Ma Anne stava pensando tra sé e sé: mi domando che cosa avrebbe risposto, Arcivescovo, se il bambino fosse stato suo.

Circa tre ore dopo, mentre il sole del pomeriggio malinconicamente scendeva verso la mole nebulosa del monte Bartle Frere, il dottor Smith uscì dalla camera da letto.

«Bene, è finita» disse con una certa soddisfazione. «Meggie ha una strada lunga da fare, ma si rimetterà, Dio volendo. Quanto al bambino, è una femminuccia pelle e ossa di due chili e tre etti, con un gran testone ciondolante e un caratterino che si confà ai più velenosi capelli rossi ch'io abbia mai veduto su un neonato. Non si riuscirebbe a farla fuori nemmeno con una scure, quella creaturina, e io lo so perché ci ho quasi provato.»

Giubilante, Luddie sturò la bottiglia di champagne che aveva preparato, e tutti e cinque rimasero in piedi con i bicchieri traboccanti; prete, medico, levatrice, proprietario terriero e invalida brindarono alla salute e alla felicità della madre e della sua strillante e gracile creaturina. Era il primo giugno, il primo giorno dell'inverno australiano.

Un'infermiera era arrivata per sostituire la levatrice, e si sarebbe trattenuta fino a quando Meggie non fosse stata dichiarata completamente fuori pericolo. Il medico e la levatrice se ne andarono, mentre Anne, Luddie e l'Arcivescovo entravano nella camera da letto per vedere la puerpera.

Sembrava così minuscola e sciupata, nel letto matrimoniale, che l'Arcivescovo Ralph fu costretto a riporre un nuovo e diverso dolore nel subcosciente, per ripescarlo in seguito, esaminarlo e sopportarlo. Meggie, mia dilaniata ed esausta Meggie... ti amerò sempre, ma non posso darti ciò che ti ha dato Luke O'Neill, per quanto a malincuore.

La piagnucolante briciola di umanità responsabile di tutto questo giaceva in una culla di vimini contro la parete opposta, del tutto indifferente alla loro attenzione mentre la circondavano e la contemplavano. Strillò il suo risentimento e continuò a strillare. In ultimo, l'infermiera la sollevò, culla compresa, e la portò nella stanza che era stata preparata per lei.

«I polmoni li ha sanissimi, senza dubbio.» L'Arcivescovo Ralph sorrise, sedette sulla sponda del letto, e prese la mano di Meggie.

«Non credo che le piaccia molto la vita» disse lei, sorridendo a sua volta. Com'era invecchiato! Sano e snello come sempre, ma incommensurabilmente più vecchio. Voltò la testa verso Anne e Luddie e tese loro l'altra mano. «Miei cari, buoni amici! Come avrei fatto senza di voi? Avete avuto notizie da Luke?»

«È arrivato un telegramma nel quale dice che è troppo occupato per poter venire, ma ti augura buona fortuna.»

«È molto, da parte sua.»

Anne si chinò rapida a baciarle la gota. «Ora ti lasceremo a conversare con l'Arcivescovo, cara. Sono certa che avrete molte cose da dirvi.» Appoggiandosi a Luddie, fece cenno all'infermiera, che fissava a bocca aperta il prelato quasi stentasse a credere ai propri occhi. «Venga, Nettie, venga a prendere una tazza di tè con noi. Se Meggie avrà bisogno di lei, Sua Eccellenza glielo farà sapere.»

«Come la chiamerai, la tua vociante figliola?» domandò Ralph, mentre la porta si chiudeva e rimanevano soli.

«Justine.»

«È un nome bellissimo, ma perché lo hai scelto?»

«L'ho letto non so più dove e mi è piaciuto.»

«Non la vuoi, Meggie?»

Il viso le si era rimpicciolito e sembrava tutta occhi; erano morbidi e colmi di una luce nebulosa, non di odio, ma nemmeno di amore. «Presumo di volerla. Sì, la voglio. Ho tramato abbastanza per averla. Ma, mentre ero incinta di lei, non sentivo niente nei suoi riguardi, se non che era la bambina a non volere me. Credo che Justine non sarà mai mia, né di Luke, né di nessun altro. Credo che apparterrà sempre e soltanto a se stessa.»

«Devo andare, Meggie» disse con dolcezza.

Gli occhi divennero ora più duri, più luminosi; la bocca si contorse in una piega sgradevole. «Me lo aspettavo! È buffo che gli uomini nella mia vita taglino tutti la corda, no?»

Ralph trasalì. «Non essere amareggiata, Meggie. Non sopporto di lasciarti così. In passato, qualunque cosa potesse accaderti, conservavi sempre la tua dolcezza, ed è questa la cosa che trovo più preziosa in te. Non cambiare, non diventare aspra per questo. Dev'essere terribile, lo so, pensare che Luke è così indifferente da aver preferito non venire, ma non cambiare. Non saresti più la mia Meggie.»

Eppure, continuò a fissarlo quasi come se lo odiasse. «Oh, finiscila, Ralph! Non sono la tua Meggie! Non lo sono mai stata! Non mi hai voluta, mi hai mandata tu da lui, da Luke. Per chi mi hai presa, per una specie di santa, o di monaca? Be', non lo sono! Sono una creatura umana normale, e tu hai rovinato la mia esistenza! Per anni e anni ti ho amato, non ho desiderato altri che te, e ti ho aspettato... ho fatto del mio meglio per dimenticarti, ma poi ho sposato un uomo che mi sembrava somigliasse un poco a te, e anche lui non mi vuole, né ha bisogno di me. È troppo chiedere a un uomo di essergli necessaria, di esserne desiderata?»

Cominciò a singhiozzare, poi si dominò; aveva sul viso rughe sottili di sofferenza che gli riuscivano del tutto nuove; non erano, quelle, lo sapeva, rughe che il riposo e il ritorno della salute potessero far scomparire.

«Luke non è un uomo malvagio, e non è nemmeno odioso» continuò. «È un uomo, semplicemente. Siete tutti gli stessi, grosse falene pelose che si riducono in pezzi cercando di raggiungere una stupida fiamma dietro un vetro così trasparente da impedire ai vostri occhi di scorgerlo. E, se riuscite a penetrare al di là del vetro e a volare entro la fiamma, cadete bruciati e morti. Mentre intanto, continuamente, fuori, nella notte fresca, ci sono cibo, e amore, e piccole falene da possedere. Ma lo vedete tutto questo, lo volete? No! È sempre la fiamma ad attrarvi e battete contro il vetro fino a tramortirvi, oppure morite bruciati!»

Non seppe che cosa dirle, perché questo era un aspetto di lei che non aveva mai veduto. Era sempre esistito, o nasceva dalle sue terribili pene e dall'abbandono? Meggie, dire cose simili? Quasi non udì quel che diceva, tanto era sconvolto sentendola parlare in quel modo, e, di conseguenza, non capì che tutto scaturiva dalla sua solitudine e dal suo rimorso.

«Rammenti la rosa che mi desti la sera in cui partii da Drogheda?» le domandò con tenerezza.

«Sì, me ne rammento.» La vitalità era scomparsa dalla sua voce, la luce dura le si era spenta negli occhi. Lo fissavano, ora, come un'anima senza speranze, inespressivi e vitrei quanto quelli di sua madre.

«Ce l'ho ancora, nel messale. E ogni volta che vedo una rosa di quel colore penso a te. Ti amo, Meggie. Tu sei la mia rosa, la più bella immagine umana e il più bel pensiero della mia vita.»

Di nuovo gli angoli della bocca di lei si incurvarono verso il basso, di nuovo negli occhi le splendette quella ferocia tesa e brillante, con i riflessi dell'odio. «Un'immagine, un pensiero! Un'immagine e un pensiero umani! Sì, è vero, io non sono altro per te! E tu non sei altro che uno sciocco romantico sognatore, Ralph de Bricassart! Non hai idea di quello che è la vita più della falena alla quale ti ho paragonato! Non ci si può stupire se sei diventato un sacerdote! Se tu fossi un uomo come tutti gli altri, non sapresti affrontare gli aspetti normali della vita, non più di un uomo mediocre come Luke!

«Dici di amarmi, ma non hai nemmeno la più pallida idea di cos'è l'amore; ti limiti a pronunciare parole che hai imparato a memoria perché pensi abbiano un bel suono! Una cosa non riesco a capire, perché voi uomini non siate riusciti a fare completamente a meno delle donne — come vi piacerebbe, non è così? Dovreste escogitare un modo per sposarvi tra voi, e sareste divinamente felici!»

«Meggie, non dire così! Ti prego, no!»

«Oh, vattene! Non voglio più vederti! E hai dimenticato una cosa, per quanto concerne le tue preziose rose, Ralph... hanno pericolose spine a uncino!»

Uscì dalla stanza senza voltarsi.

Luke non si diede mai la pena di rispondere al telegramma con il quale lo avevano informato che era l'orgoglioso padre di una bambina di due chili e tre etti a nome Justine. Pian piano, Meggie si ristabilì e la bambina cominciò a prosperare. Forse, se avesse potuto allattarla, sarebbe riuscita a stringere un rapporto più stretto con la gracile e irascibile creaturina, ma non aveva una sola goccia di latte nei seni abbondanti che a Luke era tanto piaciuto succhiare. Questa è un'ironica giustizia, pensava. Doverosamente, cambiava e sfamava con il biberon l'esserino dalla faccia rossa e dalla testa rossa, così come imponevano le costumanze, aspettando sempre l'inizio di una qualche emozione meravigliosa e dilagante. Ma non provava mai niente, non sentiva alcun desiderio di coprire di baci il viso minuscolo, o di mordicchiare le piccole dita, o di fare una qualsiasi delle mille sciocche cose che le madri amano fare con i loro bambini. La bambina non sembrava sua, e non voleva la madre o non ne aveva bisogno, più di quanto ella la volesse. La bambina, la bambina! Non ricordava nemmeno di chiamarla per nome.

Luddie e Anne non sospettavano neppure che Meggie non adorasse Justine, e che provasse per lei meno di quanto avesse provato per uno qualsiasi dei suoi fratellini. Ogni volta che Justine piangeva, Meggie si precipitava a prenderla in braccio, la cullava, e non era mai esistita bambina più asciutta e meglio tenuta. Lo strano stava nel fatto che Justine sembrava non voler essere presa in braccio o cullata; si acquietava molto più in fretta se veniva lasciata sola.

Man mano che il tempo passava, il suo aspetto migliorò. La pelle perdette il rossore e assunse quella trasparenza venata di azzurro che si accompagna spesso ai capelli rossi; le piccole braccia e le gambe si riempirono, divenendo piacevolmente grassocce. I capelli cominciarono ad arricciarsi e a infoltirsi, e ad assumere, definitivamente, lo stesso colore acceso della zazzera del nonno Paddy. Tutti aspettavano ansiosamente di vedere che colore avrebbero avuto gli occhi; Luddie scommetteva che sarebbero stati azzurri come quelli del padre, Anne puntava sul grigio della madre, Meggie non aveva opinioni. Ma gli occhi di Justine erano decisamente come i suoi, e snervanti, a dir poco. Quando la bambina aveva sei settimane, cominciarono a cambiare, e, entro la nona settimana, assunsero il colore e il taglio definitivi. Nessuno aveva mai veduto occhi come quelli. Intorno all'orlo esterno dell'iride si trovava un cerchio di un grigio molto scuro; la descrizione migliore che si potesse farne era una sorta di bianco scuro. Si trattava di occhi che sembravano inchiodare e far sentire a disagio, occhi disumani, un po' come gli occhi di una cieca; ma, con il trascorrere del tempo, divenne manifesto che Justine ci vedeva benissimo.

Sebbene non ne avesse parlato, il dottor Smith si era preoccupato a causa delle dimensioni della testa della bambina alla nascita, e continuò a osservarla attentamente durante i primi sei mesi di vita; si era domandato, specie dopo aver veduto quegli strani occhi, se per caso Justine non fosse affetta dalla malattia che egli continuava a chiamare «acqua nel cervello», sebbene i moderni testi di medicina la denominassero idrocefalia. Ma risultò poi che Justine non soffriva di alcun genere di disfunzione o malformazione cerebrale, aveva semplicemente la testa molto grossa, e, crescendo, il resto vi si adeguò, più o meno.

Luke continuava a non farsi vivo. Meggie gli aveva scritto ripetutamente, ma lui non rispondeva e non veniva a conoscere sua figlia. In un certo senso, ne era lieta; non avrebbe saputo che dirgli e riteneva che Luke non sarebbe rimasto affatto incantato dalla creaturina che era la sua figliola. Se Justine fosse stata un maschio grosso e robusto, forse si sarebbe intenerito, ma Meggie era ferocemente lieta che così non fosse. Justine costituiva la prova vivente del fatto che il grande Luke O'Neill non era perfetto, poiché, se lo fosse stato, senza dubbio avrebbe generato soltanto maschi.

La bambina fioriva più di Meggie e si riprese più rapidamente dal trauma e dal cimento della nascita. A quattro mesi, smise di piangere tanto e cominciò a divertirsi mentre giaceva nella culla, trastullandosi con le file di palline colorate infilate alla sua portata e cercando di afferrarle. Ma non sorrideva mai a nessuno, nemmeno sotto forma delle smorfiette da ruttino.

«La piovosa» cominciò presto, in ottobre, e fu una piovosa piovosissima. L'umidità aumentò fino al cento per cento, e tale rimase; ogni giorno, per ore, la pioggia scrosciava e sferzava le piante intorno a Himmelhoch, sciogliendo il suolo scarlatto, inzuppando le canne, colmando l'ampio e profondo fiume Dungloe, ma senza farlo traboccare, perché il Dungloe aveva un corso così breve che le sue acque si scaricavano in mare con sufficiente rapidità. Mentre Justine giaceva nella culla, contemplando il mondo attraverso quei suoi strani occhi, Meggie, immobile e spenta, guardava il Bartle Frere scomparire dietro un muro di fitta pioggia, e poi riapparire.

Il sole rispuntava e faceva sì che spirali di nebbia scaturissero dal terreno, le canne da zucchero bagnate scintillavano e rifulgevano come prismi sfaccettati, e il fiume sembrava un grande serpente dorato. Subito dopo, sospeso nella volta del cielo, si materializzava un duplice arcobaleno, perfetto per tutta la lunghezza del suo arco, talmente ricco di colori, contro le nubi di un blu-scuro imbronciato, da fare impallidire qualsiasi cosa tranne il paesaggio del Queensland del Nord. Ma poiché quello era il Queensland del Nord, nulla veniva reso scialbo dall'etereo splendore e Meggie credeva di capire perché le campagne di Gillanbone fossero così rossicce e grigie; il Queensland del Nord aveva usurpato anche la loro parte della tavolozza.

Un giorno, ai primi di dicembre, Anne uscì sulla veranda e sedette accanto a Meggie, osservandola. Come era dimagrita e spenta! Persino i bei capelli dorati sembravano opachi.

«Meggie, non so se ho sbagliato, ma ormai è fatta, e voglio che tu mi ascolti prima di dire no.»

Distolse lo sguardo dai due arcobaleni, sorridendo. «Hai un tono così solenne, Anne! Cos'è che devo ascoltare?»

«Luddie e io siamo preoccupati per te. Non ti sei rimessa del tutto dopo la nascita di Justine, e ora che siamo nella "piovosa", hai una cera ancor peggiore. Non ti nutrì abbastanza e stai dimagrendo. Non ho mai pensato che questo clima ti si confacesse, ma fino a quando non è accaduto niente che ti buttasse giù sei riuscita a farcela. Ora, però, riteniamo che tu sia indisposta e che, se non si correrà ai ripari, finirai con l'ammalarti sul serio.»

Trasse un respiro. «Così, un paio di settimane fa, ho scritto a una mia amica dell'agenzia turistica e ti ho prenotato una vacanza. E non cominciare a protestare a causa della spesa; non intaccherà le risorse di Luke, né le nostre. L'Arcivescovo ci ha mandato un assegno per una somma molto ingente destinata a te, e tuo fratello ne ha spedito un altro per te e la bambina... credo che intendesse invitarti a tornare a casa per qualche tempo, da parte di tutti, a Drogheda. Dopo averne parlato, Luddie e io abbiamo deciso che la cosa migliore da farsi consisterebbe nello spendere una parte della somma per consentirti un periodo di vacanza. Non credo, però, che tornare a casa a Drogheda sarebbe la vacanza ideale. Luddie e io riteniamo che tu abbia bisogno soprattutto di un periodo di riflessione. Senza Justine, senza di noi, senza Luke, senza Drogheda. Hai mai vissuto sola, Meggie? Sarebbe tempo che tu lo facessi. Così, ti abbiamo prenotato per due mesi un villino sull'isola Matlock, dai primi di gennaio ai primi di marzo. Luddie e io baderemo a Justine. Sai bene che non le accadrà niente, ma, se dovesse esserci il benché minimo inconveniente, ti avvertiremo immediatamente; l'isola è collegata con la rete telefonica, e non ti occorrerebbe molto tempo per tornare qui.»

Il doppio arcobaleno era scomparso, e così il sole; stava per piovere di nuovo.

«Anne, se non ci foste stati tu e Luddie, in questi ultimi tre anni, sarei impazzita. Lo sai bene. A volte, di notte, mi sveglio domandandomi che cosa sarebbe stato di me se Luke mi avesse messa con persone meno buone. Voi mi avete voluto più bene di Luke.»

«Sciocchezze! Se Luke ti avesse messa con persone meno comprensive, saresti tornata a Drogheda, e chissà? Forse sarebbe stata la soluzione migliore.»

«No. Non è stata piacevole, questa faccenda con Luke, ma era di gran lunga meglio per me rimanere qui e dimenticarmene lavorando.»

La pioggia stava cominciando ad avanzare sui campi di canne man mano più offuscati, cancellando ogni cosa dietro il proprio margine, come una grigia mannaia.

«Hai ragione, non sto bene» continuò Meggie. «Non mi sono più sentita bene dopo il concepimento di Justine. Ho cercato di tenermi su, ma si arriva a un punto, presumo, in cui manca l'energia per continuare. Oh, Anne, sono così stanca e scoraggiata! Non so essere neppure una buona madre con Justine, eppure le devo almeno questo. Sono stata io a farla nascere; non lo ha chiesto lei. Ma, soprattutto, mi sento avvilita perché Luke non vuole nemmeno darmi la possibilità di renderlo felice. Non vuole vivere con me, né consentirmi di creargli una casa. Non vuole figli. Io non lo amo... non l'ho mai amato come una donna dovrebbe amare il proprio marito, e forse lui lo ha intuito. Forse, se lo avessi amato, si sarebbe comportato diversamente. Come posso incolparlo? Devo incolpare soltanto me stessa, credo.»

«Tu ami l'Arcivescovo, vero?»

«Oh, da quando ero una bimbetta! E sono stata dura con lui quando è venuto qui. Povero Ralph! Non avevo alcun diritto di dirgli quello che gli ho detto, perché non mi ha mai incoraggiata, sai. Spero che abbia avuto il tempo di rendersi conto che soffrivo, ed ero sfinita, e terribilmente infelice. Riuscivo a pensare una sola cosa, che la bambina avrebbe dovuto appartenere a lui di diritto, e invece non sarebbe stata mai sua, non avrebbe mai potuto esserlo. Non è giusto! I preti protestanti possono ammogliarsi, perché i cattolici no? E non venire a dirmi che i pastori protestanti non si curano del loro gregge quanto i sacerdoti cattolici, perché non ti crederei. Ho conosciuto sacerdoti cattolici senza cuore e pastori protestanti meravigliosi. Ma, a causa del celibato dei preti, sono stata costretta ad allontanarmi da Ralph, a farmi una famiglia e una vita con qualcun altro; ad avere la figlia di un altro. E vuoi sapere una cosa, Anne? Questo è un peccato disgustoso quanto quello che commetterebbe Ralph venendo meno ai voti o ancora di più. Detesto il principio della Chiesa secondo il quale il fatto ch'io amo Ralph, o il fatto che egli ama me, è una colpa!»

«Allontanati per qualche tempo, Meggie. Riposati, mangia, dormi e smetti di crucciarti. Poi, forse, al tuo ritorno, riuscirai in qualche modo a persuadere Luke ad acquistare l'allevamento, invece di limitarsi a parlarne. So che non lo ami, ma, ne sono persuasa, se te ne desse anche soltanto una mezza possibilità potresti essere felice con lui.»

Gli occhi grigi avevano lo stesso colore della pioggia che scrosciava compatta tutto attorno alla casa; le due donne avevano alzato la voce sin quasi a gridare per potersi udire a vicenda nonostante lo strepito incredibile sul tetto di lamiera.

«Ma il guaio è proprio questo, Anne! Quando Luke e io andammo ad Atherton, mi resi conto che lui non avrebbe mai abbandonato le canne da zucchero finché fosse stato abbastanza forte per tagliarle. Ama la vita, l'ama sul serio. Gli piace trovarsi con uomini forti e indipendenti come lui; gli piace vagabondare da un posto all'altro. È sempre stato un vagabondo, ora che ci penso. E, quanto all'aver bisogno di una donna per il suo piacere, se non per altro, è troppo spossato dalle fatiche. Inoltre... come posso esprimermi? Luke è uno di quegli uomini che se ne infischiano se mangiano su una cassa da imballaggio e dormono sul pavimento. Non lo capisci? Non si può far leva su di lui come su un uomo che ama le cose belle, perché gli sono del tutto indifferenti. A volte penso che le disprezzi addirittura. Tutto ciò che è bello e grazioso è effeminato e potrebbe fare di lui un rammollito. Non ho assolutamente niente di allettante che mi permetta di strapparlo al suo attuale modo di vivere.»

Sbirciò spazientita il tetto della veranda, come se si fosse stancata di gridare. «Non so se sarò forte abbastanza per sopportare la solitudine di chi non ha una casa per i prossimi dieci o quindici anni, Anne, o per tutto il tempo che occorrerà a Luke prima di sfiancarsi. È bello stare qui con voi; non voglio che tu mi giudichi un'ingrata. Ma voglio una casa e una famiglia! Voglio che Justine abbia fratelli e sorelle, voglio poter spolverare i miei mobili, voglio poter cucire tende da mettere alle mie finestre, voglio poter cucinare sui miei fornelli, per il mio uomo. Oh, Anne! Io sono soltanto una donna comunissima; non sono ambiziosa, né intelligente, né colta, lo sai bene. Voglio soltanto un marito, dei figli, la mia casa. E un po' di amore da qualcuno!»

Anne prese il fazzoletto, si asciugò gli occhi e cercò di ridere. «Che sentimentali siamo noi due! Ma ti capisco, Meggie, davvero. Sono sposata con Luddie da dieci anni, gli unici anni realmente felici della mia vita. A cinque anni ebbi la paralisi infantile, e mi lasciò conciata così. Ero persuasa che nessuno mi avrebbe mai degnata di uno sguardo. E infatti, Dio sa che fu così. Quando conobbi Luddie, avevo trent'anni e insegnavo per vivere. Lui aveva dieci anni meno di me e pertanto non potei prenderlo sul serio quando disse che mi amava e voleva sposarmi. Che cosa terribile, Meggie, rovinare l'esistenza di un uomo giovanissimo! Per cinque anni, lo trattai con il peggiore sfoggio di perfidia che tu possa immaginare, ma lui continuava a tornare per essere ancor più maltrattato. Così lo sposai, e da allora sono stata felice. Luddie dice di esserlo, ma non ne sono tanto sicura. Ha dovuto rinunciare a molte cose, compresi i figli, e ormai sembra più anziano di me, pover'uomo.»

«È la vita, Anne, e il clima.»

L'acquazzone cessò improvvisamente com'era cominciato, il sole si affacciò, gli arcobaleni tornarono a risplendere con tutta la loro luminosità nel cielo fumigante, e il monte Bartle Frere spuntò lilla tra le nubi.

Meggie riprese a parlare. «Partirò. Vi sono molto grata per averci pensato; probabilmente è quello che mi occorre. Ma sei certa che Justine non vi peserà troppo?»

«Buon Dio, no! Luddie ha già predisposto ogni cosa. Anna Maria, la ragazza che lavorava qui con me prima della tua venuta, ha una sorella minore, Annunziata, che vuole fare l'infermiera a Townsville. Ma non compirà i sedici anni fino a marzo e terminerà le scuole tra pochi giorni. Così, durante la tua assenza, verrà qui. Anche lei è un'esperta, come madre adottiva; ci sono orde di bambini nel clan dei Tesoriero.»

«L'isola Matlock. Dove si trova?»

«Nelle immediate prossimità del canale Whitsunday, sulla Grande Barriera Corallina. È un luogo molto tranquillo e solitario, frequentato, nella maggior parte dei casi, da coppie in luna di miele, credo. Villini invece di un albergo... sai. Non dovrai andare a tavola in una sala da pranzo affollata, né essere cortese con un mucchio di gente alla quale preferiresti magari non rivolgere la parola. E, in questa stagione, l'isola è quasi deserta per il pericolo dei cicloni estivi. "La piovosa" non si fa sentire, laggiù, eppure sembra che durante l'estate nessuno voglia recarsi sulla scogliera corallina. Probabilmente perché quasi tutti quelli che ci vanno arrivano da Sydney o da Melbourne e l'estate, laggiù, è splendida e non induce a partire. Ma, nei mesi di giugno, luglio e agosto, quelli del sud prenotano con tre anni di anticipo.»

 

 

 

 

 

13

 

 

 

 

 

L'ultimo giorno del 1937, Meggie prese il treno diretto a Townsville. La vacanza non era ancora cominciata, ma si sentiva già meglio perché si era lasciata alle spalle il fetore di melassa che ammorbava Dunny. Il più grande centro abitato del Queensland settentrionale, Townsville, era una prospera cittadina con alcune migliaia di abitanti che risiedevano in bianche case di legno poggiate su pali. L'immediata coincidenza fra treno e battello non le lasciò il tempo di guardarsi attorno, ma, in un certo senso, non le dispiacque doversi precipitare al molo senza avere il tempo di pensare; dopo il viaggio spaventoso attraverso il mare di Tasmania, sedici anni prima, non affrontava con piacere una traversata di trentasei ore su una nave molto più piccola della Vahiné.

