3.
"Vacillo zoppico
strade mai conosciute
costerà un'altra alba
la mia pretesa identità."
La vita del latitante per caso è veramente faticosa.
L'aspetto più sfibrante è la sicurezza; si vive continuando a pensare se quello che stai facendo rientra nelle norme che ti sei dato per non essere catturato. Con il tempo ti rendi conto che più sei paranoico, più sei al sicuro, e tutti gli aspetti della quotidianità diventano oggetto di un susseguirsi delirante di sospetti e attenzioni.
Interpretare uno stereotiposocialerassicurante è già di per sé uno stress per la propria salute mentale; il resto è molto peggio.
La prima regola nel recitare sul palcoscenico urbano è dare sempre l'impressione di andare in un posto preciso. Il latitante non può permettersi un'aria da sfaccendato. Il suo passo è sempre veloce, l'occhio fisso alla strada, come chi non ha tempo da perdere. Usa solo mezzi pubblici. L'automobile, ad esempio, è troppo pericolosa: un posto di blocco, un piccolo incidente e la copertura salta. Deve ricordare di sbarazzarsi sempre del biglietto perché, in caso di cattura, potrebbe dare informazioni utili alla polizia per individuare il posto di lavoro o l'abitazione. In treno, in autobus, in metropolitana deve scrutare sempre gli altri passeggeri per capire in tempo se c'è qualche poliziotto in borghese.
Io trovavo regolarmente qualcuno che oltre ad averne la faccia, non faceva altro che fissarmi; probabilmente ero io che a forza di osservarlo con la coda dell'occhio attiravo la sua attenzione.
Allarmato scendevo alla prima fermata e aspettavo il mezzo successivo; ogni volta che dovevo andare in qualche posto ci mettevo una vita. Se per coincidenza il tizio scendeva alla mia stessa fermata, allarmatissimo pensavo: "Aiuto, mi sta seguendo"e mettevo in atto complicatissime tecniche antipedinamento, come ad esempio risalire una scala mobile o prendere al volo un altro treno che andava chissà dove per scenderne un attimo prima che chiudessero le porte. Aver visto quattro volte "Il braccio violento della legge" mi aveva aiutato molto ad affinare questo numero.
Di ogni città studiavo attentamente la topografia e schedavo tutti i locali e negozi con un'uscita sul retro; elaboravo così percorsi adatti a ogni emergenza. Per andare a comprare il giornale, prima di decidermi entravo e uscivo da un bar, una farmacia e un grande magazzino.
Nelle metropoli bisogna fare attenzione anche muovendosi a piedi; il controllo territoriale si concentra in alcune zone sia centrali sia periferiche dove maggiore è il flusso di persone. Gruppi di agenti in borghese filtrano l'entrata e l'uscita di stazioni, grandi magazzini e i punti cruciali del viavai pedonale proprio alla ricerca di latitanti. Oltre a controllare documenti di persone dalla faccia e dall'atteggiamento sospetto, ne fermano anche alcune a caso all'apparenza del tutto raccomandabili. Parigi, Madrid e Barcellona erano particolarmente soggette a questo tipo di controllo, eseguito da ottimi poliziotti ben addestrati. Per quanto stessi attento incappavo spesso in questi filtri, per fortuna senza conseguenze.
All'epoca, non sapendo che nessuno mi cercava, mi affidavo molto a una litania autoprotettiva che con l'andare del tempo mi ero convinto fosse efficacissima. "Sono buono, sono buono, tanto buono"mi ripetevo mentre passavo tra i poliziotti per diffondere energie positive intorno a me. Per un periodo consigliai l'uso di questo mantra anche ad altri, ma il loro scetticismo rasentava il dileggio.
C'erano però periodi in cui non era consigliabile nemmeno uscire di casa. Un attentato o la visita di qualche capo di stato estero innervosivano le forze dell'ordine rendendole impermeabili anche alla mia formula magica.
