia, Ma'. Dev'essere stata la pioggia. Oh, non è meraviglioso rivedere l'erba a Drogheda, e prati verdi intorno alla casa?»
«Sì. Ma tu stai evitando di rispondere alla mia domanda. Perché non divorzi da Luke e non ti risposi?»
«Lo vietano le leggi della Chiesa.»
«Bubbole!» esclamò Fee, ma con dolcezza. «Una metà di te viene da me, e io non sono cattolica. Non cercare di darmela a bere, Meggie. Se davvero tu ci tenessi a maritarti, divorzieresti da Luke.»
«Sì, presumo di sì. Ma non voglio rimaritarmi. Sono felicissima con i miei bambini e con Drogheda.»
Una risatina assai simile alla sua echeggiò tra i cespugli ornamentali lì accanto, le cui pendule campanelle scarlatte celavano chi era stato a ridere.
«Ma sentilo! È Dane! Lo sai che alla sua età sa cavalcare bene quanto me?» Meggie si sporse. «Dane! Che cosa stai combinando? Esci immediatamente di lì!»
Il bambino strisciò fuori di sotto il cespuglio più vicino, le mani piene di terra nera, con nere macchie sospette tutto intorno alla bocca.
«Mammina! Lo sapevi che la terra ha un buon sapore? Davvero, mammina, sul serio!»
Si avvicinò e rimase in piedi davanti a lei; a sette anni, era alto, snello, robusto ma aggraziato, e la pelle del suo viso ricordava lo smalto delicato della porcellana.
Apparve anche Justine e venne a metterglisi accanto. Pure lei era alta, ma magra più che snella, e coperta di lentiggini. Si stentava a vedere come fossero le sue vere fattezze sotto le grandi chiazze brune, ma i suoi occhi snervanti continuavano a essere scialbi come nell'infanzia, e le sopracciglia e le ciglia color sabbia erano troppo chiare per poter spiccare tra le lentiggini. Trecce del rosso acceso di Paddy tumultuavano con una massa di riccioli ribelli intorno al viso, che faceva pensare a un folletto. Nessuno avrebbe potuto dire che fosse una bella bambina, ma nessuno poteva non accorgersi di lei, non soltanto a causa degli occhi, ma anche perché possedeva una straordinaria forza di carattere. Severa, schietta, irriducibilmente cerebrale, a otto anni Justine si curava ben poco di quel che gli altri pensassero di lei, come nella prima infanzia. Una sola persona le era molto cara: Dane. Continuava ad adorarlo, e continuava a considerarlo sua proprietà.
E questo aveva causato molti scontri tra lei e sua madre. Era stato un brutto colpo per Justine quando Meggie, riposta la sella, aveva ricominciato a essere una madre. In primo luogo sembrava che Justine non avesse bisogno della mamma, in quanto era persuasa di avere ragione in ogni cosa. Né era una di quelle bambine che sentono il bisogno di una confidente, o di affettuosa approvazione. Per quanto la concerneva, Meggie era soprattutto una persona che ostacolava il piacere datole da Dane. Andava molto più d'accordo con la nonna, che era proprio una di quelle creature che Justine apprezzava di tutto cuore: manteneva le distanze e presumeva che anche gli altri avessero un po' di buon senso.
«Glielo avevo detto di non mangiare la terra» esclamò ora la bambina.
«Be', non morirà per questo, Justine, ma non può nemmeno fargli bene.» Meggie si rivolse al figlio. «Dane, perché?»
Il bambino studiò gravemente la domanda. «Era lì, e così l'ho mangiata. Se facesse male, non dovrebbe anche avere un sapore cattivo? Invece è buona!»
«Non necessariamente» lo interruppe Justine, altezzosa. «Non ti capisco, Dane, proprio non ti capisco. Certe cose che hanno il migliore dei sapori sono le più velenose.»
«Dinne una!» la sfidò lui.
«La melassa!» esclamò lei, trionfante.
Dane si era sentito molto male dopo aver trovato un barattolo di melassa nella dispensa della signora Smith, e averla mangiata tutta. Ammise di essere stato toccato, ma controbatté. «Sono ancora qui, e dunque non può essere poi tanto velenosa.»
«Soltanto perché hai vomitato. Se non avessi vomitato, saresti morto.»
Questo era incontrovertibile. Lui e sua sorella avevano press'a poco la stessa statura, e così egli infilò il braccio, amichevolmente, sotto quello di Justine e insieme si diressero saltellando attraverso il prato verso la loro casa in miniatura, costruita dagli zii secondo le loro istruzioni, tra i penduli rami di un albero del pepe. Il pericolo delle api aveva fatto sì che gli adulti fossero contrari a quel luogo, ma era poi risultato che i bambini avevano ragione. Le api coabitavano con loro amichevolmente. Infatti, dicevano i bambini, gli alberi del pepe erano i più simpatici di tutti, molto intimi. Avevano un odore fragrante e asciutto, e i loro grappoli di minuscoli globuli rosei si sbriciolavano in friabili e pungenti fiocchi rosa quando venivano schiacciati nella mano.
«Sono così diversi l'uno dall'altra, eppure vanno tanto d'accordo» osservò Meggie. «La cosa non finisce mai di stupirmi. Credo di non averli mai visti litigare, sebbene non riesca a capire come Dane possa evitare i litigi con un tipo deciso e cocciuto come Justine.»
Ma Fee aveva qualcos'altro in mente. «Signore Iddio, è il ritratto vivente di suo padre» disse, osservando Dane che si chinava sotto le fronde più basse dell'albero del pepe e scompariva.
Meggie si sentì gelare, una reazione riflessa che, sebbene sentisse dire la stessa cosa da anni, ancora non l'aveva abbandonata. Era soltanto il suo senso di colpa, naturalmente. La gente si riferiva sempre a Luke. Perché no? Esistevano somiglianze fondamentali tra Luke O'Neill e Ralph de Bricassart. Ma, per quanto si sforzasse, non riusciva mai a essere del tutto naturale quando udiva fare commenti sulla somiglianza di Dane col padre.
Sospirò con studiata noncuranza. «Credi, Ma'?» domandò e, con noncuranza, fece dondolare il piede. «Per quanto mi concerne, non riesco mai a vederlo. Dane non somiglia affatto a Luke per l'indole o l'atteggiamento nei confronti della vita.»
Fee rise. Parve quasi un nitrito, ma era un'autentica risata. Schiariti dall'età e dalla minaccia della cataratta, i suoi occhi si posarono sulla faccia stupita di Meggie, severi e ironici. «Mi prendi per una stupida, Meggie? Non mi riferisco a Luke O'Neill. Voglio dire che Dane è il ritratto vivente di Ralph de Bricassart.»
Piombo. Meggie sentì che il piede le era diventato di piombo. Cadde sulle piastrelle spagnole; tutto il suo corpo, di piombo, si afflosciò, e il cuore, di piombo, entro il petto, lottò contro il proprio peso enorme, per battere. Batti, maledizione a te, batti! Devi continuare a battere per mio figlio!
«Come, Ma'!» Anche la sua voce sembrava di piombo. «Oh bella, Ma', che cosa straordinaria da dire! Padre Ralph de Bricassart?»
«Quante persone conosci che portano questo nome? Luke O'Neill non ha mai generato quel ragazzo; Dane è figlio di Ralph de Bricassart. Lo capii non appena lo tolsi fuori da te, quando nacque.»
«Allora... perché non hai detto qualcosa? Perché aspettare che lui abbia sette anni per muovere un'accusa così pazzesca e infondata?»
Fee allungò le gambe e con grazia le accavallò all'altezza delle caviglie. «Sto invecchiando, finalmente, Meggie. E le cose non mi addolorano più tanto come un tempo. Quale benedizione può essere la vecchiaia! È così bello vedere Drogheda rivivere, che mi sento meglio anche dentro di me per questo. Per la prima volta da anni ho voglia di parlare.»
«Bene, devo dire che quando ti va di parlare sai davvero come scegliere gli argomenti! Ma', non hai assolutamente alcun diritto di dire una cosa simile. Non è vero!» esclamò Meggie, disperatamente, non sapendo bene se sua madre volesse torturarla o commiserarla.
A un tratto, la mano di Fee si portò avanti, si posò sul ginocchio di Meggie, e Fee sorrise... non amaramente, o con disprezzo, ma con curiosa comprensione. «Non mentire a me, Meggie. Menti con chiunque altro sotto il sole, ma non mentire a me. Niente potrà mai persuadermi che fu Luke O'Neill a generare quel ragazzo. Non sono stupida, ho gli occhi. Non c'è nulla di Luke in lui, non c'è mai stato perché non poteva esserci. Dane è il ritratto del prete. Guardagli le mani, e come gli crescono i capelli a punta al centro della fronte, e la struttura della faccia, le sopracciglia, la bocca. Persino il modo di muoversi. Ralph de Bricassart, Meggie, Ralph de Bricassart.»
Meggie si arrese, e l'enormità del suo sollievo trasparì dal modo con il quale sedeva, rilassata, adesso, sciolta. «L'espressione remota degli occhi. È questo che io noto, soprattutto. È così manifesto? Lo sanno tutti, Ma'?»
«No di certo» dichiarò Fee, recisamente. «La gente non guarda più in là del colore degli occhi, della forma del naso, dell'aspetto in generale. Che somiglia abbastanza a quello di Luke. Io l'ho capito perché ho osservato te e Ralph de Bricassart per anni. Gli sarebbe bastato farti cenno con il mignolo e saresti corsa da lui, quindi lascia stare il tuo "è contro le leggi della Chiesa" quando si tratta di divorziare. Non vedevi l'ora di violare una legge della Chiesa di gran lunga più seria di quella concernente il divorzio. Spudorata, Meggie, ecco che cosa sei stata. Una spudorata!» Una nota di durezza le si insinuò nella voce. «Ma lui era un uomo cocciuto. Aveva deciso di essere un sacerdote perfetto, e tu venivi di gran lunga al secondo posto. Oh, che idiozia! Non gli è servito a niente, non è così? Era solo questione di tempo prima che accadesse qualcosa.»
Al di là dell'angolo della veranda, qualcuno lasciò cadere un martello, e si lasciò sfuggire una sequela di bestemmie; Fee trasalì, rabbrividì. «Santo Cielo, come sarò contenta quando avranno finito con quelle zanzariere!» Poi tornò sull'argomento. «Credevi di avermi ingannata quando non volesti che Ralph de Bricassart celebrasse il tuo matrimonio con Luke? Io sapevo. Avresti voluto che lui fosse lo sposo, non il sacerdote officiante. Poi, quando venne a Drogheda prima di partire per Atene, e tu non stavi qui, capii che, prima o poi, sarebbe stato costretto a venire a cercarti. Si aggirava per la casa smarrito come un bambino alla fiera di Sydney. Sposare Luke fu la mossa più scaltra che tu abbia fatto, Meggie. Finché seppe che ti stavi struggendo per lui, Ralph non ti volle, ma, non appena divenisti la donna di un altro, manifestò tutti i classici sintomi di chi vuole impedire ad altri di godersi ciò cui egli non può arrivare. Naturalmente, si era persuaso che il suo affetto per te avesse la stessa purezza della neve vergine, ma restava il fatto che di te non poteva fare a meno. Tu gli eri necessaria come nessun'altra donna nel suo passato e, presumo, nel suo futuro. Strano» continuò Fee, realmente interdetta. «Mi sono sempre domandata che cosa vedesse in te, in nome del Cielo, ma suppongo che le madri siano sempre un po' cieche per quanto concerne le loro figlie, finché non invecchiano troppo per continuare a essere gelose della gioventù. Così è con te nei riguardi di Justine, come è stato con me nei tuoi riguardi.»
Si appoggiò alla spalliera della poltroncina, dondolandosi appena, gli occhi socchiusi, ma continuò a osservare Meggie come uno scienziato può osservare qualche esemplare.
«Qualsiasi cosa vedesse in te» continuò «la vide sin dalla prima volta che ti conobbe, e non smise mai di incantarlo. La cosa più difficile che dovette affrontare fu la tua crescita, ma l'affrontò la volta che venne qui e seppe come tu fossi partita, come ti fossi maritata. Povero Ralph! Non gli restava altro da fare che cercarti. E ti trovò, non è così? Lo capii quando tornasti a casa prima della nascita di Dane. Poiché avevi avuto Ralph de Bricassart, non ti era più necessario restare con Luke.»
«Sì» sospirò Meggie. «Ralph mi trovò. Ma questo non poteva risolvere niente per noi due, ti pare? Sapevo che non sarebbe mai stato disposto a rinunciare a Dio. Per questo motivo ero decisa ad avere la sola parte di lui che mi sarebbe mai potuta appartenere. Suo figlio. Dane.»
«È come ascoltare un'eco» disse Fee, con la sua risata rugginosa. «Avrei potuto dire io le stesse parole.»
«Frank?»
La poltroncina raschiò; Fee si alzò, camminò sulle piastrelle, tornò indietro e fissò intensamente sua figlia. «Bene, bene! Pan per focaccia, eh, Meggie? Da quanto tempo lo sai, tu?»
«Sin da quando ero una bimbetta. Sin da quella volta che Frank fuggì.»
«Suo padre aveva già moglie. Era molto più anziano di me, un importante uomo politico. Se ti dicessi come si chiamava, te ne renderesti conto. Ci sono vie che hanno il suo nome in tutta la Nuova Zelanda, e anche una o due cittadine, forse. Ma, tanto per dargli un nome, lo chiamerò Pakeha. È la parola maori che significa "uomo bianco", ma può andare. È morto, ormai, naturalmente. In me c'è una traccia di sangue maori, ma il padre di Frank era maori per metà. In Frank lo si vedeva perché aveva ereditato il sangue maori da entrambi. Oh, come amai quell'uomo! Forse era il richiamo del sangue, non lo so. Un bell'uomo. Un uomo robusto, con una zazzera di capelli neri, e gli occhi neri più vividi e ridenti che possano esistere. Era tutto ciò che Paddy non poteva essere... colto, sofisticato, affascinante. Io me ne innamorai alla follia. E credetti che non avrei mai amato nessun altro; continuai a cullarmi in questa illusione così a lungo che me ne liberai troppo tardi, troppo tardi!» La voce le mancò. Si voltò a contemplare il giardino. «Ho molte colpe, Meggie, credimi.»
«Per questo, allora, volevi bene a Frank più che a tutti noi» disse Meggie.
«Credevo che così fosse, perché lui era il figlio di Pakeha e gli altri appartenevano a Paddy.» Si rimise a sedere e si lasciò sfuggire un gemito strano, luttuoso. «Così, la storia si ripete. Risi dentro di me quando vidi Dane, te lo assicuro.»
«Ma', sei una donna straordinaria!»
