2.
"Chi rincasa in mezzo al mare
chi rinuncia a respirare
chi coltiva un gran deserto
chi si occulta a viso aperto."
Il look per un latitante è fondamentale. Non può essere scelto a caso perché deve coniugare le caratteristiche somatiche e le esigenze di fuga del soggetto con le caratteristiche sociali e culturali del luogo prescelto. In questo senso presentarsi con un travestimento gitano, punk, dark o tardo hippy alla frontiera svizzera è una pessima idea.
In genere deve essere sobrio, ma soprattutto va rispettata la regola aurea che esige sia il più possibile rassicurante. Deve dare l'impressione ai poliziotti che lo osservano o che lo hanno fermato di perdere solo del tempo, perché è impossibile che uno così sia un poco di buono. Di conseguenza fui costretto a impersonare stereotipi di ambienti sociali molto diversi da quello a cui appartenevo e frequentavo (che in quanto a look lasciava molto a desiderare).
I miei personaggi avevano solo un ruolo di protezione visiva, non avrebbero mai retto a un controllo più approfondito. Da qui la necessità di un buon livello di recitazione e di una cura maniacale dei particolari. Fino al mio ritorno in Italia e la conseguente scoperta che nessuno si sognava di darmi la caccia, avevo sempre pensato di essere un Fregoli del travestimento; da allora ho iniziato a dubitarne.
Bernard, il mio primo personaggio, lo copiai dai film di Louis de Funès. Capello corto, orecchie scoperte (sulle foto segnaletiche sono sempre ben visibili), barba, tipo pizzo, ben curata, finti occhiali da vista con montatura leggera simil-tartaruga. Completi sul marroncino acquistati al B.H.V. di Rue de Rivoli, cravatte decisamente ignobili, e a qualsiasi ora, bene in vista, una copia di "France Soir" che spunta dalla tasca del cappotto o della giacca a seconda delle stagioni. Infine una borsa in pelle di infima qualità, accuratamente consunta nei posti giusti.
Bernard, anche solo a guardarlo distrattamente, dava l'impressione: a) di avere un lavoro impiegatizio scarsamente remunerato, probabilmente statale (efficacissime le scarpe, di media qualità, doverosamente risuolate e con la mezzaluna di metallo salva-tacco); b) di avere una famiglia con prole (fede al dito, piccoli e modesti pacchetti regalo nelle feste comandate e il pacchetto di paste la domenica); c) di essere esistenzialmente rassegnato e politicamente e socialmente innocuo; d) di avere un innato rispetto per le autorità e un amore patrio inossidabile (segnalato da un distintivo tricolore all'occhiello).
Ricordo che gongolai di soddisfazione quando Alessandra mi raggiunse a Parigi e guardandomi disse: "Amore, cosa hai fatto, sembri un carabiniere!". Purtroppo continuavo a ricordarle un carabiniere anche quando ero svestito e la vita sessuale di Bernard ne risentì un po'.
Comunque avevo quotidianamente le prove che la "maschera" funzionava.
Mi bastava salire in un autobus o in un vagone della metropolitana (dopo qualche mese ne avevo capito il funzionamento), per essere coinvolto dai miei referenti sociali in mute dimostrazioni di stizza, fatte di occhiate di complicità e impercettibili scuotimenti del capo, nei confronti di clochard, zingari o artisti di strada che disturbavano tanta brava gente con la loro presenza.
Se ero così ben individuabile da quelli che interpretavo, lo ero anche dai miei antagonisti. Ebbi modo di verificarlo una sera, tornando dal cinema in metropolitana. Capitai in un vagone che oltre a me ospitava solo una banda di "banlieusards"; iniziarono subito a sbertucciarmi e, all'altezza della fermata di Ch?telet, finirono col picchiarmi e portarmi via l'orologio.