In questi casi mi ritiravo strategicamente in un posto tranquillo, un paesino della costa basca dove la Guardia Civil aveva abbandonato anche la caserma, obiettivo ormai solo delle monellerie dei ragazzini.
Lì ho trascorso i periodi più belli della mia vita di fuggiasco; facevo lunghe spensierate passeggiate sulla riva del mare o in mezzo ai boschi. Ma rimpiangevo sempre di non essere basco, bretone, corso o irlandese; di non avere un'identità collettiva - di popolo, di lingua e di tradizioni - da rivendicare.
Gli abitanti erano piuttosto cordiali e presero via via a coinvolgermi in grandi bevute di grandi fiestas. All'inizio però, pur mantenendo un atteggiamento cortese, tenevano molto le distanze. Alla prima fiesta mi ero presentato con una macchina fotografica e subito mi trovai circondato da un gruppetto di uomini, di tutte le età, che mi presero gentilmente la macchina, restituendomela dopo aver fatto prendere luce alla pellicola. Quindi mi chiesero:
"Italiano?".
"Sì".
"Fascista?".
"No!!".
"Sabes que es la Ikurri¤a?".
"Cierto, es la bandera de el pueblo de Euskadi".
"Te gusta?".
"Claro que sì, hombre".
Mi ritrovai un bicchiere in mano e già quella prima sera tirai tardi.
Uno degli argomenti di conversazione preferiti era "Ogro", il film di Gillo Pontecorvo sull'attentato al ministro franchista Carrero Blanco.
Ai baschi non era piaciuto e si sentivano offesi dalla invadenza presuntuosa di uno straniero che pensava di avere capito tutto. Aveva convinto poco anche me, però non potevano toccarmi Pontecorvo che adoravo per "La battaglia di Algeri". Discutevamo per ore seduti sulle panchine della piazza di fronte al porto e poi, quando arrivavamo a un punto morto, iniziavo a cantare a squarciagola "Vola, Carrero Blanco vola…"e tornavamo a bere.
Volevano sempre che raccontassi le manifestazioni di protesta del movimento italiano contro la condanna a morte dell'anarchico Puig Antich, garrotato negli ultimi anni della dittatura. Era diventato un rituale. Mi alzavo, prendevo il bastone a un vecchio e iniziavo a segnare per terra spiegando: "Qui eravamo noi, lì la polizia e in mezzo l'ambasciata di Spagna…".
Per anni ho sognato, una volta conclusa la mia vicenda, di trasferirmi per sempre in quel paesino. Mi piaceva perfino il piccolo cimitero sul pendio di una collina a metà strada tra il mare e le montagne.
L'estate scorsa ci sono infine tornato ma era tutto cambiato. Sui muri un enorme manifesto con tante, tantissime piccole foto: visi di vecchi e nuovi prigionieri. Il programma delle fiestas era dedicato ormai solo al sostegno della campagna per l'amnistia e la gente aveva un'aria grigia, stanca per lo sforzo quotidiano di non dimenticare un sogno.
La romantica tranquillità del cimitero che tanto mi aveva affascinato era deturpata dalla recente morte di un giovane "etarra" caduto dalla finestra di un comando di polizia a Bilbao. La solita finestra aperta, il solito commissario distratto.
Mi sono fermato solo il tempo di capire che non ci sarei mai più tornato. Ho deciso di farmi cremare.
Il luogo più pericoloso per un latitante è la casa dove abita. Un errore, una sottovalutazione o il caso possono portare la polizia a individuarla. Le modalità del possibile arresto sono tre: nel proprio appartamento (le ore più pericolose sono le prime del mattino), sul portone uscendo o lungo la via del ritorno.