«Tu credi?» La poltroncina cigolò; ella si sporse in avanti. «Consentimi di bisbigliarti un piccolo segreto, Meggie. Straordinaria, o semplicemente comune, sono una donna molto infelice. Per una ragione o per l'altra, sono stata infelice dal giorno in cui conobbi Pakeha. Quasi sempre per colpa mia. Lo amavo, ma quello che egli mi fece non dovrebbe accadere ad alcuna donna. E poi ci fu Frank... continuai ad avvinghiarmi a Frank e a ignorare tutti voi. A ignorare Paddy, il quale era la cosa migliore che mi fosse mai capitata. Ma non me ne rendevo conto. Ero troppo impegnata nel paragonarlo a Pakeha. Oh, gli ero grata, e non potevo non capire che brav'uomo fosse...» Fece spallucce. «Oh, be', è tutta acqua passata. Volevo dirti che hai sbagliato, Meggie. Lo sai, non è vero?»
«No, affatto. A mio modo di vedere, è la Chiesa a sbagliare, pretendendo anche questo dai suoi sacerdoti.»
«È strano che pensiamo sempre alla Chiesa al femminile. Tu hai rubato l'uomo di un'altra donna, Meggie, né più né meno come me.»
«Ralph non aveva assolutamente alcun legame con alcuna donna, eccettuata me. La Chiesa non è una donna, Ma', è una cosa, un'istituzione.»
«Non darti la pena di cercare di giustificarti con me. So già tutto. Anch'io la pensavo come te, un tempo. Il divorzio, per lui, era fuori questione. Si trattava del primo esponente della sua razza che avesse conseguito la grandezza politica; doveva scegliere tra me e il suo popolo. Quale uomo avrebbe potuto resistere a una simile occasione di essere nobile? Proprio come il tuo Ralph scelse la Chiesa, no? Così mi dissi: non importa, avrò da lui quello che posso avere, avrò almeno suo figlio da amare.»
Ma, a un tratto, Meggie fu troppo impegnata nell'odiare sua madre per poterla compatire, fu troppo impegnata nel risentirsi a causa dell'allusione che l'accusava di aver combinato un disastro altrettanto grande. Pertanto disse: «Solo che io ti ho superata di gran lunga in sottigliezza, Ma'. Mio figlio ha un nome che nessuno può togliergli, compreso Luke.»
Il respiro di Fee sibilò tra i denti. «Disgustoso! Oh, quanto sai essere falsa, Meggie! Una santarellina, eh? Bene, mio padre mi comprò un marito per dare un nome a Frank e liberarsi di me. Scommetto che questo non lo sapevi! Lo sapevi? Come l'hai saputo?»
«Questo è affar mio.»
«La pagherai, Meggie. Credi a me, dovrai pagare. Non te la passerai liscia più di quanto abbia potuto passarmela liscia io. Io ho perduto Frank nel modo peggiore che possa toccare a una madre; non mi è nemmeno consentito vederlo, e lo desidero tanto... Aspetta! Anche tu perderai Dane.»
«No, se potrò evitarlo. Tu hai perduto Frank perché non poteva andare d'accordo con Pa'. Io mi sono accertata che Dane non venisse imbrigliato da un padre. Lo imbriglierò io, invece, a Drogheda. Perché credi che stia già facendo di lui un guardiano? A Drogheda sarà al sicuro.»
«Lo è stato Pa', forse? Lo è stato Stuart? Non esistono luoghi sicuri. E non riuscirai a trattenere Dane, se vorrà andarsene. Pa' non riuscì a imbrigliare Frank. Proprio così. Frank non poteva essere imbrigliato. E se credi che tu, una donna, potrai imbrigliare il figlio di Ralph de Bricassart, farai meglio a cambiare idea. È logico, del resto, no? Se nessuna di noi due è riuscita a trattenere il padre, come possiamo sperare di trattenere il figlio?»
«Potrò perdere Dane in un solo modo: se tu non terrai la bocca chiusa, Ma'. E ti avverto: prima ti ucciderei.»
«Non preoccuparti, non vale la pena di farsi impiccare per me. Il tuo segreto è al sicuro. Io sono soltanto una spettatrice interessata. Sì, proprio così, non sono altro: una spettatrice.»
«Oh, Ma'! Che cosa può averti ridotta così? Perché sei così, tanto riluttante a dare?»
Fee sospirò. «Avvenimenti svoltisi anni prima che tu nascessi» disse in tono patetico.
Ma Meggie agitò il pugno con veemenza. «Oh, no, non è vero! Dopo quello che mi hai appena detto? Non te la caverai mai più con me continuando a fustigare quel cavallo morto! Storie, storie, storie! Mi senti, Ma'? Ci hai sguazzato per tutta la vita, come una mosca nello sciroppo!»
Fee le rivolse un ampio sorriso, sinceramente soddisfatta. «Un tempo pensavo che avere una figlia femmina non fosse importante come avere figli maschi, ma mi sbagliavo. Io ti godo, Meggie, come non potrò mai godere i miei figli. Una femmina è una tua pari. I maschi non lo sono, sai. Sono solamente pupazzi indifesi che mettiamo in piedi soltanto per poterli buttare giù a nostro piacere.»
Meggie la fissò con gli occhi spalancati. «Sei spietata. Ma dimmi, allora, in che cosa sbagliamo?»
«Nascendo» rispose Fee.
Gli uomini stavano tornando in patria a migliaia e migliaia, si liberavano delle uniformi kaki e dei berretti, per indossare di nuovo abiti civili. E il governo laburista, ancora in carica, rivolse la propria attenzione alle grandi proprietà delle pianure occidentali e ad alcuni dei più grandi allevamenti meno lontani. Non era giusto che tanta terra appartenesse a una sola famiglia, mentre uomini che avevano fatto il loro dovere per l'Australia avevano bisogno di spazio per sistemarsi e al paese occorreva uno sfruttamento più intensivo del suolo. Sei milioni di persone popolavano una superficie vasta come quella degli Stati Uniti d'America, ma soltanto un pugno di questi sei milioni di individui possedeva vaste estensioni di territorio. Le più grandi proprietà dovevano essere suddivise, dovevano cedere parte della loro superficie ai reduci di guerra.
Bugela passò da centocinquantamila acri a settantamila; due reduci ebbero quarantamila acri per ciascuno da Martin King. Rudna Hunish aveva un'estensione di centoventimila acri e, di conseguenza, Ross MacMCQueen perdette sessantamila acri, che andarono ad altri due reduci. E così via. Naturalmente, il governo compensò gli allevatori, anche se con cifre più basse di quelle che le terre avrebbero fruttato sul libero mercato. E fu doloroso. Oh, se fu doloroso. Nessun ragionamento riuscì a prevalere a Canberra. Le proprietà vaste come Bugela e Rudna Hunish dovevano essere frazionate. Ovviamente, nessun uomo aveva bisogno di tanto terreno, in quanto nel distretto di Gilly esistevano molti prosperi allevamenti con una superficie inferiore ai cinquantamila acri.
Ma ancor più dolorosa fu la consapevolezza che, questa volta, i reduci sembravano voler perseverare. Dopo la prima guerra mondiale, quasi tutti i grandi allevamenti erano stati analogamente frazionati ma con pessimi risultati, in quanto i neoallevatori non avevano alcuna esperienza; e, a poco a poco, i proprietari avevano riacquistato gli acri loro sottratti, a prezzi rovinosi per i reduci scoraggiati. Questa volta, però, il governo era deciso ad addestrare e preparare a proprie spese i nuovi allevatori.
Quasi tutti i proprietari di terre erano iscritti al Country Party e, per principio, odiavano il governo laburista in quanto lo identificavano con le classi impiegatizie delle città industriali, con i sindacati, e con gli inetti intellettuali marxisti. La cosa più esasperante fu il constatare che i Cleary, i quali, come era risaputo, votavano per il partito laburista, non avrebbero dovuto rinunciare a un solo acro della formidabile estensione di Drogheda. Poiché l'allevamento apparteneva alla Chiesa cattolica, era esonerato dal frazionamento. Gli urli di protesta giunsero fino a Canberra, ma vennero ignorati. Fu un durissimo colpo per gli allevatori che avevano sempre creduto di essere il gruppo più potente della nazione quanto a influenza politica constatare che chi deteneva lo scettro del potere a Canberra potesse fare ciò che più gli piaceva, o quasi. L'organizzazione dell'Australia era fortemente centralizzata, e i governi dei vari Stati non avevano virtualmente alcun potere.
Così, come un gigante in un mondo di lillipuziani, Drogheda continuò a esistere, con tutto il suo quarto di milione di acri.
Le piogge venivano e cessavano, talora sufficienti, talora troppo abbondanti, talora troppo scarse, ma non vi fu più, grazie a Dio, un altro flagello come la grande siccità. A poco a poco il numero delle pecore aumentò e la qualità della lana migliorò, superando quella dei tempi pre-siccità, il che non era una cosa da poco. Produrre capi selezionati era di moda. La gente parlava di Haddon Rig, vicino a Warren, e cominciava a emulare il suo proprietario, Max Falkiner, nel presentare i migliori arieti e le più belle pecore alla Royal Easter Show di Sydney. Il prezzo della lana cominciò a salire, dapprima gradualmente, per poi arrivare alle stelle. L'Europa, gli Stati Uniti e il Giappone erano avidi di ogni fiocco di buona lana che l'Australia fosse in grado di produrre. Altri paesi vendevano lana più ruvida per stoffe pesanti, tappeti, feltri; ma soltanto le lunghe e seriche fibre delle merino australiane potevano dar luogo a tessuti così fini da scivolare tra le dita come l'erba del prato più soffice. E quel tipo di lana raggiungeva il culmine della qualità sulle pianure di terra nera a nord-ovest del Nuovo Galles del Sud e a sud-ovest del Queensland.
Fu come se, dopo tanti anni di tribolazioni, fosse arrivata la giusta ricompensa. Gli utili di Drogheda aumentarono al di là di ogni immaginazione. Milioni di sterline ogni anno. Fee sedeva alla sua scrivania irradiando contentezza e Bob assunse altri due guardiani. Se non fosse stato per i conigli selvatici, la situazione dell'allevamento si sarebbe potuta definire ideale, ma i conigli continuavano a essere un flagello, come sempre.
Nella grande dimora la vita divenne a un tratto molto piacevole. Le zanzariere avevano escluso le mosche da ogni ambiente, e adesso che erano state applicate e tutti avevano finito con l'abituarsi al loro aspetto, ognuno si domandava come avessero potuto sopravvivere senza di esse. Infatti, la loro antiesteticità era compensata in molti modi: potevano, per esempio, consumare i pasti al fresco sulla veranda, quando faceva molto caldo, sotto il fogliame del glicine.
Le zanzariere piacevano anche alle raganelle. Erano piccole creature, verdi, con delicate e brillanti sfumature d'oro. Con le loro zampe a ventosa, si arrampicavano all'esterno delle fini reti metalliche e, immobili, fissavano i commensali, solenni e dignitose. Improvvisamente, una spiccava un salto, afferrava una falena quasi più grossa di lei, e tornava all'immobilità, con la falena che batteva le ali disperatamente, fuori per due terzi dalla bocca troppo ingombra. Dane e Justine si divertivano a calcolare il tempo che impiegava una raganella a inghiottire completamente una grossa falena, fissandoli con aria grave attraverso la zanzariera, e inghiottendo un pezzetto di falena ogni dieci minuti. L'insetto sopravviveva a lungo, e spesso continuava a zampettare anche quando l'ultima estremità dell'ala scompariva entro la bocca.
«Perdiana! Che brutta fine!» ridacchiava Dane. «Pensa un po', essere ancora vivo per metà, mentre l'altra metà di te è già stata digerita!»
Avide letture - la passione di Drogheda - avevano fatto sì che i due O'Neill, già in tenera età, conoscessero un gran numero di vocaboli. Erano intelligenti, svegli e si interessavano a tutto. Trovavano la vita particolarmente piacevole. Disponevano di ponies purosangue, che crescevano insieme a loro; sopportavano con pazienza le lezioni per corrispondenza al tavolo verde di cucina della signora Smith; si divertivano nella casa in miniatura sotto l'albero del pepe; avevano gatti, cani, persino un goanna, che camminava mirabilmente al guinzaglio e rispondeva quando veniva chiamato. Il loro beniamino prediletto era un minuscolo porcellino roseo, intelligente quanto un cane, chiamato Iggle-Piggle.
Lontani dall'affollamento delle grandi città, si ammalavano di rado, e mai di raffreddori o di influenza. Meggie era terrorizzata dalla paralisi infantile, dalla difterite, da tutto ciò che avrebbe potuto avventarsi su di loro dal nulla e portarli via, per cui i due bambini vennero vaccinati con tutti i vaccini disponibili.
Quando Dane aveva dieci anni e Justine undici, furono mandati entrambi in collegio a Sydney, Dane al Riverview, come esigeva la tradizione, e Justine al Kincoppal. Allorché li fece salire per la prima volta sull'aereo, Meggie rimase a guardare mentre i loro pallidi visetti, coraggiosamente composti, guardavano fuori di un finestrino, e i fazzoletti venivano sventolati. Prima di allora non si erano mai allontanati da casa. Avrebbe desiderato moltissimo accompagnarli, vedere con i suoi occhi come sarebbero stati sistemati, ma tutti le si erano messi contro con tanta decisione che aveva finito con il rassegnarsi. Da Fee a Jims e a Patsy, tutti erano del parere che se la sarebbero cavata molto meglio da soli.
«Non li viziare» diceva Fee, con severità.
Ma, invero, le parve di essere due persone diverse mentre il DMCc-3 decollava in un nuvolone di polvere e oscillava nell'aria baluginante. Le si stava spezzando il cuore per la partenza di Dane, e al contempo era lieta al pensiero di separarsi da Justine. Non esisteva alcuna ambivalenza nei suoi sentimenti per Dane; la sua indole allegra e placida dava e accettava affetto con la stessa naturalezza con cui si respira. Ma Justine era un amabile, orribile mostro. Non si poteva non amarla, perché c'era molto da amare: la sua forza, la sua lealtà, la sua fiducia in se stessa... ma il guaio stava nel fatto che ella non consentiva mai a Meggie di provare la meravigliosa sensazione di essere necessaria. Non era socievole, non amava scherzare, aveva la pessima abitudine di demolire tutti, e più che altro sua madre. Meggie trovava in lei molte delle stesse cose che la esasperavano in Luke, ma Justine, per lo meno, non era tirchia. E di questo bisognava ringraziare Dio.
Una linea aerea con un gran numero di voli significava che tutte le vacanze di Dane e Justine, anche quelle più brevi, potevano essere trascorse a Drogheda. Tuttavia, dopo un periodo iniziale di adattamento, entrambi i bambini si trovarono bene in collegio. Dane aveva sempre la nostalgia di casa, dopo un ritorno a Drogheda, ma Justine si abituò a Sydney come se ci avesse sempre vissuto, e trascorreva il tempo a Drogheda anelando a tornare in città. I gesuiti del Riverview erano soddisfattissimi; Dane risultava essere un allievo meraviglioso, in aula e nei campi sportivi. Le suore del Kincoppal, d'altro canto, erano tutt'altro che soddisfatte; nessuna bambina con gli occhi penetranti e la lingua tagliente di Justine avrebbe mai potuto sperare di riscuotere simpatie e di essere benvoluta. Una classe più avanti, ella era probabilmente un'allieva migliore di Dane, ma soltanto in aula.