Poi venne Gustave; nel mio intento doveva essere la variante intellettuale di Bernard, ma venne sempre interpretata come la variante belga. Non ne ho mai capito il motivo, forse perché in Belgio non ci sono mai stato, ma la prima cosa che la gente mi diceva, dopo avermi sentito parlare, era: "Ah, ma lei non è belga!". Portavo un ampio basco blu ben calcato sulla fronte e tirato all'indietro, sciarpa intonata al montgomery marroncino e completi verdolini di velluto con gilet in lanetta su cui spiccavano colorati papillon.
Ispirato da alcuni film sulla resistenza, Gustave era il classico giovane insegnante di storia dell'arte o maestro di musica con la testa un po' nelle nuvole, che si vestiva così da quando aveva dodici anni (unica variante, l'eliminazione dei pantaloni corti) e senza grilli per la testa. Un personaggio innocuo oltre che rassicurante.
Gustave nacque dalla necessità di poter frequentare di sera le mostre di pittura, i cinema d'essai, i teatri, i caffè senza essere perennemente scambiato per un poliziotto. Con Bernard capitava regolarmente e gli amici si vergognavano. Addirittura, alla Coupole di Montparnasse, che bazzicavo il sabato per assaporare l'ambiente frequentato a Parigi da Manuel Scorza, a quel tempo il mio scrittore preferito, una puttana mi abbordò assicurandomi che alle forze di polizia era garantito lo sconto.
Il limite di questi due personaggi era che non incontravano il favore del sesso femminile (professioniste a parte). Anzi, già al primo sguardo le donne mostravano un certo disgusto. Oltre non sono mai andato, ma mi sono sempre chiesto dove i Bernard e i Gustave trovino le fidanzate, dato che normalmente si sposano. Se per Gustave la risposta, con tutta probabilità è il Belgio, per Bernard è un vero mistero.
Nella mia esperienza di latitante mi è anche capitato di dover improvvisare personaggi solo per pochi giorni o perché erano particolarmente adatti a una situazione specifica o perché era saltata la copertura del momento.
Ad esempio, quando d'estate dovevo passare in treno il confine tra Francia e Spagna, allora considerato non facile a causa delle intemperanze dell'indipendentismo basco, assumevo un aspetto così rassicurante per il suo candore, anche se un po' trasandato, che i poliziotti francesi e spagnoli non mi chiedevano neanche i documenti.
Via il pizzo e ulteriormente accorciati i capelli, diventavo Lucien il turista. Mi presentavo alla frontiera con un berrettino bianco da tennis, maglietta bianca "I love New York", bermuda blu al ginocchio, calzettine giallo-canarino di spugna, scarpe Adidas bianche. A tracolla una fiasca di pelle piena di acqua con, in evidenza, la scritta "Recuerdo de Espa¤a" se provenivo dai Paesi Baschi, una borraccia con la Madonna di Lourdes nel caso contrario. Al posto del classico zaino la cui vista, come è noto, infastidisce e insospettisce gli appartenenti alle forze dell'ordine, una valigia in skai verde ramarro sulla quale spiccavano adesivi di ostelli della gioventù e di associazioni sportive cattoliche.
Lo stile recitativo era improntato a un eterno buon umore e a una totale abnegazione nei confronti del prossimo. Il classico tipo che in treno rimane sempre in piedi anche se è arrivato un'ora prima alla stazione perché cede il posto a tutti, ma è contento lo stesso e aiuta questo o quello a salire o scendere seminando raffiche di frasi come "buona giornata e buon viaggio".
Altri confini li passavo in bicicletta, le mountain bikes non esistevano ancora e usavo una gran turismo, piena di fanalini, catarifrangenti e portapacchi. Presentandomi sfinito, sudato e puzzolente (chissà perché tutti i confini stanno appollaiati su cocuzzoli impervi), destavo nei doganieri quel sentimento di commiserazione che si prova nei confronti di coloro che amano trattarsi male per trascorrere felici le vacanze. Spesso facevano addirittura finta di non vedermi.
Il passaggio che preferivo era quello clandestino, attraverso le montagne. Camminare zaino in spalla nei boschi mi dava un senso di felicità, mi sembrava di essere uno dei contrabbandieri dell'"Amante dell'orsa maggiore".
