1.

 

"Che cosa sognavi

quando lasciasti la tua terra

testa in basso gambe all'aria

precipitato nel vuoto con la bocca aperta?"

 

La mia vita di latitante terminò un giorno di gennaio del 1985, quando Melvin Cervera Sanchez, giovane avvocato di buona famiglia e grandi speranze, decise di interrompere il nostro rapporto professionale vendendomi ai Federales.

Era il mio coyote. In Messico per ottenere qualsiasi tipo di documento (anche se ne hai pienamente diritto, ad esempio perché sei messicano) ti devi rivolgere a questi signori, così chiamati per la loro spiccata sensibilità umana e professionale, che in cambio di denaro risolvono i tuoi problemi con la burocrazia statale. Il coyote non va confuso con il pollero, altra figura di rilevanza nazionale, che si occupa invece dell'espatrio clandestino negli Estados Unidos. Decisamente più esoso del primo, per la sua prestazione pretende dai clienti tutti i loro averi e poi li stipa in camioncini scassati. Nove volte su dieci li abbandona in pieno deserto (dal lato messicano del confine ovviamente), oppure nei pressi di passaggi pattugliati da guardie di confine statunitensi, opportunamente avvertite perché il pollero adora essere pagato in dollari.

Avevo deciso di rivolgermi a un coyote perché ero stanco di girare il mondo con visti turistici. Volevo fermarmi realizzando quello che è il sogno di ogni latitante: rinascere con un'altra identità e iniziare una nuova vita.

Ero arrivato in Messico per amore, nel senso che alla mia fidanzata di allora, Alessandra, non erano piaciuti gli altri paesi che mi avevano precedentemente ospitato. Alessandra viveva in Italia e ogni tanto mi raggiungeva e si fermava giusto il tempo per rendersi conto che il posto non le piaceva e mai e poi mai ci sarebbe vissuta. Il nostro era un grande amore. Finì il giorno del mio arresto e da allora non l'ho più rivista; ho saputo da poco che si è sposata con un rappresentante e vive in un piccolo paese del Trentino, Mattarello. Forse per questo non voleva vivere in città come Parigi, Barcellona, Lisbona.

La scelta del Messico era nata dopo la lettura di "Memorie di un rivoluzionario" di Victor Serge. Militante anarchico in Francia, aveva vissuto da bolscevico la rivoluzione d'ottobre e poi, vittima delle purghe staliniane, dopo un lungo soggiorno in Siberia era finalmente approdato nel paese della rivoluzione incompiuta.

Ad Alessandra il libro era piaciuto tantissimo, a me un po' meno, però ero rimasto affascinato dall'immagine di questo paese tutto sole, tequila, tortillas e revoluci¢n. Devo dire che l'essere finito a Città del Messico, con i suoi ventun milioni di abitanti, l'inquinamento da evacuazione immediata e la follia di megalopoli imbizzarrita - grazie ai quali viene unanimemente considerata una delle città più invivibili del mondo - aveva leggermente incrinato il mio entusiasmo iniziale.

Melvin Cervera Sanchez pareva la persona giusta. Cognato di un noto intellettuale di sinistra che aveva preso a cuore la mia vicenda, aveva tutte le caratteristiche sociali e professionali per aiutarmi a diventare messicano. L'amico intellettuale ci aveva presentati a una festa e già il giorno dopo, nel suo studio, Melvin mi aveva esposto il suo piano d'azione e presentato la parcella. Carissima. Considerai il fatto che volesse essere pagato subito come un'usanza locale. Pensai anche alla possibilità che mi volesse fregare, ma la scartai immediatamente, perché in Italia se qualcuno ti aiuta, a qualsiasi livello, ad assumere illegalmente la cittadinanza e poi viene scoperto, finisce in guai seri. Parenti compresi. Pensavo insomma che non mi avrebbe mai creato dei problemi grazie ai rapporti che avevo con suo cognato. E questo era il punto di forza del mio ragionamento.

Ma le cose in Messico evidentemente non vanno così.

Il piano di Melvin era geniale: avrebbe provveduto a resuscitare il figlio prematuramente scomparso di una coppia di emigranti italiani.