Il Sydney Morning Herald del 4 agosto 1952 fu un numero molto interessante. In prima pagina di rado figurava più di una fotografia, di solito al centro, per illustrare la notizia importante del giorno. E, quel 4 agosto, la fotografia era uno splendido ritratto di Ralph de Bricassart.
«L'Arcivescovo Ralph de Bricassart, attuale assistente del Segretario di Stato della Santa Sede, è stato oggi creato Cardinale da Sua Santità Pio XII.
«Ralph Raoul, Cardinale de Bricassart, ha percorso una lunga e illustre carriera nella Chiesa Cattolica Romana in Australia, dal suo arrivo, subito dopo essere stato ordinato sacerdote, nel luglio del 1919, alla partenza per il Vaticano, nel marzo del 1938.
«Nato il 23 settembre 1893, nella Repubblica d'Irlanda, il Cardinale de Bricassart è il secondogenito di una famiglia che discende dal barone Ranulf de Bricassart, giunto in Inghilterra al seguito di Guglielmo il Conquistatore. Per una tradizione familiare, il Cardinale de Bricassart entrò a far parte della Chiesa. In seminario a diciassette anni, una volta ordinato sacerdote fu inviato in Australia. I primi mesi li trascorse come segretario del defunto Vescovo Michael Clabby, nella diocesi di Winnemurra.
«Nel giugno del 1920 divenne parroco della parrocchia di Gillanbone, nel nord-ovest del Nuovo Galles del Sud. Fu creato Monsignore e rimase a Gillanbone fino al dicembre del 1928. Divenne poi segretario privato di Sua Eccellenza l'Arcivescovo Cluny Dark, e infine segretario privato del Legato pontificio, Sua Eminenza il Cardinale Contini-Verchese. In quel periodo fu creato Vescovo. Quando il Cardinale Contini-Verchese venne trasferito a Roma per iniziare la sua luminosa carriera in Vaticano, il Vescovo de Bricassart fu creato Arcivescovo e tornò in Australia da Atene, egli stesso come Legato pontificio. Mantenne questa importante carica fino al suo trasferimento a Roma, nel 1938; da allora, la sua ascesa nella gerarchia della Chiesa Cattolica Romana è stata spettacolare. Corre voce che ora, all'età di cinquantotto anni, sia uno dei pochi uomini che contribuiscono attivamente alla politica papale.
«Un inviato del Sydney Morning Herald ha parlato ieri con alcuni ex parrocchiani del Cardinale de Bricassart nel distretto di Gillanbone. Egli è ricordato da tutti e con molto affetto. Quel ricco distretto di allevatori di pecore è, per la massima parte, cattolico.
«"Padre de Bricassart fondò l'Associazione Bibliofila Santa Croce della Boscaglia" ci ha detto il signor Harry Gough, sindaco di Gillanbone. "Fu – soprattutto per quei tempi - un importante servizio pubblico, splendidamente finanziato, all'inizio, dalla defunta signora Carson, e, dopo la morte di lei, dallo stesso Cardinale, che non ha mai dimenticato le nostre necessità."
«"Padre de Bricassart era il più bell'uomo ch'io abbia mai veduto" ha detto la signora Fiona Cleary, che amministra attualmente Drogheda, uno dei più vasti e più prosperi allevamenti del Nuovo Galles del Sud. "Mentre si trovava a Gilly, fu di grande conforto spirituale per i suoi parrocchiani, e in particolare per noi a Drogheda che, come lei sa, appartiene ora alla Chiesa Cattolica. Durante le alluvioni ci aiutava a spostare le greggi, durante gli incendi veniva in nostro soccorso, sia pur soltanto per seppellire le vittime. Era, in effetti, un uomo straordinario sotto ogni aspetto e possedeva più fascino di qualsiasi persona io abbia mai conosciuto. Si capiva che era fatto per grandi cose. Lo ricordiamo bene, sebbene ci abbia lasciati da più di vent'anni. Sì, credo si possa dire, in tutta sincerità, che egli continua a mancare moltissimo ad alcune persone nel distretto di Gilly."
«Durante la guerra, l'allora Arcivescovo de Bricassart ha servito lealmente e instancabilmente Sua Santità, e si attribuisce a lui il merito di aver persuaso il Feldmaresciallo Albert Kesselring a dichiarare Roma città aperta, dopo che l'Italia si era schierata tra i nemici della Germania. Firenze, che invano chiese lo stesso privilegio, perdette molti dei suoi tesori, restituiti in seguito soltanto perché la Germania era stata sconfitta. Nel periodo immediatamente successivo al termine del conflitto, il Cardinale de Bricassart aiutò migliaia di profughi a trovare asilo in altri paesi e fu particolarmente energico nel favorire il piano di immigrazione in Australia.
«Sebbene per nascita egli sia irlandese, e sebbene, a quanto pare, non voglia far sentire il suo ascendente in quanto Cardinale de Bricassart in Australia, riteniamo che, in vasta misura, l'Australia possa a buon diritto rivendicare questo grande uomo come un suo figlio.»
Meggie restituì il giornale a Fee e sorrise malinconicamente alla madre.
«Ci si deve congratulare con lui, come hai detto al cronista dello Herald. Ma questo non lo hanno stampato, eh? Sebbene abbiano pubblicato quasi alla lettera il tuo piccolo elogio. Che lingua tagliente hai. Ora, per lo meno, so da chi l'ha presa Justine. Mi domando quante persone saranno così scaltre da leggere tra le righe di quanto hai detto.»
«Lui lo sarà, in ogni caso, se le leggerà.»
«Chissà se si ricorda di noi?» sospirò Meggie.
«Senza alcun dubbio. In fin dei conti, trova ancora il tempo di amministrare personalmente Drogheda. Certo che si ricorda di noi, Meggie. Come potrebbe dimenticare?»
«È vero, non avevo pensato a Drogheda. Noi ci troviamo qui, da dove provengono gli utili, no? Dev'essere molto soddisfatto. Con la nostra lana a una sterlina per libbra, nelle aste, le rendite di Drogheda, quest'anno, devono aver fatto sfigurare anche le miniere d'oro. Altro che Toson d'Oro! Più di quattro milioni di sterline, soltanto con la tosatura delle pecore.»
«Non essere cinica, Meggie, non ti si addice» disse Fee; i suoi modi nei riguardi della figlia, in quel periodo, sebbene spesso blandamente caustici, erano temperati dal rispetto e dall'affetto. «Ce la siamo cavati abbastanza bene, no? Non dimenticare che veniamo pagati tutti gli anni, siano buoni o cattivi. E inoltre, Ralph non ha versato centomila sterline a Bob, come premio, e a noi cinquantamila? Se domani ci cacciasse da Drogheda, potremmo permetterci di acquistare Bugela, anche con i prezzi inflazionati che ha oggi la terra. E quanto ha dato ai tuoi figli? Migliaia e migliaia di sterline. Sii giusta nei suoi riguardi.»
«Ma i miei figli non lo sanno e non dovranno saperlo. Dane e Justine cresceranno con la convinzione di doversi fare strada da soli, senza l'aiuto del caro Ralph Raoul, Cardinale de Bricassart. Strano che il suo secondo nome sia Raoul! Molto normanno, non ti sembra?»
Fee si alzò, si avvicinò al fuoco e gettò sulle fiamme la prima pagina dello Herald. La faccia di Ralph Raoul, Cardinale de Bricassart, fremette, la fissò ammiccando, poi si accartocciò.
«Che cosa farai se tornerà qui, Meggie?»
Meggie sbuffò. «È molto improbabile.»
«Potrebbe tornare» disse Fee, enigmatica.
E Ralph tornò, in dicembre. In gran segreto, senza che nessuno lo sapesse, guidando personalmente un'automobile sportiva Aston Martin sin da Sydney. Non una parola sulla sua presenza in Australia era apparsa sulla stampa, per cui nessuno a Drogheda aveva la più pallida idea che potesse arrivare. Quando l'automobile si fermò nello spiazzo inghiaiato accanto alla casa, non c'era nessuno, lì attorno, e, a quanto pareva, nessuno lo aveva veduto arrivare, poiché nessuno uscì sulla veranda.
Egli aveva sentito i chilometri, a partire da Gilly, in ogni cellula del corpo, mentre aspirava gli odori della boscaglia, delle pecore, dell'erba asciutta che splendeva irrequieta al sole. Canguri ed emù, galah e goanna, milioni di insetti che ronzavano e si agitavano, formiche che marciavano attraverso la strada in fitte colonne, grasse pecore dappertutto. Amava tanto quei luoghi, perché, curiosamente, si conformavano a ciò che egli amava in ogni cosa; il trascorrere degli anni sembrava quasi non sfiorarli.
L'unica diversità era costituita dalle zanzariere, ma notò divertito che Fee non aveva fatto chiudere la grande veranda che dava sulla strada di Gilly, ma solo le finestre che davano sulla veranda. Aveva avuto ragione, naturalmente; una vasta estensione di rete metallica avrebbe rovinato le linee di quella splendida facciata georgiana. Quanto vivevano gli eucalipti? Dovevano essere stati trapiantati dal «cuore dell'interno», ottant'anni prima. I rami più alti delle buganvillee erano una massa invadente color rame e viola.
Era già estate; mancavano due settimane a Natale, e le rose di Drogheda erano al culmine della fioritura. C'erano rose dappertutto, rosa e bianche e gialle, cremisi come il sangue che sprizza dal cuore, scarlatte come la veste di un Cardinale. Tra il glicine, per il momento verde, rose rampicanti sonnecchiavano rosa e bianche, pendevano dal tetto della veranda e giù per la rete metallica, aderivano amorosamente alle imposte scure del primo piano, protendevano sarmenti oltre a esse, verso il cielo. I sostegni delle cisterne erano nascosti dalle rose, ormai, e così le cisterne stesse. E un colore dominava ovunque tra le rose, un pallido rosa-grigio. Cenere di rose? Sì, così si chiamava quel colore. Doveva essere stata Meggie a piantarle, non poteva non essere stata lei.
Udì la risata di Meggie, e rimase immobile, completamente terrorizzato, poi costrinse i propri piedi ad andare nella direzione del suono, ridottosi ormai a deliziosi trilli argentini. Proprio come soleva ridere da bambina. Ecco da dove veniva il suono! Era laggiù, dietro un grande ammasso di rose di un rosa-grigio, accanto a un albero del pepe. Scostò i gruppi di fiori con la mano, inebriato dal loro profumo e da quelle risa.
Ma Meggie non era lì, c'era soltanto un ragazzo accosciato sul prato lussureggiante e intento a stuzzicare un porcellino rosa, che stupidamente gli correva incontro, poi galoppava via e tornava indietro. Ignaro di essere osservato, il ragazzo arrovesciò il capo splendente e rise. La stessa risata di Meggie. Senza volerlo, il Cardinale Ralph lasciò ricadere le rose e si fece avanti, noncurante delle spine. Il ragazzo, sui tredici o quattordici anni, appena nella pre-pubertà, alzò gli occhi stupito; il maialino strillò, arrotolò la coda e fuggì.
Era scalzo, e indossava soltanto un vecchio paio di calzoncini kaki; aveva la pelle di un bruno-dorato e serica, e un corpo snello, le spalle quadrate, i muscoli ben sviluppati dei polpacci e delle cosce, il ventre piatto e i fianchi stretti. Aveva i capelli un po' troppo lunghi e mollemente ricciuti, esattamente dello stesso colore attenuato dell'erba di Drogheda, e gli occhi, ombreggiati da ciglia folte e nere, erano intensamente azzurri. Sembrava un angelo fuggito dal Paradiso.
«Salve» disse, sorridendo.
«Salve» disse il Cardinale Ralph, trovando impossibile resistere al fascino di quel sorriso. «Chi sei?»
«Sono Dane O'Neill» rispose il ragazzo. «E lei chi è?»
«Mi chiamo Ralph de Bricassart.»
Dane O'Neill. Era il figlio di Meggie, allora. Dunque ella non aveva lasciato Luke, era tornata con lui, e aveva messo al mondo quel meraviglioso fanciullo che avrebbe potuto essere suo, se lui non avesse sposato prima la Chiesa. Quanti anni aveva avuto, quando si era sposato con la Chiesa? Non molti più del ragazzo. Se avesse aspettato, il ragazzo avrebbe potuto senz'altro essere suo. Che assurdità, Cardinale de Bricassart! Se tu non avessi sposato la Chiesa, saresti rimasto in Irlanda ad allevare cavalli, e non avresti mai conosciuto il tuo fato, non avresti mai conosciuto Drogheda o Meggie Cleary.
«Posso esserle utile?» domandò il ragazzo, educatamente, alzandosi in piedi con l'agile grazia di Meggie.
«Tuo padre si trova qui, Dane?»
«Mio padre?» Le sopracciglia scure, finemente disegnate, si aggrottarono. «No, non è qui, non è mai stato qui.»
«Oh, capisco. C'è tua madre, allora?»
«È a Gilly, ma tornerà presto. In casa c'è la nonna, però. Vuole parlare con lei? Posso accompagnarla.» Gli occhi, azzurri come fiordalisi, lo fissarono, dapprima spalancati, poi socchiusi. «Ralph de Bricassart. L'ho già sentita nominare. Oh! Il Cardinale de Bricassart! Eminenza, mi scusi! Sono stato ineducato senza volerlo.»
Sebbene Ralph avesse rinunciato alle vesti clericali a favore degli stivali, dei calzoni al ginocchio e di una camicia bianca, portava sempre al dito l'anello con rubino che non doveva mai essere tolto finché fosse stato in vita. Dane O'Neill si inginocchiò, prese la mano esile del Cardinale Ralph tra le sue, altrettanto esili, e baciò l'anello con riverenza.
«Non preoccuparti, Dane. Non sono qui come il Cardinale de Bricassart. Sono qui come un amico di tua madre e di tua nonna.»
«Mi scusi, Eminenza, avrei dovuto riconoscere il suo nome appena l'ho udito. Parliamo abbastanza spesso di lei, qui. Soltanto che lo ha pronunciato in un modo un po' diverso, e il nome di battesimo mi ha sviato. Mia madre sarà contenta di vederla, lo so.»
«Dane, Dane, dove sei?» chiamò una voce impaziente, molto profonda e incantevolmente rauca.
I rami spioventi dell'albero del pepe si separarono e una ragazza sui quindici anni si chinò, poi si raddrizzò. Ralph capì immediatamente chi ella fosse, da quegli occhi stupefacenti. La figlia di Meggie. Coperta di lentiggini grosse come monetine da un penny, con un viso aguzzo, dai lineamenti minuti, diversa in modo deludente da Meggie.
«Oh, salve. Chiedo scusa. Non sapevo che avessimo un ospite. Sono Justine O'Neill.»