Fui costretto a sopprimere Bernard e Gustave a causa di una telefonata ricevuta da una linea ipoteticamente controllata dalla polizia. Eh, sì. Quando si è latitanti un semplice "ipoteticamente" è più che sufficiente per abbandonare tutto e ricominciare da capo.
A combinare il guaio era stato Horacio, un esule argentino politicamente effervescente; gli avevo raccomandato tante volte di usare telefoni pubblici, ma lui non riusciva a capire la differenza tra un latitante per caso e un esiliato politico. Voleva invitarmi a una festa, ma non sentendo rumori di sottofondo, ebbi un presentimento. "Horacio, stai telefonando da casa, vero?"chiesi. Il silenzio colpevole mi fu più che sufficiente e dopo un quarto d'ora ero già per strada. Dal portafoglio estrassi un fogliettino piegato con un numero di emergenza ed entrai nella prima cabina telefonica.
Il mio asso nella manica era un comunista greco fuggito dai colonnelli e rimasto poi sempre in Francia, dove aveva intrapreso una brillante carriera come psichiatra. Non l'avevo mai conosciuto, ma lui sapeva della mia situazione; gli spiegai che cos'era successo e ci accordammo per un appuntamento nei pressi di Place de la Bastille. Arrivò in ritardo con una Lada giallo-senape tutta scassata; era un mingherlino sui quarantacinque anni, ben vestito, con una carnagione scura che lo faceva assomigliare più a un nordafricano che a un greco. Molto gentile e simpatico, spiegò che mi avrebbe dato la sua casa e che lui avrebbe dormito dalla sua compagna finché non riuscivo a trovare un'altra sistemazione.
Aveva soltanto trascurato di dirmi che la sua casa era all'interno dell'ospedale psichiatrico, dove lavorava, e lo scoprii solo quando ne infilammo il cancello principale. Era un manicomio per ricchi appena fuori Parigi. Una bella villa con parco dove le vecchie scuderie erano state trasformate in ospedale; una struttura privata orientata verso la psichiatria alternativa. Le abitazioni dei medici erano villette a schiera ben mimetizzate nel verde, con tanto di campo da tennis e area attrezzata per i bambini. Dopo avermi mostrato la casa e consigliato di leggere alcuni documenti del partito (che verificai in seguito essere scritti in greco), concordammo una storia plausibile in caso di domande indiscrete. Creammo il personaggio di Alberto, un collega italiano, in visita per qualche giorno. Non avevo mai impersonato uno psichiatra, ma quello vero mi tranquillizzò assicurandomi che era più difficile sostenere la parte di un cardiochirurgo. Era il primo pomeriggio di un venerdì e mi salutò dicendo che ci saremmo rivisti il lunedì seguente dato che non aveva impegni di lavoro.
Circa un'ora dopo mi presentai alla portineria. Dovevo tornare in città per cercare di riorganizzarmi, non prima però di aver insultato per bene Horacio. Bussai sul vetro e dopo aver atteso pazientemente che il custode terminasse di leggere un articolo sul giornale sportivo, comunicai l'intenzione di uscire, specificando che ero amico dello psichiatra greco. Il tizio si mise a sorridere benevolo senza però aprirmi. Ribussai e riformulai la richiesta, arricchendola di particolari. Ricevetti la stessa quantità di benevolenza, ma era chiaro che non aveva nessuna intenzione di lasciarmi uscire.
Mi inalberai. Non tanto per il fatto che non mi apriva il cancello, ma perché quel mentecatto non mi riconosceva come "sano". Picchiando il vetro con veemenza arrivai a dire frasi del tipo "sono uno psichiatra anch'io"e la classica "lei non sa chi sono io". Anche lui si incazzò, come solo sanno fare i francesi. Un sacco di insulti e gestacci e la minaccia di chiamare gli infermieri.