Il certificato di stato civile di questo novello Lazzaro avrebbe viaggiato di ufficio in ufficio arricchendosi del congedo del servizio militare e di altri documenti fino a comprendere l'iscrizione alle liste elettorali. Il mio entusiasmo era tale che l'insistenza di Melvin nel volermi a ogni costo riaccompagnare a casa non mi insospettì minimamente. La notte mi addormentai per la prima volta senza l'angoscia dell'indomani. Ben diverso fu il risveglio. A questo pensarono uomini sconosciuti dai capelli impomatati e dagli occhiali scuri che invasero la mia stanza, armati e nervosi.

Più del tradimento mi stupì la loro insistenza nel definirmi terrorista e brigatista. Per accrescere il mio prezzo di vendita, quel buontempone di Melvin aveva detto ai Federales che ero un pericoloso latitante delle Brigate Rosse. Spaventato dalle conseguenze che questa situazione poteva avere, confessai il mio vero nome, ma un'atroce coincidenza volle che questo somigliasse tantissimo a quello di un brigatista italiano ricercato in Messico per l'omicidio di due poliziotti.

Il tutto si trasformò in tragedia. Mi portarono in Calle de Soto, la famigerata sede della polizia politica messicana e lì per dieci giorni me ne fecero di tutti i colori. Con le autorità giudiziarie non ho mai saputo farci. Ho sempre dato l'impressione di fare il furbo e le mie proteste di innocenza non solo non sono mai state credute, ma hanno sempre avuto l'effetto di innervosire chi mi interrogava. Ho poi una particolare propensione a creare equivoci nel dialogo e questo ha sempre fatto ribollire di rabbia quelli con cui avevo a che fare, dato che il loro unico scopo era di ottenere una bella confessione e poi di tornarsene a casa, contenti di essersi guadagnati la paga.

A rendermi inviso ai Federales fu, per prima cosa, la storia del mio cognome.

"Come ti chiami, "cabr¢n"?".

"Carlotto Massimo".

"Il nome completo, "hijo de puta"!".

"Carlotto Massimo, l'ho appena detto".

"Carlotto è il cognome di tuo padre o di tua madre?".

"Di mio padre".

"E quello di tua madre?".

"Villani".

"E allora, "cabr¢n y hijo de puta", ti chiami Massimo Carlotto Villani".

"No, signor ispettore, mi chiamo Massimo Carlotto, perché se mi chiamassi Massimo Carlotto Villani sarei un'altra persona".

"Come un'altra persona?".

"Sì, Massimo Carlotto sono io, se dite Massimo Carlotto Villani non lo sono più".

"Portatelo via, questo "pendejo" ha voglia di fare il furbo e ha bisogno di un po' del nostro trattamento"urlò paonazzo l'ispettore.

Mentre con solerzia e consumata abilità i sottoposti si davano da fare a cambiarmi i connotati, compresi dove stava l'equivoco: in Messico, a differenza che in Italia, tutti hanno il doppio cognome. Cercai di interrompere il trattamento ma non vi fu nulla da fare: tutto si può dire dei poliziotti messicani, eccetto che non eseguano gli ordini alla lettera. Anche se con una certa difficoltà nell'articolazione delle parole, riuscii alla fine a chiarire il punto con l'ispettore.

La seconda domanda riguardava la mia età, ma anche lì si creò un equivoco e tutto ricominciò da capo. In dieci giorni non riuscirono ad arrivare a due pagine di verbale. Insomma, fu una brutta esperienza, il cui ricordo mi assale solo ogni volta che piscio e osservo sul mio pisello le cicatrici biancastre lasciate dagli elettrodi.

Per questo ho odiato Melvin e tutta la sua famiglia. Ora non più. Il tempo, si sa, è galantuomo e cancella ogni ferita. Il passato è passato e soprattutto Melvin è morto.