«Jussy, questi è il Cardinale de Bricassart!» bisbigliò Dane. «Baciagli l'anello!»
Gli occhi che sembravano ciechi balenarono disprezzo. «Sei davvero picchiato per la religione, Dane» disse la ragazza, senza darsi la pena di abbassare la voce. «Baciare un anello non è igienico; non lo farò. Del resto, come sappiamo che costui è il Cardinale de Bricassart? A me sembra un allevatore all'antica. Sai, come il signor Gordon.»
«Lo è, lo è!» insistette Dane. «Ti prego, Jussy, sii buona! Sii buona per me!»
«Sarò buona, ma soltanto per te. Però non gli bacerò l'anello, nemmeno per farti piacere. È disgustoso. Come posso sapere chi lo ha baciato prima? Potrebbe aver avuto il raffreddore.»
«Puoi fare a meno di baciarmi l'anello, Justine. Mi trovo qui in vacanza; per il momento non sono un Cardinale.»
«Meglio così, perché, glielo dico francamente, io sono atea» asserì placida la figlia di Meggie Cleary. «Dopo quattro anni al Kincoppal, penso che la religione sia tutta un mucchio di balle.»
«Hai il diritto di pensarla come vuoi» disse il Cardinale Ralph, sforzandosi disperatamente di sembrare dignitoso e serio come lei. «Posso andare a cercare la nonna?»
«Naturale. Ha bisogno di noi?» domandò Justine.
«No, grazie. Conosco la strada.»
«Bene.» Ella si voltò verso il fratello, che ancora guardava a bocca aperta il visitatore. «Su, vieni, Dane, dammi una mano. Avanti, vieni!»
Ma, sebbene Justine lo stesse trascinando per un braccio, Dane continuò a seguire con lo sguardo la figura alta e diritta del Cardinale che scompariva dietro le rose.
«Sei proprio uno scemo, Dane. Che cosa c'è di tanto speciale in lui?»
«È un Cardinale!» esclamò. «Pensa un po'! Un vero Cardinale, in carne e ossa, a Drogheda!»
«I Cardinali» disse Justine «sono i Principi della Chiesa. Forse hai ragione, è davvero straordinario. Ma quell'uomo non mi piace.»
Dove mai poteva trovarsi Fee, se non alla sua scrivania? Egli entrò nel salotto scavalcando una finestra, ma per far ciò bisognava aprire una zanzariera. Fee doveva averlo udito, eppure continuò a lavorare, la schiena curva, i bei capelli dorati divenuti di un argento cremoso. A stento Ralph ricordò che ormai doveva avere settantadue anni.
«Salve, Fee» disse.
Quando ella alzò il capo, vide il mutamento intervenuto in lei, sebbene non potesse sapere con certezza quale ne fosse l'esatta natura; c'era sempre l'indifferenza, ma c'erano numerose altre cose. Come se Fee si fosse raddolcita e indurita contemporaneamente, e fosse divenuta più umana, ma umana alla maniera di Mary Carson. Dio, quelle matriarche di Drogheda! Sarebbe accaduto anche a Meggie, quando fosse venuto il suo turno?
«Salve, Ralph» disse lei, come se egli entrasse ogni giorno scavalcando la finestra. «Che piacere vederla.»
«È un piacere anche per me.»
«Non sapevo che fosse in Australia.»
«Non lo sa nessuno. Ho alcune settimane di vacanza.»
«Sarà nostro ospite, spero.»
«E di chi altri?» Lo sguardo di lui passò sulle magnifiche pareti e indugiò sul ritratto di Mary Carson. «Sa, Fee, il suo gusto è impeccabile, infallibile. Questa stanza può rivaleggiare con qualsiasi ambiente del Vaticano. Quegli ovali neri con le rose sono un colpo di genio.»
«Oh, grazie! Cerchiamo di fare umilmente del nostro meglio. Personalmente, preferisco la sala da pranzo; l'ho fatta modificare, dopo l'ultima volta che venne qui. In rosa, bianco e verde. A sentirlo, sembra orribile, ma aspetti di averla veduta. Anche se poi non so davvero perché mi applico a queste cose. La casa è sua, no?»
«No, finché rimarrà un Cleary in vita, Fee» disse lui, sommessamente.
«Davvero consolante. Bene, lei ha fatto strada dai tempi di Gilly, no? Ha letto l'articolo dello Herald sulla sua promozione?»
Egli trasalì. «Sì. Le si è affilata la lingua, Fee.»
«Sì, e, oltretutto, la cosa mi diverte. Per quanti anni sono rimasta chiusa in me stessa, senza mai dire una parola! Non sapevo cosa perdevo.» Sorrise. «Meggie è andata a Gilly, ma tornerà presto.»
Dane e Justine entrarono scavalcando una finestra.
«Nonna, possiamo andare a cavallo fino al pozzo artesiano?»
«Conoscete le regole. Niente equitazione se non siete autorizzati personalmente da vostra madre. Mi dispiace, ma questi sono i suoi ordini. E che fine hanno fatto le vostre buone maniere? Venite avanti e presentatevi al nostro ospite.»
«Li ho già conosciuti.»
«Oh.»
«Ma non dovresti essere in collegio?» disse Ralph a Dane, sorridendo.
«Non in dicembre, Eminenza. Abbiamo due mesi di vacanza... le vacanze estive.»
Era rimasto assente per troppi anni; aveva dimenticato che i ragazzi dell'emisfero australe si godevano le lunghe vacanze estive nei mesi di dicembre e gennaio.
«Rimarrà qui a lungo, Eminenza?» domandò Dane, sempre affascinato.
«Sua Eminenza rimarrà con noi fino a quando potrà, Dane» disse sua nonna «ma credo che troverà un po' fastidioso sentirsi dar continuamente dell'Eminenza. Come potrete chiamarlo? Zio Ralph?»
«Zio!» esclamò Justine. «Sai bene che in famiglia nessuno vuol esser chiamato zio, nonna! I nostri zii li chiamiamo semplicemente Bob, Jack, Hughie, Jims e Patsy. Quindi lui dovremo chiamarlo Ralph!»
«Non essere così villana, Justine! Dove sono finite le tue buone maniere?» la rimproverò Fee.
«No, Fee, va benissimo così. Preferirei davvero che tutti mi chiamassero semplicemente Ralph» si affrettò a dire il Cardinale. Perché lo aveva tanto in antipatia, quella ragazzina bizzarra?
«Non potrei mai!» balbettò Dane. «Non potrei chiamarla semplicemente Ralph!»
Il Cardinale attraversò la stanza, appoggiò le mani sulle sue spalle nude e sorrise, con gli occhi azzurri molto buoni e vividi nel salotto in penombra. «Certo che puoi, Dane. Non è un peccato.»
«Vieni via, Dane, torniamo alla nostra casetta» gli ordinò Justine.
Il Cardinale Ralph e suo figlio si voltarono verso Fee e la guardarono insieme.
«Dio ci scampi!» disse Fee. «Va', Dane, va' fuori a giocare, eh?» Poi batté le mani. «Vuoi filare?» Il ragazzo corse via e Fee si voltò verso i registri. Il Cardinale Ralph ebbe compassione di lei e annunciò che sarebbe andato in cucina. Quanto poco era cambiata la grande dimora! Sempre illuminata con lampade a petrolio, ovviamente. Sempre odorosa di cera d'api e di grandi mazzi di rose.
Si trattenne a lungo a conversare con la signora Smith e le cameriere. Erano molto invecchiate durante la sua assenza, ma, in un certo senso, la vecchiaia si addiceva più a loro che a Fee. Felici. Ecco che cos'erano. Autenticamente, quasi perfettamente felici. Povera Fee, che felice non era. Questo lo rese impaziente di vedere Meggie, di constatare se lei fosse felice.
Ma quando uscì dalla cucina, Meggie non era ancora tornata, e così, per far passare il tempo, si incamminò verso il torrente. Com'era tranquillo il cimitero! C'erano sei targhe di bronzo nel mausoleo, né più né meno come l'ultima volta. Doveva fare in modo che seppellissero anche lui lì; doveva ricordarsi di impartire le istruzioni necessarie, una volta tornato a Roma. Vicino al mausoleo vide due nuove tombe, quella del vecchio Tom, e quella della moglie di uno dei guardiani, che figurava sui libri paga da tempo immemorabile. Doveva essere una sorta di primato. La signora Smith riteneva che l'uomo continuasse a restare con loro perché sua moglie era sepolta lì. L'ombrello del cuoco cinese era completamente scolorito dopo tanti anni di sole feroce; dall'originario rosso imperiale era passato, attraverso tutti gli stadi che egli ricordava, all'attuale bianco-roseo, un colore quasi simile al «cenere di rose». Meggie, Meggie. Sei tornata con lui dopo di me, gli hai dato un figlio.
Faceva molto caldo; si alzò un po' di vento, smosse i salici piangenti lungo il torrente e fece suonare alle campanelline sull'ombrello del cuoco cinese il loro luttuoso, argentino motivo: Hee Sing, Hee Sing. Tankstand Charlie Era Un Brav'Uomo. Anche questa scritta aveva finito col cancellarsi, era praticamente indecifrabile. Be', meglio così. I cimiteri dovrebbero affondare nel seno della Madre Terra, perdere il loro carico umano sotto un diluvio di tempo, finché tutto non sia scomparso e soltanto l'aria possa ricordare, sospirando. Non voleva essere seppellito in una cripta del Vaticano, tra uomini come lui. No. Lì, tra persone che avevano realmente vissuto.
Mentre si voltava, intravide lo sguardo glauco dell'angelo di marmo. Alzò una mano, lo salutò, poi guardò, oltre l'erba, nella direzione della grande casa. Ed ecco che lei stava venendo, Meggie. Snella, dorata, con calzoni da cavallerizza e una camicetta bianca, esattamente come era vestito lui, e un cappello di feltro grigio, da uomo, piazzato sulla nuca, e stivali marrone. Come un ragazzo, come il figlio di lei che avrebbe dovuto essere suo figlio. Era un uomo, ma, quando lo avessero sepolto lì, come gli altri, non sarebbe rimasto niente ad attestarlo.
Ella venne avanti, scavalcò la cancellata bianca, gli si fece così vicina che poté vederne soltanto gli occhi, quegli occhi grigi, quegli occhi pieni di luce che non avevano perduto la bellezza, né la loro presa sul suo cuore. Gli gettò le braccia al collo, e lui sentì di avere di nuovo il proprio destino nelle mani, era come se non si fosse mai allontanato da lei; quella bocca viva sotto la sua, non un sogno: così a lungo desiderata, così a lungo. Un genere diverso di sacramento, scuro come la terra, senza nulla a che vedere con il cielo.
«Meggie, Meggie» disse, la faccia nei suoi capelli, le braccia intorno a lei, il cappello di lei sull'erba.
«Sembra non avere importanza, vero? Niente mai cambia» ella disse, gli occhi chiusi.
«No, niente cambia» approvò lui, credendoci.
«Qui siamo a Drogheda, Ralph. Ti avevo avvertito, a Drogheda appartieni a me, non a Dio.»
«Lo so. Lo ammetto. Ma sono venuto ugualmente.» La trasse sull'erba. «Perché, Meggie?»
«Perché, cosa?» Con la mano gli stava accarezzando i capelli, più bianchi di quelli di Fee, ormai, ma sempre folti, sempre belli.
«Perché sei tornata con Luke? Perché gli hai dato un figlio?» egli domandò, nel tono della gelosia.
L'anima di lei guardò attraverso le lucenti finestre grigie e gli sottrasse i propri pensieri, velandoli. «Mi ci costrinse» disse Meggie, blanda. «Fu una sola volta. Ma ebbi Dane, e pertanto non mi dispiace. Dane vale tutto quello che sopportai per averlo.»
«Scusami, non avevo il diritto di domandartelo. Fui io a darti a Luke, del resto, non è così?»
«È vero, è così.»
«È un ragazzo meraviglioso. Somiglia a Luke?»
Ella sorrise dentro di sé, strappò uno stelo d'erba, gli infilò la mano sotto la camicia, contro il petto. «In realtà no. Nessuno dei miei figli somiglia molto a Luke o a me.»
«Li amo perché sono tuoi.»
«Sei sentimentale, come sempre. La vecchiaia ti si addice, Ralph. Sapevo che sarebbe stato così, e speravo di poter avere il modo di constatarlo. Sono trent'anni che ti conosco! Sembrano trenta giorni.»
«Trent'anni? Tanti così?»
«Ho quarantun anni, mio caro, quindi non posso sbagliare.» Si rimise in piedi. «Ufficialmente sono stata mandata per condurti in casa. La signora Smith sta apparecchiando uno splendido tè in tuo onore, e in seguito, quando farà un po' più fresco, avremo cosciotto di maiale arrosto, con una quantità di ciccioli.»
Egli cominciò a camminare accanto a lei, adagio. «Tuo figlio ride esattamente come te, Meggie. La sua risata è stata il primo suono umano che ho udito a Drogheda. Credevo che fossi tu. Sono venuto a cercarti e ho trovato lui, invece.»
«Sicché Dane è stato la prima persona che hai veduto qui.»
«Be', sì, direi.»
«Che cosa hai pensato di lui, Ralph?» ella domandò, avidamente.
«Mi è piaciuto. Come avrebbe potuto non piacermi, se è tuo figlio? Ma mi sono sentito attratto da lui molto fortemente, assai più che da tua figlia. E anch'io non le riesco simpatico.»
«Justine potrebbe essere la mia adorata bambina, ma è un mostro. Ho imparato a bestemmiare nella vecchiaia soprattutto grazie a Justine. E a te, un poco. E a Luke, un poco. E alla guerra, un poco. Strano come tutte queste cose si assommino.»
«Sei molto cambiata, Meggie.»
«Davvero?» La bocca soffice, piena, si incurvò in un sorriso. «Non credo, in realtà. È soltanto il Grande Nord-Ovest che mi logora, togliendomi uno strato dopo l'altro, come i sette veli di Salomè. O come una cipolla; Justine preferirebbe esprimersi così. Non c'è poesia, in quella bambina. No, sono sempre la stessa Meggie, Ralph, soltanto più nuda.»
«Forse è così.»
«Ah, ma tu sì, sei cambiato, Ralph.»
«In che modo, Meggie mia?»
«Come se il piedistallo dondolasse a ogni brezza fuggevole, e come se la veduta di lassù fosse una delusione.»
«È vero.» Egli rise silenziosamente. «E pensare che una volta ebbi la temerità di giudicarti per nulla fuori del comune! Mi rimangio quelle parole. Tu sei l'unica donna, Meggie. L'unica!»
«Che cosa è accaduto?»
«Non lo so. Ho forse scoperto che anche gli idoli della Chiesa hanno i piedi d'argilla? Ho venduto me stesso per un piatto di lenticchie? Sto afferrando il nulla?» Aggrottò le sopracciglia, come se soffrisse. «Sì, in nuce, forse si tratta di questo. Sono un mucchio di clichés. Il Vaticano è un vecchio mondo bisbetico e pietrificato.»