A quel punto fui io a diventare benevolo e sorridendo e salutando me la filai, non proprio di corsa ma quasi, riguadagnando la porta di casa. Spaventatissimo (già mi vedevo in camicia di forza a tentare di spiegare a infermieri armati di siringhe che ero Alberto, un collega dello psichiatra greco) e incazzato (me ne erano già capitate abbastanza quel giorno), mi diressi subito verso il telefono per ricordarmi, al momento di digitare il numero della sua compagna, che non me lo aveva lasciato. Iniziai a perquisire la casa a caccia di indizi che mi facessero scoprire la sua identità. Niente.
In compenso però trovai una cosa che mi diede da pensare: una busta da supermarket piena di preservativi. Greci. Non avevo mai visto una cosa simile. Erano centinaia, una scorta da rifugio nucleare. In un cassetto un'agenda mi diede momentaneamente qualche speranza, ma evidentemente conosceva mezza Parigi ed era piena zeppa di nomi e numeri.
Prima di cadere nello sconforto e di arrendermi all'idea di rimanere prigioniero in un manicomio per tre giorni, decisi di tentare la fortuna con qualche telefonata. Isolai una serie di numeri che corrispondevano a nomi femminili sprovvisti del cognome, pensando che fossero tutte amiche. La prima telefonata fu anche l'ultima. Monique fu molto esplicita nel sottolineare che a casa sua il dottore non c'era. Lo vedeva solo una volta alla settimana, nel suo studio, visto che era sua paziente.
Ventiquattro ore dopo avevo finito le sigarette. Un pessimo weekend.
Dopo una decina di giorni lasciai quel maledetto ospedale e mi trasferii dalle parti di Place de la République.
Avevo trovato contemporaneamente casa e lavoro nella stessa zona.
Facevo la maschera in un cinema di proprietà di un portoghese, dove veniva poca gente. La programmazione era sicuramente di qualità ma decisamente pallosa, tipo la settimana del cinema angolano o quella del cinema vietnamita in lingua originale con sottotitoli in russo. In Francia il guadagno delle maschere è costituito solo ed esclusivamente dalle mance, per cui ogni tanto tentavo di convincere il proprietario a proiettare film di cassetta, ma il cinema del terzo mondo aveva così poco spazio in Europa che il portoghese, giustamente, preferiva l'impegno al guadagno.
Accanto al cinema c'era un noto locale punk, il "Gibus", dove le risse erano all'ordine del giorno: all'interno tra i frequentatori, fuori con i nordafricani. Il quartiere, che in precedenza era abitato dalla media borghesia, per le alchimie urbane tipiche delle grandi città, nonostante fosse in pieno centro, si era lentamente degradato fino a diventare a buon mercato, anche per le fasce più povere di immigrati.
Potevo permettermi di meglio ma non mi era stato possibile trovarlo.
Stavo in un palazzo che aveva visto tempi migliori, ma ora era un alveare di studio, monolocali di neanche 20 metri quadri, pieni di topi e scarafaggi, in cui vivevano intere famiglie a mille franchi al mese. Ero l'unico bianco. Farmi accettare non fu facile, e idem trovare un personaggio: i Bernard non abitano in quartieri come quello. Scelsi una "maschera"che poteva funzionare solo lì e che mi costrinse per mesi a non uscire dalla zona: José lo spagnolo, camperos ai piedi, bluejeans e giacconi di pelle, berretto blu da marinaio.
Lavorava al cinema ma dava l'idea di fare anche qualcosa di losco.
Questo per evitare che i ragazzini della zona mi rapinassero tutte le sere.
Una di queste, tornando dal lavoro, sentii i giovani del palazzo che parlavano in cortile di dare una lezione ai punk. Ero d'accordo, erano insopportabili; mi avvicinai e dissi loro di non farlo davanti al "Gibus", ci saremmo andati di mezzo anche noi del cinema e non volevamo la polizia in giro a far domande o, peggio ancora, fissa davanti al locale. Iniziammo a chiacchierare e dopo un po' ero là che mettevo a disposizione la mia esperienza padovana di scontri con i "fasci", tracciando ipotetici scenari di guerriglia urbana. Ai ragazzi piacquero e alla fine mettemmo a punto il piano definitivo. Per farli spostare dal "Gibus", il gruppetto dei più veloci avrebbe provocato i punk facendosi inseguire fino a una piazzetta fuori mano che faceva al caso nostro. Le condizioni che avevo posto, niente armi e soprattutto niente hamburger di punk, alla fine vennero accettate sia pure con riluttanza.