Venni a conoscenza del "triste" evento nel 1987, durante la mia permanenza nella casa di reclusione di Padova. Un giorno ricevetti una lettera dal Messico che conteneva un ritaglio di giornale: riportava la notizia dell'omicidio del giovane avvocato "attinto da "cinco balazos" calibro 45 sull'uscio di casa". L'articolo azzardava l'ipotesi di una vendetta da parte dei guerriglieri salvadoregni del Frente Farabundo Mart¡ che non avevano gradito la consueta intraprendenza negli affari di Melvin. Risultava infatti che, in una delle sue ultime fatiche professionali, avesse organizzato una vendita di rifugiati politici alla polizia segreta del Salvador.

Non ho ancora capito quale fu il meccanismo che al decimo giorno di Calle de Soto mi trasformò da terrorista in un indesiderato da espellere in tutta fretta. In una mattinata riuscirono a portarmi da un medico per fammi ricucire qua e là, all'ufficio "Migraci¢n" per le pratiche di espatrio, in una lavanderia per lavare i miei vestiti (tutti quelli che avevo a casa, oltre agli altri effetti personali, erano già proprietà federale), in un hotel per farmi fare una doccia e all'agenzia della K.L.M. per comprare il biglietto aereo per l'Italia.

Avrei potuto trasferirmi ovunque volessi e ricominciare da capo. Ma quella esperienza mi aveva provato duramente e una battaglia giudiziaria, anche se dal carcere, non mi sembrava la cosa peggiore.

In quel momento.

Nel pomeriggio ero già in viaggio per Milano-Linate via Amsterdam. Al momento della partenza, la mia condizione di "expulsado" non era passata inosservata all'equipaggio e ai passeggeri in quanto, mentre i Federales cercavano di infilarmi nell'aereo non vedendo l'ora di sbarazzarsi del sottoscritto, la polizia aeroportuale pretendeva che pagassi la tassa d'uscita dal paese. Quando dissi che tutto quello che avevo, contante compreso, era stato rubato dai miei accompagnatori, la polizia prese a sostenere che allora dovevano essere questi ultimi a pagare. Ben presto i toni si accesero e iniziarono a volare parole grosse; la disputa venne risolta da uno degli steward che mi prese per un braccio e mi accompagnò al posto prenotato per me.

Sedevo a fianco di una ragazza inglese che con i genitori stava tornando a Liverpool, dopo una lunga vacanza nello Yucatan. Parlava correttamente lo spagnolo e, incuriosita, cominciò a chiedermi cosa mi fosse successo. Le rifilai una versione riveduta e corretta della faccenda. Non me la sentivo proprio di dirle che quel volo mi stava portando in carcere per scontare un "residuo pena"di quindici anni.

Le ero simpatico e aveva voglia di chiacchierare. La guardavo con intensità e avidità; sapevo che per anni e anni non avrei più goduto della vicinanza di una donna e assaporavo ogni suo movimento, ogni sua parola. Dopo la sosta di Chicago si addormentò e io continuai a fissarla, ma nella mia mente ormai non c'era più posto per lei.

Affollata com'era da tutti i ricordi della galera che per tanti anni avevo cercato di rimuovere.

Ero tornato a essere un prigioniero. A mano a mano che le ore passavano, il carcere diventava sempre più reale. Ne sentivo addirittura l'odore, gli inconfondibili rumori. Cancelli, grida, serrature. E il silenzio, così innaturale e greve di disperazione da svegliarmi di soprassalto in quei primi mesi. Quando avevo diciannove anni. Poi ne avevo avuti venti. Ventuno. Poi la libertà. Assolto e condannato. Ancora ricondannato. La fuga. E ora, a ventinove, ci stavo tornando.

Ad Amsterdam dovevo cambiare aereo e nell'attesa telefonai alla mia famiglia. Rispose mia madre. Una donna di miele e d'acciaio. Sentire la sua voce mi tolse il fiato e per un attimo non potei fare a meno di pensare che, comunque, stavo tornando a casa.

"Ciao, mamma, sono Massimo".

"Ciao Massimo, stiamo venendo a Milano".

"Sapete già tutto?".

"Sì, ci hanno avvertito".

"Mamma, e adesso?".

"Ci batteremo per la revisione del processo".

Parole profetiche.