«Io ero più reale, ma tu non hai mai saputo rendertene conto.»
«Non potevo fare altro, davvero! Sapevo da che parte sarei dovuto andare, ma non mi era possibile. Con te avrei potuto essere un uomo migliore, anche se meno augusto. Ma non mi fu assolutamente possibile, Meggie. Oh, vorrei poter fartelo capire!»
La mano di lei gli scivolò lungo il braccio nudo, con tenerezza. «Caro Ralph, lo capisco. Lo so, lo so... Ognuno di noi ha qualcosa in sé che non vuole essere negato, anche a costo di farci urlare che vogliamo morire. Siamo quello che siamo, ecco tutto. Come l'antica leggenda celtica dell'uccello con la spina nel petto, che canta fino a spaccarsi il cuore e muore. Perché non può farne a meno, vi è costretto. Possiamo renderci conto che sbagliamo ancor prima di sbagliare, ma la consapevolezza non può né influenzare, né modificare l'esito, non è così? Tutti intonano la loro piccola canzone, persuasi che sia la canzone più meravigliosa del mondo. Non capisci? Creiamo le nostre stesse spine, e non ci soffermiamo mai a tener conto del costo. Possiamo soltanto subire la sofferenza e dire a noi stessi che ne valeva la pena.»
«È questo che non capisco. La sofferenza.» Le sbirciò la mano, posata con tanta dolcezza sul suo braccio, e che pure lo faceva soffrire in modo così intollerabile. «Perché la sofferenza, Meggie?»
«Domandalo a Dio, Ralph» disse Meggie. «È Lui l'esperto in fatto di dolore, no? È stato Lui a fare di noi quello che siamo. Ha creato l'universo. Per conseguenza, ha creato anche il dolore.»
Bob, Jack, Hughie, Jims e Patsy vennero a casa per la cena, in quanto era la sera di un sabato. L'indomani Padre Watty sarebbe dovuto arrivare per celebrare la Messa, ma Bob gli telefonò e disse che non avrebbe trovato nessuno in casa. Una spudorata menzogna per assicurare l'anonimato al Cardinale Ralph. I cinque Cleary maschi somigliavano come non mai a Paddy, più anziani, più lenti nel parlare, fermi e resistenti come la terra. E quanto bene volevano a Dane! I loro sguardi sembravano non abbandonarlo mai, lo seguirono persino quando uscì dalla stanza per andare a coricarsi. Non era difficile capire che vivevano in attesa del giorno in cui sarebbe stato grande abbastanza per unirsi a loro nel mandare avanti Drogheda.
Il Cardinale Ralph aveva scoperto, inoltre, il motivo dell'ostilità di Justine. Dane si era incapricciato di lui, pendeva dalle sue labbra, cercava di restargli sempre accanto; e lei era ovviamente gelosa.
Quando i ragazzi furono saliti di sopra, Ralph guardò coloro che restavano: i fratelli, Meggie, Fee.
«Fee, trascuri la sua scrivania per un momento» disse. «Venga a sedersi con noi. Voglio parlare a tutti.»
Fee si conservava ancora bene e non aveva perduto la snellezza delle forme, aveva soltanto i seni un po' più flaccidi, la vita lievemente meno sottile; un mutamento dovuto più alla vecchiaia che a vera e propria obesità. Silenziosa, sedette su una delle ampie poltrone color crema, di fronte al Cardinale, con Meggie da un lato e i fratelli sulle panche di pietra lì accanto.
«Si tratta di Frank» egli disse.
Il nome rimase sospeso tra loro, e parve echeggiare in lontananza.
«Che cosa ha da dirci di Frank?» domandò Fee, compostamente.
Meggie posò il lavoro a maglia, guardò sua madre, poi il Cardinale Ralph. «Parli, Ralph» disse in tono incalzante, incapace di sopportare la compostezza di sua madre per un solo momento di più.
«Frank ha scontato quasi trent'anni di carcere, ve ne rendete conto?» disse il Cardinale. «So che i miei incaricati vi hanno tenuto al corrente, come eravamo d'accordo, ma li avevo pregati di non tormentarvi inutilmente. Francamente, non vedevo come avrebbe potuto giovare a Frank, o a voi, conoscere i particolari strazianti della sua solitudine e della sua disperazione, perché nessuno di noi avrebbe potuto comunque fare niente. Credo che Frank sarebbe stato liberato già da alcuni anni, se non si fosse fatto una reputazione di violenza e di instabilità durante i primi anni nella prigione di Goulburn. Anche durante la guerra, quando alcuni detenuti vennero liberati e arruolati, ciò a lui fu negato.»
Fee smise di fissarsi le mani e alzò gli occhi. «È la sua indole irascibile» disse, spassionatamente.
Il Cardinale parve incontrare qualche difficoltà nel trovare le parole giuste; mentre le cercava, la famiglia lo osservò con un misto di paura e di speranza, sebbene non fosse il benessere di Frank a preoccuparla.
«Deve avervi lasciati molto interdetti la ragione per cui sono tornato in Australia dopo tanti anni» disse infine il Cardinale Ralph, senza guardare Meggie. «Non sempre ho seguito la vostra vita, e lo so. Dal giorno in cui vi conobbi, ho sempre pensato anzitutto a me stesso, ho anteposto me stesso a voi. E quando il Santo Padre premiò le mie fatiche a favore della Chiesa con la porpora cardinalizia, domandai a me stesso se avrei potuto rendere alla famiglia Cleary un servigio che, in qualche modo, potesse farle capire quanto mi stava a cuore.» Trasse un profondo respiro e fissò Fee, non Meggie. «Sono tornato in Australia per vedere che cosa avrei potuto fare a favore di Frank. Ricorda, Fee, la volta che le parlai, dopo la morte di Paddy e di Stu? Fu vent'anni fa, e non sono mai riuscito a dimenticare l'espressione dei suoi occhi. Tanta energia e tanta vitalità schiacciate.»
«Sì» disse Bob, in tono brusco, senza distogliere lo sguardo da sua madre. «Sì, è così.»
«Frank sarà liberato» disse il Cardinale. «Soltanto in questo modo avrei potuto dimostrarvi quanto mi state a cuore.»
Se si era aspettato che un improvviso, abbacinante lampo di luce scaturisse dalle lunghe tenebre di Fee, rimase molto deluso; a tutta prima, non vi fu più che un fioco barlume, e forse il peso dell'età non avrebbe mai consentito che brillasse in tutto il suo splendore. Ma negli occhi dei figli di Fee egli vide quella luce in tutta la sua intensità, e lo pervase un senso della propria missione quale non aveva più sentito da quella volta, durante la guerra, in cui aveva parlato con il giovane soldato tedesco dal nome imponente.
«Grazie» disse Fee.
«Lo ospiterete volentieri qui a Drogheda?» domandò ai Cleary figli.
«Questa è casa sua. È qui che dovrebbe essere» rispose Bob, indirettamente.
Annuirono tutti per esprimere il loro assenso, tranne Fee, che sembrava assorta in una visione tutta sua.
«Non è più lo stesso Frank» continuò il Cardinale Ralph, con dolcezza. «Prima di venire qui gli ho fatto visita nella prigione di Goulburn per dargli la notizia, e gli ho rivelato che tutti a Drogheda avevano sempre saputo cosa gli era successo. Se vi dirò che non se l'è presa a male, questo potrà darvi un'idea del cambiamento intervenuto in lui. Si è dimostrato semplicemente... grato. Ed è così ansioso di rivedere la sua famiglia, specie lei, Fee...»
«Quando lo libereranno?» domandò Bob, dopo essersi schiarito la voce, mentre la contentezza per sua madre veniva ovviamente alle prese con il timore di quello che sarebbe potuto accadere al ritorno di Frank.
«Tra una settimana o due. Arriverà col treno postale della notte. Volevo che venisse in aereo, ma ha detto di preferire il treno.»
«Patsy e io andremo ad aspettarlo alla stazione» si offrì Jims con entusiasmo, poi si rabbuiò in viso. «Oh! Non sappiamo che aspetto abbia!»
«No» disse Fee. «Ci andrò io, da sola. La vecchiaia non mi ha ancora rimbambita. Sono ancora in grado di guidare la macchina fino a Gilly.»
«Ma' ha ragione» approvò Meggie con fermezza, prevenendo un coro di proteste da parte dei fratelli. «Lasciate che Ma' gli vada incontro da sola. È lei che deve vederlo per prima.»
«Bene, ora ho del lavoro da sbrigare» disse Fee, bruscamente, alzandosi e avvicinandosi alla scrivania.
I cinque fratelli si alzarono tutti insieme. «E io credo che per noi sia l'ora di coricarci» disse Bob, sbadigliando ostentatamente. Sorrise con timidezza al Cardinale Ralph. «Sarà come ai bei tempi, sentirla celebrare la Messa per noi, domattina.»
Meggie piegò il lavoro a maglia, lo mise via e si alzò. «Le auguro anch'io la buonanotte, Ralph.»
«Buonanotte, Meggie.» La seguì con lo sguardo mentre usciva dal salotto, poi si voltò verso la schiena ingobbita di Fee. «Buonanotte, Fee.»
«Come, scusi? Ha detto qualcosa?»
«Le ho augurato la buonanotte.»
«Oh! Buonanotte, Ralph.»
Lui non voleva salire di sopra così subito dopo Meggie. «Andrò a fare una passeggiata prima di coricarmi, credo. Sa una cosa, Fee?»
«No.» Il tono della voce era assente.
«Lei non mi incanta nemmeno per un momento.»
Ella sbuffò una risata, un suono irreale. «Ah, no? Me lo domando.»
La tarda sera, e le stelle. Le stelle del sud, che ruotavano nel firmamento. Aveva perduto per sempre la presa sulle stelle, sebbene fossero ancora lì, troppo remote per riscaldare, troppo remote per consolare. Più vicine a Dio, che era un qualcosa di inafferrabile tra esse. Per molto tempo rimase in piedi a contemplarle, ascoltando il vento tra gli alberi, sorridendo.
Non volendo passare accanto a Fee, si servì della rampa di scale in fondo alla casa; la lampada sulla scrivania di lei era ancora accesa, e vide la sua sagoma curva, intenta al lavoro. Povera Fee. Quanto doveva paventare l'idea di andare a letto; ma forse, dopo il ritorno di Frank, tutto sarebbe stato più facile. Forse.
In cima alle scale, il silenzio gli venne incontro denso; una lampada di cristallo, su un tavolinetto nel corridoio, diffondeva un fioco alone di luce, baluginando mentre la brezza della notte faceva gonfiare le tende della finestra. Egli passò accanto alla lampada e i suoi passi sul tappeto spesso non fecero alcun rumore.
La porta della stanza di Meggie era spalancata e illuminava il corridoio di luce ancora più intensa; Ralph si accostò la porta alle spalle e la chiuse a chiave. Ella aveva indossato un'ampia veste da camera e sedeva su una poltroncina accanto alla finestra, contemplando, fuori, l'invisibile Home Paddock; ma voltò la testa a guardarlo mentre andava verso il letto e si sedeva sulla sponda. Lentamente Meggie si alzò e gli si avvicinò.
«Qua, ti aiuterò a cavarti gli stivali. È questa la ragione per cui non metto mai gli stivali alti. Non è possibile toglierli senza il cavastivali, e i cavastivali li rovinano.»
«Hai scelto deliberatamente questo colore, Meggie?»
«Cenere di rose?» Gli sorrise. «È sempre stato il mio colore prediletto. Non stona con quello dei capelli.»
«Eri così sicura che sarei venuto da te, Meggie?»
«Te l'ho detto. A Drogheda appartieni a me. Se non fossi stato tu a venire, sarei venuta io da te, stanne certo.» Gli sfilò la camicia dalla testa, e per un momento, con una sensibilità voluttuosa, gli posò la mano sulla schiena nuda; poi si avvicinò alla lampada e la spense mentre lui appoggiava i suoi vestiti sulla spalliera di una sedia. Ralph la udì muoversi e togliersi la vestaglia. E domani celebrerò la Messa! Ma questo è domani, e la magia è scomparsa da un pezzo. Rimangono ancora la notte, e Meggie. L'ho desiderata. Anche lei è un sacramento.
Dane era deluso. «Credevo che portasse una tonaca rossa!» disse.
«A volte la porto, Dane, ma soltanto entro le mura del palazzo. Fuori, porto una tonaca nera con una fascia rossa, come questa.»
«Ha davvero un palazzo?»
«Sì.».
«È pieno di candelabri?»
«Sì, ma anche Drogheda ne è piena.»
«Oh, Drogheda!» fece Dane, con disgusto. «Scommetto che i nostri sono piccoli, in confronto ai suoi. Mi piacerebbe vedere il suo palazzo, e lei con la tonaca rossa.»
Il Cardinale Ralph sorrise. «Chissà, Dane? Forse un giorno mi vedrai.»
Il ragazzo aveva sempre, nel fondo degli occhi, una curiosa espressione, un'espressione remota. Quando si voltò, mentre celebrava la Messa, il Cardinale Ralph la vide intensificata, ma non la riconobbe, ne sentì, semplicemente, la familiarità. Nessun uomo vede se stesso in uno specchio come realmente è, né alcuna donna.
Luddie e Anne Mueller dovevano arrivare per Natale, come tutti gli anni. La grande casa era piena di gente allegra, impaziente di festeggiare il più bel Natale da anni. Minnie e Cat canticchiavano, lavorando, la faccia paffuta della signora Smith si increspava di sorrisi, Meggie cedeva Dane al Cardinale Ralph senza fare commenti, diversamente da sua figlia, e Fee sembrava molto più felice, meno incollata alla scrivania. Gli uomini coglievano ogni pretesto per rientrare tutte le sere, in quanto, dopo una cena a tarda ora, il salotto ronzava di conversazioni, e la signora Smith aveva preso l'abitudine di preparare uno spuntino a mezzanotte: formaggio fuso su crostini abbrustoliti, pasticcini al burro appena sfornati e biscotti all'uva passa. Il Cardinale Ralph protestava, dicendo che tutto quel buon cibo lo faceva ingrassare, ma, dopo tre giorni all'aria aperta di Drogheda, tra la famiglia di Drogheda e con il cibo di Drogheda, sembrava cominciare a liberarsi dall'aspetto alquanto smagrito e sparuto che aveva avuto al suo arrivo.
Il quarto giorno, faceva molto caldo. Il Cardinale Ralph era andato con Dane a radunare un gregge di pecore, Justine se ne stava sola e imbronciata sotto l'albero del pepe, e Meggie si riposava su una sdraia di canne sulla veranda. Sentiva di avere le ossa molli, sazie, ed era molto felice. Una donna può far benissimo a meno dell'amore per molti anni di seguito, ma, quando si tratta dell'unico uomo, la cosa è meravigliosa. Quando stava con Ralph, ogni parte di lei viveva, tranne quella che apparteneva a Dane; il guaio era che, quando stava con Dane, ogni parte di lei viveva tranne quella che apparteneva a Ralph. Soltanto quando entrambi erano presenti contemporaneamente, come in quei giorni, si sentiva del tutto completa. D'altro canto, sembrava logico. Dane era suo figlio, ma Ralph era il suo uomo.