Ma fu completamente diverso, uno scivolare bisbigliante su acque vitree, e ora aveva ventisei anni, non dieci. Si trovavano nella calma di vento tra due cicloni, il mare era esausto; sebbene fosse appena mezzogiorno, Meggie abbandonò il capo sul guanciale e dormì senza sogni finché un cameriere di bordo non la destò, alle sei della mattina dopo, portandole una tazza di tè e un vassoio di semplici biscotti.

Sul ponte si vedeva una nuova Australia, diversa una volta di più. Nel cielo sconfinato e limpido, delicatamente incolore, una luminosità rosea e perlacea andava diffondendosi adagio verso l'alto dall'orlo orientale dell'oceano, e, in ultimo, il sole spuntò all'orizzonte e la luce perdette il rossore da poppante e si tramutò nel giorno. La nave fendeva silenziosa acque prive di colorazione accanto allo scafo, talmente trasparenti da consentire allo sguardo di penetrare fino a grotte viola e di vedere le sagome di vividi pesci saettar via. In lontananza, il mare era di un color verde-acquamarina, chiazzato da macchie vino-scuro là ove alghe o coralli rivestivano il fondo, e da ogni parte sembrava che le isole continuassero a crescere spontaneamente con palmizi sulle spiagge di sabbia bianca brillante, simili a cristalli nella silice — isole fasciate dalla giungla e montuose, oppure piatte e cespugliose, non molto più alte del livello dell'acqua.

«Quelle piatte sono le vere isole coralline» spiegò un uomo dell'equipaggio. «Se sono a forma di anello e racchiudono una laguna, sono atolli, ma se sono semplicemente scogliere caotiche sorte dal mare, si chiamano cay. Le isole montuose sono vere cime di montagne, ma anche quelle sono circondate da scogliere coralline, con le lagune.»

«Dov'è l'isola Matlock?» domandò Meggie.

L'uomo la fissò incuriosito; una donna sola che andava in vacanza in un'isola come Matlock, fatta per le coppie in luna di miele, sembrava una contraddizione in termini. «Stiamo attraversando adesso il Passaggio Whitsunday, poi faremo rotta verso il bordo della scogliera che dà sul Pacifico. Il lato di Matlock verso l'oceano è martellato dai grandi cavalloni che percorrono centinaia di chilometri venendo dal profondo Pacifico, come treni, scrosciando tanto che uno non riesce a pensare. Se lo immagina, cavalcare la stessa onda per quasi duecento chilometri?» Il marinaio sospirò malinconicamente. «Arriveremo a Matlock prima del tramonto, signora.»

E, un'ora prima del tramonto, la piccola nave si aprì un varco beccheggiando attraverso il risucchio della risacca la cui spuma si levava come una torreggiante parete di bruma nel cielo a oriente. Un pontile che poggiava su esili pali tremava per ottocento metri attraverso una scogliera lasciata scoperta dalla bassa marea, e, dietro, si scorgeva un'alta e frastagliata linea costiera, piuttosto deludente per le aspettative di Meggie in fatto di splendori tropicali. Un uomo anziano l'aspettava, l'aiutò a scendere dalla nave sul pontile e si fece consegnare le sue valigie da un marinaio.

«Piacere, signora O'Neill» la salutò. «Sono Rob Walter. Spero che suo marito possa trovare il tempo di raggiungerla, nonostante tutto. Non troverà molta compagnia a Matlock, in questa stagione; non è, in realtà, una località di soggiorno estiva.»

Percorsero insieme il pontile dalle assi malferme; il corallo lasciato allo scoperto dalla bassa marea sembrava fuso nel sole morente, e il mare pauroso era tutto un tumulto di spuma cremisi.

«La marea è bassa, altrimenti il viaggio sarebbe stato più movimentato. Vede quella nebbia a est? Quello è il margine della Grande Barriera Corallina. Qui a Matlock vi restiamo attaccati con i denti; sentirà l'isola scuotersi continuamente sotto i colpi delle ondate.» La aiutò a salire su un'automobile. «Questo è il lato sopravvento di Matlock... ha un aspetto un po' desertico e sgradevole, vero? Ma aspetti di aver veduto il lato sottovento! È uno spettacolo, davvero.»

Partirono con la velocità noncurante che era logica da parte dell'unica automobile esistente a Matlock, percorrendo una stretta strada di scricchiolante corallo, tra palmizi e un fitto sottobosco, con un alto colle che si levava da un lato, a cinque o sei chilometri di distanza, sulla spina dorsale dell'isola.

«Oh, come è bello!» esclamò Meggie.

Erano venuti a trovarsi su un'altra strada, che correva tutt'attorno alle curve spiagge sabbiose sul lato della laguna, a forma di falce di luna. Molto lontano, si vedevano altre candide spume, là ove l'oceano si frangeva con pizzi abbacinanti contro il margine esterno della scogliera; ma, al di qua dell'abbraccio di corallo, l'acqua era placidamente immota, uno specchio di argento levigato, color bronzo.

«L'isola è larga sei chilometri e mezzo e lunga circa tredici chilometri» spiegò la guida. Passarono accanto a un edificio bianco, irregolare, con una veranda profonda e finestre simili a vetrine di negozi. «L'emporio» disse l'uomo, con un gesto ampio, da proprietario. «Abito qui con mia moglie, che non è troppo contenta dell'arrivo di una donna sola, posso anche dirglielo. Crede che mi lascerò sedurre, così si è espressa. Per fortuna, l'agenzia ha detto che lei voleva una tranquillità e un silenzio assoluti, e così mia moglie si è calmata un po' quando le ho assegnato il villino più lontano che abbiamo. Non c'è anima viva da quelle parti; la sola coppia che si trova qui alloggia al lato opposto. Potrà passeggiare anche nuda... e nessuno la vedrà. Mia moglie non mi perderà mai di vista finché lei rimarrà qui. Quando avrà bisogno di qualcosa, dovrà soltanto alzare il ricevitore del telefono, e io gliela porterò. Sarebbe assurdo venire a piedi sin qui. E, faccia o non faccia piacere a mia moglie, passerò da lei una volta al giorno, al tramonto, tanto per accertarmi che stia bene. Meglio che a quell'ora si faccia trovare nel villino... e sia decentemente vestita, nell'eventualità che la mia metà voglia accompagnarmi.»

Di un solo piano, con tre stanze, il villino aveva la propria insenatura privata di spiaggia bianca, tra due speroni della montagna che si gettavano in mare, e lì la strada terminava. L'interno era molto semplice, ma comodo. Nell'isola esisteva un generatore elettrico, per cui nel villino si trovavano un piccolo frigorifero, la luce elettrica, il telefono promesso, e persino una radio. Il water aveva lo scarico, il bagno l'acqua corrente; più comodità moderne di quante ne esistessero a Drogheda o a Himmelhoch, pensò Meggie, divertita. Facile capire che quasi tutti i frequentatori dell'isola venivano da Sydney o da Melbourne, ed erano così assuefatti alla civiltà da non poterne più fare a meno.

Rimasta sola mentre Rob tornava di corsa dalla sospettosa consorte, Meggie vuotò la valigia e osservò il proprio regno. Il grande letto a due piazze era di gran lunga più morbido di quanto lo fosse stato il suo letto matrimoniale. Ma, d'altro canto, quello era considerato un autentico paradiso per le lune di miele e sembrava logico che i clienti pretendessero anzitutto un letto decente; i frequentatori dell'albergo di Dunny erano di solito troppo ubriachi per protestare contro le molle che uscivano dagli elastici. Trovò sia il frigorifero sia gli armadietti ben riforniti di provviste, e, sulla credenza, vide un grande cestino colmo di banane, melograne, ananassi e manghi. Non c'era motivo per cui non dovesse dormir bene, e mangiare altrettanto bene.

Nel corso della prima settimana, Meggie parve non fare altro che mangiare e dormire; non si era resa conto di quanto fosse stanca e non aveva capito che era il clima di Dungloe a toglierle l'appetito. Nel bellissimo letto dormiva appena si sdraiava, per dieci o dodici ore di fila, e il cibo esercitava su di lei un richiamo che non aveva più avvertito dai tempi di Drogheda. Si sarebbe detto che mangiasse in ogni momento, non appena si destava, e addirittura portava i manghi in bagno. A dire il vero, una vasca da bagno sembrava essere il posto più logico in cui mangiare manghi, poiché il loro succo colava dappertutto. Siccome la sua minuscola spiaggia si trovava all'interno della laguna, il mare era liscio come uno specchio, del tutto esente da correnti e assai poco profondo. Tutte cose che le facevano un gran piacere, perché non sapeva nuotare. Ma, in un'acqua tanto salsa che sembrava quasi sostenerla, cominciò a fare esperimenti, e quando riusciva a stare a galla per dieci secondi di seguito era felice. La sensazione di riuscire a liberarsi dall'attrazione della terra faceva sì che anelasse a sapersi muovere con la stessa disinvoltura di un pesce.

E così, se pure la solitudine la infastidiva, questo accadeva soltanto perché le sarebbe piaciuto che qualcuno le insegnasse a nuotare. A parte questo, star sola le sembrava meraviglioso. Quanto aveva avuto ragione Anne! Sempre, per tutta la sua vita, c'era stata gente in casa. Non vedere nessuno le dava un tale sollievo, era una fonte di tale serenità! Non si sentiva affatto sola; non le mancavano né Anne, né Luddie, né Justine, né Luke, e inoltre, per la prima volta dopo tre anni, non anelò a Drogheda. Il vecchio Rob non turbava mai la sua solitudine; si limitava ad avvicinarsi sulla strada con l'automobile scoppiettante, ogni sera al tramonto, per accertarsi che i suoi cenni amichevoli di saluto non fossero un segnale di soccorso, poi faceva l'inversione di marcia e ripartiva con la consorte sorprendentemente graziosa che, torva, montava di guardia. Una volta telefonò per dirle che avrebbe portato la coppia ospite dell'albergo a fare una gita sulla barca dal fondo di vetro; voleva essere della partita?

Fu come aver comprato il biglietto d'ingresso a un pianeta del tutto nuovo, scrutare attraverso la lastra di cristallo quel mondo brulicante e squisitamente fragile, ove forme delicate venivano sostenute e fatte galleggiare dall'intimità affettuosa dell'acqua. Il corallo vivo, scoprì Meggie, non era sfarzosamente tinto come sul banco dei souvenirs nell'emporio. Aveva morbide sfumature rosee, o beige, o blu-grigie, e intorno a ogni protuberanza o diramazione ondulava un meraviglioso arcobaleno di colori, simile a un'aura visibile. Grandi anemoni di mare, larghi trenta centimetri, facevano fluttuare frange di tentacoli blu o rossi o arancione o viola; bivalvi bianchi e scanalati, grandi come rocce, invitavano gli esploratori incauti a dare un'occhiata al loro interno, lasciando intravedere la tentazione di cose colorate e in movimento di tra gli orli piumati; rossi ventagli di pizzo si agitavano nei venti dell'acqua; nastri di alghe di un verde vivido danzavano liberi, alla deriva. Non una delle quattro persone sulla barca si sarebbe minimamente stupita vedendo una sirena, un balenare di seni levigati, il guizzante luccichio di una coda, nubi di capelli pigramente fluttuanti, il sorriso seducente che incanta i marinai. Ma i pesci! Simili a gioielli viventi, sfrecciavano a migliaia e migliaia, tondi come lanterne cinesi, affusolati come proiettili, ammantati da colori che splendevano di vita e di quella qualità frazionatrice della luce dovuta alla presenza dell'acqua, taluni incendiati da squame d'oro e scarlatte, taluni di un fresco e argenteo azzurro, taluni simili a brandelli di stoffa più vistosi dei pappagalli. C'erano aguglie dal becco sottile come un ago, pesci-rospo dal muso schiacciato, barracuda dai denti taglienti; celata entro una grotta sottomarina, intravidero una cernia dalle fauci cavernose, e, a un certo momento, scorsero uno snello e grigio squalo-nutrice che parve impiegare un'eternità per passare silenziosamente sotto di loro.

«Ma non si preoccupino» disse Rob. «Ci troviamo troppo a sud, qui, per i veri squali; sulla scogliera, di pericoloso c'è solo il pesce-pietra. Non camminino mai sulle scogliere di corallo senza le scarpe.»

Sì, Meggie fu lieta di essere andata. Ma non desiderò ripetere la gita, né fare amicizia con la coppia accompagnata da Rob. Si immergeva in mare, e passeggiava, e restava sdraiata al sole. Strano a dirsi, non sentiva neppure la mancanza di libri da leggere, perché c'era sempre qualcosa di interessante da osservare.

Aveva seguito il consiglio di Rob e non si vestiva più. A tutta prima, tendeva a comportarsi come il coniglio selvatico che fiuta zaffate di dingo nella brezza, e si precipitava al riparo udendo lo schianto secco di una radice o il tonfo di una noce di cocco caduta da qualche palmizio, come un colpo di cannone. Ma, dopo parecchi giorni di solitudine, cominciò a persuadersi che nessuno si sarebbe avvicinato e che, davvero, come aveva detto Rob, quello era un regno assolutamente privato. La timidezza sembrava sprecata. E percorrendo i sentieri, sdraiandosi sulla sabbia, sguazzando nell'acqua tiepida e salata cominciò a sentirsi come un animale nato e cresciuto in gabbia, che all'improvviso venga lasciato libero in un mondo mite, assolato, spazioso, accogliente.

Lontana da Fee, dai fratelli, da Luke, dal dominio spietato e sconsiderato al quale era stata assoggettata per tutta la vita, Meggie scoprì il puro ozio; e un intero caleidoscopio di nuovi pensieri intrecciò e sciolse ricami inediti nella sua mente. Per la prima volta in vita sua, non calava il proprio io conscio in preoccupazioni di lavoro di qualche genere. Stupita, si rese conto che il lavoro fisico è il blocco più efficace che gli esseri umani possano erigere contro l'attività esclusivamente mentale.

Anni prima, Padre Ralph le aveva domandato a che cosa pensasse, e la sua risposta era stata: «A Pappi e a Ma', a Bob, a Jack, a Hughie, a Stu, ai gemelli, a Frank, a Drogheda, alla casa, al lavoro, alle piogge.» Non aveva detto «a te», sebbene Ralph fosse sempre il primo dell'elenco. Ora bisognava aggiungere Justine, Luke, Luddie e Anne, le canne da zucchero, la nostalgia di casa, le piogge. E sempre, naturalmente, il sollievo, l'ancora di salvezza che trovava nei libri. Ma tutto era accaduto e passato come un intrico confuso di ceppi e catene senza alcun rapporto tra loro; senza alcun insegnamento, senza alcuna possibilità per lei di mettersi tranquillamente a sedere e di riflettere, domandandosi chi fosse esattamente Meggie Cleary, Meggie O'Neill. Che cosa voleva? Per quale ragione riteneva di essere venuta al mondo? Si affliggeva perché non era andata a scuola: era un vuoto che non sarebbe mai riuscita a colmare, per quanto tempo potesse avere a sua disposizione. Tuttavia, ora disponeva di un po' di tempo, ora godeva la tranquillità, la pigrizia di un ozioso benessere fisico; poteva distendersi sulla sabbia e provare a pensare.

Bene, c'era Ralph. E rise ironicamente, con disperazione. Non era il punto giusto da cui cominciare, ma, in un certo senso, Ralph era come Dio, tutto cominciava e finiva con lui. Dal giorno in cui si era inginocchiato nel polveroso tramonto sulla piazza della stazione di Gilly per prenderle la mano tra le sue, Ralph esisteva, e, anche se non lo avesse più riveduto fino all'ultimo dei suoi giorni, sembrava probabile che l'estremo pensiero prima di scendere nella tomba sarebbe stato per lui. Come era spaventoso che una sola persona potesse significare tanto, tante cose diverse.

Che cosa aveva detto a Anne? Che le sue necessità e i suoi desideri erano molto comuni... un marito, figli, una casa sua. Qualcuno da amare. Sembrava che non fosse chiedere molto; in fin dei conti, la maggior parte delle donne aveva tutto questo. Ma quante delle donne che lo avevano erano realmente soddisfatte? Meggie pensava che lei lo sarebbe stata, soddisfatta, in quanto le era così difficile averlo.

Rassegnati, Meggie Cleary. Meggie O'Neill. Il qualcuno che vuoi tu è Ralph de Bricassart, e non puoi averlo. Eppure, come uomo, sembra che ti abbia rovinata per chiunque altro. Sta bene, allora. Supponi di non poter avere né un uomo, né quel qualcuno che ami. Dovrai amare dei bambini, e l'affetto che riceverai dovrà venirti da questi bambini. Il che, a sua volta, significa Luke, e i figli di Luke.

Oh, buon Dio, buon Dio! No, non buon Dio! Che cosa ha mai fatto Dio per me, se non privarmi di Ralph? Non siamo in rapporti molto buoni, Dio e io. E sai una cosa, Dio? Tu non mi fai più paura come un tempo. Quanto Ti temevo! Quanto temevo il Tuo castigo! Per tutta la vita ho camminato sul filo del rasoio, per paura di Te. E che cosa ho avuto in compenso? Non un briciolo di più di quanto mi sarebbe toccato se avessi violato ogni Tuo comandamento. Sei un impostore, Dio, un demone della paura. Ci tratti come bambini, facendoci penzolare davanti il castigo. Ma tu non mi spaventi più. Perché dovrei odiare non già Ralph, ma Te. La colpa è tutta Tua, non del povero Ralph. Ralph vive nella paura di Te, come ho sempre fatto io. E che Ralph abbia potuto amare Te è una cosa incomprensibile. Non capisco che cosa ci sia in Te da amare.

Eppure, come posso smettere di amare un uomo che ama Dio? Per quanto ci provi, sembra che non possa riuscirci. Ralph è la luna, e io sto piangendo per avere la luna. Bene, devi semplicemente smettere di piangere per avere la luna, Meggie O'Neill, tutto si riduce a questo. Dovrai accontentarti di Luke, e dei figli di Luke. Dovrai svezzare Luke, volente o nolente, dalle maledette canne da zucchero, e vivere con lui ove non esistono nemmeno alberi. Dirai al direttore della banca di Gilly che i tuoi futuri redditi dovranno essere accreditati a te e li spenderai per avere agi e comodità, gli agi e le comodità che Luke non si sognerebbe mai di darti. Li spenderai per educare come si deve i figli di Luke e accertarti che non gli manchi mai niente.

E non rimane altro da dire, Meggie O'Neill. Io sono Meggie O'Neill, non Meggie de Bricassart. Suona persino ridicolo, Meggie de Bricassart. Dovrei farmi chiamare Meghann de Bricassart, e ho sempre odiato il nome Meghann. Oh, la finirò mai di dolermi perché non saranno i figli di Ralph? Questo è il punto, no? Dillo a te stessa, più e più volte. La tua vita appartiene a te, Meggie O'Neill, e non la sciuperai sognando un uomo e figli che non potrai mai avere.

Ecco! Ecco quello che devi dire a te stessa! Inutile pensare a quello che è stato, a quello che deve essere sepolto. Soltanto l'avvenire conta, e l'avvenire appartiene a Luke, ai figli di Luke. Non appartiene a Ralph de Bricassart. Lui è il passato.

Meggie si rotolò sulla sabbia e pianse come non aveva più pianto dall'età di tre anni: alti gemiti, e soltanto granchiolini e uccelli ad ascoltare la sua desolazione.

Anne Mueller aveva scelto deliberatamente l'isola Matlock, proponendosi di mandarvi Luke non appena le fosse stato possibile. Subito dopo la partenza di Meggie, spedì un telegramma a Luke, dicendogli che Meggie aveva disperatamente bisogno di lui, e pregandolo di venire. Per indole, non era portata a intromettersi nella vita altrui, ma amava e compassionava Meggie, e adorava la bisbetica, capricciosa creaturina che Meggie aveva partorito e Luke generato. Justine doveva avere una casa, e avere entrambi i genitori. Sarebbe stato doloroso per lei vederla partire, ma questo era pur sempre meglio della situazione attuale.

Luke arrivò due giorni dopo. Stava recandosi allo zuccherificio di Sydney, e pertanto quel cambiamento di itinerario non gli avrebbe fatto perdere troppo tempo. Era ora che vedesse la bambina; se si fosse trattato di un maschio, sarebbe venuto subito dopo la nascita, ma la notizia che era una femmina lo aveva deluso moltissimo. Se proprio Meggie ci teneva tanto ad avere figli, che almeno i marmocchi fossero in grado di mandare avanti, un giorno, l'allevamento di Kynuna. Le femmine non servivano a un bel niente; si limitavano a mandare un uomo in miseria e, una volta cresciute, se ne andavano e lavoravano per qualcun altro invece di restare, come i maschi, a dare una mano al vecchio padre nei suoi ultimi anni.

«Come sta Meg?» domandò, salendo sulla veranda. «Non è malata, spero?»

«Spera? No, non è malata. Le spiegherò tutto tra un minuto. Ma prima venga a vedere la sua bellissima bambina.»

Contemplò la piccola, divertito e interessato, ma non emotivamente commosso, parve a Anne.

«Ha gli occhi più strani che abbia mai visto» disse. «Mi domando di chi siano.»

«Meggie dice che, a quanto le risulta, non li ha nessuno nella sua famiglia.»

«Nemmeno nella mia. Chissà a quali antenati somiglia, questa buffa creaturina. Non ha l'aria molto felice, vero?»

«Come potrebbe avere un'aria felice?» sbottò Anne, e, torva, si lasciò trasportare dall'ira. «Non ha mai veduto suo padre, non ha una vera casa, e non è molto probabile che ce l'abbia prima di crescere, se lei continuerà in questo modo!»

«Sto risparmiando, Anne!» protestò lui.

«Storie! So quanto denaro ha! Amici miei a Charters Towers mi spediscono il quotidiano locale, di tanto in tanto, e così ho letto annunci di proprietà in vendita molto più vicine di Kynuna e di gran lunga più fertili. Siamo in piena crisi economica, Luke! Lei potrebbe acquistare una bellezza di allevamento per molto meno della somma che ha in banca, e lo sa benissimo!»

«Ma è proprio per questo! C'è la crisi, e a ovest delle montagne c'è stata una dannata, terribile siccità, dal mese di giugno in poi. È il secondo anno che non piove affatto, nemmeno una goccia. Scommetto che in questo momento ne risentono le conseguenze anche a Drogheda, immagini dunque quale può essere la situazione dalle parti di Winton e di Blackall! No, credo proprio che dovrò aspettare.»

«Aspettare che il prezzo della terra salga in una buona stagione piovosa? Suvvia, Luke! È questo il momento di acquistare! Con le duemila sterline all'anno di Meggie garantite, potrà resistere anche per una siccità di dieci anni! Si limiti a non allevare bestiame nella proprietà. Tiri avanti con le duemila sterline annue di Meggie finché non verranno le piogge, e poi inizi l'allevamento.»

«Non sono ancora disposto a rinunciare alle canne da zucchero» disse lui, caparbio, sempre fissando gli strani occhi chiari di sua figlia.

«E questa è la verità, finalmente, no? Perché non lo ammette, Luke? Lei non vuole condurre l'esistenza di un uomo sposato; preferisce vivere come adesso, duramente, tra uomini, ammazzandosi di fatica, né più né meno come ogni uomo australiano su due. Che cos'ha questo fottuto paese, per cui gli uomini, qui, preferiscono stare con altri uomini invece di avere una vera vita familiare, con la moglie e i figli? Se è la vita degli scapoli quello che vogliono realmente, perché diavolo tentano il matrimonio, si può sapere? Lo sa quante mogli abbandonate ci sono nella sola Dunny, poverette che vivono a stento e cercano di tirar su i figli senza il padre? Oh, sta tagliando canne da zucchero, ma tornerà, sa, è solo questione di poco tempo. Ah! E a ogni distribuzione della posta, aspettano il postino accanto al cancelletto di casa, sperando che il bastardo mandi un po' di denaro. Ma quasi sempre non ricevono niente, e soltanto qualche volta qualche soldo... non abbastanza, ma qualcosa per mandare avanti la baracca!»

Stava tremando di rabbia, i dolci occhi castani le balenavano. «Sa, ho letto nel Brisbane Mail che l'Australia ha la più alta percentuale di mogli abbandonate in tutto il mondo civilizzato! La sola cosa nella quale superiamo ogni altro paese... Non le sembra un primato del quale possiamo essere fieri?»

«Ci vada piano, Anne! Io non ho abbandonato Meg. È al sicuro e non sta morendo di fame. Che cosa le ha preso, Anne?»

«Sono stufa di come sta trattando sua moglie, ecco che cosa mi ha preso! Per amor di Dio, Luke, cerchi di crescere, e si sobbarchi le sue responsabilità per qualche tempo! Ha moglie e una bambina! Dovrebbe dar loro una casa... essere un marito e un padre, non un dannato estraneo!»

«Lo farò, lo farò! Ma per il momento non posso; devo continuare a tagliar canne da zucchero per un altro paio di anni, così da sentirmi le spalle al sicuro. Non voglio dover dire che tiro avanti a spese di Meg, come accadrebbe fino a quando le cose non andassero meglio.»

Anne scoprì i denti in una smorfia sprezzante. «Oh, balle! L'ha sposata per il suo denaro, no?»

Uno scuro rossore gli si diffuse a chiazze sulla faccia abbronzata. Ma non alzò gli occhi su di lei. «Ammetto che il denaro mi ha influenzato, ma l'ho sposata perché mi piaceva più di tutte le altre.»

«Le piaceva! E quanto ad amarla?»

«Amore! Che cos'è l'amore? Soltanto una finzione della fantasia delle donne, ecco tutto.» Voltò le spalle alla culla e a quegli occhi che lo turbavano, dubitando che una creaturina con occhi come quelli non fosse in grado di capire quanto veniva detto. «E, se ha finito di farmi la predica, dov'è Meg?»

«Non stava bene. L'ho allontanata di qui per qualche tempo. Oh, non si faccia prendere dal panico! Non con il suo denaro. Speravo di poterla persuadere a raggiungerla, ma vedo che è impossibile.»

«È fuori questione. Arne e io ripartiamo per Sydney stanotte.»

«Che cosa dovrò dire a Meggie, quando tornerà?»

Luke fece spallucce, morendo dalla voglia di andarsene. «Mi è indifferente. Oh, le dica di pazientare ancora per un po'. Ora che ha cominciato a restare incinta, non mi dispiacerebbe avere un figlio maschio.»