La sera dopo, quando tornai dal lavoro, trovai il cortile pieno di ragazzi, molti accompagnati dai fratelli più grandi. Dopo grandi strette di mani, ci avviammo alle nostre postazioni. Stavo facendo una cosa che andava contro tutte le regole di sicurezza, ma in quel quartiere dovevo viverci ancora per chissà quanto tempo e preferivo essere accettato. Tutto andò secondo i piani e il nemico venne sconfitto; finché rimasi in zona nessun nordafricano venne più aggredito.
Con Jason, l'inglese esperto in computer, ritornai a una vita più tranquilla e decisamente più agiata. La copertura rasentava la perfezione, l'unico neo era rappresentato dalla mia assoluta ignoranza della lingua inglese e dell'informatica.
Esisteva un vero Jason che aveva affittato la casa, tramite agenzia, dall'Inghilterra; a ritirare la chiave era andata una delle sue segretarie, anche lei rigorosamente inglese. Nessuno lo aveva mai visto (per fortuna! Era piccolo, magrissimo e rosso di capelli, interpretarlo sarebbe stato impossibile), per cui quando presi possesso dell'appartamento venni subito scambiato per lui.
Per superare l'impatto con la portinaia, genere di persone solitamente curiose, pettegole e intriganti, arrivai accompagnato dalla falsa segretaria che fece da interprete per le presentazioni. Per limitare i contatti con la portinaia ai semplici saluti, avevamo deciso che Jason, appena giunto da oltre Manica, non conoscesse il francese. Per tutto il tempo che abitai nel palazzo le rifilai dei buongiorno e buonasera con un accento che avevo preso in prestito dalle comiche di Stanlio e Ollio. La portinaia era sui quarant'anni. Notando la fede al dito, mi ero domandato che mestiere facesse il marito. Il poliziotto, ovviamente, come potei dedurre dalla divisa che indossava. Per fortuna era uno tranquillo che, una volta a casa, lasciava da parte il lavoro badando ai fatti suoi, gli inquilini erano un problema solo della moglie.
Arrivò il tempo di lasciare Parigi e l'Europa e, per esigenze di passaggio di frontiere, tornai a indossare i panni del turista italiano. Non avevo più bisogno di una casa e mi trasferii a Pigalle, ospite di un'amica peruviana. Anche se decisamente equivoco, era il quartiere ideale per la "maschera"di turista, ce ne erano sempre a ogni ora del giorno e della notte. Dovevo stare attento però a non imbattermi in turisti padovani; all'inizio non avevo la minima idea della passione sfrenata dei miei concittadini per Pigalle e i suoi peccaminosi locali tutto sesso e lustrini. Ne arrivavano interi pullman; incontrai perfino, alticcio ed eccitato, un mio professore di scienze del liceo noto per essere un bacchettone rompicoglioni. Ci incrociammo mentre stavo uscendo da una tabaccheria, non mi riconobbe solo perché era troppo occupato nel dare di gomito agli amici per attirare la loro attenzione su un gruppetto di puttane.
La presenza dei padovani nel mondo è un argomento che mi ha fatto riflettere molto fino a formulare la teoria che ovunque tu vada ne troverai uno. Che ti conosce. Nei luoghi più sperduti della terra, dove era possibile per un latitante rilassarsi, ero spesso preda di coccoloni per aver visto qualcuno che poteva mettermi nei guai. Magari non subito, ma riguardando a casa i filmini delle vacanze, il mio concittadino poteva esclamare: "Ma quello lo conosco!". I padovani inoltre sono sempre dotati delle più moderne attrezzature video; alla fine ero diventato uno specialista nell'infilarmi velocissimo un dito nel naso perché, come è noto, nessuno vuole correre il rischio di mostrare agli amici il primo piano di uno che si scaccola.