La scelta oculata non è sufficiente, è anche necessaria una conoscenza particolareggiata di tutto quello che le sta attorno. Questo mi obbligava a rinchiudermi per la prima settimana nella casa di cui avevo preso possesso, senza mai uscirne, e dagli spiragli delle serrande abbassate osservare e schedare tutti e tutto. Armato di binocolo spiavo gli inquilini del mio palazzo e di quelli vicini, i negozi, i fornitori, i passaggi di routine della polizia, dei vigili, delle guardie giurate e dei netturbini, registrando orari, abitudini, targhe e tipo di mezzi.
Su una parete della stanza attaccavo dei grandi fogli di carta che corrispondevano a "fette" di strada e scrivevo tutto quello che vedevo. Definivo "uno scenario tipo" dei movimenti della via, organizzandolo secondo un certo numero di fasce orarie riferite a un'intera giornata. In questo modo potevo individuare subito "la nota stonata". Uno sconosciuto fermo a un portone, una macchina o un furgone mai visti prima, un gruppo di operai apparentemente intenti a una riparazione mi mettevano subito in allarme e dovevo attuare una complicata procedura di verifica.
Nel caso si trattasse di un furgone (che è uno dei mezzi più usati per la cattura dei latitanti perché si presta a essere trasformato in una vera e propria struttura mobile di sorveglianza), se tardava ad andarsene usavo il trucchetto della telefonata alla polizia.
"Buonasera, sono il signor…, abito in via…, come ogni sera ho portato fuori il mio cane e ho notato un uomo che ha parcheggiato un furgone all'altezza del numero civico… è sceso ed è corso verso una macchina che lo attendeva. E' partita sgommando. Mi sembravano mediorientali.".
Riattaccavo, uscivo dalla cabina e aspettavo. Se dopo tre minuti arrivava una pattuglia, me ne tornavo a casa a prepararmi la cena, in caso contrario chiedevo a un amico di ospitarmi.
L'effetto singolare dello spiare i propri vicini è che si entra nella loro vita; al di là degli orari e delle abitudini se ne colgono tanti altri aspetti.
La gente al riparo delle mura domestiche fa cose stranissime. A volte entravo in vere e proprie dinamiche familiari: dalle liti tra coniugi, o tra genitori e figli, a quelle tra amanti. Così, seguire la saga della famiglia del quinto piano, era spesso meglio della televisione.
Soprattutto mi aveva impressionato scoprire con quanto impegno uomini e donne si tradiscano. Pensavo che nella società moderna consumare il tradimento in casa propria fosse un retaggio del passato; andare in un hotel, in fondo, non scandalizza più nessuno. Invece no. Ho assistito alle più svariate strategie del tradimento, portate a termine con una scaltrezza e una determinazione tali da far sperare che queste persone, un domani, non si dedichino al crimine.
A Città del Messico le uniche norme di sicurezza da seguire erano farsi notare il meno possibile e frequentare solo i quartieri in sintonia con il proprio aspetto e la classe sociale che denunciava.
L'unica zona franca era l'università; lì la polizia non poteva entrare e il controllo interno era affidato a un servizio di sicurezza dell'istituto stesso. Iscritto alla facoltà di storia, passavo la maggior parte del mio tempo in quell'isola felice.
Passare inosservato significava in particolare evitare di farsi rapinare dai poliziotti che, con la scusa di un controllo, si facevano consegnare portafoglio e orologio. Non c'era giorno che qualche studente straniero non arrivasse all'università raccontando di aver contribuito a rimpinguare i magri stipendi delle forze dell'ordine. A me non è mai successo perché avevo imparato subito a tirare fuori i soldi; appena un poliziotto mi fermava, discretamente gli allungavo cento pesos (il costo di una Coca-Cola) e tutto filava liscio.
I più colpiti erano i giapponesi. Non solo per la qualità dei loro orologi e per la quotazione dello yen, ma per il vero e proprio odio razziale nei confronti dei musi gialli in generale. Nei primi anni del Novecento, centinaia di migliaia di cinesi vennero indotti ad abbandonare le condizioni di vita subumane del loro paese con il miraggio di un lavoro sicuro in un Messico che si stava avviando alla rivoluzione. Ne vennero massacrati circa quattrocentomila in pochi anni con l'accusa di rubare il lavoro a campesinos appena meno poveri di loro.