Sostenendosi con un braccio contro la parete, Anne si chinò sulla culla di vimini e prese in braccio la bambina, poi riuscì ad arrancare fino al letto e a sedervisi; Luke non accennò affatto ad aiutarla, o a prendere la bambina; sembrava alquanto intimorito da sua figlia.

«Se ne vada, Luke! Lei non merita quello che ha. Sono stanca di vedermela davanti agli occhi. Torni al suo dannato Arne, alle maledette canne da zucchero e al lavoro che spezza la schiena!»

Sulla soglia, si soffermò. «Com'è che l'ha chiamata? Ho dimenticato il nome.»

«Justine, Justine, Justine!»

«Un nome stupido, maledizione» disse lui, e uscì.

Anne mise Justine sul letto e scoppiò in lacrime. Dio maledica tutti gli uomini, tranne Luddie! Dio li maledica! Era forse il lato tenero, sentimentale, quasi donnesco di Luddie, a renderlo capace di amare? E Luke, per caso, aveva ragione? L'amore era soltanto una finzione della fantasia femminile? O si trattava di qualcosa che potevano sentire soltanto le donne, o soltanto gli uomini che rinchiudevano in sé una donna in germe? Nessuna donna sarebbe mai riuscita a trattenere Luke, nessuna donna lo avrebbe mai legato a sé. Ciò che voleva, nessuna donna al mondo avrebbe potuto darglielo.

Ma, il giorno dopo, si era calmata, e non pensava più di aver tentato invano. Era arrivata quel mattino una cartolina illustrata di Meggie, che parlava con entusiasmo dell'isola Matlock e diceva quanto si sentisse bene. Qualcosa di buono era stato ottenuto. Meggie cominciava a sentirsi meglio. Sarebbe tornata una volta diminuito l'impeto dei monsoni, e avrebbe potuto affrontare la propria vita. Anne però decise di non dirle di Luke.

E così Nancy, diminutivo di Annunziata, portò Justine sulla veranda, mentre Anne zoppicava con tutto ciò che occorreva alla bambina entro un cestino tenuto tra i denti: pannolini di ricambio, il borotalco, e giocattoli. Sedette su una poltroncina di canne, tolse la bambina a Nancy e cominciò ad allattarla con il biberon pieno di Lactogen riscaldato da Nancy. Com'era piacevole, la vita era molto piacevole; aveva fatto del suo meglio per aprire gli occhi a Luke, e, se non ci era riuscita, per lo meno questo avrebbe significato che Meggie e Justine sarebbero rimaste a Himmelhoch ancora per qualche tempo. Non dubitava affatto che, in ultimo, Meggie si sarebbe resa conto dell'impossibilità di salvare il suo matrimonio e avrebbe fatto ritorno a Drogheda. Ma lei aveva paura di quel giorno.

Un'automobile sportiva inglese rossa uscì rombando dalla strada di Dunny e risalì il lungo viale d'accesso sulla collina; era nuova e lussuosa, aveva la capote abbassata e fissata con cinghie di cuoio, lo scappamento di acciaio inossidabile, e la vernice scarlatta risplendeva. Per qualche momento non riconobbe l'uomo che volteggiò al di sopra del basso sportello, in quanto indossava la tenuta del Queensland settentrionale, un paio di calzoncini e niente altro. Parola mia, è un gran bell'uomo! pensò, osservandolo con apprezzamento, e un ricordo le guizzò nella mente mentre saliva gli scalini due alla volta. Vorrei che Luddie non mangiasse tanto, un po' della snellezza di costui gli gioverebbe. Ah, be', non si tratta di un giovincello... che meravigliose tempie argentee... ma non ho mai visto un tagliatore di canne così in forma.

Poi, quando gli occhi placidi e remoti fissarono i suoi, lo riconobbe.

«Dio mio!» esclamò, e lasciò cadere il biberon.

Lo ricuperò, glielo diede, e si appoggiò alla ringhiera della veranda, voltato verso di lei. «Non si preoccupi. La tettarella non ha toccato il pavimento; può continuare ad allattare la bambina.»

La piccola stava cominciando ad agitarsi. Anne le ficcò la tettarella in bocca e riuscì a ritrovare il fiato sufficiente per parlare. «Ah, be', Eccellenza, questa sì che è una sorpresa!» Il suo sguardo indugiò su di lui, divertito. «Devo dire che non ha precisamente l'aspetto di un Arcivescovo. Non che lo abbia mai avuto, anche con la veste regolamentare. Immagino sempre che gli Arcivescovi di qualsiasi confessione siano grassi e pieni di sé.»

«Per il momento non sono un Arcivescovo, ma soltanto un prete che si gode meritate vacanze, quindi può chiamarmi Ralph. È stato questo esserino a causare tante sofferenze a Meggie, l'ultima volta che fui qui? Posso prenderla io? Credo di riuscire a tenere il biberon con l'angolazione giusta.»

Sedette sulla poltroncina accanto a quella di Anne, prese bambina e biberon e continuò ad allattare, le gambe accavallate con noncuranza.

«Meggie l'ha poi chiamata Justine?»

«Sì.»

«Mi piace. Buon Dio, guardi il colore dei capelli! Come quelli del nonno, in tutto e per tutto.»

«Dice così anche Meggie. Spero che alla povera creaturina non venga in seguito qualche milione di lentiggini, ma temo che sarà così.»

«Be', anche Meggie è rossa di capelli, in un certo qual modo, eppure non è affatto lentigginosa. Sebbene la pelle di Meggie abbia una grana differente e un colore diverso, più opaco.» Posò il biberon vuoto, si mise la bambina seduta su un ginocchio, voltata verso di lui, la chinò in avanti facendole fare un salamelecco e cominciò a massaggiarle ritmicamente ed energicamente la schiena. «Tra i miei altri compiti, devo visitare gli orfanotrofi cattolici, e quindi sono abituato ai bambini. Madre Gonzaga, nell'orfanotrofio che prediligo, lo dice sempre: questo è il solo modo per far ruttare un bambino. Tenerlo contro la spalla non gli fa flettere sufficientemente il corpo, l'aria non riesce a sfuggire tanto facilmente, e, quando sfugge, di solito è mescolata anche a un bel po' di latte. In questo modo invece il bambino è piegato nel mezzo e ciò trattiene il latte lasciando sfuggire il gas.» Come per dimostrare che aveva ragione, Justine ebbe una serie di enormi rutti, ma senza sbavare latte. Ralph rise, continuò a massaggiarla, e, quando non accadde altro, la sistemò meglio nella piega del braccio. «Che occhi favolosamente esotici. Magnifici, vero? Si poteva star certi che Meggie avrebbe avuto una bambina fuori del comune.»

«Non per cambiare discorso, ma che genitore sarebbe stato lei, Padre!»

«Mi piacciono tutti i bambini, piccoli e grandicelli, mi sono sempre piaciuti. È molto più facile per me godermeli, in quanto non ho tutti i doveri sgradevoli dei padri.»

«No, non è per questo. È perché lei somiglia un poco a Luddie. Ha in sé qualcosa di femminile.»

A quanto pareva Justine, di solito così isolazionista, ricambiava la simpatia; si era addormentata. Ralph si sistemò più comodamente e tolse dalla tasca dei calzoncini un pacchetto di Capstan.

«Qua, le dia a me. Gliel'accendo io, la sigaretta.»

«Dov'è Meggie?» domandò, togliendole di tra le dita la sigaretta accesa. «Grazie. Oh, mi scusi, ne prenda una anche lei, prego.»

«Non è qui. Non si era più ristabilita dopo il travaglio del parto, e "la piovosa" è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Così, Luddie e io abbiamo deciso di allontanarla per due mesi. Tornerà il primo marzo, fra sette settimane.»

Non appena ebbe parlato, Anne si accorse del mutamento intervenuto in lui; come se ogni suo scopo, e la promessa di un qualche particolarissimo piacere, si fosse dileguato all'improvviso.

Trasse un lungo respiro. «Questa è la seconda volta che vengo a salutarla e non la trovo... Prima di andare ad Atene, e adesso. Rimasi assente per un anno, allora, e avrei potuto restar via molto più a lungo; ma sul momento non lo sapevo. Non ero più stato a Drogheda dopo la morte di Paddy e di Stu, eppure, quando giunse il momento di partire, mi resi conto che non potevo andarmene dall'Australia senza aver riveduto Meggie. Ma si era sposata, non era più là. Avrei voluto cercarla, ma sapevo che non sarebbe stato leale nei confronti di Meggie o di Luke. Questa volta sono venuto sapendo di non poter nuocere a ciò che non esiste.»

«Dove sta per andare?»

«A Roma, in Vaticano. Il Cardinale Contini-Verchese ha sostituito il Cardinale Monteverdi, deceduto non molto tempo fa. E mi ha chiesto di raggiungerlo, come sapevo che avrebbe fatto. È un grande riconoscimento, e anche di più. Non posso rifiutare.»

«Per quanto tempo rimarrà via?»

«Oh, per moltissimo tempo, credo. Si parla di guerra, in Europa, anche se da qui tutto sembra così remoto. La Chiesa, a Roma, ha bisogno di tutti i suoi diplomatici e, grazie al Cardinale Contini-Verchese, io sono considerato un diplomatico. Mussolini ha stretto un'alleanza con Hitler - ogni simile ama il suo simile - e, in qualche modo, il Vaticano deve conciliare due ideologie opposte, il cattolicesimo e il fascismo. Non sarà facile. Io parlo benissimo il tedesco; ho imparato il greco mentre mi trovavo ad Atene e l'italiano quando ero a Roma. Parlo inoltre correntemente il francese e lo spagnolo.» Sospirò. «Sono sempre stato portato per le lingue, e ho volutamente coltivato questo dono. Era inevitabile che venissi trasferito.»

«Bene, Eccellenza, a meno che il piroscafo non salpi domani, potrà ancora vedere Meggie.»

Le parole saltarono fuori prima che Anne si fosse concessa il tempo di riflettere; perché Meggie non avrebbe dovuto vederlo ancora una volta, prima della partenza di lui, specie se, come sembrava, la sua assenza sarebbe stata molto lunga?

Ralph aveva voltato la testa verso di lei. Quegli occhi azzurri bellissimi e remoti erano molto intelligenti e difficilmente si tradivano. Oh, sì, era un diplomatico nato! Capiva esattamente ciò che lei gli stava dicendo, e si rendeva conto di ogni movente nel fondo dei suoi pensieri. Anne si sorprese ad aspettare con il fiato corto la risposta, ma per molto tempo Ralph non disse niente, si limitò a contemplare le canne color smeraldo al di là del fiume, dimenticando la bambina che aveva in braccio. Affascinata, Anne ne contemplò il profilo, la curva delle palpebre, il naso diritto, le labbra sigillate, il mento deciso. Quali forze stava schierando in se stesso, mentre contemplava il paesaggio? Quali complicati equilibri tra amore, desiderio, dovere, opportunità, forza di volontà, brama, stava bilanciando nella propria mente, e quali di queste considerazioni si contrapponevano alle altre? La mano di lui portò la sigaretta alle labbra; Anne vide le dita tremare, e silenziosamente si lasciò sfuggire il respiro dai polmoni. Ralph non era indifferente, dunque.

Per forse dieci minuti, non disse niente. Anne gli accese un'altra Capstan e gliela porse per sostituire il mozzicone spento. Fumò anche quella seconda sigaretta, una boccata dopo l'altra, senza mai distogliere lo sguardo dai monti lontani e dalle nubi monsoniche che si abbassavano nel cielo.

«Dov'è?» domandò poi, in un tono di voce normalissimo, lanciando il mozzicone oltre la ringhiera della veranda, come aveva fatto con il primo.

Dalla risposta di lei sarebbe dipesa la sua decisione, toccò ora a Anne pensare. Era giusto spingere altri esseri umani su una strada che conduceva non si sapeva dove o a che cosa? La sua lealtà andava tutta a Meggie; a dire il vero, non le importava un fico di quello che sarebbe accaduto a quest'uomo. A modo suo, non era migliore di Luke. Dedito a qualche ambizione maschile, senza mai trovare il tempo o la volontà di anteporvi una donna; correva per inseguire un qualche sogno che, con ogni probabilità, esisteva soltanto nella sua mente esaltata. Quel sogno non aveva più sostanza del fumo della fabbrica, che si disperdeva nell'aria greve, satura dell'odor di melassa. Ma era ciò che voleva, e avrebbe sperperato se stesso e la propria vita per inseguirlo.

Non aveva perduto il proprio buon senso, qualsiasi cosa Meggie potesse significare per lui — e Anne stava cominciando a credere che egli amasse Meggie più di ogni altra cosa al mondo, tranne quel suo strano ideale; non avrebbe posto in pericolo la possibilità di stringere saldamente nelle proprie mani, un giorno, quel che voleva. No, nemmeno per lei. Di conseguenza, se gli avesse risposto che Meggie si trovava in qualche affollato albergo turistico, ove avrebbero potuto riconoscerlo, non sarebbe andato. Nessuno sapeva meglio di lui come egli non fosse il tipo che può passare inosservato tra la folla. Anne si passò la punta della lingua sulle labbra e ritrovò la voce.

«Meggie si trova in un cottage dell'isola Matlock.»

«Dove?»

«L'isola Matlock. È una località di soggiorno vicinissima al Passaggio Whitsunday, e sembra fatta apposta per la solitudine. Inoltre, in questa stagione non vi si trova quasi anima viva.» Non seppe resistere alla tentazione di aggiungere: «Non si preoccupi, nessuno la vedrà!»

«Molto rassicurante.» Con grande dolcezza porse a Anne la bambina addormentata. «Grazie» disse, andando verso la scala. Poi si voltò, con una supplica alquanto patetica nello sguardo. «Ha preso un grosso granchio» disse. «Voglio soltanto vederla, niente più di questo. Non coinvolgerò mai Meggie in qualcosa che possa porne in pericolo l'anima immortale.»

«O la sua, eh? Allora farà meglio a presentarsi là come Luke O'Neill; l'aspettano. In questo modo non darà luogo ad alcuno scandalo, né per Meggie, né per se stesso.»

«E se Luke dovesse arrivare?»

«Non c'è pericolo. È andato a Sydney e non tornerà fino a marzo. Soltanto da me avrebbe potuto sapere che Meggie si trova a Matlock, e io non gliel'ho detto, Eccellenza.»

«Meggie si aspetta l'arrivo di Luke?»

Anne sorrise maliziosamente. «Oh, per carità, no.»

«Non le farò alcun male» insistette. «Voglio soltanto rivederla per breve tempo, ecco tutto.»

«Lo so bene, Eccellenza. Ma sta di fatto che le nuocerebbe assai meno se volesse di più» disse Anne.

Quando la vecchia automobile di Rob arrivò scoppiettante lungo la strada, Meggie si trovava sulla veranda del cottage, con la mano alzata per far capire che tutto andava bene e non aveva bisogno di niente. Rob fermò il macinino nel solito posto prima dell'inversione di marcia, ma, prima che tornasse indietro, un uomo in calzoncini corti, camicia e sandali saltò giù dalla macchina, con una valigia in mano.

«Arrivederci, signor O'Neill» gridò Rob ripartendo.

Ma Meggie non avrebbe mai potuto confondersi tra i due uomini, tra Luke O'Neill e Ralph de Bricassart. Quello non era Luke: anche da lontano, e nella luce che rapidamente andava dileguando, non si lasciò ingannare. Rimase in piedi ammutolita e aspettò, mentre si avvicinava lungo il sentiero, Ralph de Bricassart. Aveva deciso che la voleva, tutto sommato. Non poteva esserci alcun altro motivo, se l'aveva raggiunta in un luogo come quello, facendosi passare per Luke O'Neill.

Niente in lei sembrava funzionare, né le gambe, né la mente, né il cuore. Quell'uomo era Ralph, venuto a reclamarla; perché non sentiva niente? Come mai non si stava precipitando lungo il sentiero tra le sue braccia? Così infinitamente lieta di rivederlo che nessun'altra cosa al mondo poteva più contare? Quello era Ralph, e lei non aveva mai voluto altro dalla vita; non le era forse occorsa più di una settimana soltanto per tentar di cancellare dalla propria mente questa verità? Dio lo maledicesse, Dio lo maledicesse! Perché diavolo doveva venire lì, proprio quando stava finalmente cominciando a toglierselo dai pensieri, se non dal cuore? Oh, tutto sarebbe ricominciato daccapo! Stordita, sudata, adirata, rimase legnosamente in attesa, contemplando la figura aggraziata che andava ingrandendo.

«Ciao, Ralph» disse a denti stretti.

«Ciao, Meggie.»

«Porta dentro la valigia. Gradiresti una tazza di tè bollente?» Mentre parlava, lo precedette nel soggiorno, sempre senza guardarlo.

«Sarebbe piacevole» rispose, imbarazzato quanto lei.

La seguì nella cucina e stette a guardarla mentre inseriva la spina del fornellino, riempiva la teiera al boiler posto sopra l'acquaio, e si dava da fare togliendo tazze e piattini dalla credenza. Quando gli porse la grossa scatola da due chili di pastine da tè Arnotts, egli ne tolse due manciate e le mise in un vassoio. Il bricco bolliva. Meggie versò l'acqua calda fuori della teiera, vi mise il tè e la riempì con acqua bollente. Mentre portava il vassoio e la teiera, lui la seguì con le tazze e i piattini nel soggiorno.

Le tre stanze erano state costruite in fila, una dopo l'altra; la camera da letto dava su un lato del soggiorno e la cucina sull'altro, mentre il bagno si trovava più in là. Questo significava che il villino aveva due verande, una verso la strada e l'altra verso la spiaggia. E ciò, a sua volta, implicava che entrambi avevano qualcosa di giustificabile da contemplare, senza doversi guardare a vicenda. L'oscurità della notte era calata con la subitaneità dei tropici, ma l'aria, al di là delle porte scorrevoli spalancate, sembrava colma dello sciabordio dell'acqua, dello scroscio lontano della risacca contro la scogliera e delle folate intermittenti di vento dolce e caldo.

Sorseggiarono il tè in silenzio, senza che nessuno dei due riuscisse a toccare una pastina, e il silenzio si protrasse anche dopo il tè, mentre lui volgeva lo sguardo verso di lei, e Meggie teneva gli occhi fissi sull'agitarsi nel vento di un piccolo palmizio, oltre la porta della veranda che dava sulla strada.

«Che cos'hai, Meggie?» le domandò Ralph, con tanta dolcezza e tenerezza che il cuore le martellò frenetico. L'anelito dell'uomo adulto per la bimbetta. Non era venuto a Matlock per vedere la donna. Era venuto in cerca della bambina. Amava la bambina, non la donna. La donna l'aveva odiata sin dal momento in cui si era affacciata alla vita.

Gli occhi di lei si volsero e si alzarono verso i suoi, stupiti, offesi, furenti; anche ora, anche ora! Mentre il tempo rimaneva sospeso, lo fissò in questo modo, ed egli fu costretto a scorgere, sbalordito, con il respiro trattenuto, la donna adulta in quegli occhi limpidi come cristallo. Gli occhi di Meggie. Oh, Dio, gli occhi di Meggie!

Era stato sincero, parlando con Anne Mueller; voleva soltanto rivederla, niente di più. Sebbene l'amasse, non era venuto per diventarne l'amante. Soltanto per vederla, per parlarle, per esserle amico, per dormire sul divano nel soggiorno, tentando, una volta di più, di disseppellire le radici dell'eterno fascino che esercitava su di lui, in quanto pensava che soltanto se avesse potuto vederle a nudo, sarebbe riuscito a conquistare i mezzi spirituali per sradicarle.

Era stato difficile adattarsi a una Meggie con i seni, la vita sottile, i fianchi; ma c'era riuscito perché, quando la guardava negli occhi, là splendeva la sua Meggie, come l'alone di luce della lampada in un santuario. Una mente e uno spirito dalla cui attrazione non si era mai liberato sin dalla prima volta in cui l'aveva conosciuta, e sempre immutati in quel corpo cambiato, cambiato in modo da sgomentarlo; e, vedendole negli occhi la prova del fatto che la mente e lo spirito si perpetuavano, riusciva ad accettare il corpo modificato, e a disciplinare l'attrazione che provava per esso.

E, scrutando i propri sogni e i propri desideri, non aveva mai dubitato che volesse comportarsi nello stesso modo, finché, dopo la nascita di Justine, Meggie non gli si era avventata contro come una gatta provocata. Ma anche allora, una volta spentesi in lui l'ira e la tortura, aveva attribuito quel comportamento alle sofferenze attraverso le quali era passata, sofferenze spirituali più che fisiche. Ma ora, vedendola finalmente qual era, riusciva a precisare fino al secondo il momento il cui Meggie si era tolta le lenti dell'adolescenza per mettersi quelle di una donna: l'interludio nel cimitero di Drogheda, dopo la festa di compleanno di Mary Carson. Quando le aveva spiegato perché non potesse essere particolarmente premuroso con lei, in quanto la gente avrebbe potuto crederlo interessato a lei come un uomo. Lo aveva guardato con qualcosa negli occhi che non era riuscito a capire, distogliendo poi lo sguardo. E quando aveva riportato lo sguardo su di lui, la strana espressione era scomparsa. Da quel momento in poi, ora lo capiva, lo aveva pensato sotto una luce diversa; non era stata, la sua, una debolezza fuggevole, quando lo aveva baciato, per tornare poi a pensare a lui come in passato, come egli la pensava. Dal canto suo, aveva perpetuato le proprie illusioni, le aveva alimentate, riponendole, come meglio poteva, nel proprio immutabile sistema di vita, portandole come un cilicio. Mentre, per tutto il tempo, Meggie continuava a decorare il suo amore per lui con oggetti femminili.

Ralph doveva confessarlo, l'aveva desiderata fisicamente sin dal momento del loro primo bacio, ma il desiderio non lo aveva mai ossessionato quanto l'amore; considerava il desiderio e l'amore separati e diversi, non sfaccettature della stessa cosa. Lei, povera creatura fraintesa, non era mai stata vittima di una simile follia.

In quel momento, se fosse esistita una qualsiasi possibilità di andarsene dall'isola Matlock, egli sarebbe fuggito da Meggie come Oreste dalle Erinni. Ma non gli era possibile lasciare l'isola, ed ebbe il coraggio di restare alla presenza di lei invece di camminare senza meta, in modo assurdo, nella notte. Che cosa posso fare, come mi è possibile riparare in qualche modo? Io l'amo davvero! E, se l'amo, questo deve essere per come è adesso. Sono gli aspetti femminili che ho sempre amato in lei, la sopportazione del fardello. E dunque, Ralph de Bricassart, togliti i paraocchi, vedila qual è realmente e non com'era tanto tempo fa. Sedici anni fa, sedici anni incredibilmente lunghi... Io ho quarantaquattro anni e lei ne ha ventisei: nessuno di noi due è più un bambino, ma io sono di gran lunga il più immaturo.

Lo hai dato per dimostrato non appena io sono disceso dall'automobile di Rob, non è così, Meggie? Hai creduto che mi fossi arreso, finalmente. E, prima ancora che tu avessi tempo di riprendere fiato, ho dovuto dimostrarti quanto sbagliavi. Ho lacerato il tessuto delle tue illusioni come se fosse stato un sudicio, vecchio straccio. Oh, Meggie! Che cosa ti ho fatto? Come ho potuto essere così cieco, così totalmente egocentrico? Non ho ottenuto niente, venendo a trovarti, tranne che tagliarti a pezzettini. In tutti questi anni, abbiamo amato in senso opposto.

Continuava a fissarlo negli occhi, e i suoi occhi si stavano colmando di vergogna, di umiliazione; ma, man mano che le espressioni si susseguivano sulla faccia di lui, fino all'ultima di disperata compassione, parve rendersi conto dell'enormità del proprio errore, di quanto fosse orribile. E non solo; ma anche del fatto che Ralph sapeva di quell'errore.

Va', fuggi! Fuggi, Meggie, vattene di qui con quel brandello di orgoglio che ti ha lasciato! Non appena lo ebbe pensato, agì di conseguenza, balzò in piedi e fuggì.

Prima che fosse arrivata sulla veranda lui la raggiunse, e l'impeto della corsa gliela fece piroettare contro con tanta forza che barcollò. Non contò più niente, nulla contò più, la battaglia estenuante per conservare l'integrità della propria anima, il lungo conculcare il desiderio con la volontà; in pochi attimi, Ralph aveva vissuto intere esistenze. Tutta quella forza mantenuta inattiva, addormentata, e alla quale occorreva soltanto la detonazione di un contatto per scatenare un caos nel quale la mente era asservita alla passione, e la volontà della mente si estingueva nella volontà del corpo.

Le braccia di lei gli salirono intorno al collo, le sue braccia la cinsero alla schiena, spasmodiche; Ralph abbassò la testa, cercò alla cieca con la bocca la bocca di Meggie, la trovò. Quella bocca non più indesiderata, non più un ricordo sgradito, ma reale. Le braccia di Meggie che lo stringevano come se non avesse sopportato di lasciarlo andar via; il modo con il quale sembrava perdere persino la sensazione delle proprie ossa. Quanto era tenebrosa, come la notte, un intrico di ricordi e desideri, di ricordi indesiderati e di desideri sgraditi. Gli anni durante i quali doveva aver anelato a questo, anelato a lei e negato il potere di lei, impedendo a se stesso persino di pensare a Meggie come a una donna!

Fu lui a portarla sul letto, o ci andarono insieme? Gli sembrava di avercela portata sulle braccia, ma non poteva esserne certo; seppe soltanto che lei era lì sul letto, che lui era lì sul letto, che aveva la pelle di Meggie sotto le mani, che la sua pelle era sotto quella di Meggie. Oh, Dio! Meggie, Meggie! Come hanno potuto crescermi sin dall'infanzia insegnandomi a crederti una profanazione?

