Introduzione.

 

Ho un passato ingombrante. Per metterlo da parte e pensare finalmente al futuro ho dovuto usare cinque grandi casse di legno. In una settimana di meticoloso lavoro, ho archiviato novantasei chili di atti giudiziari, migliaia tra lettere e telegrammi, centinaia di articoli di giornale, decine di videocassette di programmi televisivi - da Telefono Giallo a Portobello, da Mixer a Il Coraggio di Vivere. Le cinque casse, che adesso stanno in cantina, conservano la documentazione dei miei ultimi diciotto anni di vita. Quasi metà della mia esistenza.

Sono un caso giudiziario, il "caso Carlotto". Per strada, in treno, in aereo, quando qualcuno mi riconosce mi apostrofa con un "Ehi, ma lei è il caso Carlotto!". Oltre a essere ricordato come il più lungo e controverso caso della giustizia italiana, vengo studiato all'università come caso limite. E irripetibile. Nessun cittadino italiano potrà ripercorrere il mio iter processuale. E' tecnicamente impossibile.

Questo fa di me un caso umano. Un rarissimo esempio di sistematico accanimento del destino. Cinico e baro, ovviamente. Anche se penso che la sfiga non sia contagiosa, ho voluto chiarire subito questo fondamentale aspetto della mia vicenda per darvi la possibilità di decidere, in tutta serenità, se continuare o meno la lettura.

Mi è capitato di tutto dal 20 gennaio 1976, quando mi presentai ai Carabinieri per testimoniare su un delitto, al 7 aprile 1993, giorno in cui il Presidente della Repubblica ha deciso di chiudere il caso con un provvedimento di grazia.

Ho passato sei anni in galera, ho subito 11 processi che hanno investito ogni possibile grado di giudizio del nostro ordinamento (Corte Costituzionale compresa), hanno coinvolto ottantasei giudici e cinquanta periti e per finire ho rischiato di morire per una malattia contratta in carcere.

Sulla mia innocenza o colpevolezza, le Corti che mi hanno giudicato hanno espresso pareri sempre differenti tra loro, senza risparmiarsi critiche al vetriolo. Ha avuto la meglio l'ultima, che mi ha giudicato molto, molto colpevole. Nella sentenza, questi giudici hanno scritto che "con la condanna, la Corte ha inteso fare del "caso Carlotto" una storia dignitosa per la giustizia italiana". Giudizio singolare e condiviso da pochi altri che giudicano la mia vicenda un vero esempio di garantismo per l'inusitato numero di giudizi. Tanti processi, tanta giustizia.

Io, che al contrario mi sono sempre ritenuto molto, molto innocente, sono convinto che un abisso incolmabile divida la realtà dei fatti dall'applicazione del diritto. La polemica è ancora viva e in buona salute, in attesa che la Corte di Strasburgo decida chi ha ragione.

Queste note autobiografiche non riguardano comunque il processo, ma raccontano come il sottoscritto abbia vissuto per alcuni anni una sua diretta conseguenza - la latitanza - e il ruolo che ha ricoperto negli ultimi mesi della vicenda giudiziaria. Le ho scritte senza prendermi troppo sul serio, come sempre ho fatto in questi anni. E' stata la mia difesa contro il sonno della ragione e la distrazione della provvidenza. Per diciotto anni ho sempre evitato di parlare di me stesso per non introdurre elementi di disturbo nella battaglia processuale. La mia linea di condotta ha sempre privilegiato l'aspetto giuridico su quello umano perché potesse essere patrimonio di tutti coloro che credono in una giustizia giusta (come si diceva una volta).

Sono convinto che sia stata una scelta corretta e vincente. Al di là della sconfitta personale sul piano processuale, il mio caso ha indotto la Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale a emettere due importanti e illuminate sentenze che oggi rendono finalmente possibile la revisione dei processi. In generale, ha contribuito a sviluppare il dibattito non solo sull'errore giudiziario ma anche sulla pena, l'istituzione penitenziaria e le malattie causate dalla detenzione.

 

Della latitanza si è detto e scritto pochissimo, e quel poco riguarda per lo più gli ambienti del crimine organizzato. Ovviamente organizzato anche per la fuga dei suoi accoliti. Queste note invece vogliono descrivere la vita, i comportamenti e la quotidianità di chi latitante lo è diventato per caso. Un particolare tipo di fuggiasco che non è assolutamente pericoloso e pensa solo a sopravvivere e a conservare la propria libertà, giorno dopo giorno.