Al peggio non c'è mai fine. Al mio arrivo a Milano senza documenti e con un decreto di espulsione in mano, offrii i polsi ai poliziotti della dogana rendendoli partecipi della mia intenzione di costituirmi.

Fu un durissimo colpo scoprire che a mio carico non risultava nessun mandato di cattura, tantomeno internazionale. Avevo vissuto per anni come un animale braccato e nessuno mi aveva mai cercato, nemmeno a casa mia. Una vera ingiustizia. Ad ogni buon conto mi portarono a San Vittore e lì, dopo tredici giorni, mi fu consegnato l'ordine di cattura. Finalmente. Cominciavo a pensare di aver sognato anche tutti quei processi in Corte d'Assise.

Era successo che il mandato di cattura era stato stilato, ma poi dimenticato in un cassetto; senza il mio ritorno in Italia sarebbe probabilmente rimasto lì per sempre, visto che ci avevano impiegato tredici giorni a riesumarlo.

 

Se da un lato terminava la mia esperienza di latitante, dall'altro iniziava quella di galeotto. Non fu facile abituarsi al passaggio; ogni tanto tendevo ad assumere comportamenti del mio recente passato, come spacciarmi per il detenuto della cella a fianco che doveva essere scarcerato. Ma durò poco, gli agenti di custodia mi fecero capire subito che non era il caso.

 

Nel corso della mia vicenda giudiziaria, che doveva durare ancora otto anni, cioè fino al 7 aprile 1993, in molti mi hanno chiesto di parlare di quel particolare periodo della mia vita, in cui mi sono trovato a vivere nella condizione di latitante per caso. Ai più ho risposto che è stata un'esperienza terribile, che non avrei augurato nemmeno ai peggiori nemici. A chi, volendo scavare più a fondo, mi chiedeva di definire il concetto di latitanza, rispondevo che "la latitanza è come il blues: uno stato dell'anima".

Questa definizione non è farina del mio sacco, ma l'ho fatta mia per rispettare un impegno morale che ho assunto nei confronti dell'unica e brevissima amicizia stretta in Calle de Soto. Dividevo la cella con un tedesco; non ho mai saputo il suo nome né il motivo che l'aveva spinto a lasciare la Germania per il Messico. So solo che come latitante lasciava a desiderare: pretendere di girare il Centroamerica con un fisico da vichingo, occhi azzurri, capelli biondo platino e un accento impossibile, per di più con un passaporto guatemalteco intestato a un certo Ram¢n, è veramente da irresponsabili. Era lì dalla sera prima e quando i Federales aprirono la porta della cella per farmi entrare, me lo trovai davanti. Quella fu l'unica volta che lo vidi bene, perché la cella era buia e solo per qualche ora al giorno, a seconda della posizione del sole, un debole spiraglio di luce entrava dalle fessure della porta, illuminando strisce di parete. Non appena aprì bocca e iniziò a tempestarmi di domande, mi accorsi che era un dilettante anche come galeotto.

"Ascoltami bene, amico"gli dissi, "Non so chi sei e non voglio saperlo. Tantomeno voglio rispondere alle tue domande; l'unico argomento di conversazione qui dentro riguarda la vita in cella. A proposito, hai già guardato cosa c'è?".

"Non c'è niente"mi rispose, "solo un water rotto".

"Bisogna saper cercare"gli dissi e cominciai a esplorare con le mani le fessure del pavimento, delle pareti, del water. Dopo pochi minuti avevo trovato una sigaretta, tre fiammiferi, un mozzicone di matita e ammazzato tutti gli insetti che mi erano capitati sotto tiro.

"Il water è stato rotto per poter bere quando si preme il pulsante dello sciacquone. Vuol dire che ci danno poca acqua"comunicai al tedesco. Poi gli domandai: "Hai visto scritte sul muro?".

"No, perché?".

"Il mozzicone nascosto. Chi è stato qui lo ha lasciato perché ognuno che passa lasci un messaggio. Chi ce la fa, poi li trasmette. Sei mai stato in galera?".

"No".

"Si vede".