Il tempo smise di ticchettare e cominciò a fluire, lo inondò fino a non avere più alcun significato, soltanto una profondità di dimensione più reale del tempo reale. Sentiva Meggie eppure non la sentiva, non era come un'entità separata; voleva renderla definitivamente e per sempre una parte di sé, un innesto che fosse lui stesso, non una simbiosi che riconoscesse in lei una creatura a sé. Mai più avrebbe conosciuto le spinte verso l'alto dei seni, del ventre e delle natiche, le pieghe e le fenditure intermedie. Era realmente fatta per lui, perché era stato lui a crearla, per sedici anni l'aveva foggiata e modellata, senza rendersi conto di quel che faceva, e tanto meno del perché. E dimenticò che l'aveva sempre gettata via, che un altro uomo le aveva mostrato la fine di ciò che lui stava cominciando e che sempre era stato riservato a lui, poiché rappresentava la sua caduta, la sua rosa; la sua creazione. Era un sogno dal quale non si sarebbe destato mai più, finché fosse stato un uomo, con il corpo di un uomo. Oh, buon Dio! So, so! Ora so perché l'ho sempre conservata in me come un'idea e come una bambina, per molto tempo dopo che era cresciuta al di là della bambina e al di là dell'idea; ma perché è necessario impararlo in questo modo?

Infatti, capiva finalmente come ciò che aveva anelato a essere non fosse un uomo. Non un uomo, mai un uomo; qualcosa di gran lunga più grande, qualcosa che trascendeva il fato di un mero uomo. Eppure, nonostante tutto, il suo fato lo aveva lì, sotto le mani: fremeva e si accendeva con lui, che era il suo uomo. Un uomo, per sempre un uomo. Buon Dio, non avresti potuto allontanare questo da me? Sono un uomo, non potrò mai essere Dio; è stata un'illusione, questa vita alla ricerca della divinità. Siamo tutti uguali, noi sacerdoti, anelando a essere Dio? Abiuriamo il solo atto che inconfutabilmente ci dimostra uomini.

Avvolse le braccia intorno a lei e la contemplò con gli occhi pieni di lacrime vedendo il viso immoto, fiocamente illuminato, osservando la bocca come un bocciolo di rosa dischiudersi, ansimare, divenire una O indifesa di stupefatto piacere. Le braccia e le gambe di lei gli erano attorno, corde vive che lo legavano a Meggie, e sericamente, scivolosamente lo torturavano; le appoggiò il mento alla spalla, appoggiò la gota alla morbidezza di quella di lei e si abbandonò all'impulso, che fa impazzire ed esaspera, di un uomo alle prese con il fato. La sua mente vacillò, scivolò, divenne completamente buia e luminosa fino ad abbacinarlo; per un momento venne a trovarsi entro il sole, poi la luminosità si attenuò, diventò grigia e scomparve. Questo significava essere un uomo. Non poteva essere di più. Ma non fu questa la causa della sofferenza. La sofferenza fu nel momento ultimo, nel momento finito, nella vuota, desolata consapevolezza: l'estasi è fuggevole. Non sopportava di lasciarla andare, non ora che l'aveva posseduta; era stato lui stesso a crearla per sé. E così si avvinghiò a lei come l'uomo che affoga in un mare solitario si avvinghia a una trave, e, di lì a non molto, galleggiando, alzandosi ancora su una marea che rapidamente diveniva familiare, soccombette a quel fato imperscrutabile che è dell'uomo.

Che cos'era il sonno? si domandò Meggie. Una benedizione, una tregua dalla vita, una eco della morte, un fastidio imperioso? Qualsiasi cosa fosse, egli vi si era abbandonato e giaceva con un braccio su di lei, e il capo accanto alla sua spalla, possessivo anche nel sonno. Era stanca a sua volta, ma non avrebbe consentito a se stessa di dormire. In qualche modo, sentiva che, se avesse allentato la presa sulla propria consapevolezza, lui avrebbe potuto non essere più lì, quando fosse ridivenuta cosciente. In seguito avrebbe potuto dormire, una volta destatosi Ralph, non appena la sua bocca bella e contegnosa avesse pronunciato le prime parole. Che cosa le avrebbe detto? Si sarebbe rammaricato? Gli aveva dato un piacere che valesse quanto egli aveva abbandonato? Per tanti anni si era battuto contro il piacere, e l'aveva costretta a battersi con lui; difficilmente poteva indursi a credere che Ralph avesse abbassato le braccia, finalmente, ma vi erano state cose dette da lui, durante la notte e nel pieno della sua sofferenza, che cancellavano quel lungo diniego.

Meggie era supremamente felice, più felice di quanto riuscisse a ricordare d'essere mai stata. Dal momento in cui l'aveva trascinata indietro dalla porta, tutto era stato un poema fisico, una faccenda di braccia e mani e pelle ed estremo godimento. Ero fatta per lui, e soltanto per lui... Ecco perché mi sentivo così insignificante con Luke! Trascinata oltre i limiti della sopportazione sulla marea del proprio corpo, una sola cosa era riuscita a pensare, che dargli tutto il possibile le era più necessario della vita stessa. Non doveva mai pentirsene, mai! Oh, la sofferenza di Ralph! Vi erano stati momenti in cui le era sembrato di recepirla effettivamente come una sofferenza sua. La qual cosa aveva soltanto contribuito al piacere; esisteva una certa giustizia nella sofferenza di lui.

Era desto. Lo guardò negli occhi e vide nel loro azzurro lo stesso amore che l'aveva accesa, che le aveva dato uno scopo per la prima volta dopo la fanciullezza; e, insieme all'amore, una grande, cupa stanchezza. Non uno sfinimento del corpo, ma dell'anima.

Stava pensando che, in tutta la vita, non si era mai destato con un'altra persona nello stesso letto; in un certo qual modo, questo era un fatto più intimo dell'atto sessuale che aveva preceduto il risveglio, era un'attestazione deliberata di legami emotivi, un attaccamento a lei. Leggero e vuoto come l'aria, satura di salsedine e di odori di vegetazione imbevuta di sole, Ralph vagò per qualche tempo sulle ali di un diverso genere di libertà: il sollievo di aver rinunciato all'imperativo di lottare contro di lei, la pace dopo aver perduto una guerra lunga, incredibilmente cruenta, nel constatare che la resa era di gran lunga più dolce delle battaglie. Ah, ma ti ho combattuta bene, Meggie! Eppure, da ultimo, devo mettere insieme non i tuoi frammenti, ma i brandelli smembrati di me stesso.

Fosti posta nella mia vita per dimostrarmi quanto falso, quanto presuntuoso sia l'orgoglio di un prete della mia specie; come Lucifero, aspiravo a ciò che appartiene soltanto a Dio, e, come Lucifero, sono caduto. Ho conosciuto la castità, l'ubbidienza, anche la povertà, prima di Mary Carson. Ma, fino a stamane, non avevo mai conosciuto l'umiltà. Buon Dio, se Meggie non significasse niente per me, sarebbe più facile sopportare, ma a volte penso di amarla molto più di quanto ami Te, e anche questo fa parte del Tuo castigo. Di lei non dubito. Ma di Te? Un'illusione, un fantasma, una burla. Come posso amare una burla? Eppure, è così.

«Se riuscissi a mettere insieme le energie necessarie, andrei a nuotare, e poi farei colazione» disse, cercando disperatamente qualcosa da dire, e la sentì sorridere contro il proprio petto.

«Comincia a farti una nuotata, e intanto io preparerò la colazione. E non è necessario mettersi qualcosa addosso, qui. Non viene mai nessuno.»

«Un vero paradiso!» Fece scivolare le gambe giù dal letto, si drizzò a sedere e si stiracchiò. «È una splendida mattinata. Mi domando se sia un presagio.»

Già la sofferenza della separazione, semplicemente perché era sceso dal letto. Distesa, lo guardò mentre si avvicinava alle porte scorrevoli che davano sulla spiaggia, usciva e si soffermava. Ralph si voltò, tese la mano.

«Vieni con me? Possiamo fare colazione insieme.»

Alta la marea, sommersa la scogliera, caldo il primo sole, ma l'irrequieta brezza estiva era fresca; l'erba ruvida esplorava la sabbia sbriciolantesi, diversa dalla solita sabbia, ove granchiolini e altri animaluzzi scorrazzavano dopo aver trovato il cibo.

«Ho la sensazione di non aver mai veduto il mondo prima d'ora» disse, guardandosi attorno con gli occhi spalancati.

Meggie gli afferrò la mano; aveva ricevuto la Visitazione, e trovava quel seguito assolato più incomprensibile della sognante realtà della notte. Indugiò con lo sguardo su di lui, soffrendo. Il tempo sembrava essere fuori della mente, un mondo diverso.

E pertanto disse: «Non questo mondo. Come avresti potuto? Questo è il nostro mondo, finché durerà.»

«Com'è Luke?» le domandò lui, mentre facevano colazione.

Reclinò il capo, riflettendo. «Non ti somiglia tanto fisicamente come solevo pensare, perché a quei tempi mi mancavi di più, non mi ero ancora abituata a fare a meno di te. Lo sposai, credo, perché mi ricordava te. In ogni modo, avevo deciso di sposare qualcuno, e lui superava gli altri con tutta la testa e le spalle. Non mi riferisco al valore, o alla bellezza, o a una qualsiasi delle cose che si ritiene le donne trovino desiderabili in un marito. Soltanto in un certo modo che non saprei precisare. Tranne forse dicendo che è come te. Anche lui non ha bisogno delle donne.»

La faccia gli si contorse. «È così che mi vedi, Meggie?»

«Sinceramente? Credo di sì. Non capirò mai il perché, ma credo che sia così. C'è qualcosa di radicato, in Luke e in te, che pensa che aver bisogno di una donna sia un indizio di debolezza. Non mi riferisco all'andare a letto con una donna, mi riferisco alla necessità, alla vera necessità.»

«E, credendo questo, puoi ancora volerci?»

Alzò le spalle e sorrise con una traccia di pietà. «Oh, Ralph! Non dico che non sia importante, e senza dubbio mi ha causato molta infelicità, ma le cose stanno così. Sarei una sciocca se mi sprecassi nel tentativo di sradicare quel qualcosa che avete tu e Luke, poiché non può essere sradicato. Il meglio che possa fare è sfruttare la debolezza, non ignorarne l'esistenza. Perché anch'io ho desideri e necessità. E, a quanto pare, desidero e mi sono necessari uomini come te e Luke, altrimenti non mi sarei rovinata come ho fatto per voi due. Avrei sposato un uomo buono, gentile, semplice, come mio padre, qualcuno che mi volesse e avesse bisogno di me. Ma c'è un qualcosa di Sansone in ogni uomo, credo. Solo che, negli uomini come te e Luke, è più pronunciato.»

Non sembrava si fosse offeso; stava sorridendo. «Come sei saggia, Meggie!»

«Questa non è saggezza, Ralph. È soltanto buon senso. Non sono affatto una persona molto assennata, e lo sai. Ma pensa ai miei fratelli. Dubito che i più anziani, almeno, si ammoglieranno mai, o avranno anche soltanto amichette. Sono terribilmente schivi, terrorizzati dal potere che una donna potrebbe avere su di loro, e assolutamente legati a Ma'.»

I giorni si susseguirono ai giorni, le notti si susseguirono alle notti. Anche le copiose piogge furono belle; camminare nudi sotto la pioggia e ascoltarla sul tetto di lamiera, calda e ricca di carezze come il sole. E, quando il sole splendeva, continuavano a passeggiare, oziavano sulla spiaggia, nuotavano; poiché Ralph le stava insegnando a nuotare.

A volte, quando non sapeva di essere osservato, Meggie lo guardava e disperatamente cercava di imprimersi il suo volto nella mente, ricordando come, nonostante l'affetto che aveva avuto per Frank, con il trascorrere degli anni l'immagine di lui, il suo aspetto si fossero offuscati. Ecco gli occhi di Ralph, il naso, la bocca, le stupefacenti brizzolature argentee sui capelli neri, il corpo lungo e forte che aveva conservato la snellezza e la tensione della gioventù, ma che pure si era un po' appesantito, aveva perduto elasticità. E poi lui si voltava, la sorprendeva intenta a osservarlo, e negli occhi gli si affacciava un'espressione di ossessionata sofferenza, di condanna. Capiva l'implicito messaggio, o credeva di capirlo; Ralph doveva ripartire, doveva tornare alla Chiesa e ai suoi doveri. Mai più con lo stesso spirito di prima, forse, ma più capace di servirla. Poiché soltanto chi è scivolato e caduto conosce le difficoltà del cammino.

Un giorno, quando il sole si era abbassato nel cielo quanto bastava per insanguinare il mare e colorare di un giallo brumoso la sabbia di corallo, si voltò verso di lei mentre giacevano sulla spiaggia.

«Meggie, non sono mai stato così felice, o così infelice.»

«Lo so, Ralph.»

«Sì, credo che tu lo sappia. È perché ti amo? Tu non sei molto diversa dalle donne comuni, Meggie, eppure non sei affatto comune. L'ho sempre intuito, in tutti questi anni? Dev'essere così, presumo. La mia passione per i capelli tizianeschi! Non immaginavo di certo dove mi avrebbe condotto. Ti amo, Meggie.»

«Te ne vai?»

«Domani. Devo. Il piroscafo salpa per Genova tra meno di una settimana.»

«Per Genova?»

«Vado a Roma. Per molto tempo, forse per tutto il resto della mia vita. Non lo so.»

«Non preoccuparti, Ralph, ti lascerò andare senza fare storie. Anche la mia vacanza è quasi finita. Lascerò Luke, e tornerò a Drogheda.»

«Oh, santo Cielo! Non per questo, non a causa mia?»

«No, naturalmente no» mentì lei. «Avevo già deciso prima del tuo arrivo. Luke non mi vuole e non ha bisogno di me; non gli mancherò minimamente. Ma ho bisogno di una casa, di qualcosa che mi appartenga, e ora penso che Drogheda sarà sempre il luogo fatto per me. Non è giusto che la povera Justine cresca in una casa ove io sono la cameriera, sebbene sappia che Anne e Luddie non mi considerano una cameriera. Ma io mi ritengo una cameriera, e coi mi vedrà Justine, quando sarà abbastanza grande per capire che non ha una casa normale. In un certo senso, una casa normale non le piacerà mai, ma io devo fare per lei tutto quello che posso. Di conseguenza, tornerò a Drogheda.»

«Ti scriverò, Meggie.»

«No, non scrivermi. Credi che abbia bisogno di lettere, dopo tutto questo? Non voglio niente tra noi che possa metterti in pericolo, farti cadere nelle mani di persone senza scrupoli. Quindi nessuna lettera. Se per caso tu venissi in Australia, sarebbe logica e normale una tua visita a Drogheda, ma ti invito, Ralph, a riflettere a lungo, prima. Vi sono due soli luoghi al mondo nei quali tu appartieni a me prima che a Dio... qui a Matlock, e a Drogheda.»

La prese tra le braccia e la strinse, accarezzandole i capelli luminosi. «Meggie, vorrei con tutto il cuore poterti sposare e non dovermi più separare da te. Non voglio lasciarti... E, in un certo senso, non potrò più liberarmi di te. Vorrei non essere venuto a Matlock. Ma non possiamo essere diversi da come siamo, e forse è meglio così. So cose di me che non avrei mai saputo o affrontato se non fossi venuto qui. È preferibile battersi contro il noto anziché contro l'ignoto. Ti amo. Ti ho sempre amata, e sempre ti amerò. Ricordalo.»

Il giorno dopo, Rob apparve per la prima volta da quando aveva accompagnato Ralph e aspettò paziente mentre loro due si dicevano addio. Ovviamente, non si trattava di una coppia di sposini, poiché egli era venuto dopo di lei e se ne andava prima. E nemmeno poteva trattarsi di amanti. Erano sposati, glielo si leggeva in faccia. Ma si amavano molto, moltissimo. Come lui e sua moglie: una grande differenza di età, dipendeva da questo un buon matrimonio.

«Arrivederci, Meggie.»

«Arrivederci, Ralph. Abbi cura di te.»

«Sì. Anche tu.»

Si chinò per baciarla; nonostante la sua ferma decisione, gli si avvinghiò, ma, quando lui le staccò le mani dal proprio collo, Meggie le mise rigidamente dietro la schiena e le tenne là.

Ralph salì sull'automobile e, mentre Rob si apprestava a fare l'inversione di marcia, sedette; poi guardò fisso dinanzi a sé attraverso il parabrezza senza voltarsi una sola volta. Erano rari gli uomini capaci di questo, si disse Rob, senza aver mai sentito parlare di Orfeo. Viaggiarono in silenzio attraverso la pioggia e giunsero finalmente sul lato di Matlock ove si trovava il lungo pontile. Mentre si scambiavano una stretta di mano, Rob guardò in faccia l'altro, meravigliandosi. Non aveva mai veduto occhi così umani, o così tristi. Il distacco era svanito per sempre dallo sguardo dell'Arcivescovo Ralph.

Quando Meggie tornò a Himmelhoch, Anne capì immediatamente che l'avrebbe perduta. Sì, era sempre la stessa Meggie... ma lo era molto più intensamente, in qualche modo. Qualsiasi cosa l'Arcivescovo Ralph potesse aver detto a se stesso prima di recarsi a Matlock, sull'isola le cose si erano svolte come voleva Meggie, finalmente, e non come voleva lui. Ed era tempo.

Meggie prese Justine tra le braccia, come se soltanto adesso capisse che cosa significava averla, e rimase in piedi cullando la creaturina mentre si guardava attorno nella stanza, sorridendo. I suoi occhi incontrarono quelli di Anne; così vivi, così splendenti di commozione, che Anne sentì i propri riempirsi di lacrime della stessa felicità.

«Non potrò mai ringraziarti abbastanza, Anne.»

«Sciocchezze, per che cosa?»

«Per avermi mandato Ralph. Devi aver saputo che il suo arrivo mi avrebbe decisa a lasciare Luke, e per questo ti ringrazio tanto di più, cara. Oh, non puoi avere idea di quello che hai fatto per me! Avevo deciso che sarei rimasta con Luke, sai. Ora invece tornerò a Drogheda e non me ne allontanerò mai più.»

«Non sopporto di vederti partire, e ancor meno sopporto di perdere Justine, ma sono ugualmente lieta per tutte e due, Meggie. Luke non ti darebbe mai altro che infelicità.»

«Sai dove si trova?»

«È tornato dallo zuccherificio. Sta tagliando canne da zucchero vicino a Ingham.»

«Dovrò andare da lui, e dirglielo. E, per quanto la sola idea mi riesca insopportabile, dovrò dormire con lui.»

«Cosa?»

Gli occhi splendettero. «Sono in ritardo di due settimane con il mestruo, e non ho mai tardato di un solo giorno. L'unica altra volta accadde quando ero rimasta incinta di Justine. Sono incinta, Anne, so di esserlo!»

«Dio mio!» Anne fissò Meggie a bocca aperta, come se non l'avesse mai veduta prima di allora; e forse era davvero così. Si leccò le labbra e balbettò: «Potrebbe essere un falso allarme.»

Ma Meggie scosse la testa, recisamente. «Oh, no, sono incinta. Certe cose si sanno e basta.»

«Sei un bel demonietto» mormorò Anne.

«Oh, Anne, non essere cieca! Non capisci che cosa significa questo? Ralph non potrò mai averlo, ho sempre saputo che non avrei potuto averlo mai. E ora invece lo ho, lo ho!» Rise, stringendo a sé Justine con tanta forza, da far temere a Anne che la bambina si mettesse a strillare, e invece, strano a dirsi, non fu così. «Ho avuto quella parte di Ralph che la Chiesa non potrà mai avere, quella parte di lui che si tramanda di generazione in generazione. Attraverso di me egli continuerà a vivere, perché io so che metterò al mondo un maschio. E questo suo figlio avrà figli, i quali a loro volta avranno altri figli... Riuscirò ugualmente a sconfiggere Dio. Ho amato Ralph sin da quando avevo dieci anni, e presumo che continuerei ad amarlo anche se dovessi campare fino a cent'anni. Ma egli non mi appartiene, mentre questo bambino sarà mio. Mio, Anne, mio!»

«Oh, Meggie!» disse Anne, smarrita.

La passione si spense, e così l'esultanza; divenne, una volta di più, la Meggie familiare, tranquilla e dolce, ma con il sottile filo d'acciaio in sé, con la capacità di sopportare molto. Anne però divenne cauta, e si domandò che cosa avesse fatto mandando Ralph de Bricassart all'isola Matlock. Era mai possibile che una persona cambiasse tanto? Quel sottile filo d'acciaio doveva essere sempre esistito, così ben nascosto da consentire soltanto di rado di sospettarne la presenza. E c'era qualcosa di più d'un sottile filo d'acciaio in Meggie; era tutta d'acciaio.

«Meggie, se mi vuoi un po' di bene, mi faresti il favore di ricordare una cosa?»

Gli occhi grigi formarono piegoline agli angoli. «Ci proverò!»

«Mi sono letta quasi tutti i libri di Luddie nel corso degli anni, quando avevo finito i miei. Specie quelli con le antiche storie greche, perché mi affascinano. Dicono che i greci hanno una parola per tutto, e che non esiste situazione umana la quale non sia stata descritta dai greci.»

«Lo so, ho letto anch'io alcuni libri di Luddie.»

«Allora non ricordi? I greci dicono che è un peccato contro gli dei amare qualcuno al di là di ogni limite della ragione. E rammenti? Dicono che quando qualcuno viene così amato, gli dei si ingelosiscono e lo colpiscono nella pienezza della sua fioritura. Si può ricavarne una lezione, Meggie. È un'empietà amare troppo.»

«Empietà, Anne, ecco la parola-chiave! Io non amerò il figlio di Ralph empiamente, ma con la purezza della Madonna.»

Gli occhi castani di Anne erano molto tristi. «Ah, ma lei amò con purezza? L'oggetto del suo amore venne stroncato nella pienezza della fioritura, non è così?»

Meggie rimise Justine nella culla. «Quello che dovrà essere, sarà. Ralph non posso averlo, suo figlio sì. Sento... oh, come se esistesse uno scopo nella mia vita, tutto sommato! Questa è stata la cosa peggiore degli ultimi tre anni e mezzo, Anne. Stavo cominciando a pensare che la mia esistenza non avesse alcuno scopo.» Sorrise con animazione e decisione. «Proteggerò questo bambino in tutti i modi possibili, per quanto possa costarmi. E per prima cosa, nessuno, Luke compreso, dovrà poter mai insinuare che non abbia diritto al solo nome che io posso dargli. Il solo pensiero di andare a letto con Luke mi fa star male, ma lo farò. Dormirei anche con il demonio, se ciò potesse favorire l'avvenire del bambino. Poi tornerò a Drogheda e spero che non vedrò Luke mai più.» Voltò le spalle alla culla. «Verrete a trovarci, tu e Luddie? A Drogheda c'è sempre posto per gli amici.»

«Una volta all'anno, tutti gli anni, finché ci vorrai. Luddie e io vogliamo veder crescere Justine.»

Soltanto il pensiero del figlio di Ralph sostenne il vacillante coraggio di Meggie mentre la piccola littorina dondolava e sobbalzava lungo gli interminabili chilometri verso Ingham. Se non fosse stato per la nuova vita che era certa stesse crescendo in lei, andare a letto di nuovo con Luke avrebbe rappresentato l'ultimo peccato commesso contro se stessa, ma, per il figlio di Ralph, avrebbe davvero firmato un patto anche con il demonio.

Dal punto di vista pratico, non sarebbe neppure stato facile, lo sapeva. Ma aveva predisposto i propri piani con tutta la preveggenza possibile, e, strano a dirsi, con l'aiuto di Luddie. Non era riuscita a nascondergli un granché; era troppo scaltro, e inoltre Anne gli confidava sempre ogni cosa. Aveva guardato Meggie malinconicamente, scuotendo la testa, poi si era accinto a darle alcuni eccellenti consigli. Nessuno aveva accennato, naturalmente, al vero scopo del viaggio di lei, ma Luddie, come quasi tutte le persone che leggono tomi massicci, sapeva sommare due più due.

«Non dovrai dire a Luke che lo lascerai quando sarà logorato a furia di tagliare canne da zucchero» osservò Luddie, con delicatezza. «E inoltre sarà di gran lunga preferibile avvicinarlo quando è di buon umore, non ti sembra? La cosa migliore è fargli visita un sabato sera, o una domenica, dopo che sarà stato il suo turno di cucinare per una settimana. Corre voce che Luke sia il miglior cuoco tra i tagliatori di canne... Imparò a cucinare quando faceva il garzone nei capannoni della tosatura, e i tosatori sono ancor più schizzinosi dei tagliatori di canne. Questo significa che cucinare non lo infastidisce, capisci? Probabilmente, trova la cosa facile e semplice come abbattere un albero. Quello, dunque, è il momento, Meggie. Dagli la notizia quando si sentirà perfettamente in forma, dopo una settimana di cucina.»

Da qualche tempo a quella parte, sembrava a Meggie che i giorni in cui poteva arrossire fossero ormai remotissimi; guardò Luddie negli occhi senza che le gote le si tingessero menomamente di rosa.

«Potresti accertare qual è la settimana nella quale tocca a Luke cucinare, Luddie? O, se a te non è possibile, potrei accertarlo io in qualche modo?»

«Oh, è facile» rispose lui, allegramente. «Ho sempre modo di conoscere le voci che circolano. Lo accerterò.»

Era il pomeriggio inoltrato di un sabato quando Meggie entrò nell'albergo di Ingham che sembrava più rispettabile. Tutte le cittadine del Queensland settentrionale erano rinomate per una cosa: avevano alberghi e locande ai quattro angoli di ogni isolato. Lasciò la valigetta in camera sua, poi tornò nel vestibolo poco accogliente, in cerca del telefono. Nella cittadina si trovava una squadra della Lega di Rugby, per una partita di allenamento prima del campionato, e i corridoi erano pieni di giocatori seminudi e completamente ubriachi che, vedendola apparire, applaudirono e l'accolsero con manate affettuose sulla schiena e sul di dietro. Quando riuscì a servirsi del telefono, stava tremando di paura; tutto, di quell'impresa, sembrava un cimento. Ma, nonostante il baccano, e le facce ebbre che le si affollavano intorno, riuscì a mettersi in comunicazione con la fattoria di Braun, ove il gruppo di Luke stava tagliando canne, e a chiedere di riferire a Luke che sua moglie si trovava a Ingham e voleva parlargli. Constatando quanto era spaventata, l'albergatore l'accompagnò fino alla sua stanza e aspettò di aver udito la chiave girare nella toppa.