Abitavo in una villetta del quartiere Roma, fondato da emigrati italiani e ora diviso con la comunità ebraica. Era un quartiere sicuro, controllato ventiquattro ore su ventiquattro da vigilantes dal grilletto facile. Di fatto, oltre al Roma e alla cittadella universitaria, potevo frequentare pochi altri quartieri, in particolare la Zona Rosa (il centro turistico) e San Angel (il quartiere degli intellettuali e degli artisti).
Il pericolo maggiore era rappresentato dalle bande di panchitos, i giovani dei quartieri più degradati e delle ciudades perdidas, baraccopoli grandi come città che ufficialmente non esistevano. Prive di acqua, luce e fognature, ospitavano i poveri che fuggivano delle campagne. I panchitos ogni tanto sceglievano un quartiere ricco e lo prendevano d'assalto. Sequestravano alcuni autobus e arrivavano anche in duecento, organizzati militarmente e, mentre un gruppo fungeva da copertura ingaggiando furiosi conflitti a fuoco con la polizia, il resto saccheggiava i negozi.
Con loro ho avuto a che fare soltanto una volta. Ero stato invitato nella casa di un noto sindacalista comunista per festeggiare la "boda de los quince a¤os" della sorella (la festa più importante per una donna messicana perché rappresenta il suo ingresso in società).
Abitavano dalle parti dell'aeroporto, in un quartiere che negli anni '60 si poteva definire operaio e che la disoccupazione aveva trasformato in qualcosa di indefinibile. Ci ero arrivato accompagnato da amici in auto perché da solo, in autobus, sarei stato sicuramente aggredito. La festa, bella, allegra, si svolgeva sul grande tetto piatto della casa, con tanto di coreografo e ballerini di professione che accompagnavano la festeggiata nelle danze.
A un certo punto finii le sigarette e chiesi dove potevo trovarle nei paraggi. Si creò immediatamente un'atmosfera tesa e gli invitati tentarono di regalarmene dei pacchetti. La loro dignitosa povertà mi imponeva di non accettare e mi avviai verso l'uscita, ma con amichevole fermezza venni bloccato. Come al solito avevo capito tutt'altro e credevo si fossero offesi per il mio rifiuto. Ma dato il ritmo con cui mi accendevo le sigarette, rischiavo di lasciare tutti senza. A quel punto il sindacalista ordinò a un gruppo di persone di accompagnarmi. Non erano meno di quindici e mi circondavano mentre camminavo. Ancora non capivo, ma appena entrai nel primo bar maledissi il vizio del fumo. Era pieno di panchitos che come mi videro iniziarono subito a contrattare con i miei amici il prezzo che il gringo doveva pagare per essere lasciato in pace. I due gruppi si fronteggiarono con il sottoscritto in mezzo morto di paura. Mi ripresi e sventolando il denaro sopra la testa iniziai a urlare che era un giorno di festa e volentieri, molto volentieri, avrei pagato da bere a tutti. Andò bene, ma quei pacchetti di sigarette mi costarono una fortuna. Fui invitato ad altre feste in quel quartiere, ma avevo sempre qualcosa di improrogabile da fare.
In sintesi, tentare di adottare norme di sicurezza in quella megalopoli folle e violenta era sfibrante. Non sapevo come destreggiarmi nelle varie situazioni e non riuscivo mai a rilassarmi, ero sempre teso e diffidente. Fu probabilmente per superare questo stato di ansia continua che divenni facile preda della trappola di Melvin Cervera Sanchez. I suoi modi gentili e la prospettiva di rinascere con una nuova identità mi fecero dimenticare che quando qualcuno vuole accompagnare a casa a tutti i costi un latitante, non è certo per cortesia.