Ciononostante, una cosa turbava la sua felicità: Ralph non aveva capito. Di conseguenza, la bocca di lei rimaneva chiusa sul suo segreto. Se lui non era capace di rendersene conto, perché avrebbe dovuto dirglielo? Che cosa aveva mai fatto per meritare che lei glielo dicesse? E il fatto che l'avesse potuta credere, sia pur soltanto per un momento, capace di tornare con Luke di sua spontanea volontà era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Non meritava di saperlo, se poteva pensare questo di lei. A volte, Meggie sentiva gli occhi scialbi e ironici di Fee su di sé, e ricambiava lo sguardo, imperturbabile. Fee capiva davvero. Capiva il quasi-odio, il risentimento, il desiderio di vendicarsi degli anni di solitudine. Uno che inseguiva arcobaleni, ecco cos'era Ralph de Bricassart, e perché mai lei avrebbe dovuto fargli dono dell'arcobaleno più squisito d'ogni altro, di suo figlio? Che ne restasse privo. Che soffrisse, senza mai sapere di soffrire.
Il telefono squillò il segnale per Drogheda. Meggie ascoltò pigramente, poi, rendendosi conto che sua madre doveva trovarsi altrove, si alzò con riluttanza e andò a rispondere.
«La signora Fiona Cleary, per favore» disse una voce di uomo.
Quando Meggie ebbe detto chi era, Fee tornò e prese il ricevitore.
«Parla Fiona Cleary» disse, e rimase in piedi in ascolto, e il colore le defluì a poco a poco dalla faccia, rendendola identica a come era stata nei giorni successivi alla morte di Paddy e di Stu: minuscola e vulnerabile. «Grazie» disse poi, e riattaccò.
«Che cosa c'è, Ma'?»
«Frank è stato liberato. Arriverà nel pomeriggio, con il postale notturno.» Consultò l'orologio. «Dovrò partire tra poco; sono le due passate.»
«Lascia che venga con te» propose Meggie, così traboccante della propria felicità, da non sopportare di vedere sua madre delusa; intuiva, infatti, che quell'incontro non sarebbe stato pura gioia per Fee.
«No, Meggie, me la caverò benissimo da sola. Occupati tu di tutto, e rimanda la cena fino al mio ritorno.»
«Non è meraviglioso, Ma'? Frank torna a casa in tempo per Natale!»
«Sì» disse Fee. «È meraviglioso.»
Potendo approfittare dell'aereo, nessuno viaggiava più sul postale notturno, e così, quando il convoglio ebbe sferragliato per i novecentosessanta chilometri da Sydney, facendo scendere passeggeri - quasi tutti di seconda classe - in questo o in quell'altro piccolo centro, rimasero ben poche persone da portare fino a Gilly.
Il capostazione conosceva di vista la signora Cleary, ma non si sarebbe mai sognato di attaccare discorso con lei; si limitò a seguirla con lo sguardo mentre scendeva gli scalini di legno del cavalcavia e la lasciò sola, rigidamente in piedi, sull'alto marciapiede. Era anziana ma sempre elegante, pensò: vestito e cappello all'ultima moda, e scarpe dai tacchi alti. Un bel corpo, non molte rughe sul viso per una signora della sua età, il che stava a dimostrare quanto poteva giovare a una donna la vita comoda degli allevatori.
Frank riconobbe sua madre più in fretta di quanto fosse stato riconosciuto da lei, anche se ella non tardò a riconoscerlo con il cuore. Frank aveva cinquantadue anni, e durante la sua assenza era passato dalla gioventù all'età di mezzo. L'uomo in piedi nel tramonto di Gilly era troppo magro, quasi scarno; aveva i capelli tagliati a spazzola, indossava vestiti informi che pendevano su un corpo che, nonostante la piccola statura, dava un'impressione di forza, e le sue belle mani stringevano con forza la tesa di un cappello di feltro grigio. Non era curvo, né aveva un'aria malaticcia, ma continuava a rigirarsi il cappello tra le mani con un'aria indifesa e sembrava non aspettarsi che qualcuno fosse venuto a prenderlo.
Fee, dominandosi, percorse a passi rapidi il marciapiede.
«Ciao, Frank» disse.
Egli alzò gli occhi, che un tempo splendevano e balenavano tanto, e che ora erano infossati nella faccia di un uomo che stava invecchiando. Non parevano affatto gli occhi di Frank. Ma, mentre contemplavano Fee, un'espressione straordinaria vi affiorò, un'espressione ferita, estremamente indifesa, supplichevole come quella di un moribondo.
«Oh, Frank!» disse lei, e lo prese tra le braccia. «Va tutto bene, va tutto bene» sussurrò, e poi, ancor più dolcemente: «Va tutto bene!»
Dapprima egli sedette afflosciato e silenzioso sull'automobile, ma, mentre la Rolls-Royce accelerava e usciva dalla cittadina, cominciò a interessarsi a quanto lo circondava, e guardò fuori del finestrino.
«Sembra tutto esattamente identico» bisbigliò.
«Immagino di sì. Il tempo passa adagio, qui.»
Attraversarono il rumoroso ponte di assi di legno, gettato sul fiume sottile e melmoso lungo il quale si allineavano salici piangenti e il cui letto rimaneva quasi completamente a secco, tra un intrico di radici e ghiaia, con pozze che formavano immobili chiazze rossicce ed eucalipti che crescevano dappertutto sulle distese sassose.
«Il Barwon» disse lui. «Non avrei mai creduto di poterlo rivedere.»
Dietro di loro si alzava un'enorme nube di polvere, davanti a loro la strada si perdeva diritta come un'esercitazione di prospettiva attraverso la sconfinata, erbosa pianura priva di alberi.
«La strada è nuova, Ma'?» Frank sembrava disperatamente ansioso di trovare argomenti di conversazione, di far sì che la situazione sembrasse normale.
«Sì, l'hanno costruita da Gilly a Milparinka subito dopo la fine della guerra.»
«Avrebbero potuto asfaltarla, invece di lasciare la solita terra battuta.»
«A che scopo? Siamo abituati a mangiare polvere, qui, e pensa quanto sarebbe costato fare una massicciata abbastanza resistente per non essere portata via dal fango. La nuova strada è rettilinea, la mantengono in buone condizioni, e taglia fuori tredici dei nostri ventisette cancelli. Ne rimangono soltanto quattordici, tra Gilly e la grande dimora; aspetta e vedrai come li abbiamo modificati, Frank. Non sono più cancelli che occorre aprire e chiudere.»
La Rolls salì una rampa verso un cancello di acciaio che si sollevò pigramente; non appena l'automobile fu passata ed ebbe percorso qualche altro metro sulla pista, il cancello si abbassò, richiudendosi.
«Le meraviglie non finiscono mai!» disse Frank.
«Siamo stati il primo allevamento da queste parti a installare questi cancelli automatici a rampa... soltanto tra la strada di Milparinka e la casa, naturalmente. I cancelli dei recinti devono ancora essere aperti e richiusi a mano.»
«Be', immagino che chi li ha inventati debba averne aperti e chiusi parecchi ai suoi tempi, eh?» sorrise Frank; era la prima volta che sorrideva.
Poi ricadde nel silenzio, e per conseguenza sua madre si concentrò nella guida, non desiderando forzarlo. Quando passarono sotto l'ultimo cancello ed entrarono nello Home Paddock, lui trattenne udibilmente il respiro.
«Avevo dimenticato quanto fosse bella» disse.
«È la nostra casa» disse Fee. «Ne abbiamo sempre avuto cura.»
Portò la Rolls-Royce nell'autorimessa, poi tornò indietro con lui verso la grande dimora, ma questa volta Frank portò egli stesso la valigia.
«Preferisci una stanza nella grande casa, Frank, o un villino degli ospiti tutto per te?» domandò sua madre.
«Mi sistemerò in un villino, grazie.» Gli occhi esausti si soffermarono sul suo viso. «Sarà piacevole poter stare lontano dalla gente» spiegò. E questo fu il suo solo accenno al carcere.
«Sì, credo che ti ci troverai meglio» disse Fee, precedendolo nel salotto. «La grande casa è piena zeppa, per il momento; abbiamo qui il Cardinale, Dane e Justine stanno trascorrendo qui le vacanze e Luddie e Anne Mueller arriveranno dopodomani per Natale.» Tirò il cordone del campanello per ordinare il tè e silenziosamente fece il giro della stanza, accendendo le lampade a petrolio.
«Luddie e Anne Mueller?» domandò lui.
Fee si fermò, mentre regolava uno stoppino, e lo guardò. «È passato molto tempo, Frank. I Mueller sono amici di Meggie.» Dopo aver regolato in modo soddisfacente la lampada, sedette sulla poltrona a conchiglia. «Si cena tra un'ora, ma prima prenderemo una tazza di tè. Devo togliermi dalla bocca la polvere della strada.»
Frank sedette goffamente sull'orlo di una delle ottomane rivestite in seta color crema e contemplò con un'espressione reverenziale il salotto. «Sembra molto diverso dai tempi della zia Mary.»
Fee sorrise. «Be', sì, lo credo.»
Poi Meggie entrò e fu più difficile rendersi conto del fatto che Meggie era diventata una donna matura, di quanto lo fosse stato vedere vecchia sua madre. Mentre sua sorella lo abbracciava e lo baciava, Frank distolse la faccia, si fece piccolo entro la giacca troppo ampia, e cercò con lo sguardo, al di là di Meggie, Fee, che lo fissava dalla poltrona come per dire: non preoccuparti, tutto tornerà presto alla normalità, devi soltanto pazientare un po'. Un minuto dopo, mentre ancora stava sforzandosi di trovare qualcosa da dire a quell'estranea, sopraggiunse la figlia di Meggie: una ragazza alta, magra, che sedette rigidamente, lisciando con le grosse mani le pieghe del vestito, gli occhi chiari fissi ora su un volto, ora sull'altro. Era più avanti negli anni di quanto lo fosse stata Meggie quando lui se n'era andato di casa, pensò. Il figlio di Meggie entrò con il Cardinale e andò a sedersi sul pavimento accanto alla sorella, un ragazzo bellissimo, serenamente distaccato.
«Frank, è meraviglioso che tu sia qui» disse il Cardinale Ralph, stringendogli la mano, poi si voltò verso Fee, con il sopracciglio sinistro inarcato. «Una tazza di tè? Ottima idea.»
I fratelli Cleary entrarono insieme nella stanza, ma fu molto penoso, perché non lo avevano perdonato affatto. Frank sapeva perché: per quanto aveva fatto soffrire la mamma. Ma non sapeva che cosa avrebbe potuto dire per far capire loro qualcosa, né sarebbe stato capace di descrivere la sua sofferenza, la sua solitudine, e tanto meno di chiedere perdono. La sola che contasse davvero era sua madre, e lei non aveva mai pensato che ci fosse qualcosa da perdonare.
Fu il Cardinale a tentar di tenere insieme la serata, ad animare la conversazione a tavola, e, dopo cena, di nuovo in salotto, a chiacchierare con disinvoltura diplomatica e facendo in modo che anche Frank potesse intervenire.
«Bob, volevo domandartelo da quando sono arrivato... dove si nascondono i conigli selvatici?» disse il Cardinale. «Ho veduto milioni di tane, ma quasi mai un coniglio.»
«I conigli sono tutti morti» rispose Bob.
«Morti?»
«Esatto. Di una malattia chiamata mixomatosi. Tra i conigli e gli anni di siccità, nel millenovecentoquarantasette l'Australia era quasi finita come una delle massime nazioni produttrici. Eravamo ridotti alla disperazione» disse Bob, appassionandosi all'argomento e lieto di poter parlare di qualcosa che escludesse Frank.
Ma, proprio adesso, Frank, senza volerlo, provocò l'ostilità del fratello dicendo: «Sapevo che la situazione era grave, ma non fino a questo punto.» Poi si appoggiò alla spalliera della poltrona e sperò di aver fatto piacere al Cardinale dando il suo piccolo contributo alla conversazione.
«Be', non sto esagerando, mi creda!» esclamò Bob, piccato; come poteva saperlo Frank?
«Che cosa accadde?» si affrettò a domandare il Cardinale.
«Due anni fa, l'Organizzazione per le ricerche scientifiche e industriali del Commonwealth iniziò un programma sperimentale nella regione di Victoria inoculando ai conigli questo virus. Non so nemmeno bene che cosa sia un virus, ma penso si tratti di una specie di germe. Comunque, lo chiamavano virus della mixomatosi. A tutta prima, la malattia parve non diffondersi molto, anche se tutti i conigli che ne erano colpiti morivano. Ma, un anno dopo i primi esperimenti, cominciò a estendersi come un incendio della prateria; pensano che siano le zanzare a diffonderla, ma devono entrarci in qualche modo anche i cardi zafferano. E, da allora, i conigli sono morti a milioni e milioni, la malattia li ha né più né meno cancellati. A volte capita di vederne qualcuno malato, con enormi gonfiori dappertutto sul muso; sono mostruosi. Comunque, il risultato è stato meraviglioso, Ralph, sul serio. Nessun altro animale può prendersi la mixomatosi, nemmeno quelli strettamente imparentati con i conigli. E così, grazie agli scienziati dell'Organizzazione, il flagello dei conigli selvatici non esiste più.»
Il Cardinale Ralph fissò Frank. «Ti rendi conto di che si tratta, Frank? Eh?»
Il povero Frank scosse la testa, augurandosi che tutti quanti gli consentissero di restare nell'anonimato.
«Si tratta di guerra batteriologica su vasta scala. Io mi domando se il resto del mondo sappia che qui in Australia, tra il 1949 e il 1952, venne combattuta una guerra batteriologica contro una popolazione di miliardi di individui, una guerra che riuscì a sterminarli. Bene! La cosa è fattibile, no? Non si tratta semplicemente di giornalismo scandalistico, ma di realtà scientifica. Ormai possono anche seppellire le bombe atomiche e all'idrogeno. So che bisognava farlo, che era assolutamente necessario, e probabilmente si tratta del meno celebrato tra i grandi conseguimenti scientifici. Ma ciò non toglie che la cosa sia anche terrificante.»
Dane aveva seguito attentamente la conversazione. «Guerra batteriologica? Non ne ho mai sentito parlare. Che cos'è esattamente, Ralph?»
«I termini sono nuovi, Dane, ma io sono un diplomatico del Vaticano, e purtroppo devo tenermi al corrente, anche per quanto concerne parole come "guerra batteriologica". In sostanza, significano mixomatosi. Vale a dire, produrre un germe specificamente capace di uccidere o di paralizzare una sola specie di esseri viventi.»