Meggie si addossò alla porta, resa inerte dal sollievo. Anche a costo di non toccare più cibo fino al ritorno a Dunny, non si sarebbe azzardata nella sala da pranzo. Per fortuna, l'albergatore le aveva assegnato la camera vicina al gabinetto delle signore, per cui le sarebbe stato possibile compiere quel breve tragitto quando fosse stato necessario. Non appena pensò che le gambe l'avrebbero sorretta, si avvicinò al letto, barcollando, e vi sedette, a capo chino, guardandosi le mani che tremavano.

Per tutto il viaggio aveva pensato al modo migliore di procedere, e tutto in lei gridava: rapidamente, rapidamente! Fino a quando non era andata ad abitare a Himmelhoch, non aveva mai letto descrizioni di una seduzione, ma anche adesso, armata di parecchi brani da antologia, non confidava troppo nella propria capacità di seduzione. Eppure, doveva fare proprio questo, poiché sapeva che, non appena avesse cominciato a parlare con Luke, tutto sarebbe finito. La sua lingua smaniava dalla voglia di dirgli che cosa pensasse realmente di lui. Ma ancor più di questo la consumava il desiderio di tornare a Drogheda con il figlio di Ralph al sicuro.

Rabbrividendo nell'aria afosa e zuccherosa, si spogliò e si distese sul letto, gli occhi chiusi, costringendosi a non pensare ad altro che alla necessità di mettere al sicuro il figlio di Ralph.

I giocatori di rugby non infastidirono affatto Luke, quando entrò solo nell'albergo, verso le nove; ma, d'altro canto, erano ormai completamente partiti quasi tutti, e i pochi che ancora si reggevano in piedi avevano la mente troppo obnubilata dall'alcool per vedere più in là dei boccali di birra.

Le previsioni di Luddie erano state esattissime; al termine del turno di una settimana come cuciniere, Luke si sentiva riposato, avido di un cambiamento e pieno di buona volontà. Quando il figlio minore di Braun gli aveva riferito la comunicazione di Meggie, agli alloggi stava lavando gli ultimi piatti della cena e si proponeva di recarsi a Ingham in bicicletta, per unirsi ad Arne e agli amici nella solita baldoria del sabato sera. La possibilità di trovarsi con Meggie rappresentava un'alternativa molto gradevole; dai tempi di quella vacanza sull'Atherton, si era sorpreso, di quando in quando, a desiderarla, nonostante la spossatezza fisica. Soltanto l'orrore che provava all'idea che ricominciasse con la solfa «mettiamo-su-casa» lo aveva tenuto lontano da Himmelhoch ogni volta che si trovava nelle vicinanze di Dunny. Ma questa volta era stata Meggie a venire da lui, e l'idea di passare la notte insieme a sua moglie non gli dispiaceva affatto. Pertanto, terminò in fretta e furia di lavare i piatti ed ebbe la fortuna di trovare un passaggio su un autocarro, dopo che aveva pedalato per sette od ottocento metri. Ma ora, mentre portava a piedi la bicicletta dal punto in cui l'autocarro lo aveva fatto scendere all'albergo ove alloggiava Meggie, parte dell'aspettativa si dileguò. Tutte le farmacie erano chiuse, e lui non aveva nemmeno un preservativo. Si fermò, fissò una vetrina piena di tavolette di cioccolato, mangiate dalle tarme e alterate dalla calura, e di tafani morti, poi fece spallucce. Pazienza, avrebbe dovuto correre il rischio. Sarebbe stato soltanto per quella notte, e, se fosse nato un bambino, con un po' di fortuna si sarebbe trattato di un maschio, questa volta.

Meggie trasalì nervosamente quando udì bussare; discese dal letto e si avvicinò a piedi nudi alla porta.

«Chi è?» domandò.

«Luke» le giunse la voce di lui.

Girò la chiave nella toppa, socchiuse appena l'uscio, e si mise dietro a esso quando Luke, spingendo, lo aprì di più. Non appena fu entrato, tornò a chiuderlo, sbattendolo, e rimase lì in piedi alzando gli occhi su di lui. Egli la contemplò; guardò i seni che erano più grossi, più tondi, allettanti come non mai, i capezzoli non più di un rosa pallido, ma di un ricco rosso scuro, dopo la nascita della bambina. Se aveva bisogno di stimoli, quelli che vide risultarono sufficienti; si sporse per prenderla tra le braccia e la portò sul letto.

Quando il giorno spuntò, Meggie non aveva ancora pronunciato una parola, sebbene fosse riuscita a portare Luke a un culmine di febbrile desiderio, quale egli non aveva mai provato prima di allora. Ora giaceva discosta da lui e si sentiva stranamente separata da quell'uomo.

Luke si destò, si stiracchiò voluttuosamente, sbadigliò, si schiarì la gola. «Come mai sei venuta a Ingham, Meg?» domandò.

Lei voltò la testa; lo fissò con occhi spalancati e sprezzanti.

«Ebbene, per quale ragione ti trovi qui?» ripeté Luke, irritato.

Nessuna risposta, soltanto quello stesso sguardo fermo, pungente, quasi che non volesse darsi la pena di rispondere. Ed era ridicolo, dopo quella notte.

Poi dischiuse le labbra; sorrise. «Sono venuta a dirti che torno a casa mia a Drogheda» rispose.

Per un momento non le credette, poi la guardò meglio in viso e constatò che diceva sul serio, e come. «Perché?» domandò.

«Ti avevo detto che cosa sarebbe accaduto se non mi avessi portata a Sydney.»

Lo stupore di lui fu assolutamente sincero. «Ma, Meg! Questa è una storia di diciotto mesi fa! E ti ho concesso una vacanza! Quattro settimane che mi sono costate l'occhio della testa, maledizione, sull'Atherton! Non mi sarei potuto permettere di condurti per giunta a Sydney!»

«Dopo di allora sei stato a Sydney altre due volte, e tutte e due le volte senza di me.»

«Oh, cribbio!»

«Che taccagno sei, Luke» continuò con dolcezza. «Hai avuto da me ventimila sterline, denaro che mi appartiene di diritto, eppure lesini le poche misere sterline che ti sarebbe costato condurmi a Sydney. Tu e il tuo denaro! Mi dai la nausea.»

«Non l'ho toccato» si difese lui debolmente. «È ancora tutto là, fino all'ultimo penny, e ce n'è anche di più.»

«Sì, hai ragione, a tua disposizione in banca, ove sempre rimarrà. Non hai nessuna intenzione di spenderlo, vero? Vuoi adorarlo, come il vitello d'oro. Ammettilo, sei uno spilorcio. E che imperdonabile idiota, per giunta! Trattare tua moglie e tua figlia come non ti sogneresti mai di trattare due cani, ignorarne l'esistenza, per non parlare dei loro desideri! Bastardo presuntuoso, vanitoso ed egoista!»

Bianco in faccia, tremante, cercò di parlare; vedere Meg rivoltarglisi contro, specie dopo quella notte, era come essere morsicato a morte da una farfalla. L'ingiustizia delle sue accuse lo sbigottiva, ma non sembrava ci fosse modo di farle capire la purezza dei suoi moventi. Con mentalità femminile, Meg vedeva soltanto ciò che era manifesto; non riusciva ad apprezzare il grande progetto che si celava dietro il suo comportamento.

Pertanto disse: «Oh, Meg!» nei toni dello smarrimento, della disperazione, della rassegnazione. «Non ti ho mai maltrattata» soggiunse. «No, questo è certo! Nessuno potrebbe mai affermare che io sia stato crudele con te. Nessuno! Hai avuto cibo a sufficienza, un tetto sopra il capo, non hai sofferto il freddo...»

«Ah, sì» lo interruppe lei «questo te lo concedo, non ho mai avuto più caldo in vita mia.» Poi scosse la testa e rise. «Ma a che serve? Parlare con te è come rivolgersi a un muro di mattoni.»

«Potrei dire anch'io la stessa cosa!»

«Dillo pure» esclamò Meggie, gelida, scendendo dal letto e infilandosi le mutande. «Non divorzierò da te» soggiunse «non voglio risposarmi. Ma se fossi tu a volere il divorzio, sai dove trovarmi. In teoria sono io a essere in colpa, no? Ti sto abbandonando... o almeno tale sarebbe il punto di vista dei tribunali in questo paese. Tu e il giudice potrete piangere l'uno sulla spalla dell'altro, deplorando le perfidie e l'ingratitudine delle donne.»

«Non ti ho mai abbandonata.»

«Puoi tenerti le mie ventimila sterline, Luke. Ma non avrai da me un solo penny di più. Ogni futuro reddito lo spenderò per mantenere Justine, e forse un altro bambino, se sarò fortunata.»

«Ah, è così» fece lui. «La sola cosa che volevi era un altro dannato bambino, vero? Per questo sei venuta sin qui... un canto del cigno, un piccolo dono da me, per portarlo a Drogheda! Un altro maledetto marmocchio, non me! Di me ti sei sempre infischiata, è così? Per te io sono soltanto uno stallone! Cristo, che imbroglio!»

«È quello che sono quasi tutti gli uomini per quasi tutte le donne» disse lei, malignamente. «Tu fai affiorare il peggio che c'è in me, Luke, sotto più aspetti di quanto potrai mai capire. Ma sta' allegro! In questi tre anni e mezzo ti ho fatto guadagnare più delle canne da zucchero. Se nascerà un altro bambino, la cosa non ti riguarderà. A partire da questo momento non voglio vederti mai più, mai finché vivrò.»

Era ormai vestita. Mentre prendeva la borsetta e la valigetta lasciata accanto alla porta, si voltò, la mano sulla maniglia.

«Consentimi di darti un piccolo consiglio, Luke. Nel caso che ti trovassi un'altra donna, quando sarai troppo vecchio e troppo stanco per dedicarti ancora alle canne da zucchero. Non sai assolutamente baciare. Apri troppo la bocca, vorresti inghiottire una donna intera, come un pitone. Un po' di saliva può andare, sì, ma non un diluvio.» Si passò la mano, perfidamente, sulla bocca. «Mi fai venir voglia di vomitare! Luke O'Neill, il grande sono-tutto-io! Tu sei uno zero!»

Quando se ne fu andata, si sedette sulla sponda del letto e fissò a lungo la porta chiusa. Poi alzò le spalle e cominciò a vestirsi. Non era una faccenda lunga, nel Queensland del Nord. Soltanto un paio di calzoncini. Se si fosse affrettato, avrebbe potuto tornare agli alloggi con Arne e i ragazzi. Caro, vecchio Arne. Caro, vecchio compagno. Gli uomini erano stupidi. Il sesso è un conto, ma gli amici sono tutt'altra cosa.

 

 

 

 

 

 

 

 

Parte quinta 1938-1953 Fee

 

 

 

 

 

14

 

 

 

 

 

Volendo evitare che qualcuno sapesse del suo ritorno, Meggie viaggiò per Drogheda sull'autocarro postale, insieme al vecchio Bluey Williams, con Justine in una cesta sul sedile accanto a lei. Felice di rivederla, Bluey era ansioso di sapere che cosa avesse fatto in quegli ultimi quattro anni; ma, mentre stavano avvicinandosi alla dimora, tacque, poiché intuì il suo desiderio di tornare a casa in silenzio.

Tornare al rossiccio e all'argento, alla polvere, a quella purezza e a quella frugalità meravigliose che tanto mancavano nel Queensland settentrionale. Nessuna vegetazione lussureggiante, qui, nessuna putrefazione affrettata per far posto a nuove piante; soltanto una lenta, ruotante inevitabilità, come quella delle costellazioni. Canguri, più numerosi che mai. Adorabili, piccoli, simmetrici alberi wilga, tondi e matronali, quasi timidi. E galah, che sorvolavano, a ondate di ventri rosa, l'autocarro. Emù in corsa. Conigli selvatici, che balzavano via dalla strada, sollevando sfrontati sbuffi di polvere. Scheletri calcinati di alberi morti, tra l'erba. Miraggi di boschetti sull'estremo, curvo orizzonte, quando giunsero nella pianura di Dibban-Dibban; e soltanto le linee azzurre e ondulate alla base lasciavano capire che quegli alberi non erano reali. Il suono che le era tanto mancato e per il quale non avrebbe mai creduto di provare nostalgia: corvi che gracchiavano desolati. Brumosi, rossicci veli di polvere frustati sulla piana dall'asciutto vento d'autunno, simili a pioggia sudicia. E l'erba, l'erba di un beige-argento del Grande Nord-ovest, l'erba che si perdeva fino al cielo come una benedizione.

Drogheda, Drogheda! Gli eucalipti chiari e i sonnacchiosi, giganteschi alberi del pepe, ronzanti di api. Recinti ed edifici di arenaria di un giallo burro, il prato di un verde forestiero intorno alla grande casa, fiori d'autunno in giardino, campanule e zinnie, astri e dalie, calendule e crisantemi, e rose, rose. La ghiaia del cortile dietro casa; la signora Smith in piedi a bocca aperta e poi ridente e piangente, Minnie e Cat che accorrevano, le vecchie braccia rinsecchite come catene intorno al suo cuore. Poiché Drogheda era la casa, e lì Meggie aveva il cuore, per sempre.

Fee uscì per sapere che cosa fosse tutto quel trambusto.

«Ciao, Ma', sono tornata a casa.»

Gli occhi grigi non mutarono, ma, più cresciuta com'era nello spirito, Meggie capì. Ma' era contenta; soltanto, non sapeva come dimostrarlo.

«Hai lasciato Luke?» domandò Fee, ritenendo ovvio che la signora Smith e le cameriere avessero lo stesso suo diritto di sapere.

«Sì. Non tornerò mai più con lui. Non voleva una casa, né i suoi figli, né me.»

«I suoi figli?»

«Sì. Sto per avere un altro bambino.»

Ooh e aah da parte delle cameriere, e Fee espresse il proprio parere in quel tono misurato sotto il quale si celava la letizia.

«Se non ti vuole, allora hai fatto bene a tornare a casa. Possiamo badare noi a te, qui.»

La sua vecchia stanza, che dava sullo Home Paddock, sul giardino. E una stanza adiacente alla sua per Justine, e per l'altro bambino, quando fosse venuto al mondo. Oh, era così bello ritrovarsi a casa!

Anche Bob fu lieto di vederla. Somigliava sempre più a Paddy, stava diventando un po' curvo e rinsecchito, man mano che il sole gli cuoceva la pelle e gli asciugava le ossa. Aveva la stessa dolce fermezza di carattere, ma, forse perché non era mai stato il padre di una famiglia numerosa, gli mancava l'aria paterna di Paddy. E somigliava a Fee. Taciturno, chiuso in se stesso, non era tipo da esprimere quel che sentiva e quel che pensava. Doveva essere ormai sui trentacinque anni, pensò Meggie, improvvisamente stupita, e ancora non aveva preso moglie. Poi giunsero Jack e Hughie, due copie conformi di Bob senza la sua autorità; e, con timidi sorrisi, le diedero il benvenuto. Sì, doveva essere così, rifletté; sono così timidi a causa della terra, perché la terra non richiede loquacità, né raffinatezze sociali. Richiede soltanto ciò che loro le danno, amore inespresso e fedeltà assoluta.

Gli uomini Cleary erano tutti a casa, quella sera, per scaricare un autocarro di granturco che Jims e Patsy avevano portato da Gilly.

«Non ho mai veduto un tempo così asciutto, Meggie» disse Bob. «Mai pioggia in due anni, non una sola goccia. E i conigli selvatici sono un flagello peggiore dei canguri; divorano più erba delle pecore e dei canguri insieme. Stiamo tentando di distribuire foraggio, ma sai come sono le pecore.»

Meggie sapeva anche troppo bene come fossero le pecore. Bestie idiote, incapaci di imparare anche soltanto i rudimenti della sopravvivenza. Il sia pur piccolo cervello che l'animale originario doveva aver posseduto si era completamente atrofizzato in queste aristocratiche lanose. Le pecore non volevano mangiare altro che erba o foglie tagliate dai cespugli del loro ambiente naturale. Ma non esisteva mano d'opera sufficiente per tagliare tanto fogliame da sfamare centomila pecore.

«Ne deduco che posso esservi utile?» domandò.

«Se puoi! Renderai libero un uomo da adibire al taglio dei cespugli, Meggie, se vorrai andare a cavallo nei recinti interni come un tempo.»

Mantenendo la parola, i gemelli erano tornati definitivamente a casa. A quattordici anni avevano detto addio per sempre al Riverview poiché, per loro, tornare sulle pianure di terra nera sarebbe stato sempre troppo tardi. Già somigliavano a Bob, Jack e Hughie adolescenti, in quella che a poco a poco stava sostituendo l'antiquata tenuta di saia e di flanella grigia come uniforme dell'allevatore nel Grande Nord-ovest: calzoni al ginocchio bianchi di fustagno, camicia bianca, un cappello di feltro basso di cupola e a larga tesa e stivaletti alla caviglia con elastici sui lati, senza tacchi. Soltanto il pugno di aborigeni meticci, nel quartiere povero di Gilly, scimmiottava i cow-boy del West americano, con fantasiosi stivali dai tacchi alti, ed enormi cappelloni Stetson. Per l'uomo delle pianure di terra nera, quel modo di vestire era una inutile affettazione, l'aspetto di una civiltà diversa. Non si poteva camminare nella boscaglia con stivali dai tacchi alti, ed era spesso necessario inoltrarsi a piedi nella boscaglia. Inoltre, i grandi cappelli Stetson tenevano troppo caldo e pesavano.

La giumenta saura e il castrone nero erano morti entrambi, la scuderia era vuota. Meggie insistette nel dire che si sarebbe accontentata senz'altro di un cavallo da lavoro, ma Bob si recò da Martin King per acquistare due dei suoi cavalli mezzo-purosangue, una cavalla color crema, dalla criniera e dalla coda nere, e un castrone sauro dalle lunghe gambe. Chissà per quale motivo, la perdita della vecchia giumenta saura colpì Meggie più della separazione da Ralph, una reazione ritardata; come se la morte della cavalla avesse posto più chiaramente in risalto la partenza di lui. Ma fu piacevolissimo trovarsi di nuovo nei pascoli, cavalcare con i cani, mangiare la polvere di un belante gregge di pecore, osservare il cielo, gli uccelli, il terreno.

La siccità era tremenda. L'erba, a Drogheda, aveva sempre potuto sopravvivere alle siccità che Meggie ricordava, ma questa sembrava diversa. L'erba cresceva a chiazze, e, tra un ciuffo e l'altro, si vedeva il terreno, screpolato da una rete sottile di fessure beanti come bocche inaridite. E di questo si doveva ringraziare soprattutto i conigli selvatici. Nei quattro anni dell'assenza di Meggie si erano improvvisamente moltiplicati in misura del tutto irragionevole, sebbene fossero stati già troppo numerosi molti anni prima. Solo che, quasi da un giorno all'altro, il loro numero era arrivato molto al di là del punto di saturazione. Li si vedeva dappertutto, e divoravano l'erba tanto preziosa.

Meggie imparò a disporre trappole per conigli, sebbene non potesse sopportare, in un certo qual modo, di vedere le miti, piccole creature maciullate tra denti d'acciaio, ma anche lei era troppo creatura della terra per non fare quello che andava fatto. Uccidere in nome della sopravvivenza non costituiva una crudeltà.

«Dio faccia imputridire l'immigrato inglese con la nostalgia della patria, che per primo si fece spedire conigli dall'Inghilterra!» esclamava Bob, amareggiato.

I conigli non facevano parte dell'originaria fauna australiana e quell'importazione, suggerita da motivi sentimentali, aveva sconvolto completamente l'equilibrio ecologico del continente, mentre così non era accaduto con le pecore e con i bovini, giacché erano stati allevati con criteri scientifici sin dal momento del loro arrivo. Non esisteva alcun predatore australiano che potesse arginare la moltiplicazione dei conigli selvatici, e le volpi importate non prosperavano. L'uomo doveva fare la parte di un predatore innaturale, ma gli uomini erano troppo pochi, e i conigli troppo numerosi.

Meggie, quando ingrossò troppo per poter continuare ad andare a cavallo, trascorse le giornate in casa, con la signora Smith, con Minnie e con Cat, cucendo o lavorando a maglia per la creaturina che si agitava entro di lei. Il bambino (pensava sempre alla creatura come al «bambino») sembrava far parte del suo essere come non era mai accaduto con Justine; Meggie non soffriva né di nausee né di malinconie, e aspettava avidamente il momento di partorire. Forse, in parte, l'ignara responsabile di ciò era Justine; adesso che l'esserino dagli occhi scialbi stava cambiando e, da abulica poppante, si trasformava in una bambina estremamente intelligente, Meggie si sorprendeva a esserne affascinata. Molto tempo era trascorso da quando Justine l'aveva lasciata indifferente, e adesso Meggie anelava a prodigare amore a sua figlia, ad abbracciarla, a baciarla, a ridere con lei. Vedersi cortesemente respingere era uno shock, eppure Justine reagiva in questo modo a ogni approccio affettuoso.

Quando Jims e Patsy erano tornati dal Riverview, la signora Smith aveva creduto di poterli riprendere sotto le proprie ali, ed era rimasta delusa constatando che rimanevano la maggior parte del tempo nei pascoli. Così aveva rivolto il proprio affetto alla piccola Justine, ma soltanto per sentirsi fermamente esclusa come Meggie. Sembrava che Justine non volesse essere abbracciata, baciata, o fatta ridere.

Aveva cominciato a camminare e a parlare presto, a nove mesi. Una volta in grado di reggersi in piedi e padrona di un linguaggio molto articolato, si era sentita autonoma e padrona di fare esattamente quello che voleva. Non che fosse turbolenta o assumesse atteggiamenti tracotanti; era semplicemente fatta di un metallo durissimo. Meggie non sapeva niente in fatto di geni e di ereditarietà, ma, se avesse avuto qualche cognizione al riguardo, le sarebbe stato possibile riflettere sulle conseguenze di incroci tra i Cleary, gli Armstrong e gli O'Neill. Non poteva non derivarne un miscuglio umano formidabile.

Ma a sgomentare, soprattutto, era il fatto che Justine si rifiutava ostinatamente di sorridere e di ridere. Tutti coloro che si trovavano a Drogheda facevano l'impossibile per esibirsi in lazzi che destassero in lei almeno un sorriso, ma senza alcun risultato. In fatto di innata solennità, superava sua nonna.

Il primo ottobre, quando Justine aveva sedici mesi esatti, nacque a Drogheda il figlio di Meggie. Anticipò di quasi quattro settimane, e nessuno lo aspettava; vi furono due o tre forti contrazioni, le acque si ruppero e il bambino venne aiutato a venire alla luce dalla signora Smith e da Fee pochi minuti dopo che avevano chiamato il medico per telefono. Per Meggie non vi fu quasi il tempo richiesto dalla dilatazione. Il dolore fu minimo, e il cimento terminò così rapidamente da farle quasi pensare che non fosse esistito. Nonostante i punti resi necessari dal fatto che il bambino era stato così precipitoso nel venire alla luce, Meggie si sentiva meravigliosamente bene. La montata lattea era stata del tutto assente nel caso di Justine, ma ora aveva i seni colmi fino a traboccare. Non occorrevano, questa volta, né biberon, né scatole di Lactogen.

E il bambino era così splendido! Lungo e snello, con un ciuffo di capelli color lino sul cocuzzolo del piccolo cranio perfetto e vividi occhi azzurri che non davano l'impressione di dover minimamente cambiare in seguito. Come avrebbero potuto assumere un altro colore? Erano gli occhi di Ralph, così come aveva le mani di Ralph, il naso e la bocca di Ralph, persino i piedi di Ralph. Meggie era abbastanza priva di scrupoli per apprezzare che Luke somigliasse molto a Ralph per struttura, carnagione, fattezze. Ma le mani, il modo con il quale crescevano le sopracciglia, la peluria dell'attaccatura a punta dei capelli al centro della fronte, la forma delle dita delle mani e dei piedi; tutti questi particolari ripetevano in modo identico le particolarità di Ralph e non ricordavano affatto quelle di Luke. Meglio augurarsi che nessuno ricordasse quale dei due uomini le possedeva.

«Hai deciso come chiamarlo?» domandò Fee. Il bambino sembrava affascinarla.

Meggie, sorreggendo il bambino, la osservò, e si sentì invadere da una sensazione di gratitudine. Ma' avrebbe amato di nuovo; oh, forse non come aveva voluto bene a Frank, ma, per lo meno, sarebbe stata in grado di sentire di nuovo qualcosa.

«Lo chiamerò Dane.»

«Che nome bizzarro! Come mai? È un nome di famiglia degli O'Neill? Credevo che tu avessi chiuso, con gli O'Neill.»

«Non ha niente a che vedere con Luke. Questo è il nome del bambino e di nessun altro. Odio i nomi di famiglia; è come voler appiccicare qualcosa di estraneo, che appartiene a qualcun altro, a una nuova creatura. Ho chiamato Justine Justine soltanto perché quel nome mi piaceva, e chiamerò Dane Dane per la stessa ragione.»

«Be', ha un suono simpatico» riconobbe Fee.

Meggie trasalì. Aveva i seni troppo pieni. «Meglio che tu lo dia a me, Ma'. Oh, spero proprio che sia affamato! E spero che il vecchio Blue si ricordi di portare il tira-latte. Altrimenti dovrete andare in macchina a Gilly per acquistarlo.»

Il bambino era affamato; si attaccò a lei con tanto impeto, che la piccola bocca gommosa le fece male. Contemplandolo, osservando gli occhi chiusi con le ciglia scure dorate in punta, le sopracciglia piumose, le minuscole gote guizzanti, Meggie lo amò così intensamente che quell'amore esasperato parve più doloroso di quanto potesse mai esserlo il suo succhiare.

Mi basta; deve bastarmi, non avrò mai di più. Ma, per Dio, Ralph de Bricassart, per quel Dio che tu ami più di me, non saprai mai che cosa ho rubato a te... e a Lui. Non ti dirò mai di Dane. Oh, bambino mio! Si spostò contro i guanciali per sistemarlo più comodamente nella piega del braccio, e per poter contemplare meglio il viso minuscolo e perfetto. Bambino mio! Appartieni a me, e non ti cederò mai a nessuno. Meno che mai a tuo padre, il quale è prete e non può riconoscerti. Non è meraviglioso?