Frugandomi in tasca trovai un fazzolettino di carta e dopo averlo arrotolato con cura, sacrificando un fiammifero, lo trasformai in una rudimentale torcia che mi permise di leggere qualche graffito. Avevo ragione, erano tutti uguali: nome, cognome, data dell'arresto, indirizzo di qualche parente da avvertire. A volte il nome della spia o del poliziotto responsabile dell'arresto.

"Ci fumiamo la sigaretta?"mi chiese.

"Sai già con quale frequenza passano i controlli?".

"No".

"E allora aspettiamo. Se ci vedono o sentono l'odore, ci spaccano il culo".

Il caldo era soffocante e stavamo immobili, in mutande. Lui parlava sempre; io lo ascoltavo poco, mi deconcentrava con le sue menate sulla vita, sull'uomo, sulla natura. Avevo già il cervello surriscaldato dal tentativo di trovare un argomento che convincesse gli impomatati a non strizzarmi più le palle.

La frase che ho citato prima sul blues e lo stato dell'anima, la ricordo perché "Ram¢n" mi strinse improvvisamente un braccio e guardandomi dritto negli occhi disse: ""Mano" (in gergo fratello)"e di seguito il resto. Pensai che era proprio sciroccato e gli sibilai, cattivo cattivo. ""Callate" (taci)!".

Dovevo pentirmene il giorno dopo. Tornò dall'interrogatorio proprio malconcio; morì di notte mentre dormivo, ma mi fece compagnia ancora tre giorni finché non riuscii a corrompere una guardia con la catenina che mi aveva regalato la mamma. Quando la luce del sole tornò a infiltrarsi nelle fessure e a rischiarare il muro, presi il mozzicone di matita dal suo nascondiglio e scrissi l'epitaffio di "Ram¢n": maschio, nazionalità tedesca, deceduto nei giorni successivi al 21 gennaio 1985, avvertire l'ambasciata.

Decisi che quello era il momento di fumare la sigaretta e la gustai con calma, aspettando che tornasse il buio. Pensai anche di scrivere qualcosa su di me, ma mi venivano in mente solo frasi pompose, decisamente ridicole per una cella di Calle de Soto, e così accantonai l'idea.

Oggi, il senso di colpa mi porta a pensare che tutto quel gran parlare del tedesco non fosse altro che una sorta di testamento spirituale che non ho voluto ascoltare.

Nella vita mi sono sbronzato veramente pochissime volte. Una di queste fu quando lessi sul giornale che, dopo il grande terremoto di Città del Messico, una squadra di soccorso aveva scoperto nei sotterranei di Calle de Soto i cadaveri di alcune persone legate e torturate. Il governo del distretto federale indignato (più che altro per la meticolosità del lavoro delle squadre di soccorso) ordinò la chiusura della struttura e qualche impomatato pagò per tutti.

Ancora oggi tengo fede al mio impegno morale, e continuo a dire che la latitanza è uno stato dell'anima, anche se sono convinto che la mia esperienza di latitante possa definirsi in modo più appropriato come una forma di metateatro della sopravvivenza. Come nella commedia dell'arte, sono stato un volto che ha dato vita a una serie di maschere diverse, caricature di tipologie sociali ben definite, improvvisando giorno per giorno all'interno di un canovaccio che altro non era che l'intreccio tra la mia vicenda processuale e la scelta di sottrarsi alla giustizia. Personaggi scelti, voluti: una rottura con quella parte da telenovela giudiziaria che il processo mi aveva cucito addosso prima e dopo la latitanza, l'unica che non abbia mai saputo interpretare. A essa mi sono sempre profondamente ribellato.

L'immaginario di coloro che, per una vita o per un giorno, diventano padroni assoluti dell'esistenza di un uomo pretendeva un personaggio- imputato tra Totò e Alberto Sordi: ossequioso, pronto alla lacrima e alla disperazione, infinitamente ridicolo e infinitamente drammatico.

Io invece ero quasi sempre impassibile, freddo, distaccato. In questo modo sono stato il peggior nemico di me stesso, come osservavano i miei avvocati. Freddo e impassibile in egual misura di fronte alla tragedia e alla paradossale comicità nella quale spesso scivolava la liturgia della Corte d'Assise. "Epater le bourgeois" era l'unica forma possibile di ribellione per essere stato scritturato a forza in una pièce inesorabilmente imposta.