Per nulla imbarazzato, Dane si fece il segno della croce e si appoggiò alle ginocchia di Ralph de Bricassart. «Faremmo bene a pregare, non è così?»
Il Cardinale abbassò lo sguardo sul suo capo biondo e sorrise.
Se Frank riuscì ad adattarsi alla vita di Drogheda, il merito fu di Fee che, nonostante la rigida opposizione degli altri fratelli Cleary, continuò a comportarsi come se il maggiore dei suoi figli si fosse assentato soltanto per breve tempo e non avesse mai disonorato la famiglia o profondamente addolorato sua madre. Silenziosamente, senza darlo troppo a vedere, lo sistemò nella nicchia che egli sembrava voler occupare, lontano dai fratelli. Né lo incoraggiò a ritrovare, almeno in parte, la vitalità del passato. Non esisteva più, infatti; Fee se ne era resa conto non appena lo aveva veduto sul marciapiede della stazione di Gilly. L'aveva inghiottita un'esistenza dei cui aspetti egli si rifiutava di parlare con lei. Il massimo che Fee potesse fare per suo figlio consisteva nel renderlo felice il più possibile, e, senza dubbio, il modo per riuscirvi consisteva nell'accettare il Frank di ora come il Frank di sempre.
Era escluso che potesse lavorare nei recinti, poiché i suoi fratelli non lo volevano, né egli desiderava quel genere di esistenza che aveva sempre odiato. Gli piaceva vedere le cose che crescevano e Fee, pertanto, gli affidò i giardini intorno alla dimora e lo lasciò in pace. E, a poco a poco, i fratelli Cleary si abituarono a riavere Frank in famiglia, e cominciarono a capire che la minaccia al loro benessere da lui un tempo rappresentata non sussisteva più. Niente avrebbe potuto cambiare ciò che la madre provava per lui; sia che si trovasse in carcere, o a Drogheda, Fee continuava ad avere per Frank gli stessi sentimenti. L'importante era che averlo a Drogheda la rendeva felice. Frank non si intrometteva nelle loro esistenze; era, né più né meno, quello di sempre.
Eppure, per Fee non era una gioia riavere Frank a casa; come avrebbe potuto esserlo? Vederlo ogni giorno costituiva, semplicemente, un tipo di dolore diverso da quello del non vederlo affatto. La sofferenza terribile di avere sotto gli occhi una vita rovinata, un uomo rovinato! Colui che era il prediletto tra i suoi figli, e che doveva aver sopportato sofferenze inimmaginabili.
Un giorno, quando Frank si trovava a casa da circa sei mesi, Meggie entrò nel salotto e trovò sua madre che, seduta, fissava, al di là delle ampie finestre, Frank intento a potare le grandi siepi di rose lungo il viale d'accesso. Fee voltò la testa e un qualcosa nel suo viso controllato e calmo fece sì che Meggie si portasse le mani al cuore.
«Oh, Ma'!» disse, indifesa.
Fee la guardò, crollò il capo e sorrise. «Non ha importanza, Meggie» disse.
«Se soltanto potessi fare qualcosa!»
«Puoi. Comportati semplicemente come hai sempre fatto. Ti sono molto grata. Sei divenuta una mia alleata.»
Parte sesta 1954-1965 Dane
17
«Bene» disse Justine a sua madre. «Ho deciso che cosa farò.»
«Credevo che tutto fosse già stabilito. Storia dell'arte all'Università di Sydney. Non era così?»
«Oh, è stato soltanto un falso scopo per tenerti buona mentre studiavo i miei piani. Ma ora tutto è deciso e quindi posso dirtelo.»
Meggie alzò il capo dal lavoro al quale era intenta: stava ritagliando piccole sagome a forma di abete nella pasta per i biscotti; la signora Smith era malata e loro davano una mano in cucina. Osservò sua figlia con un'espressione stanca, spazientita, indifesa. Che cosa si poteva fare con una creatura come Justine? Anche se avesse annunciato che intendeva prendere il treno per andare a fare la prostituta in un bordello di Sydney, Meggie non sarebbe riuscita a dissuaderla.
«Avanti, parla» disse. E continuò a ritagliare biscotti.
«Farò l'attrice.»
«Farai cosa?»
«L'attrice.»
«Mio Dio!» Gli abeti vennero di nuovo abbandonati. «Senti, Justine, non mi piace fare la guastafeste e, davvero, non voglio offenderti, ma credi di essere... insomma, credi di possedere le doti fisiche necessarie per diventare un'attrice?»
«Oh, Ma'!» esclamò Justine, disgustata. «Non una diva del cinema... un'attrice! Non voglio dimenare i fianchi e mettere in mostra i seni e fare sporgere le labbra umide! Voglio recitare.» Stava mettendo pezzi di manzo magro nel barile del sale. «Ho abbastanza denaro per tirare avanti imparando quel qualsiasi mestiere che possa scegliere, no?»
«Sì, grazie al Cardinale de Bricassart.»
«Allora è tutto deciso. Studierò recitazione con Albert Jones, al Culloden Theatre, e ho scritto all'Accademia d'arte drammatica di Londra chiedendo che mi mettano in lista d'attesa.»
«Ma sei proprio sicura, Jussy?»
«Sicurissima. Lo so da molto tempo.» L'ultimo pezzo di manzo insanguinato venne immerso sotto la superficie della soluzione per la salatura. Justine rimise il coperchio sul barile con un tonfo. «Ecco fatto! Spero di non dover più vedere un pezzo di manzo finché vivrò!»
Meggie le porse una teglia di biscotti. «Mettili in forno, ti spiace? Regolalo a duecento gradi. Devo dire che i tuoi propositi mi sorprendono. Credevo che le ragazzette desiderose di diventare attrici recitassero continuamente, ma la sola parte che ti abbia mai veduta recitare è stata quella di te stessa.»
«Oh, Ma', ecco che ricominci daccapo e confondi le dive cinematografiche con le attrici! Sei proprio un caso disperato!»
«Be', le dive del cinema non sono attrici?»
«Di una classe di gran lunga inferiore. A meno che prima non abbiano recitato in teatro, cioè. Voglio dire, anche Laurence Olivier di quando in quando interpreta un film.»
Sul tavolino da toletta di Justine c'era una fotografia di Laurence Olivier con autografo; Meggie si era limitata a pensare che si trattasse di un'infatuazione giovanile, ma ora ricordò di aver pensato che Justine dimostrava almeno di avere buon gusto. Le amiche che a volte invitava a casa per qualche giorno di solito conservavano e prediligevano fotografie di Tab Hunter e Rory Calhoun.
«Continuo a non capire» disse Meggie scuotendo la testa. «Un'attrice!»
Justine fece spallucce. «Be', in quale altro posto potrei strillare e urlare e ululare, se non su un palcoscenico? Qui non posso fare nessuna di queste cose, e nemmeno a scuola, o in qualsiasi altro luogo! A me piace strillare e urlare e ululare, maledizione!»
«Ma sei così brava in disegno, Jussy! Perché non diventare una pittrice?»
Justine voltò le spalle all'enorme cucina a gas e puntò il dito sull'indicatore della bombola. «Devo dire al garzone di cucina di cambiare le bombole; sono quasi vuote. Per oggi basteranno, però.» Gli occhi chiari osservarono Meggie con compatimento. «Sei così poco pratica, Ma', davvero. Credevo che fossero i figli a non prendere in considerazione gli aspetti pratici di una carriera. Lascia che te lo dica: non voglio morire di fame in una soffitta e diventare famosa una volta morta. Voglio godermi un po' di celebrità finché sono ancora viva, e sistemarmi molto bene finanziariamente. Pertanto, dipingerò come hobby e reciterò per guadagnarmi da vivere. Che ne dici?»
«Hai un reddito che ti viene da Drogheda, Jussy» disse Meggie, disperatamente, trasgredendo al voto di tacere a qualsiasi costo. «Non dovresti mai morire di fame in una soffitta. Se preferisci dipingere, non ci sono difficoltà. Puoi farlo.»
Justine la fissò, all'erta, interessata. «Quanto ho, Ma'?»
«Tanto che, se tu volessi, non dovresti mai lavorare.»
«Che barba! Finirei per chiacchierare al telefono e giocare a bridge; almeno, è così che si comportano le madri di quasi tutte le mie compagne di scuola. Perché, naturalmente, abiterei a Sydney, non a Drogheda. Sydney mi piace molto più di Drogheda.» Un bagliore di speranza le passò nello sguardo. «Ho abbastanza per farmi togliere le lentiggini con quella nuova terapia elettrica?»
«Direi di sì. Ma perché?»
«Perché allora qualcuno potrebbe vedermi la faccia, ecco perché.»
«Mi sembrava di aver capito che l'aspetto non ha importanza per un'attrice.»
«Quello che è troppo è troppo, Ma'. Queste lentiggini sono una tortura.»
«Sei proprio certa che non preferiresti diventare una pittrice?»
«Certissima, grazie.» Justine si esibì in una breve danza. «Calcherò le scene, signora Worthington!»
«Come sei riuscita a farti accettare al Culloden?»
«Ho fatto un'audizione.»
«E ti hanno presa?»
«La fiducia che riponi in tua figlia è commovente, Ma'. Naturale che mi hanno presa! Sono superba, sai. Un giorno diventerò famosissima.»
Meggie sbatté del colorante verde per dolci in una tazza di glassatura, e cominciò a spargere il tutto sui biscotti a forma di abete già cotti. «È tanto importante per te, Justine? La fama?»
«Direi di sì.» Versò lo zucchero sul burro quasi liquefattosi nel recipiente; sebbene la cucina a gas avesse sostituito la cucina a legna, faceva molto caldo. «Sono assolutamente, ferreamente decisa a diventare famosa.»
«Non vuoi maritarti?»
Justine assunse un'espressione beffarda. «Nemmeno per sogno, accidenti! Trascorrere la mia vita pulendo nasi mocciosi e culi sporchi? Fare salamelecchi a un uomo che non vale nemmeno la metà di me, sebbene si creda migliore? Ah-ah-ah, io no di certo!»
«Francamente, dai il capogiro! Dove hai imparato a esprimerti in questo modo?»
Justine cominciò a rompere uova, rapidamente e con destrezza, in una grande scodella, con una sola mano. «Nel mio signorile collegio per signorine, naturalmente.» Sbatté impietosamente le uova con un frullino. «In realtà, eravamo un branco di ragazze molto per bene, molto colte. Non tutte le combriccole di stupide femmine adolescenti possono apprezzare la delicatezza di una strofetta latina:
C'era un romano di Vinidium
la cui camicia era fatta di iridium;
quando gliene domandarono la ragione,
«Id est» rispose il volpone
«bonum maledictum praesidium.»
Le labbra di Meggie guizzarono: «Mi odierò per avertelo domandato, ma cos'è che disse il romano?»
«È un'ottima protezione, maledizione.»
«Tutto qui? Credevo che fosse qualcosa di molto peggio. Mi stupisci. Ma, per tornare a quello che stavamo dicendo, cara la mia figliola, nonostante i tuoi tentativi di cambiare discorso, cos'è che non va, secondo te, nel matrimonio?»
Justine imitò la rara risata di sua nonna, simile a un nitrito, una risata ironica. «Ma'! Questa poi! Proprio tu vieni a farmi una domanda simile?»
Meggie sentì il sangue affluirle sotto la pelle, e abbassò gli occhi sulla teglia di piccoli abeti verde smeraldo. «Non essere impertinente, anche se ormai sei donna.»
«Non è strano?» domandò Justine. «Non appena uno si azzarda sul territorio riservato severamente ai genitori, diventa impertinente. Mi sono limitata a dire: proprio tu vieni a farmi una domanda simile? E ho tutti i diritti di dirlo, dannazione! Questo non significa necessariamente insinuare che tu sia una donna fallita, o una peccatrice, o peggio. In realtà, credo che tu abbia dato prova di considerevole buon senso liberandoti di tuo marito. A che cosa ti serviva un marito? Ci sono state tonnellate di influenza maschile per i tuoi figli, con tanti fratelli tra i piedi! E inoltre hai abbastanza denaro per vivere. Sono d'accordo con te! Il matrimonio va bene per gli scemi.»
«Sei proprio come tuo padre!»
«Un'altra scappatoia. Ogni volta che qualcosa non va, divento "proprio" come mio padre. Be', ti credo sulla parola, quanto a questo, visto che non ho mai posto gli occhi su quel gentiluomo.»
«Quando partirai?» domandò Meggie, ridotta alla disperazione.
Justine sorrise. «Non vedi l'ora di liberarti di me, eh? Non importa, Ma', non te ne faccio minimamente una colpa. Il fatto è che non posso farne a meno, mi piace scandalizzare la gente, specie te. Che ne diresti di portarmi domani all'aeroporto?»
«Facciamo dopodomani. Domani ti porterò in banca. Sarà meglio che tu sappia quanto possiedi. E, Justine...»
Justine stava aggiungendo farina e impastando con abilità, ma alzò gli occhi, avendo udito il mutamento nella voce di sua madre. «Dimmi?»
«Se per caso ti trovassi in difficoltà, torna a casa, ti prego. Ci sarà sempre posto per te a Drogheda, voglio che te ne ricordi. Niente di quanto potresti fare sarebbe mai così grave da impedirti di tornare a casa tua.»
Lo sguardo di Justine si raddolcì. «Grazie, Ma'. Sotto sotto, non sei poi una cattiva vecchia bisbetica, vero?»
«Vecchia?» balbettò Meggie. «Non sono vecchia. Ho appena quarantatré anni!»
«Santo Cielo, tanti così?»
Meggie lanciò un biscotto e colpì Justine sul naso. «Disgraziata!» rise. «Che mostro sei! Ora mi sembra di avere cent'anni.»
Sua figlia sorrise.
In quel momento Fee entrò per vedere come stessero andando le cose in cucina; Meggie ne accolse l'arrivo con sollievo.
«Ma', lo sai che cosa mi ha appena detto Justine?»
Gli occhi di Fee non erano più in grado di vedere nulla, a parte lo sforzo supremo di tenere i registri, ma l'intelligenza dietro quelle pupille offuscate restava acuta come sempre.
«Come potrei sapere quello che ti ha appena detto Justine?» domandò blanda, osservando i biscotti verdi con un lieve brivido.
«Sai, a volte ho l'impressione che tu e Jussy mi nascondiate piccoli segreti; ora, mia figlia ha appena finito di darmi la notizia, e tu arrivi, come non capita mai.»
«Mmmmmmm. Sono più buoni che belli» commentò Fee, mangiucchiando. «Te lo assicuro, Meggie, non incoraggio mai tua figlia a cospirare con me alle tue spalle. Che cosa hai combinato adesso, Justine, per scombussolare tua madre?» domandò, rivolgendosi alla ragazza che stava mettendo il morbido impasto in forme imburrate e cosparse di farina.
«Ho detto a Ma' che voglio diventare un'attrice, nonna, tutto qui.»
«Tutto qui, eh? È vero, o è soltanto uno dei tuoi scherzi di dubbio gusto?»