Il piroscafo ormeggiò a Genova ai primi di aprile. L'Arcivescovo Ralph sbarcò in un'Italia nella quale esplodeva la primavera mediterranea, e prese il treno per Roma. Se lo avesse richiesto, sarebbero venuti a prenderlo e lo avrebbero portato in macchina, ma paventava di sentire la Chiesa racchiuderglisi attorno di nuovo; voleva rimandare il più possibile quel momento. La Città Eterna. Era davvero questo, pensò, contemplando attraverso i finestrini del tassì i campanili e le cupole, le piazze disseminate di piccioni, le fontane ambiziose, le colonne romane la cui base affondava profondamente nei secoli. Ah, ma per lui queste erano tutte cose superflue. La sola cosa che contasse era un'altra parte di Roma, il Vaticano, con i suoi sontuosi saloni pubblici e le sue tutt'altro che sontuose stanze private.

Un monaco domenicano dalle vesti nere e color crema lo condusse lungo alti corridoi di marmo, tra sculture in bronzo e in pietra degne di un museo, accanto a grandi dipinti nello stile di Giotto, di Raffaello, del Botticelli, dell'Angelico. Si trovava nelle sale pubbliche di un grande Cardinale, e senza dubbio la ricca famiglia Contini-Verchese aveva contribuito generosamente per abbellire l'ambiente nel quale viveva il suo augusto rampollo.

In una sala avorio e oro, arricchita di colori dagli arazzi e dai dipinti, con tappeti e mobili francesi, e ovunque pennellate cremisi, sedeva il Cardinale Contini-Verchese. Le piccole mani lisce, su un dito delle quali splendeva l'anello con rubino, vennero tese verso di lui in un gesto di benvenuto; lieto di poter tenere gli occhi bassi, l'Arcivescovo Ralph attraversò la stanza, si inginocchiò e prese la mano per baciare l'anello. Poi poggiò la gota alla mano, sapendo di non poter mentire, sebbene ne avesse avuto l'intenzione sino al momento in cui aveva sfiorato con le labbra quel simbolo del potere spirituale e dell'autorità temporale.

Il Cardinale mise l'altra mano sulla spalla china, congedando il monaco con un cenno del capo, poi, mentre la porta si chiudeva silenziosamente, la mano salì dalla spalla ai capelli, indugiò nella loro folta oscurità, li scostò con tenerezza dalla fronte. Erano cambiati; presto non sarebbero più stati neri, ma color ferro. La spina dorsale incurvata si irrigidì, le spalle indietreggiarono, e l'Arcivescovo Ralph guardò direttamente in faccia il suo superiore.

Ah, vi era stato un mutamento! La bocca si era ritratta, conosceva la sofferenza e sembrava più vulnerabile; gli occhi, così meravigliosi per il colore e il taglio, erano completamente diversi dagli occhi che il prelato ricordava come se non si fossero mai allontanati materialmente da lui. Il Cardinale aveva sempre fantasticato che gli occhi di Gesù fossero stati azzurri e identici a quelli di Ralph: calmi, distaccati da ciò che Egli vedeva, e di conseguenza capaci di accogliere tutto, di capire tutto. Ma forse era stata una fantasticheria. Come era possibile provare qualcosa per il genere umano e soffrire personalmente, senza che ciò trasparisse dagli occhi?

«Suvvia, Ralph, si accomodi.»

«Eminenza, desidero confessarmi.»

«Dopo, dopo. Prima parleremo, e in inglese. Ci sono orecchie dappertutto, di questi tempi, ma, grazie al nostro buon Gesù, non orecchie che conoscano l'inglese. Si accomodi, Ralph, la prego. Oh, che piacere riaverla qui! Mi sono mancati i suoi assennati consigli, la sua razionalità, la sua compagnia perfetta. Non mi hanno dato alcun collaboratore che mi piaccia anche soltanto la metà di lei.»

Sentì che la sua mente già si adattava alle formalità, sentì i pensieri stessi, nella mente, adattarsi a un fraseggiare più ampolloso; Ralph de Bricassart sapeva come tutto di un uomo potesse essere modificato dalle compagnie frequentate, soprattutto il modo di esprimersi. Non si addiceva a quelle orecchie la disinvolta scorrevolezza dell'inglese familiare. Pertanto sedette di fronte all'esile figura fasciata dal moiré scarlatto, quel colore mutevole eppure non mutevole, tale da far sì che gli orli si fondessero con lo sfondo circostante invece di risaltare contro di esso.

La disperata stanchezza che aveva conosciuto per settimane parve scostarglisi un poco dalle spalle; si domandò perché avesse tanto paventato quell'incontro, pur sapendo con certezza in cuor suo che sarebbe stato capito e perdonato. Ma non si trattava di questo, non si trattava affatto di questo. Era il suo rimorso per aver fallito, per essere stato inferiore a quanto aveva aspirato a essere, per aver deluso un uomo che si era sempre interessato a lui ed era stato enormemente buono, un vero amico. Il rimorso per dover apparire dinanzi a quella pura presenza, non più puro egli stesso.

«Ralph, siamo sacerdoti, ma siamo anche qualcos'altro prima di questo, qualcosa che eravamo prima di diventare sacerdoti, e cui non possiamo sottrarci nonostante la nostra intransigenza. Siamo uomini, con le debolezze e i difetti degli uomini. Niente che lei possa dirmi riuscirebbe a modificare le impressioni che mi sono formato sul suo conto durante gli anni trascorsi insieme, niente di quanto potrebbe dirmi riuscirebbe a farmi pensare meno bene di lei, o far sì che la stimassi meno. Per molti anni mi sono reso conto che lei si era sottratto a questa consapevolezza della nostra debolezza intrinseca, della nostra umanità, ma sapevo che vi sarebbe arrivato, come accade a tutti noi. Anche al Santo Padre, che è il più umile e il più umano di tutti.»

«Sono venuto meno ai voti, Eminenza. Questo non può essere perdonato facilmente. È un sacrilegio.»

«Trasgredì al voto della povertà anni or sono, quando accettò il lascito della signora Mary Carson. Rimangono dunque la castità e l'ubbidienza, non è così?»

«Allora ho trasgredito a tutti e tre i voti, Eminenza.»

«Vorrei che mi chiamasse Vittorio, come un tempo! Non sono scandalizzato, Ralph, né deluso. Tutto è come Nostro Signore Gesù Cristo vuole, e io credo che lei dovesse apprendere una grande lezione, e non avrebbe potuto apprenderla in modo meno distruttivo. Dio è misterioso, le Sue ragioni trascendono la nostra misera capacità di comprensione. Ma credo che quanto lei ha fatto non sia stato fatto alla leggera, che lei non abbia gettato via i voti come se non rivestissero alcun valore. La conosco molto bene. So che è orgoglioso, molto innamorato dell'idea di essere un sacerdote, molto consapevole della sua intransigenza. È possibile che lei avesse bisogno di questa particolare lezione per diminuire tale orgoglio, per capire che è in primo luogo un uomo, e, di conseguenza, non proprio intransigente come crede. Non è così?»

«Sì, mancavo di umiltà, e, in un certo senso, aspiravo, credo, a essere Dio stesso. Ho peccato nel modo più terribile e inescusabile. Non posso perdonare me stesso, come è dunque possibile che osi sperare nel perdono divino?»

«L'orgoglio Ralph, l'orgoglio! Non spetta a lei perdonare, ancora non lo capisce! Soltanto Dio può perdonare. Soltanto Dio! Ed Egli perdonerà, se esiste un pentimento sincero. Ha perdonato peccati più gravi, commessi da santi di gran lunga più grandi, sa, nonché da scellerati di gran lunga peggiori. Crede che il principe Lucifero non sia stato perdonato? Fu perdonato nel momento stesso della sua ribellione. Il suo fato di padrone dell'inferno lo ha voluto lui stesso, non è opera di Dio. E non lo disse, forse? "Meglio governare all'inferno che servire in Cielo!" Poiché non riuscì a sormontare l'orgoglio; non sopportò di sottomettere la propria volontà alla Volontà di Qualcun altro, anche se quel Qualcuno era Dio stesso. Non voglio vederla commettere lo stesso errore, mio carissimo amico. L'umiltà era l'unica dote che le mancasse, ed è proprio quella dote che fa un grande santo... o un grand'uomo. Finché lei non affiderà a Dio la questione del perdono, non avrà conquistato la vera umiltà.»

Il forte viso si contorse. «Sì, so che ha ragione. Devo accettare quello che sono senza obiettare, ma soltanto sforzarmi di essere migliore senza orgoglio per ciò che sono. Mi pento, e pertanto confesserò e aspetterò il perdono. Mi pento sinceramente, amaramente.» Sospirò; e gli occhi di lui tradirono il conflitto che le parole misurate non potevano tradire, non in quella stanza.

«Eppure, Vittorio, in un certo senso non mi rimaneva altro da fare. O rovinare quella donna, o assumere la rovina su di me. Sul momento parve non esservi alcuna possibilità di scelta, perché io l'amo. Non era stata sua la colpa se io non avevo voluto che l'amore arrivasse al piano fisico. Il destino di lei divenne più importante del mio, vede. Fino a quel momento, avevo sempre pensato in primo luogo a me stesso, ritenendomi più importante di lei, perché io ero un sacerdote, ed ella un essere inferiore. Ma mi resi conto che ero responsabile di quello che lei è... Avrei dovuto lasciarla in pace quando era una bambina, ma non lo feci. La conservai nel mio cuore, ed ella lo sapeva. Se davvero l'avessi strappata dal mio cuore, si sarebbe resa conto anche di questo, e sarebbe diventata una persona ch'io non avrei potuto influenzare.» Sorrise. «Come vede, ci sono molte cose di cui mi devo pentire. Ho tentato una mia piccola creazione personale.»

«È stato con la Rosa?»

Il capo si reclinò all'indietro; l'Arcivescovo Ralph contemplò il soffitto decorato, con le modanature dorate e la lumiera barocca di Murano. «Avrebbe mai potuto essere un'altra? È il mio solo tentativo di creazione.»

«E sarà felice, la Rosa? Non le ha nuociuto, facendole questo, più che rifiutandosi a lei?»

«Non lo so, Vittorio, vorrei saperlo! Sul momento parve essere la sola cosa possibile. Non posseggo la preveggenza di Prometeo, e il coinvolgimento emotivo fa sì che l'uomo sia un misero giudice. Inoltre, è semplicemente... accaduto! Ma credo che forse le occorresse più di ogni altra cosa quello che le ho dato, il riconoscimento della sua identità come donna. Non intendo dire con questo che lei non sapesse di essere una donna. Intendo dire che non lo sapevo io. Se l'avessi conosciuta per la prima volta già donna, tutto avrebbe potuto essere diverso, ma la conobbi bambina, per molti anni.»

«Sembra piuttosto presuntuoso, Ralph, e non ancora pronto per il perdono. È doloroso, non è vero? Il fatto di essere stato così umano da cedere a debolezze umane. La cosa avvenne davvero in un tale spirito di nobile autosacrificio?»

Stupito, fissò i liquidi occhi neri, si vide riflesso in essi come due manichini minuscoli, dalle dimensioni insignificanti. «No» disse. «Sono un uomo, e, in quanto uomo, ho trovato un piacere in lei che non mi sognavo potesse esistere. Non sapevo che una donna potesse dare simili sensazioni, o potesse essere la fonte di una gioia così profonda. Avrei voluto non lasciarla mai, non soltanto per il suo corpo, ma perché mi piaceva, semplicemente, essere con lei... parlarle, non parlarle, mangiare quello che cucinava, sorriderle, condividere i suoi pensieri. Mi mancherà finché avrò vita.»

C'era qualcosa, nella faccia giallognola e ascetica, che inspiegabilmente gli ricordava la faccia di Meggie in quel momento della separazione; la vista di un fardello spirituale che veniva rimosso, la risolutezza di un'indole senz'altro capace di andare avanti nonostante i fardelli, le pene, le sofferenze. Chi aveva conosciuto, prima? Il Cardinale fasciato di seta rossa, la cui sola inclinazione umana sembrava essere la sua languida gatta abissina?

«Non posso pentirmi di quello che ho avuto con lei in questo modo» continuò Ralph, poiché Sua Eminenza non parlò. «Mi pento di avere trasgredito a voti solenni e impegnativi quanto la mia vita. Non potrò mai più accostarmi ai miei doveri sacerdotali nella stessa luce, con lo stesso zelo. Di questo mi pento amaramente. Ma Meggie?» L'espressione sulla sua faccia, quando pronunciò il nome, indusse il Cardinale Vittorio a voltarsi per lottare contro i propri pensieri.

«Pentirmi di Meggie significherebbe assassinarla.» Ralph, stancamente, si passò la mano sugli occhi. «Non so se questo sia molto chiaro, o anche soltanto se si avvicini a dire quello che intendo. Sembra che non riesca mai a esprimere in modo adeguato quello che sento per Meggie.» Si protese in avanti dalla poltrona, mentre il Cardinale tornava a voltarsi, e vide le due immagini gemelle di se stesso diventare un po' più grandi. Gli occhi di Vittorio erano come specchi; riflettevano quel che vedevano e non consentivano mai di intravedere quello che passava dietro a essi. Gli occhi di Meggie erano esattamente l'opposto: profondi e profondi e profondi, fino all'anima sua. «Meggie è una benedizione. È una cosa sacra per me, un diverso genere di sacramento.»

«Sì, capisco» sospirò il Cardinale. «È un bene che lei senta questo. Agli occhi di Nostro Signore credo che ciò attenuerà il grande peccato. Nel suo interesse, lei farebbe meglio a confessarsi con Padre Giorgio, non con Padre Guillermo. Padre Giorgio non fraintenderà i suoi sentimenti e il suo ragionamento. Vedrà la verità. Padre Guillermo è meno percettivo e potrebbe trovare discutibile il suo pentimento.» Un lieve sorriso passò sulla bocca sottile, come una parvenza d'ombra. «Anche loro sono uomini, Ralph, quelli che ascoltano le confessioni dei grandi. Non lo dimentichi mai, finché vivrà. Soltanto nel sacerdozio si comportano come urne contenenti Dio. Sotto ogni altro aspetto, sono uomini. E il perdono che concedono viene da Dio, ma le orecchie che ascoltano e giudicano appartengono a uomini.»

Bussarono con discrezione alla porta; il Cardinale rimase seduto in silenzio e seguì con lo sguardo il vassoio del tè che veniva portato su un tavolo intarsiato.

«Vede, Ralph? Dopo il periodo trascorso in Australia, ho preso l'abitudine del tè pomeridiano. Lo preparano molto bene nella mia cucina, anche se all'inizio non ne erano capaci.» Alzò la mano mentre l'Arcivescovo Ralph si accingeva ad avvicinarsi alla teiera. «Ah, no! Lo verserò io stesso. Mi diverte fare la parte della padrona di casa.»

«Ho veduto molte camicie nere nelle vie di Genova e di Roma» disse l'Arcivescovo Ralph, mentre osservava il Cardinale Vittorio versare il tè.

«Le speciali coorti del Duce. Ci aspettano tempi molto difficili, mio Ralph. Il Santo Padre è inflessibile nel pretendere che non vi sia alcuna frattura tra la Chiesa e il governo secolare dell'Italia, e ha ragione anche in questa come in ogni altra cosa. Qualsiasi cosa possa accadere, dobbiamo restare liberi di servire tutti i nostri figli, anche se una guerra dovesse dividerli e farli combattere gli uni contro gli altri in nome di un Dio cattolico. Da qualsiasi parte possano schierarsi i nostri cuori e i nostri sentimenti, dobbiamo sforzarci sempre di mantenere la Chiesa lontana dalle ideologie politiche e dalle dispute internazionali. Ho voluto che lei tornasse con me perché posso essere certo che la sua faccia non tradirà quello che pensa la mente, qualunque cosa possano vedere gli occhi, e perché lei possiede la migliore intelligenza diplomatica nella quale io mi sia mai imbattuto.»

L'Arcivescovo Ralph sorrise malinconicamente. «Favorirà la mia carriera nonostante quello che sono, vero? Mi domando che cosa sarebbe stato di me se non l'avessi conosciuta.»

«Oh, sarebbe diventato l'Arcivescovo di Sydney, una carica piacevole, e importante» disse Sua Eminenza, con un aureo sorriso. «Ma il cammino che seguiamo nella vita non è nelle nostre mani. Ci conoscemmo perché così doveva essere, così come è destinato che lavoriamo insieme, adesso, per il Santo Padre.»

«Non scorgo il successo al termine del cammino» disse l'Arcivescovo Ralph. «Credo che il risultato sarà quello che è sempre il risultato dell'imparzialità. Nessuno ci amerà, e tutti ci condanneranno.»

«Questo lo so, e lo sa Sua Santità. Ma non possiamo fare altro. E nulla ci impedisce di pregare in privato per la rapida caduta del Duce e del Führer, non le sembra?»

«Pensa davvero che ci sarà la guerra?»

«Non vedo alcuna possibilità di evitarla.»

La gatta di Sua Eminenza sbucò fuori dall'angolo assolato ove aveva dormito, e balzò, un po' goffamente perché era vecchia, sul grembo scarlatto e luccicante.

«Ah, Sheba! Saluta il tuo vecchio amico Ralph, che solevi preferire a me.»

I satanici occhi gialli osservarono altezzosi l'Arcivescovo Ralph, e si chiusero. Entrambi gli uomini risero.

 

 

 

 

 

15

 

 

 

 

 

A Drogheda c'era la radio. Il progresso era finalmente arrivato a Gillanbone sotto forma di una stazione radiofonica della Australian Broadcasting Commission, e finalmente, in fatto di divertimento collettivo, qualcosa gareggiava con la linea telefonica a circuito chiuso. La radio di per sé era un oggetto assai brutto, racchiuso in una scatola di noce appoggiata su uno squisito stipo da salotto e alimentato da una batteria per automobile nascosta dentro il mobile.

Tutte le mattine la signora Smith, Fee e Meggie l'accendevano per sentire le notizie del distretto di Gillanbone e il bollettino meteorologico; tutte le sere Fee e Meggie ascoltavano il notiziario nazionale della MCMCABC. Come era strano essere collegati istantaneamente con l'Esterno; sentir parlare di alluvioni, incendi, piogge in ogni parte della nazione, dell'Europa inquieta e della politica australiana, facendo a meno di Bluey Williams e dei suoi giornali invecchiati.

Quando il notiziario nazionale di venerdì primo settembre annunciò che Hitler aveva invaso la Polonia, c'erano in casa soltanto Fee e Meggie, e nessuna delle due prestò attenzione. Al riguardo, si erano fatte ipotesi per mesi; e, d'altro canto, l'Europa si trovava agli Antipodi. Non aveva niente a che vedere con Drogheda, che era il centro dell'universo. Ma domenica 3 settembre tutti gli uomini rientrarono dai pascoli per ascoltare la Messa celebrata da Padre Watty Thomas, e gli uomini si interessavano all'Europa. Né Fee né Meggie avevano pensato di riferire loro la notizia di venerdì, e Padre Watty, che avrebbe potuto parlarne, ripartì in fretta diretto a Narrengang.

Come sempre, quella sera la radio venne accesa per ascoltare il notiziario nazionale. Ma, invece dei toni incisivi e assolutamente oxfordiani dell'annunciatore, si udì la voce garbata e inequivocabilmente australiana del Primo ministro, Robert Gordon Menzies.

«Compatrioti australiani, ho il triste dovere di informarvi ufficialmente che, in seguito all'ostinazione della Germania nell'invadere la Polonia, la Gran Bretagna ha dichiarato la guerra, e che, di conseguenza, anche l'Australia si trova in guerra...

«È logico presumere che l'ambizione di Hitler non sia quella di unire tutto il popolo tedesco sotto un solo capo, ma di assoggettare tutti quei paesi che possono essere conquistati con la forza. Se ciò dovesse continuare, non potrebbero sussistere la sicurezza in Europa né la pace nel mondo... Indubbiamente, ove si trova la Gran Bretagna, là si trovano i popoli di tutto il mondo di lingua inglese...

«La nostra capacità di resistenza e quella della Madre Patria saranno meglio garantite mantenendo il ritmo della produzione, continuando nelle nostre imprese e nei nostri affari, mantenendo l'occupazione e, con ciò, la nostra forza. So che, nonostante la commozione di tutti, l'Australia è pronta ad arrivare sino in fondo.

«Possa Dio, nella Sua misericordia, concedere al mondo di essere liberato al più presto da questo flagello.»

Seguì, nel salotto, un lungo silenzio, interrotto dalla voce metallica di Neville Chamberlain che parlava ai popoli di lingua inglese mediante un collegamento a onde corte. Fee e Meggie guardarono i loro uomini.

«Contando Frank, siamo in sei» disse Bob, nel silenzio. «Tutti noi, tranne Frank, ci troviamo qui nell'allevamento, e questo significa che non ci consentiranno di arruolarci. Dei nostri attuali guardiani, ritengo che sei vorranno andare sotto le armi e due preferiranno rimanere.»

«Io voglio andare!» esclamò Jack, con gli occhi splendenti.

«Anch'io!» disse Hughie, avidamente.

«E anche noi» disse Jims, a nome del taciturno Patsy.

Ma tutti guardarono Bob, che era il capo.

«Dobbiamo essere ragionevoli» disse. «La lana è un prodotto utile per la guerra e non soltanto per l'industria dell'abbigliamento. Viene impiegata nella produzione di munizioni e di esplosivi, e per ogni sorta di cose strane che certo non immaginiamo neppure. Inoltre, alleviamo bestiame che fornisce carne e dalle nostre pecore si ricavano pellami, colla, sego, lanolina... tutti prodotti di utilità bellica.

«Di conseguenza, non possiamo partire e lasciare che Drogheda vada in rovina, quali che possano essere le nostre aspirazioni. Con una guerra in corso, sarà molto difficile sostituire i guardiani che perderemo. La siccità è arrivata al terzo anno, stiamo tagliando il sottobosco per evitare gli incendi e i conigli selvatici ci fanno impazzire. Per il momento, il nostro dovere è quello di restare qui a Drogheda; non è molto entusiasmante in confronto al combattimento, ma è necessario. Faremo tutti del nostro meglio qui.»

Le facce maschili si erano rabbuiate, quelle femminili illuminate.

«E se la guerra durasse più a lungo di quanto pensi il vecchio Bob Ghisa Grezza?» domandò Hughie, dando al Primo ministro il suo nomignolo nazionale.

Bob rifletté intensamente e la sua faccia, cotta dalle intemperie, si riempì di rughe. «Se la situazione peggiorerà e la guerra continuerà a lungo, allora credo che, finché avremo due guardiani, potremo fare a meno di due Cleary, ma soltanto se Meggie sarà disposta a tornare in sella e a occuparsi dei recinti interni. Sarebbe spaventosamente faticoso e, in tempi buoni, non avremmo alcuna possibilità di farcela; ma con questa siccità credo che cinque uomini e Meggie, lavorando sette giorni alla settimana, potrebbero mandare avanti Drogheda. In ogni modo, questo significa chiedere molto a Meggie, con due bambini piccoli.»

«Se sarà necessario, Bob, bisognerà farlo» disse Meggie. «Alla signora Smith non dispiacerà contribuire, occupandosi di Justine e di Dane. Quando giudicherai che sarò indispensabile per mantenere a pieno ritmo la produzione di Drogheda, comincerò a cavalcare nei recinti interni.»

«Allora siamo noi i due di cui si può fare a meno» disse Jims, sorridendo.

«No, siamo Hughie e io» si affrettò a dire Jack.

«Di diritto dovrebbe toccare a Jims e a Patsy» osservò lentamente Bob. «Siete i più giovani e inesperti come allevatori, mentre come soldati saremmo tutti ugualmente inesperti. Ma per il momento avete appena sedici anni, ragazzi.»

«Prima che la situazione peggiori ne avremo diciassette» sostenne Jims. «Dimostriamo più della nostra età, e ci arruoleranno senz'altro se avremo una tua lettera controfirmata da Harry Gough.»

«Be', per il momento non partirà nessuno. Vediamo piuttosto se riusciremo a far produrre di più Drogheda, nonostante la siccità e i conigli selvatici.»

Meggie uscì silenziosamente dal salotto e salì nella camera dei bambini. Dane e Justine dormivano, ognuno nel suo lettino verniciato di bianco. Passò accanto alla figlia e si chinò sul figlio, contemplandolo a lungo.

«Grazie a Dio, sei soltanto un bambino» mormorò.

Trascorse quasi un anno prima che la guerra si intromettesse nel piccolo universo di Drogheda, un anno durante il quale, a uno a uno, i guardiani se ne andarono, i conigli selvatici continuarono a moltiplicarsi, e Bob lottò valorosamente per fare in modo che i registri dell'allevamento fossero degni dello sforzo bellico. Ma, ai primi di giugno del 1940, giunse la notizia che il Corpo di spedizione inglese era stato fatto sgombrare dal teatro di operazioni europeo, a Dunquerque; i volontari per il Secondo Corpo Imperiale Australiano accorsero a migliaia nei centri di reclutamento, e tra essi vi furono Jims e Patsy.

Quattro anni di lavoro a cavallo nei pascoli, con ogni tempo, avevano fatto perdere ai gemelli l'aspetto di adolescenti, plasmandoli con la pacatezza senza età delle minuscole pieghe agli angoli esterni degli occhi, e delle rughe dal naso alla bocca. Presentarono le lettere e furono arruolati senza commenti. Gli uomini della boscaglia erano graditi. Di solito sparavano bene, conoscevano l'importanza dell'eseguire gli ordini, ed erano resistenti alle fatiche.

Jims e Patsy si erano arruolati a Dubbo, ma dovevano essere addestrati nella base di Ingleburn, nei dintorni di Sydney, per cui tutti li accompagnarono al postale della notte. Cormac Carmichael, il figlio minore di Eden, si trovava sullo stesso treno per la stessa ragione, diretto, come risultò, alla stessa base. E così, le due famiglie li sistemarono comodamente in uno scompartimento di prima classe, e rimasero lì goffamente, desiderose di piangere, di baciare i loro ragazzi e avere qualcosa di rincuorante da ricordare, ma paralizzate dal riserbo tutto inglese nei confronti delle espansioni. La grossa locomotiva a vapore C-36 fischiò lugubremente, e il capostazione suonò il fischietto.