In Messico diventai Max, lo studente-turista. Non era granché come copertura, ma non esistevano altri personaggi da interpretare. Prima di tutto per le mie caratteristiche somatiche e fisiche che erano troppo particolari, e poi perché non me la sentivo di vestire i panni di personaggi dei quali non avrei saputo reggere bene la parte.
L'aspetto recitativo è fondamentale per il latitante, come per un attore sul palcoscenico. Quando quest'ultimo non vive bene la parte e non sa essere disinvolto sulla scena provoca negli spettatori un senso di fastidioso imbarazzo. Lo stesso vale per il latitante; il personaggio deve essere vissuto con grande naturalezza, altrimenti chi lo frequenta capisce che qualcosa non quadra.
Max dava l'impressione di essere europeo, più del nord che del sud: per la stazza e gli occhi azzurri veniva scambiato per tedesco, olandese, norvegese, francese, mai per italiano. Vestiva un casual elegante e firmato, per distinguersi dai fricchettoni che non sono molto amati in Messico e per dare l'impressione di poter far fronte economicamente a qualsiasi evenienza. I vestiti dovevo farmeli mandare dall'Europa perché non ne trovavo della mia taglia, negozi specializzati in taglie forti non ne esistevano proprio. Se Melvin non mi avesse tradito e fossi diventato messicano, avrei dovuto per forza dimagrire in modo drastico per poter indossare i costumi del nuovo personaggio. Che era studente universitario e allo stesso tempo un turista, perché l'età era più da laureato che da matricola, e fu necessario quindi dare a Max l'aspetto di chi non aveva problemi economici e poteva permettersi di godersi la vita in un paese esotico.
In Europa non avrebbe retto dieci giorni, ma in Centroamerica. con qualche accorgimento, poteva durare anche vent'anni perché la gente è abituata alle stranezze dei gringos. Lo stereotipo del turista esige però che il look sfoggiato comunichi un certo benessere economico, in caso contrario è poco tollerato.
Mi è capitato diverse volte di trovarmi in situazioni di potenziale pericolo, come ad esempio durante un controllo di documenti, e di non esser oggetto delle attenzioni della polizia, che invece si rivolgeva a quegli stranieri che davano l'impressione di non essere venuti a portare valuta pregiata in abbondanza.
Una volta, nella zona di Oaxaca, stavo viaggiando con un pullman di linea verso Città de Messico. La maggioranza dei passeggeri era del luogo, a parte il sottoscritto e dodici nordamericani. Questi ultimi erano a piedi nudi, vestiti con un saio di tela bianca, stretto in vita da un cordone color oro e in testa, sui lunghi capelli, portavano una corona di spine di plastica. Incuriosito avevo chiesto di spiegarmi il perché di quell'abbigliamento e mi avevano risposto che erano la setta dei dodici apostoli. Provenivano dal Belize e si stavano dirigendo verso la capitale per annunciare non ricordo bene quale rivelazione.
Il pullman venne fermato a un posto di blocco e la faccia del tenente, che era salito per controllare i documenti, cambiò colore quando li vide. Con passo marziale si diresse verso il più vicino:
"Passaporto"gli ordinò.
"Non l'abbiamo" rispose serafico. "Siamo i dodici apostoli e non ne abbiamo bisogno".
"Come ti chiami?"urlò l'ufficiale.
Con tono sempre più estatico: "Matteo, sono l'apostolo Matteo".
Il graduato lo afferrò per i capelli, abbaiò un ordine e il mezzo si riempì di soldati che con il calcio dei fucili li fecero scendere di corsa. Scuotendo la testa venne poi verso di me: "Li conosce?".
"Mai visti prima!"risposi.
"Ha sentito quello che mi hanno detto?".
"Sì".
"Cosa scrivo sul rapporto, che ho arrestato i dodici apostoli perché erano senza documenti?".