«Oh, è vero. Sto per cominciare al Culloden.»
«Bene, bene, bene» disse Fee, addossandosi al tavolo e osservando ironicamente sua figlia. «Non è stupefacente che i figlioli abbiano una loro volontà, Meggie?»
Meggie non rispose.
«Disapprovi, per caso, nonna?» ringhiò Justine, pronta a impegnare battaglia.
«Io? Disapprovare? Non è affar mio quello che vuoi fare della tua vita, Justine. E, del resto, credo che diventerai una brava attrice.»
«Davvero?» balbettò Meggie.
«Certo che lo diventerà» disse Fee. «Justine non è il tipo da prendere decisioni avventate, vero, ragazza mia?»
«No» sorrise Justine, scostandosi da un occhio una ciocca di capelli umidi. Meggie la osservò mentre fissava sua nonna con un affetto che sembrava non riservasse mai a lei.
«Sei una brava ragazza, Justine» dichiarò Fee, e finì di mangiare il biscotto che aveva cominciato ad assaggiare con così scarso entusiasmo. «Non è niente male. Ma preferirei una glassatura bianca.»
«Non è possibile coprire di glassatura bianca gli alberi» la contraddisse Meggie.
«Certo che è possibile, trattandosi di abeti; potrebbe essere neve» disse sua madre.
«Ormai è troppo tardi. Sono di un verde-vomito» rise Justine.
«Justine!»
«Ahiahi! Scusami, Ma', non volevo offenderti. Dimentico sempre che sei delicata di stomaco.»
«Non sono delicata di stomaco» esclamò Meggie, esasperata.
«Sono venuta a vedere se è possibile avere una tazza di tè» le interruppe Fee, accostando una sedia e accomodandosi. «Metti il bricco sul fuoco, Justine, da brava.»
Anche Meggie sedette. «Credi davvero che una carriera simile possa andare per Justine, Ma'?» domandò in tono ansioso.
«Perché non dovrebbe?» rispose Fee, osservando sua nipote intenta a celebrare il rituale del tè.
«Potrebbe trattarsi di un entusiasmo passeggero.»
«È un entusiasmo passeggero, Justine?» domandò Fee.
«No» rispose decisa Justine, disponendo piattini e tazze sul vecchio tavolo di cucina verde.
«Prendi un vassoio per i biscotti, Justine, non servirli nella teglia» disse Meggie, lasciandosi guidare dalla forza dell'abitudine, «e, per amor del cielo, non mettere in tavola tutto il bidone del latte, versane un po' nella lattiera.»
«Sì, Ma', scusa, Ma'» rispose Justine, guidata a sua volta dalla forza dell'abitudine. «Però, in cucina, tutte queste storie mi sembrano inutili. Così, non dovrei fare altro che rimettere al loro posto gli avanzi e sciacquare un paio di piattini in più.»
«Fa' come ti ho detto, è molto più gradevole.»
«Per tornare al discorso di prima» continuò Fee «credo che non sia proprio il caso di stare a discutere. Secondo me, dovremmo consentire a Justine di tentare, e credo che, con ogni probabilità, se la caverà molto bene.»
«Vorrei poterne essere altrettanto sicura» disse Meggie, imbronciata.
«Hai dissertato sulla fama e sulla gloria, Justine?» domandò la nonna.
«Fanno parte del quadro» rispose la ragazza, mettendo sul tavolo, con un gesto di sfida, la vecchia teiera marrone da cucina e sedendosi in fretta. «E ora non brontolare, Ma'. Non servirò il tè in cucina nella teiera d'argento, è deciso.»
«Questa teiera va benissimo» sorrise Meggie.
«Oh, che buono! Non c'è niente di meglio di una tazza di tè» sospirò Fee, sorseggiando. «Justine, perché ti ostini a presentare così male le cose a tua madre? Sai benissimo che non è questione di fama e di gloria. È una questione di personalità, no?»
«Di personalità, nonna?»
«Certo, di personalità. Recitare è quello che senti di essere destinata a fare, non è così?»
«Sì.»
«E allora, non avresti potuto prospettare la cosa in questo modo a tua madre? Perché turbarla con un mucchio di assurdità sfrontate?»
Justine fece spallucce, bevve il tè e spinse la tazza vuota verso sua madre per averne dell'altro. «Non so» disse.
«Non-lo-so» la corresse Fee. «Sulla scena pronuncerai le parole come si deve, spero. Ma è per la tua personalità che vuoi fare l'attrice, vero?»
«Presumo di sì» rispose Justine, con riluttanza.
«Oh, sempre il cocciuto, testardo orgoglio dei Cleary! Guai a te, Justine, se non imparerai a dominarlo. La solita, stupida paura di essere derisa, o presa in giro. Anche se non riesco a capire perché tu pensi che tua madre debba essere così crudele.» Batté la mano sulla schiena di Justine. «Vedi di cedere un po', Justine. Collabora.»
Ma la ragazza scosse la testa e disse: «Non posso.»
Fee sospirò. «Bene, per quello che può giovarti, bambina, hai la mia benedizione.»
«Grazie, nonna, ti sono grata.»
«Allora sii così cortese da dimostrare la tua gratitudine in modo concreto andando a cercare lo zio Frank e dicendogli che il tè lo aspetta in cucina, per piacere.»
Justine uscì e Meggie fissò Fee.
«Ma', sei stupefacente, sul serio.»
Fee sorrise. «Be', devi ammettere che non ho mai cercato di dire a nessuno dei miei figli quello che dovevano fare.»
«No, mai» riconobbe Meggie, con tenerezza. «E te ne eravamo grati.»
Per prima cosa, non appena tornata a Sydney, Justine si fece togliere le lentiggini. Non fu una cosa da poco, purtroppo; ne aveva tante che sarebbero occorsi quasi dodici mesi, e poi avrebbe dovuto ripararsi dal sole per tutto il resto della vita, altrimenti le sarebbero tornate. La seconda cosa che fece fu di trovarsi un appartamento, un'impresa non facile a Sydney, in quel periodo in cui la gente preferiva costruire case unifamiliari e considerava un anatema vivere in massa in condominii. Ma, in ultimo, riuscì a trovare un appartamentino di due stanze sulla Neutral Bay, in una delle antiche ed enormi dimore vittoriane sul mare, suddivise in squallidi, piccoli appartamenti quando i proprietari avevano attraversato tempi difficili. La pigione era di cinque sterline e dieci scellini la settimana, pigione spropositata tenendo conto del fatto che il bagno e la cucina erano in comune. Ciò nonostante, Justine si ritenne più che soddisfatta. Sebbene fosse stata abituata tanto bene a casa, non possedeva spiccati istinti domestici.
Abitare nei Bothwell Gardens fu di gran lunga più affascinante che imparare recitazione al Culloden, ove la vita sembrava consistere nel tenersi nascosti dietro le quinte e nell'osservare altre persone che provavano, comparendo in scena soltanto di rado, e imparando a mente battute e battute di Shakespeare, Shaw e Sheridan.
Compreso quello di Justine, nella dimora dei Bothwell Gardens esistevano sei appartamenti oltre a quello della signora Devine, la padrona di casa. La signora Devine era una londinese di sessantacinque anni con il vezzo di sospirare lamentosamente, di avere gli occhi sporgenti e un grande disprezzo per l'Australia e gli australiani, sebbene fosse tutt'altro che aliena dal derubarli. La cosa che soprattutto sembrava premerle nella vita era sapere quanto costassero il gas e la corrente elettrica, e la sua più grande debolezza era il vicino di appartamento di Justine, un giovane inglese che sfruttava allegramente la propria nazionalità.
«Non esito a dare alla vecchia oca qualche solleticatina, quando ci abbandoniamo alle reminiscenze» disse il giovanotto a Justine. «In questo modo evito che mi rompa le scatole. A voi ragazze non è consentito far funzionare radiatori elettrici nemmeno durante l'inverno ma a me ne ha dato uno, e io posso farlo funzionare anche per tutta l'estate, se per caso mi saltasse in mente di adoperarlo.»
«Porco» disse Justine, spassionatamente.
Si chiamava Peter Wilkins, ed era un commesso viaggiatore. «Venga da me qualche volta, e le offrirò un'ottima tazza di tè» le gridò dietro, un po' scosso da quegli occhi chiari e misteriosi.
Justine accettò l'invito, stando bene attenta a non scegliere uno di quei momenti nei quali la signora Devine si aggirava gelosamente nei pressi, e finì con l'abituarsi a respingere Peter. Gli anni di equitazione e di lavoro a Drogheda l'avevano resa notevolmente forte, e non esitava a ricorrere ai colpi sotto la cintola.
«Dio ti maledica, Justine!» ansimò Peter, una volta, asciugandosi lacrime di dolore dagli occhi. «Mollala, figliola! Dovrai pure perderla, la verginità, una volta o l'altra, sai! Qui non siamo nell'Inghilterra vittoriana, nessuno pretende che tu la tenga in serbo per il matrimonio.»
«Non ho nessuna intenzione di tenerla in serbo per il matrimonio» rispose lei, aggiustandosi il vestito. «Soltanto, non so ancora bene a chi dovrà toccare l'onore, ecco tutto.»
«Mica sei così bella da meritare che ti si descriva nelle lettere a casa!» scattò lui perfidamente; Justine gli aveva fatto male sul serio.
«No, lo so bene. Cavolo, Peter. Non riuscirai a farmi male con le parole. E ci sono mucchi di uomini disposti ad andare a letto con qualsiasi donna, purché sia vergine.»
«E anche mucchi di donne. Tieni d'occhio l'appartamento sulla facciata.»
«Oh, lo so, lo so» disse Justine.
Le due ragazze dell'appartamento sulla facciata erano lesbiche, e avevano accolto lietamente l'arrivo di Justine, finché non si erano rese conto che lei non soltanto non era interessata, ma nemmeno incuriosita. A tutta prima, non era stata nemmeno ben sicura di quello cui stavano mirando, ma poi, quando glielo avevano detto apertamente, si era limitata a un'alzata di spalle, per nulla colpita. Così dopo un periodo di adattamento, aveva finito col diventare la depositaria dei loro segreti, la loro confidente neutrale, il loro porto durante ogni tempesta; pagò la cauzione a Billie per farla uscire dal carcere, portò Bobbie all'ospedale Mater perché le facessero una lavanda gastrica dopo un litigio particolarmente violento con Billie e si rifiutò di prendere le parti dell'una o dell'altra quando all'orizzonte spuntarono a turno Pat, Al, Georgie e Ronnie. Sembrava una sorta di vita emotiva molto insicura, si diceva. Gli uomini erano abbastanza insopportabili, ma, per lo meno, avevano il sapore della diversità.
Così, tra il Culloden, la casa dei Bothwell Gardens e le ragazze conosciute ai tempi del Kincoppal, Justine aveva un gran numero di amici ed era una buona amica lei stessa. Non confidava mai i suoi guai, come facevano gli altri con lei; aveva Dane, per questo, sebbene le poche difficoltà che ammetteva di incontrare non sembrassero tormentarla. La caratteristica che soprattutto affascinava i suoi amici era una straordinaria autodisciplina, come se fosse stata abituata sin dalla fanciullezza a non consentire alle circostanze di influenzare la sua serenità.
Una cosa soprattutto incuriosiva quelli che considerava suoi amici: quando e come si sarebbe decisa a perdere la verginità; ma lei non aveva fretta.
Arthur Lestrange era l'attor giovane di Albert Jones che aveva resistito più a lungo, sebbene avesse già festeggiato malinconicamente il quarantesimo compleanno l'anno prima dell'arrivo di Justine al Culloden. Aveva un bel fisico, era un attore costante, sul quale si poteva far conto, e la sua faccia bella e virile, circondata da un alone di riccioli biondi, strappava sempre applausi al pubblico. Durante il primo anno non notò Justine, che taceva sempre e faceva esattamente come le veniva detto. Ma al termine del corso, la cura contro le lentiggini era terminata, e il suo viso cominciò a risaltare contro lo scenario.
Senza le lentiggini e con l'aggiunta del trucco che le scuriva le sopracciglia e le ciglia, era una ragazza graziosa, che assomigliava vagamente a un elfo. Non aveva ereditato la bellezza vistosa di Luke O'Neill, né quella squisita della madre. Il suo corpo era passabile anche se non spettacolare, forse un po' troppo esile. Soltanto i vividi capelli rossi facevano sempre spicco. Ma sulla scena sembrava completamente diversa e riusciva a far credere alla gente di essere bella come Elena di Troia, oppure orrenda come una strega.
Arthur la notò per la prima volta durante un periodo di insegnamento, quando Justine doveva recitare un passo di Lord Jim di Conrad, ricorrendo ad accenti diversi. Fu veramente straordinaria; comprese l'entusiasmo di Albert Jones e perché le dedicasse tanto tempo. Era una mima nata, ma anche molto più di questo: riusciva a caratterizzare ogni parola che pronunciava. E poi c'era la voce, una mirabile dote naturale per qualsiasi attrice: profonda, sonora, penetrante.
E così, quando Arthur la vide seduta, con una tazza di tè in mano e un libro aperto sulle ginocchia, andò a sederlesi accanto.
«Cosa stai leggendo?»
Ella alzò gli occhi, sorrise. «Proust.»
«Non lo trovi un po' noioso?»
«Proust noioso? No di certo, a meno che non si possano soffrire i pettegolezzi. Perché non è altro che questo, sai: un terribile, vecchio pettegolo.»
Provò la sensazione sgradevole che la ragazza stesse assumendo nei suoi riguardi un atteggiamento di condiscendenza intellettuale, ma la perdonò. La colpa era soltanto della sua estrema giovinezza.
«Ti ho sentita recitare Conrad. Sei stata splendida.»
«Grazie.»
«Se andassimo a prendere il caffè insieme, qualche volta, e parlassimo dei tuoi progetti?»
«Se ti fa piacere» rispose lei, tornando a dedicarsi a Proust.
Arthur era lieto di essersi accordato per il caffè, piuttosto che per una cena; sua moglie lo teneva sempre d'occhio, e inoltre una cena implicava una gratitudine che non sapeva bene se Justine fosse disposta a manifestare. Tuttavia, mantenne la casuale promessa e la condusse in un buio, piccolo locale in fondo a Elizabeth Street, ove poteva essere ragionevolmente certo che sua moglie non avrebbe mai pensato di andarlo a cercare.
Come per una forma di autodifesa, Justine aveva imparato a fumare, stanca di sembrare sempre eccessivamente virtuosa rifiutando le sigarette che le venivano offerte. Quando si furono messi a sedere, tolse un pacchetto nuovo di sigarette dalla borsetta e sbucciò con cura la parte superiore del cellophane dal lato apribile della scatola, accertandosi che il resto continuasse a fasciare tutta la rimanente parte del pacchetto. Arthur osservò divertito e interessato la sua meticolosità.
«Perché darsi tanta pena, in nome del Cielo? Strappalo via tutto e basta, Justine.»