Meggie si protese per posare timidamente un bacio sulle guance dei fratelli, poi fece altrettanto con Cormac, che sembrava la copia esatta del suo fratello maggiore, Connor; Bob, Jack e Hughie strinsero tre diverse giovani mani; la signora Smith, in lacrime, fu la sola ad abbandonarsi ai baci e agli abbracci cui tutti anelavano. Eden Carmichael, con la moglie e la figlia che stava ormai invecchiando, ma che era ancora bella, fecero altrettanto. Poi tutti discesero sul marciapiede, mentre i vagoni cozzavano contro i respingenti e il treno partiva adagio adagio.

«Arrivederci, arrivederci!» gridarono tutti, e agitarono grandi fazzoletti bianchi finché il treno non fu altro che una scia di fumo nelle baluginanti lontananze del tramonto.

Insieme, come avevano chiesto, Jims e Patsy vennero assegnati alla nuova, e soltanto in parte addestrata, Nona Divisione Australiana e si imbarcarono per l'Egitto agli inizi del 1941, giusto in tempo per essere coinvolti nella rotta a Bengasi. Appena arrivato, il generale Erwin Rommel aveva influito col suo formidabile peso sulle alterne sorti della guerra, dando l'avvio al primo capovolgimento di direzione nei grandi e ciclici movimenti pendolari avanti e indietro attraverso l'Africa Settentrionale. E, mentre le altre forze inglesi, di fronte al nuovo Afrika Korps, ripiegavano ignominiosamente verso l'Egitto, la Nona Divisione Australiana ebbe l'ordine di occupare e tenere Tobruk, un avamposto nel territorio conquistato dall'Asse. Una sola cosa rese attuabile il piano, il fatto che Tobruk continuasse a essere accessibile dal mare e potesse essere rifornita finché le navi inglesi erano in grado di incrociare nel Mediterraneo. I Topi di Tobruk vi rimasero rintanati per otto mesi, e sostennero un'azione dopo l'altra, mentre Rommel, di quando in quando, scagliava contro di loro tutte le forze disponibili senza riuscire a sloggiarli.

«Lo sapete perché siete qui?» domandò il soldato semplice Col Stuart, leccando la cartina della sigaretta e arrotolandola pigramente.

Il sergente Bob Malloy spinse indietro il berretto quanto bastava per poter vedere, al di sotto della visiera, colui che aveva posto la domanda. «No, merda» disse sorridendo; era quella una domanda che veniva posta spesso.

«Be', è sempre meglio che imbiancare ghette nella dannata prigione di rigore» disse il soldato semplice Jims Cleary, abbassando un po' di più i calzoncini corti del gemello Patsy, per poter appoggiare più comodamente la testa sul ventre caldo e soffice di lui.

«Già, ma in prigione nessuno continua a spararti addosso» obiettò Col, lanciando il fiammifero spento contro una lucertola che si crogiolava al sole.

«Questo lo so, bello mio» disse Bob, riabbassando il berretto in modo che gli facesse ombra sugli occhi. «Ma preferisco sentirmi sparare addosso che crepare di noia fottuta.»

Erano comodamente sistemati in una trincea asciutta e ghiaiosa, subito di fronte alle mine e agli sbarramenti di filo spinato che isolavano l'angolo sud-ovest del perimetro; al lato opposto, Rommel si aggrappava ostinatamente al suo unico lembo del territorio di Tobruk. Una grossa mitragliatrice Browning calibro 50 condivideva la trincea insieme a loro, e accanto all'arma erano ordinatamente disposte le cassette delle munizioni, ma nessuno sembrava molto attivo, o interessato alla possibilità di un attacco. I fucili erano appoggiati a una parete della trincea, e le baionette luccicavano nell'accecante sole di Tobruk. Le mosche ronzavano dappertutto, ma i quattro uomini venivano dalla boscaglia australiana, per cui Tobruk e l'Africa Settentrionale non avevano potuto riservare loro sorprese, in fatto di calura, mosche, polvere.

«Meno male che siete gemelli, Jims» disse Col, scagliando sassi contro la lucertola, che non pareva disposta a muoversi. «Sembrate due finocchi, sempre intrecciati insieme.»

«La tua è soltanto gelosia» sorrise Jims, accarezzando il ventre di Patsy. «Patsy è il miglior guanciale di Tobruk.»

«Eh già, fa comodo a te, ma al povero Patsy? Avanti, Harpo, di' qualcosa!» lo stuzzicò Bob.

Patsy sorrise scoprendo i suoi denti candidi, ma, come sempre, tacque. Tutti avevano cercato di farlo parlare, ma nessuno ci era mai riuscito, a parte qualche indispensabile sì o no; per conseguenza, quasi tutti lo chiamavano Harpo, il nome del muto tra i fratelli Marx.

«Avete saputo le ultime?» domandò Col, a un tratto.

«Quali?»

«I Matilda del Settimo sono stati fatti a pezzi dagli ottantotto, a Halfaya. I soli cannoni nel deserto abbastanza potenti per demolire un Matilda. Hanno trapassato quei grossi piglia-in-culo di carri armati come una dose di sale inglese.»

«Oh, senti, contamene un'altra» fece Bob, scettico. «Io sono sergente e a me non arriva mai nemmeno un bisbiglio, tu sei un marmittone e sai sempre tutto. Be', compare, se vuoi saperlo, i mangiapatate non hanno niente che possa annientare una brigata di Matilda.»

«Mi trovavo nella tenda di Morshead, a portare un dispaccio del comandante quando l'ha detto la radio, ed è vero» sostenne Col.

Per un poco, nessuno parlò; a ogni soldato, in un avamposto assediato come Tobruk, era indispensabile credere implicitamente che il suo esercito fosse abbastanza potente per toglierlo da quella situazione. La notizia riferita da Col li aveva demoralizzati, perché nessun militare a Tobruk prendeva Rommel alla leggera. Avevano resistito ai suoi tentativi di annientarli perché erano sinceramente persuasi che il combattente australiano non avesse pari al mondo eccezion fatta per i gurkha, e, se la fiducia costituisce i nove decimi della forza, senza dubbio essi avevano dato prova di essere formidabili.

«Dannati inglesi» disse Jims. «Quello che ci serve nell'Africa Settentrionale è un maggior numero di australiani.»

Il coro di consensi venne interrotto da un'esplosione che, sul margine della trincea, annientò la lucertola e fece balzare i quattro uomini verso la mitragliatrice e i fucili.

«È una fottuta granata italiana, tutta schegge ma senza potenza» disse Bob con un sospiro di sollievo. «Se si fosse trattato di un regalino di Hitler, staremmo già suonando l'arpa tutti e quattro, questo è certo, e a te non piacerebbe mica tanto, vero, Patsy?»

All'inizio dell'Operazione Crusader, la Nona Divisione Australiana venne sgombrata via mare e trasferita al Cairo, dopo un logorante e sanguinoso assedio che sembrava non essere servito a niente. Tuttavia, mentre la Nona si rintanava a Tobruk, i reparti sempre più numerosi di truppe inglesi nell'Africa Settentrionale avevano formato l'Ottava Armata, con un nuovo comandante, il generale Bernard Law Montgomery.

Fee aveva una piccola spilla d'argento a forma di sole nascente, l'emblema dell'Australian Imperial Force; più in basso, sospesa a due catenelle, portava una sbarretta d'argento sulla quale aveva fatto applicare due stelle d'oro, una per ciascuno dei figli sotto le armi. La spilla dimostrava che anch'ella stava dando il suo modesto contributo alla patria: Meggie, non avendo né il marito né un figlio militari, non poteva portare la spilla. Le era pervenuta una lettera da Luke che la informava che avrebbe continuato a tagliare canne da zucchero; riteneva che le avrebbe fatto piacere, se per caso avesse temuto che potesse arruolarsi. A quanto pareva, non ricordava una sola parola di quanto Meggie gli aveva detto quel mattino nell'albergo di Ingham. Ridendo stancamente e scuotendo la testa, ella aveva lasciato cadere la lettera nel cestino della carta straccia di Fee domandandosi se sua madre si crucciasse a causa dei due figli sotto le armi. Che cosa pensava, in realtà, della guerra? Ma Fee non diceva mai una parola, sebbene si mettesse la spilla ogni giorno e la portasse per tutto il giorno.

Talora arrivava una lettera dall'Egitto, e quando veniva aperta andava in pezzi perché le forbici del censore l'avevano riempita di buchi rettangolari, là ove erano stati scritti nomi di località o di reggimenti. Leggere quelle lettere significava, praticamente, sforzarsi di dedurre molto dal nulla; esse servivano, comunque, a uno scopo che lasciava in ombra tutti gli altri: finché arrivavano, i ragazzi continuavano a vivere.

Non c'erano state piogge. Sembrava che anche gli elementi cospirassero per avvizzire la speranza, poiché il 1941 era il quinto anno di una siccità disastrosa. Meggie, Bob, Jack, Hughie e Fee disperavano. Il conto in banca di Drogheda era abbastanza pingue per consentire di acquistare tutto il foraggio necessario a mantenere in vita le pecore, ma la maggior parte non voleva mangiarne. Ogni gregge aveva un capo naturale, chiamato Giuda; soltanto persuadendo i Giuda a mangiare, si poteva sperare che anche le altre pecore si nutrissero, eppure, a volte, persino la vista dei Giuda che masticavano sembrava non essere abbastanza convincente a indurre le altre stupide bestie a emularli.

Così, anche Drogheda aveva la sua parte di spargimento di sangue, sebbene si trattasse di una cosa odiosa. L'erba era scomparsa completamente, il terreno sembrava un deserto screpolato, interrotto soltanto da boschetti grigi e rossicci. Erano tutti armati di coltelli, oltre che di fucili; quando vedevano un animale a terra, senza occhi a causa dei corvi, qualcuno gli squarciava la gola per evitargli una lunga agonia. Bob acquistò un maggior numero di bovini e li foraggiò, per sostenere lo sforzo bellico di Drogheda. Non si poteva ricavarne alcun utile, tenuto conto dei prezzi del foraggio, in quanto le zone agricole più vicine erano state duramente colpite dall'assenza di piogge quanto quelle della pastorizia, e i raccolti si riducevano quasi a zero. Tuttavia, da Roma era pervenuto l'ordine di fare tutto il possibile, indipendentemente dai costi.

Meggie odiava soprattutto il tempo che doveva impiegare lavorando nei recinti. Drogheda era riuscita a trattenere uno solo dei suoi guardiani, e, fino a quel momento, nessuno aveva sostituito gli altri: la grande carenza australiana era sempre consistita nella scarsità di mano d'opera. Di conseguenza, a meno che Bob non notasse la sua irritabilità e la sua stanchezza e non le concedesse la domenica libera, Meggie lavorava nei pascoli per sette giorni alla settimana. Ma se Bob le consentiva di riposare la domenica, questo significava che toccava a lui sgobbare di più, quindi lei si sforzava di non tradire lo sgomento. Non le accadeva mai di pensare che avrebbe potuto rifiutarsi di fare il lavoro di un guardiano, adducendo a pretesto i due bambini. Erano ben curati, e Bob aveva bisogno di lei molto più di loro. Meggie non era abbastanza intuitiva per rendersi conto che anche i due piccoli avevano bisogno di lei; giudicava egoistico il proprio desiderio di stare con loro mentre erano affidati a mani sicure e affettuose. Sì, si trattava di un desiderio egoistico, soleva dirsi. E non possedeva quella sorta di fiducia in se stessa che avrebbe potuto farle capire come, agli occhi dei bambini, ella fosse tanto speciale quanto loro lo erano per lei. E così cavalcava nei recinti e, per settimane e settimane di seguito, andava a vederli soltanto dopo che erano stati messi a letto, la sera.

Ogni volta che Meggie guardava Dane, sembrava che il cuore le si capovolgesse. Era uno splendido bambino; anche gli estranei per le vie di Gilly lo notavano quando Fee lo portava nella cittadina. Aveva un'espressione sempre sorridente, la sua indole era una curiosa combinazione di placidità e di profonda e salda felicità, sembrava avere acquisito grande serenità, una consapevolezza di se stesso senza quelle difficoltà nelle quali si imbattono di solito i bambini, poiché di rado commetteva errori e niente riusciva a esasperarlo o a sconcertarlo. Per sua madre, la somiglianza con Ralph era a volte addirittura spaventosa, ma, a quanto pareva, nessun altro lo notava. Ralph aveva lasciato Gilly da molto tempo, e, sebbene Dane avesse le sue stesse fattezze e la stessa struttura fisica, esisteva una grande differenza, che poteva confondere. Non aveva i capelli neri come Ralph, ma di un oro pallido; non il colore del frumento o del tramonto, ma il colore dell'erba di Drogheda, un oro che tendeva al grigio argento e al fulvo.

Sin dal momento in cui aveva posto gli occhi su di lui, Justine adorò suo fratello. Niente era troppo bello per Dane, niente costava troppi sacrifici, pur di accontentarlo o di fargli un dono. Quando cominciò a camminare, Justine non si scostò mai dal suo fianco, e di questo Meggie fu molto lieta perché temeva che la signora Smith e le cameriere fossero ormai troppo anziane per tener bene d'occhio il bambino. In una delle sue rare domeniche libere, Meggie prese in grembo la figlioletta e le parlò molto seriamente della necessità di badare a Dane.

«Io non posso restare in casa a sorvegliarlo personalmente» disse «quindi tutto dipende da te, Justine. È il tuo fratellino e devi sempre badare a lui e accertarti che non si cacci nei pericoli e non combini disastri.»

Gli occhi chiari erano molto intelligenti, senza quell'attenzione intermittente e distratta tipica di una bimba di quattro anni. «Non preoccuparti, mammina» disse con vivacità. «Lo sorveglierò sempre io in vece tua.»

«Vorrei poterlo fare io stessa» sospirò Meggie.

«Io no» replicò la bambina, con un'aria di sufficienza. «Mi piace avere Dane tutto per me. Quindi non stare a crucciarti. Non lascerò mai che gli succeda qualcosa.»

Meggie non trovò la promessa consolante, sebbene si sentisse alquanto rassicurata. Quella precoce briciola di donna le avrebbe rubato il figlio e lei non poteva evitarlo. Lavorava di nuovo nei pascoli mentre Justine sorvegliava fedelmente Dane. Soppiantata dalla sua stessa figliola, che era un mostro. Da chi aveva preso, in nome del Cielo? Non da Luke, non da lei, non da Fee.

Almeno, ora sorrideva e rideva. Aveva dovuto arrivare all'età di quattro anni prima di scorgere il lato buffo delle cose; e ciò lo si doveva probabilmente a Dane, che aveva sempre riso sin dalla primissima infanzia. E siccome lui rideva, rideva anche lei. I due figli di Meggie imparavano l'uno dall'altro, continuamente. Ma era esasperante constatare che potevano far così bene a meno della madre. Quando questa disgraziata guerra sarà finita, pensava Meggie, Dane sarà troppo grande per provare per me quello che dovrebbe. Si sentirà sempre più vicino a Justine. Perché ogni volta che credo di essere finalmente riuscita a dominare la mia esistenza, accade qualcosa? Non ho voluto io questa guerra e questa siccità, eppure le ho avute.

Forse era un bene che a Drogheda ci fossero tante difficoltà. Se la situazione fosse stata meno difficile, Jack e Hughie sarebbero corsi immediatamente ad arruolarsi. Ma stando così le cose, non potevano fare altro che rassegnarsi e salvare il possibile dalla siccità, che sarebbe stata chiamata la Grande Siccità. Milioni di chilometri quadrati di colture e di pascoli ne erano colpiti, dalla regione meridionale di Victoria ai pascoli Mitchell del Territorio Settentrionale, ove l'erba cresceva alta sino alla vita.

Ma la guerra rivaleggiava con la siccità nell'attrarre l'attenzione di tutti. Con i gemelli nell'Africa Settentrionale, la famiglia seguiva con ansia dolorosa la campagna militare, man mano che gli eserciti avanzavano e indietreggiavano in Libia. I Cleary appartenevano alla classe lavoratrice e, di conseguenza, erano ardenti sostenitori dei laburisti e odiavano il governo di allora, liberale di nome, ma conservatore di fatto. Quando, nell'agosto del 1941, Robert Gordon Menzies si dimise, ammettendo di non poter governare, i Cleary esultarono, e quando, il 3 ottobre, il leader laburista John Curtin venne incaricato di formare il governo, quella fu la più bella notizia mai pervenuta da anni a Drogheda.

Per tutto il 1940 e il 1941 l'inquietudine a causa del Giappone era andata aumentando, specie dopo che Roosevelt e Churchill avevano bloccato i rifornimenti di petrolio. L'Europa era molto lontana e Hitler avrebbe dovuto far percorrere ai suoi eserciti diciannovemila chilometri per invadere l'Australia, ma il Giappone era l'Asia, faceva parte del pericolo giallo sospeso come una spada di Damocle sui territori ricchi, deserti, scarsamente popolati del continente australiano. Di conseguenza, nessuno in Australia si stupì quando i giapponesi attaccarono Pearl Harbor; stavano semplicemente aspettando che la cosa avvenisse, in un punto o nell'altro. All'improvviso, la guerra si fece molto vicina, e avrebbe potuto persino battere alle porte di casa. Nessun grande oceano separava l'Australia dal Giappone, bensì soltanto grosse isole e piccoli mari.

Il giorno di Natale del 1941, Hong Kong cadde; ma i giapponesi non sarebbero mai riusciti a prendere Singapore, dissero tutti con sollievo. Poi giunsero le notizie degli sbarchi giapponesi nella Malesia e nelle Filippine; la grande base navale all'estremità della penisola malese puntava i propri enormi cannoni dalle traiettorie piatte verso il mare, e teneva pronta la flotta. Ma l'8 febbraio del 1942, i giapponesi attraversarono l'angusto stretto di Johore, sbarcarono sul lato nord dell'isola di Singapore e si avvicinarono alla città dietro i cannoni impotenti. Singapore cadde senza nemmeno aver combattuto.

Poi, grandi notizie! Tutte le truppe australiane nell'Africa Settentrionale sarebbero rientrate in patria. Il Primo ministro Curtin cavalcò senza sgomentarsi i marosi dell'ira di Churchill e sostenne che l'Australia, per gli australiani, aveva la precedenza. La Sesta e Settima divisione australiane si imbarcarono rapidamente ad Alessandria; la Nona, che ancora si stava riprendendo al Cairo dalle ferite infertele a Tobruk, doveva seguirle non appena si fossero rese disponibili altre navi. Fee sorrise. Meggie era delirante di felicità. Jims e Patsy sarebbero tornati a casa.

Ma non tornarono. Mentre la Nona aspettava le navi trasporto truppe, le sorti alterne della guerra volsero di nuovo a favore dell'Asse e l'Ottava Armata iniziò la ritirata da Bengasi. Il Primo ministro Churchill si accordò con il Primo ministro Curtin. La Nona Divisione Australiana sarebbe rimasta nell'Africa Settentrionale in cambio dell'invio di una divisione americana che avrebbe difeso l'Australia. Poveri soldati, sbalestrati qua e là, in seguito a decisioni prese in uffici che non appartenevano neppure ai loro paesi! Concedi di qua, prendi di là.

Fu un duro colpo per l'Australia scoprire che la Madre Patria toglieva dal nido tutti i pulcini dell'Estremo Oriente, sia pure a una chioccia grassa e promettente come il continente australiano.

La notte del 23 ottobre 1942 regnava un gran silenzio nel deserto. Patsy si spostò leggermente, trovò suo fratello nelle tenebre, e si appoggiò come un bambino alla sua spalla. Il braccio di Jims lo allacciò; i due giovani sedettero insieme, senza parlare. Il sergente Bob Malloy diede di gomito al soldato semplice Col Stuart e sogghignò.

«I due finocchi.»

«Va' a farti fottere anche tu» disse Jims.

«Andiamo, Harpo, di' qualcosa» mormorò Col.

Patsy gli rivolse un sorriso angelico, a malapena visibile nell'oscurità, aprì la bocca e ululò una eccellente imitazione del verso di Harpo Marx. Tutti, nel raggio di parecchi metri, sibilarono a Patsy di piantarla; era un all'erta che imponeva il silenzio assoluto.

«Cribbio, questa attesa mi ammazza» sospirò Bob.

Patsy parlò con un urlo: «È il silenzio ad ammazzarmi!»

«Fottuto impostore da baraccone, ti ammazzerò io!» gracidò Col afferrando la baionetta.

«In nome di Dio, finitela» bisbigliò il capitano. «Chi è quel dannato idiota che urla?»

«Patsy» disse in coro una mezza dozzina di voci.

Lo scoppio di risate galleggiò rassicurante sui campi minati e si spense nel fiume di bestemmie pronunciate a bassa voce dal capitano. Il sergente Malloy sbirciò l'orologio: la lancetta dei minuti stava segnando in quel momento le ventuno e quaranta.

Ottocentottantadue cannoni e obici inglesi parlarono tutti insieme. Il cielo vacillò, il terreno parve sollevarsi ed espandersi e non smise di vibrare, poiché i tiri di sbarramento continuarono e continuarono senza che il volume di fuoco, tale da far vacillare la mente, diminuisse anche soltanto per un secondo. Inutile ficcarsi le dita nelle orecchie: i tuoni rimbombanti ti raggiungevano attraverso il suolo e penetravano sino al cervello tramite le ossa. Quelli che dovevano essere gli effetti sul fronte di Rommel, le truppe della Nona, nelle loro trincee, potevano soltanto immaginarli. Di solito si riusciva a distinguere questo o quell'altro tipo o calibro di cannoni, ma quella notte le loro gole d'acciaio formavano un coro perfettamente armonizzato e continuarono a tuonare man mano che i minuti passavano.

Il deserto venne illuminato, a questo punto, non già dalla luce del giorno, ma dal fuoco del sole stesso; una vasta e gonfia nube di polvere si sollevò, simile a fumo vorticoso, per centinaia di metri, resa incandescente dai lampi delle granate e delle mine che esplodevano, dalle fiamme guizzanti di massicci depositi di munizioni, dagli incendi. Tutti i pezzi di cui Montgomery disponeva sparavano contro i campi minati... cannoni, obici, mortai. E tutte le munizioni di cui Montgomery disponeva venivano impiegate, con la rapidità di cui erano capaci i sudati serventi ai pezzi, schiavi che alimentavano le fauci delle loro armi come uccelli frenetici possono ingozzare un gigantesco cuculo; le canne dei cannoni si arroventarono, l'intervallo tra il rinculo e il ricaricamento si accorciò sempre più, man mano che gli artiglieri venivano trascinati dal loro stesso impeto. Impazziti, si esibivano nella loro danza frenetica e stereotipata intorno ai pezzi di grosso calibro.

Era bellissimo, meraviglioso... il momento culminante nella vita di un artigliere, quello che egli vive e rivive nei propri sogni, desto o dormendo, per il resto della sua monotona esistenza; anelando di tornare indietro nel tempo, a quei quindici minuti con i cannoni di Montgomery.

Silenzio. Un silenzio mortale, assoluto, che si frangeva come onde sui timpani placati; un silenzio intollerabile. Le dieci meno cinque, precise. La Nona balzò in piedi e avanzò fuori dei trinceramenti, nella terra di nessuno, inastando le baionette, afferrando i caricatori, togliendo le sicure, controllando le borracce, le razioni, gli orologi, gli elmetti, assicurandosi che i lacci degli scarponi fossero ben annodati, accertando la posizione di coloro che portavano le mitragliatrici. Ci si vedeva bene, nei bagliori infernali degli incendi e della sabbia incandescente, fusa e tramutata in vetro, ma il drappo funebre di polvere rimaneva sospeso tra il nemico e loro erano al sicuro. Per il momento. Al margine dei campi minati si fermarono, aspettarono.

L'ora stabilita, al secondo. Il sergente Malloy portò il fischietto alle labbra e soffiò con forza, diffondendo lo stridulo segnale lungo le file della compagnia, a dritta e a manca; il capitano urlò l'ordine di avanzare. Su un fronte di oltre tre chilometri, la Nona entrò nei campi minati, e l'artiglieria riprese a sparare dietro a essa, tuonando. Vedevano dove stavano andando come se fosse stato giorno, poiché gli obici, sparando a distanza ravvicinata, facevano esplodere i proiettili pochi metri più avanti. Ogni tre minuti, il tiro veniva allungato di altri cento metri; si avanzava per quei cento metri pregando che si trattasse soltanto di mine anticarro, o che le mine S, le mine antiuomo, fossero state eliminate dai cannoni di Montgomery. C'erano ancora tedeschi e italiani sul campo, avamposti con mitragliatrici, con pezzi d'artiglieria di piccolo calibro, cannoni da 50 mm, mortai. A volte, un uomo metteva il piede su una mina S inesplosa, e riusciva a vedere la fiammata sprizzar fuori dalla sabbia prima di essere spaccato in due.

Non c'era il tempo di pensare, non c'era il tempo di far niente tranne correre come granchi all'unisono con l'artiglieria, cento metri ogni tre minuti, pregando. Frastuono, lampi, polvere, fumo, terrore che ti tramutava in acqua le budella. A volte, nelle minuscole pause tra due tiri di sbarramento, udivi il remoto, magico suono di una cornamusa nell'aria rovente e granulosa. Sulla sinistra della Nona Australiana, il Cinquantunesimo Highlanders avanzava attraverso i campi minati con un suonatore di cornamusa accanto a ogni comandante di compagnia. Per uno scozzese, il suono della cornamusa che lo trascinava in battaglia costituiva l'allettamento più dolce del mondo, e per un australiano era molto amichevole, consolante. Ma a un tedesco o a un italiano faceva accapponare la pelle.

La battaglia continuò per dodici giorni, e dodici giorni sono una battaglia lunghissima. La Nona fu a tutta prima fortunata; subì perdite relativamente lievi attraverso i campi minati e nei primi giorni di incessante avanzata sul territorio di Rommel.

«Sai, preferisco trovarmi qui e farmi sparare piuttosto che essere un geniere» disse Col Stuart, appoggiandosi alla vanga.

«Non saprei, compare; credo che stiano meglio loro» grugnì il suo sergente. «Aspettano dietro quelle fottute linee finché noi non abbiamo sbrigato tutto il lavoro, poi vengono avanti con i loro dannati spazzamine e sgombrano dei bei sentierini per i fottuti carri armati.»

«La colpa non è dei carri, Bob; è degli alti papaveri che li impiegano» disse Jims, spianando la terra intorno all'orlo del suo tratto della nuova trincea, con la vanga di piatto. «Cribbio, però, vorrei che si decidessero a tenerci nello stesso posto almeno per un po' di tempo! Ho scavato più terra in questi ultimi cinque giorni, di un dannato formichiere.»