Per David Mamet scopo del teatro è la produzione di senso e il mio personaggio, stridente e irreale su quel palcoscenico, voleva solo obbligare alla razionalità, ad abbandonare pregiudizi politici e di costume per una valutazione oggettiva dei fatti. Nient'altro che essere giudicato secondo giustizia. Non sempre è stato gradito e le recensioni-sentenze più di una volta l'hanno stroncato, ma la compagnia del teatro della giustizia alla fine ha deciso che, a tutti i costi, quella parte sarebbe stata mia per sempre anche se le repliche erano terminate. Recitare "altro"era stata dunque una scelta di libertà.

Esistono categorie differenti di latitanti. I malavitosi, i politici, gli imprenditori, i banchieri e tanti altri, di solito godono di mezzi e protezioni sufficienti per vivere la latitanza come un incidente di percorso. Io, ovviamente, non appartenevo a nessuna di queste categorie. Ero il classico latitante per caso, quello che mai avrebbe pensato di avere guai con la giustizia e di doversi "inventare" una fuga dal proprio paese come unico mezzo per salvaguardare vita, libertà e dignità. La caratteristica del latitante per caso è di non disporre di mezzi e protezioni e di non sapere assolutamente nulla di come si fa a latitare.

Quando mi informarono che il ricorso in Cassazione era stato respinto e pertanto o mi rendevo irreperibile o scontavo altri quindici anni di galera, la prima cosa che feci fu quella di piangere. A dirotto. Poi, in stato catatonico, andai alla stazione, comprai un biglietto per Parigi e partii passando il confine con la carta d'identità che nessuno, nonostante la mia situazione processuale, aveva pensato di sequestrare. Di quel viaggio non ricordo assolutamente nulla. La decisione di fuggire era stata presa così all'improvviso che non mi rendevo conto di quello che stavo facendo. Non riuscivo nemmeno a coordinare i pensieri, tanto ero sconvolto dalla notizia della condanna, che avevo sempre considerato impossibile.

All'arrivo alla Gare de Lyon, non appena sceso dal treno, ricominciai a piangere e smisi solo quando un "flic" mi chiese se mi sentivo male.

Non mi fu facile uscire dalla metropolitana nella quale, maldestramente, mi ero infilato. Non ne avevo mai vista una. A Padova si prende poco anche l'autobus, tutti vanno in bicicletta.

Parigi era l'unico posto in cui potevo andare.

Da sempre meta degli esuli politici che di generazione in generazione hanno creato una vera e propria cultura della solidarietà per chi è costretto a fuggire dal proprio paese. Una comunità che molto ha dato anche alla Francia, in termini di crescita intellettuale e artistica, e che ha contribuito a fare di Parigi una città cosmopolita.

Avevo bisogno di aiuto e ne ho ricevuto tanto senza mai poter ricambiare. Ho conosciuto gente meravigliosa alla quale devo la mia crescita umana. Ero arrivato gridando la mia disperazione di vittima di un errore giudiziario, ma di fronte all'enormità degli orrori che segnavano la comunità degli esuli greci, turchi, curdi, argentini, cileni, iraniani, mi sono subito zittito e ho imparato il valore della dignità.

Per tutti coloro che mi hanno aiutato sono stato un problema da aggiungere alla montagna di quelli già esistenti, ma nessuno si è mai tirato indietro. Ricercato per un reato considerato comune (anche se la mia militanza in Lotta Continua aveva pesato enormemente nel processo), se la posta in gioco per me era tornare in carcere in Italia per altri quindici anni, per loro era senz'altro peggiore: rischiavano l'espulsione dalla Francia, uno dei pochi paesi al mondo disposti a offrire asilo politico. Proprio per questo alla fine ho lasciato Parigi, ma il circuito umano in cui mi sono mosso è stato sempre lo stesso.

La prima e unica volta che ne sono uscito, ho incontrato Melvin Cervera Sanchez.