«Continua a scavare, bello» disse Bob, incomprensivo.

«Ehi, guardate!» gridò Col, additando il cielo.

Diciotto bombardieri leggeri della MCMCRAF sorvolarono la valle in perfetta formazione di volo, sganciando i loro grappoli di bombe tra tedeschi e italiani, con micidiale precisione.

«Maledettamente bello» commentò il sergente Bob Malloy, alzando la testa e il lungo collo verso il cielo.

Tre giorni dopo, era morto; una enorme scheggia di shrapnel gli aveva staccato il braccio e una metà del fianco durante una nuova avanzata, ma nessuno ebbe il tempo di fermarsi, se non per togliere il fischietto da quello che restava della sua bocca. Gli uomini stavano cadendo come mosche, adesso, troppo stanchi per essere vigili e fulminei come all'inizio, ma quel po' di miserabile e desertico terreno che occupavano riuscivano a conservarlo nonostante i violenti contrattacchi della crema di un magnifico esercito. Per loro, tutto si riduceva ormai a un ottuso, caparbio rifiuto di farsi sconfiggere.

La Nona respinse von Sponeck e Lungerhausen mentre i mezzi corazzati sfondavano a sud, e in ultimo Rommel venne sconfitto. L'8 novembre cercava di riorganizzarsi al di là del confine egiziano e Montgomery rimaneva padrone di tutto il campo. Una vittoria tattica molto importante, una seconda Alamein; Rommel era stato costretto ad abbandonare molti dei suoi carri armati, cannoni e materiale. Poteva cominciare l'Operazione Torch, esercitando la sua spinta verso est dal Marocco e dall'Algeria con maggiori probabilità di successo. C'era ancora molta combattività nella Volpe del Deserto, ma aveva lasciato sul terreno di El Alamein gran parte della sua tracotanza. La più grande e più decisiva battaglia del teatro di operazioni nord-africano era stata combattuta e il feldmaresciallo visconte Montgomery di Alamein ne era il vincitore.

La seconda Alamein fu il canto del cigno per la Nona Divisione Australiana nell'Africa Settentrionale. Gli uomini sarebbero infine rientrati in patria per affrontare i giapponesi nella Nuova Guinea. A partire dal marzo 1941 erano rimasti più o meno ininterrottamente in prima linea, dopo esservi giunti male addestrati ed equipaggiati; ma ora tornavano con una fama superata soltanto dalla Quarta Divisione indiana. E insieme alla Nona partirono Jims e Patsy, sani e salvi.

Naturalmente, venne loro concessa una licenza per tornare a Drogheda. Bob andò a Gilly per aspettarli all'arrivo del treno di Goondiwindi, in quanto la base della Nona si trovava a Brisbane e la divisione, dopo essersi addestrata nella giungla, sarebbe partita per la Nuova Guinea. Quando la Rolls-Royce percorse il viale d'accesso, tutte le donne erano sul prato, in attesa, Jack e Hughie un po' più indietro, ma altrettanto ansiosi di rivedere i fratelli minori. Era un giorno di festa, anche se ogni pecora rimasta in vita a Drogheda fosse stramazzata morta.

Anche quando l'automobile si fu fermata e loro due discesero, nessuno si mosse. Sembravano così diversi! Due anni nel deserto avevano rovinato la loro prima uniforme e adesso ne indossavano una nuova, color verde-giungla, e sembravano due estranei. In primo luogo, si sarebbe detto che fossero cresciuti di parecchi centimetri, come infatti era; gli ultimi due anni dello sviluppo li avevano vissuti lontano da Drogheda, e, in quei due anni, si erano lasciati indietro i fratelli maggiori. Non più ragazzi, ma uomini, e non già uomini dello stampo di Bob-Jack-Hughie; gli stenti, l'euforia della battaglia e lo spettacolo della morte li avevano trasformati come Drogheda non sarebbe mai riuscita a fare. Erano stati prosciugati e oscurati dal sole africano fino ad assumere un color mogano e a liberarsi di ogni stratificazione dell'adolescenza. Sì, non si stentava a credere che quei due uomini dalle semplici uniformi con i berretti inclinati sull'orecchio sinistro e il distintivo dell'MCMCAIF, il sole nascente, avessero ucciso loro simili. Glielo si leggeva negli occhi, azzurri come quelli di Paddy, ma più tristi e privi di dolcezza.

«Ragazzi miei! Ragazzi miei!» gridò la signora Smith, correndo verso di loro, la faccia striata dalle lacrime. No, non importava quello che avevano fatto, né quanto erano cambiati, continuavano a essere gli stessi bambini che aveva lavato, cui aveva cambiato i pannolini, gli stessi bambini che aveva nutrito, e ai quali aveva asciugato le lacrime e baciato le piccole ferite, per guarirle. Ma le ferite che ora portavano, la signora Smith non aveva il potere di guarirle.

Poi tutti li circondarono, dimenticando il riserbo inglese, ridendo, piangendo, e persino la povera Fee batté loro la mano sulle spalle sforzandosi di sorridere. Dopo la signora Smith, venne la volta di baciarli per Meggie, per Minnie, per Cat; Ma', quanto a lei, li abbracciò timidamente, e Jack e Hughie strinsero loro la mano in silenzio. Quelli di Drogheda non avrebbero mai saputo che cosa significava tornare a casa, non avrebbero mai potuto sapere quanto quel momento era stato desiderato, anelato.

E come mangiarono, i gemelli! «Il rancio non è mai stato così!» dissero ridendo. Torte fiabesche rosa e bianche, biscotti imbevuti di cioccolata e avvolti nella noce di cocco, budini, panna delle mucche di Drogheda. Ricordando la capacità del loro stomaco di un tempo, la signora Smith si persuase che sarebbero rimasti a letto per una settimana, ma, finché non mancava il tè per mandar giù ogni cosa, i due giovani sembravano non avere alcuna difficoltà di carattere digestivo.

«È un po' diverso dal pane wog, eh, Patsy?»

«Uh-uh.»

«Che cosa significa wog?» domandò la signora Smith.

«Wog vuol dire arabo, e wop italiano, giusto, Patsy?»

«Uh-uh.»

Era strano. Parlavano, o almeno Jims parlava, per ore dell'Africa Settentrionale: le città, la gente, il cibo, il museo del Cairo, la vita a bordo di una nave trasporto truppe, e al campo. Ma, per quante domande venissero loro poste, rispondevano soltanto in modo vago, e cercando di cambiare discorso, riguardo a come erano stati i veri combattimenti, a quello che era accaduto a Gazala, a Bengasi, a Tobruk, a El Alamein. In seguito, una volta terminata la guerra, le donne avrebbero constatato continuamente la stessa cosa: l'uomo che era venuto a trovarsi nel pieno della battaglia non apriva mai la bocca per parlarne, rifiutava di iscriversi alle associazioni e ai circoli di reduci, non voleva aver niente a che fare con le istituzioni che perpetuavano il ricordo della guerra.

Drogheda offrì un ricevimento in loro onore. Anche Alastair MacMCqueen aveva fatto parte della Nona ed era tornato in patria, e così, naturalmente, vi fu una festa a Rudna Hunish. I due figli minori di Dominic O'Rourke facevano parte della Sesta nella Nuova Guinea, e perciò, sebbene non potessero essere presenti, Dibban-Dibban offrì un ricevimento. Ogni famiglia di allevatori del distretto che avesse un figlio in uniforme volle festeggiare il ritorno dei tre ragazzi della Nona. Donne e ragazze li assediavano, ma gli eroi Cleary tornati in patria cercavano di evitare ogni occasione, più spaventati di quanto lo fossero mai stati su qualsiasi campo di battaglia.

In effetti, Jims e Patsy sembravano non voler avere niente a che fare con le donne; e si avvinghiavano a Bob, a Jack e a Hughie. A tarda sera, dopo che le donne erano andate a coricarsi, si trattenevano a conversare con i fratelli costretti a restare in patria, e aprivano i loro cuori piagati e sofferenti. E percorrevano a cavallo i pascoli dell'inaridita Drogheda, ormai al settimo anno di siccità, lieti di essere di nuovo in borghese.

Sebbene così devastata e torturata, a Jims e a Patsy la terra sembrava ineffabilmente bella; le pecore erano consolanti, le rose tardive in giardino mandavano un profumo paradisiaco. Volevano assorbire tutto così profondamente da non poterlo dimenticare più, perché avevano affrontato la loro prima partenza molto alla leggera; non avevano avuto idea di quello che li aspettava. La prossima partenza sarebbe stata diversa, avrebbero fatto tesoro di ogni momento, per ricordarlo e averlo caro, e avrebbero portato via rose e steli della sempre più scarsa erba di Drogheda compressi nei portafogli. Con Fee erano gentili e comprensivi, ma con Meggie, con la signora Smith, con Minnie e Cat, erano molto affettuosi, molto teneri. Erano state loro le vere madri.

A deliziare soprattutto Meggie era il bene che volevano a Dane; giocavano e ridevano con lui per ore, lo portavano a fare gite a cavallo, lo facevano rotolare sul prato. Justine sembrava spaventarli; ma, d'altro canto, erano goffi e imbarazzati con qualsiasi femmina che non conoscevano bene quanto le donne più anziane. Justine era furiosamente gelosa di loro, ma più che altro era gelosa di come monopolizzavano la compagnia di Dane, perché ciò significava che lei non aveva più nessuno con cui giocare.

«È un ometto fantastico, Meggie» le disse Jims un giorno, quando ella uscì sulla veranda; sedeva su una poltroncina di vimini, osservando Patsy e Dane che giocavano sul prato.

«Sì, è proprio una bellezza, vero?» Lei sorrise, sedendo in modo da poter vedere il fratello minore. Aveva gli occhi lucidi dalla tenerezza; anche loro erano stati i suoi figlioletti. «Che cos'hai, Jims? Non puoi dirmelo?»

Egli volse lo sguardo sulla sorella, infelice per qualche profonda sofferenza, ma scosse la testa, come se non provasse nemmeno la tentazione di parlare. «No, Meggie. Non è una cosa che possa mai dire a una donna.»

«E come ti regolerai quando tutto questo sarà finito e ti sposerai? Non vorrai dirlo nemmeno a tua moglie?»

«Noi, sposarci? Non credo. La guerra toglie tutte le idee di questo genere a un uomo. Smaniavamo dalla voglia di partire, ma adesso la sappiamo più lunga. Se ci sposassimo, avremmo figli; e che scopo ci sarebbe? Vederli crescere perché poi vengano mandati a fare quello che abbiamo fatto noi, a vedere quello che abbiamo veduto noi?»

«No, non dire così!»

Jims seguì lo sguardo di lei e contemplò Dane, che rideva felice perché Patsy lo stava tenendo capovolto a testa in giù.

«Non consentirgli mai di andarsene da Drogheda, Meggie. A Drogheda non può accadergli niente di male.»

L'Arcivescovo de Bricassart corse lungo il bellissimo e alto corridoio, indifferente alle facce stupite che si voltavano a guardarlo; irruppe nella stanza del Cardinale e si fermò di colpo. Sua Eminenza stava conversando con Monsieur Papée, l'ambasciatore del governo polacco in esilio presso la Santa Sede.

«Ah, Ralph! Che cosa c'è?»

«È accaduto, Vittorio. Mussolini è stato defenestrato.»

«Gesù buono! Lo sa, il Santo Padre?»

«Ho telefonato io stesso a Castel Gandolfo, anche se la radio dovrebbe annunciarlo da un momento all'altro. Mi ha avvertito per telefono un amico dal quartier generale tedesco.»

«Spero proprio che il Santo Padre abbia pronte le valigie» disse Monsieur Papée, con una lieve, assai lieve, esultanza.

«Potrebbe uscire di là se lo camuffassimo come un francescano questuante, ma non altrimenti» scattò l'Arcivescovo Ralph. «Kesselring ha completamente ed ermeticamente accerchiato la città.»

«Non se ne andrebbe in ogni caso» osservò il Cardinale Vittorio.

Monsieur Papée si alzò. «Devo congedarmi, Eminenza. Sono il rappresentante di un governo che è nemico della Germania. Se Sua Santità non è al sicuro, non lo sono nemmeno io. Esistono documenti nella mia stanza che devo eliminare.»

Affettato e preciso, diplomatico fino alla punta delle dita, lasciò soli i due prelati.

«Era qui a intercedere per il suo popolo perseguitato?»

«Sì. Pover'uomo, soffre tanto per la sua gente.»

«E noi no?»

«Certo che sì, Ralph! Ma la situazione è più difficile di quanto egli sappia.»

«La verità vera è che non viene creduto.»

«Ralph!»

«Be', non è forse vero? Il Santo Padre ha trascorso gli anni giovanili a Monaco; là si innamorò dei tedeschi, e continua ad amarli, nonostante tutto. Se gli venissero poste sotto gli occhi delle prove come quei poveri cadaveri torturati, direbbe che devono essere stati i russi a fare cose simili. Non i suoi tanto cari tedeschi, mai un popolo colto e civile come loro!»

«Ralph, lei non fa parte della Compagnia di Gesù, ma si trova qui perché ha giurato personalmente fedeltà al Santo Padre. Ha il sangue caldo dei suoi antenati irlandesi e normanni, ma, la supplico, sia ragionevole! A partire dallo scorso settembre abbiamo aspettato soltanto che la scure si abbattesse, pregando Dio di far restare il Duce a tutelarci dalle rappresaglie tedesche. Adolf Hitler ha una curiosa vena di contraddizione nella sua personalità, poiché sa che due sono i suoi nemici, eppure desidera, purché sia possibile, salvarli: l'Impero inglese e la Santa Chiesa Cattolica di Roma. Ma allorché vi è stato costretto, ha fatto del suo meglio per annientare l'Impero britannico. Crede forse che non annienterebbe anche noi, se lo spingessimo a farlo? Una sola parola di denuncia da parte nostra riguardo a ciò che sta accadendo in Polonia, e senza dubbio ci distruggerebbe. Inoltre, quale vantaggio terreno crede che conseguiremmo, denunciando gli avvenimenti di Polonia, amico mio? Non disponiamo di eserciti, non abbiamo soldati. Le rappresaglie sarebbero immediate, e il Santo Padre verrebbe inviato a Berlino, come egli teme. Non ricorda il Papa fantoccio ad Avignone, tanti secoli fa? Vuole che il nostro Papa divenga un fantoccio a Berlino?»

«Mi scusi, Vittorio, ma io non sono di questo parere. Dico che dobbiamo denunciare Hitler, urlare dai tetti la sua barbarie! Se ci farà fucilare, moriremo da martiri, e questo sarà ancor più efficace.»

«Di solito lei non è ottuso, Ralph! Non ci farebbe affatto fucilare! Si rende conto bene quanto noi dell'impatto di un martirio. Il Santo Padre verrebbe portato a Berlino, e noi saremmo mandati furtivamente in Polonia. In Polonia, Ralph, in Polonia! Vuole morire in Polonia, ancor meno utile di quanto possa esserlo qui adesso?»

L'Arcivescovo Ralph sedette, strinse le mani tra le ginocchia e fissò, ribelle, fuori della finestra, le colombe in volo, dorate nel sole al tramonto, verso i loro ripari. A quarantanove anni, era più magro di un tempo, e stava invecchiando splendidamente, come faceva quasi ogni cosa.

«Ralph, noi siamo quello che siamo. Uomini, ma in primo luogo sacerdoti.»

«Non fu così che lei elencò le precedenze, al mio ritorno dall'Australia, Vittorio.»

«Intendevo una cosa diversa, allora e lo sa bene. Ma lei sta facendo il difficile. Voglio dire, adesso, che non possiamo pensare come uomini. Dobbiamo pensare come sacerdoti, perché questo è l'aspetto più importante della nostra vita. In qualsiasi modo possiamo pensare o qualsiasi cosa vogliamo fare come uomini, la nostra fedeltà deve andare alla Chiesa e non a un potere temporale! Noi dobbiamo essere leali soltanto nei confronti del Santo Padre! Lei ha pronunciato il voto dell'ubbidienza, Ralph! Vuole infrangerlo di nuovo? Il Santo Padre è infallibile in tutto ciò che concerne il bene della Chiesa di Dio.»

«Si sbaglia! Il suo giudizio è prevenuto. Tutte le sue energie si concentrano nella lotta contro il comunismo. Egli vede la Germania come il più grande nemico del comunismo, come l'unico vero fattore che possa impedire la diffusione del comunismo all'ovest. Vuole che Hitler rimanga saldamente in sella in Germania, così come era lieto che Mussolini governasse l'Italia.»

«Mi creda, Ralph, ci sono cose che lei ignora. Egli è il Papa, e infallibile! Se lei nega questo, nega la sua stessa fede!»

La porta venne aperta con discrezione, ma frettolosamente.

«Eminenza, il generale Kesselring.»

Entrambi i prelati si alzarono, e le loro divergenze scomparvero dai volti distesi e sorridenti.

«Che piacere, Eccellenza. Non vuole accomodarsi? Gradirebbe un tè?»

La conversazione si svolgeva in tedesco, poiché molti degli alti prelati in Vaticano parlavano questa lingua. Il Santo Padre amava parlare e ascoltare il tedesco.

«Grazie, Eminenza, sì, lo gradirei. In nessun altro luogo a Roma è possibile avere un tè così superbamente inglese.»

Il Cardinale Vittorio sorrise innocentemente. «È un'abitudine che presi quando ero Legato pontificio in Australia, e alla quale, nonostante la mia innata italianità, non ho saputo rinunciare.»

«E lei, Monsignore?»

«Io sono irlandese, Herr General. Anche gli irlandesi crescono con l'abitudine al tè.»

Il generale Albert Kesselring si comportava sempre da uomo a uomo con l'Arcivescovo de Bricassart; in confronto agli scaltri e melliflui prelati italiani egli era riposante, un uomo senza sottigliezze né furbizie, schietto.

«Come sempre, Monsignore, mi stupisce la purezza del suo accento tedesco» lo complimentò.

«Ho orecchio per le lingue, Herr General; un talento che, come tutti gli altri, non merita di essere lodato.»

«Che cosa possiamo fare per lei, Eccellenza?» domandò il Cardinale, soavemente.

«Presumo che abbiano ormai saputo della sorte del Duce.»

«Sì, Eccellenza, siamo informati.»

«Allora si renderanno conto della ragione per la quale mi trovo qui. Per assicurare che tutto va bene e per chiedere se non vorrebbero trasmettere la comunicazione a coloro che trascorrono l'estate a Castel Gandolfo. Io sono talmente occupato, in questo momento, che mi è impossibile recarmi personalmente a Castel Gandolfo.»

«La comunicazione sarà trasmessa. È tanto impegnato?»

«Naturale. Lei certamente si rende conto che questo è ormai un paese nemico per noi tedeschi.»

«Questo, Herr General? Qui non ci troviamo su territorio italiano, e nessuno è un nemico, qui, tranne i malvagi.»

«Le chiedo scusa, Eminenza. Naturalmente mi riferivo all'Italia, non al Vaticano. Ma, per quanto concerne l'Italia, dovrò agire come mi ordina il Führer. L'Italia sarà occupata, e le mie truppe, fino a ora qui presenti come alleate, diventeranno forze di polizia.»

L'Arcivescovo Ralph, comodamente seduto, e con l'aria di non aver mai sostenuto una battaglia ideologica in vita sua, osservava attentamente il visitatore. Sapeva, Kesselring, quello che stava facendo il suo Führer in Polonia? Come poteva non saperlo?

Il Cardinale Vittorio atteggiò la faccia a un'espressione ansiosa. «Caro generale, ma non nella stessa Roma, certo? Ah, no! Roma, con la sua storia, le sue inestimabili opere d'arte? Se farà affluire truppe entro i sette colli, avremo combattimenti, distruzioni. La supplico, non questo!»

Il generale Kesselring parve a disagio. «Spero che non si dovrà arrivare a tanto, Eminenza. Ma anch'io sono legato da un giuramento, anch'io eseguo ordini. Devo fare ciò che vuole il mio Führer.»

«Ma si adoprerà per noi, Herr General? La prego, deve! Alcuni anni fa mi trovavo ad Atene» si affrettò a dire l'Arcivescovo Ralph, sporgendosi in avanti, gli occhi incantevolmente grandi, un ciuffo di capelli brizzolati sulla fronte; sapeva benissimo di riuscire simpatico al generale, e ne approfittava senza rimorsi. «È mai stato ad Atene, signore?»

«Sì, ci sono stato» rispose il generale, asciutto.

«Allora sono certo che conosce i fatti. Saprà come siano occorsi uomini appartenenti a tempi relativamente moderni per distruggere i monumenti dell'Acropoli, Herr General. Roma rimane quello che è sempre stata, un monumento eretto a duemila anni di cure, di attenzione, di affetto. La prego, la supplico! Non metta in pericolo Roma!»

Il generale lo fissò con stupita ammirazione; l'uniforme figurava benissimo su di lui, ma non meglio di quanto figurasse la veste talare, con la sua nota di color porpora imperiale, sull'Arcivescovo Ralph. Anch'egli aveva l'aspetto di un soldato, con il corpo asciutto e bello di un soldato e il volto di un angelo. Così doveva essere stato l'Arcangelo Michele; non un leccato adolescente del Rinascimento, ma un uomo maturo e perfetto, che aveva amato Lucifero, si era battuto contro di lui, aveva bandito Adamo ed Eva, uccidendo il serpente e ponendosi alla destra di Dio. Si faceva un'idea del proprio aspetto? Era davvero un uomo da ricordare.

«Farò del mio meglio, Monsignore, glielo prometto. Fino a un certo punto la decisione dipende da me, lo riconosco. Sono, come lei sa, un uomo civile. Ma lei sta chiedendo molto. Se dichiarerò Roma città aperta, questo significherà che non potrò farne saltare i ponti né tramutarne i palazzi in fortezze, e ciò potrebbe costituire, da ultimo, uno svantaggio per la Germania. Quali garanzie avrò che Roma non mi ripagherà con il tradimento, se sarò generoso nei suoi riguardi?»

Il Cardinale Vittorio increspò le labbra e rivolse suoni simili a schiocchi di baci alla sua gatta, che era adesso un'elegante siamese; sorrise dolcemente, e guardò l'Arcivescovo. «Roma non ripagherebbe mai la bontà con il tradimento, Herr General. Sono certo che, quando troverà il tempo di far visita a coloro i quali trascorrono l'estate a Castel Gandolfo, riceverà le stesse assicurazioni. Qui, Kheng-see, dolcezza mia! Ah, che adorabile femmina sei!» Con le mani la premette sul grembo scarlatto, l'accarezzò.

«Una bestiola fuori del comune, Eminenza.»

«Un'aristocratica, Herr General. Sia l'Arcivescovo, sia io, abbiamo nomi antichi e venerabili, ma, in confronto al lignaggio di Kheng-see, il nostro non è niente. Le piace il suo nome? Significa fiore di seta, in cinese. Le si addice, non le sembra?»

Il tè era arrivato e veniva servito; tacquero tutti finché la sorella laica non fu uscita dalla stanza.

«Non si pentirà della decisione di dichiarare Roma città aperta, Eccellenza» disse l'Arcivescovo Ralph al nuovo padrone dell'Italia, con un sorriso soave. Poi si voltò verso il Cardinale, rinunciando al fascino come a un mantello lasciato cadere, poiché non era necessario con quell'uomo diletto. «Eminenza, desidera fare da padrona di casa, o spetterà a me questo onore?»

«Padrona di casa?» domandò il generale Kesselring, inespressivo.

Il Cardinale Contini-Verchese rise. «È un piccolo scherzo tra noi celibi. Chi versa il tè è "la padrona di casa". Un modo di dire inglese, Herr General.»

Quella sera l'Arcivescovo Ralph era stanco, irrequieto, nervoso. Sembrava che non riuscisse a far nulla per contribuire alla cessazione di quella guerra, a parte le trattative per la conservazione delle antichità, e aveva finito con l'odiare appassionatamente l'inerzia del Vaticano. Sebbene fosse per natura un conservatore, a volte la cautela di coloro che occupavano le più alte posizioni nella Chiesa lo esasperava in modo intollerabile. A parte le umili suore e gli umili preti che svolgevano mansioni da servi, erano settimane che non parlava con un uomo comune, con qualcuno che non avesse interessi politici spirituali o militari da promuovere. Persino pregare sembrava riuscirgli meno facile, in quel periodo, e si sarebbe detto che Dio si trovasse ad anni luce di distanza, come se si fosse appartato per lasciare mano libera alle Sue creature umane nel distruggere il mondo che aveva creato per loro. Gli occorreva, si disse Ralph, una dose abbondante di Meggie e di Fee, o una dose abbondante di qualcuno che non fosse interessato alle sorti del Vaticano o di Roma.

Discese per la scala privata nella grande basilica di San Pietro, ove lo aveva condotto il suo cammino senza meta. Le porte venivano chiuse in quei tempi, non appena scendeva l'oscurità: un indizio della calma inquieta che gravava su Roma, più significativo dei gruppi di tedeschi, dalle uniformi grigie, aggirantisi per le vie. Un fioco e spettrale bagliore illuminava l'immensa e deserta abside; i suoi passi echeggiarono cavernosi sul pavimento di pietra, per poi cessare e fondersi con il silenzio quando si genuflesse dinanzi all'altar maggiore, e quindi ricominciare. Subito dopo, tra un suono e l'altro di un passo, udì un respiro affannoso. Accese la lampadina tascabile che aveva in mano e ne puntò il fascio luminoso nella direzione del suono, non tanto spaventato quanto incuriosito. Questo era il suo mondo; poteva difenderlo dalla paura.

Il pennello di luce passò su quello che egli considerava ormai il più bell'esempio di scultura di tutto il creato: la Pietà di Michelangelo. Sotto le immobili e meravigliose figure, si trovava un altro volto, fatto non di marmo ma di carne, scavato dalle ombre e simile al volto della morte.

«Ciao» disse l'Arcivescovo, sorridendo.

Non ebbe risposta, ma vide che l'uniforme dell'uomo era quella di un soldato semplice della fanteria tedesca; il fatto che si trattasse di un tedesco non aveva alcuna importanza.

«Wie geht's?» domandò, sempre sorridendo.