Mai per sempre.

Ho appena accompagnato Melania al primo giorno di nido dopo la lunga pausa estiva.

La sala degli armadietti traboccava di genitori ben vestiti con infanti in braccio, appiccicati peggio che cozze allo scoglio. C’era talmente tanta gente che credo qualcuno sia arrivato alle cinque di stamattina, solo per essere fra i primi nel turno di ingresso. I genitori avevano un po’ tutti quello sguardo da: è finita!, ovvero: è cominciata!, ovvero: finalmente si ritorna a vivere. La consegna dei pargoli è stata una straziante sequenza di pianti. Noi siamo stati il pianto numero sette, non è durato molto ma con l’acuto finale alla Callas abbiamo vinto il premio della critica.

Quando sono uscito, già sulle scale provavo un sottile senso di colpa. Sono risalito in auto e sui sedili dietro non c’erano figlie, solo seggiolini vuoti. Volevo passare in edicola ma sapevo che Paola era a casa in ansia e allora sono tornato subito. Sono entrato e c’era Virginia stesa sul divano che guardava Il Signore degli Anelli e Ginevra mi ha assalito per chiedermi se poteva mangiare l’ultimo ovetto. Paola mi aspettava in camera, con quello sguardo vago e un po’ sperduto che fanno i cormorani in volo quando gli cade il pesce dal becco.

– Allora? – mi ha detto.

– Tutto bene, – ho detto.

– Ma dài, ma raccontami! – ha detto.

– Ma niente, – ho detto, – è entrata che era quasi a posto, poi è scoppiata in un pianto a dirotto come se non dovesse vedermi mai piú.

È stato lí che Paola mi ha guardato con quegli occhi vacui che fanno i pesci quando scivolano dal becco di un cormorano in volo, mentre sono ancora in aria e prima di riguadagnare l’acqua, senza sapere se la caduta sarà la loro salvezza o li ucciderà.

– Che maestra c’era? – ha detto.

– Erano due, – ho detto. – Vado a farmi il caffè.

Sono uscito dalla stanza e Virginia mi ha inseguito per chiedermi una tazza di latte. Le ho chiesto se volesse anche lo zucchero e gliel’ho preparato. Ho preso il mio caffè e sono sceso in studio.

Ora sono qui. Dal piano di sopra non si sentono piú urla, né passi di piedini che corrono, né torri di cubetti che crollano. Una parte di me è contenta perché sa che nel giro di una manciata di giorni il tempo lavorativo sembrerà espandersi come una bolla. L’altra parte soffre di fuso viario, che è quella roba che prende i genitori quando sanno che all’improvviso la strada davanti è di nuovo sgombra, ma con la testa sono ancora una settimana indietro, stanno ancora scrivendo con un solo braccio libero, una testa appoggiata alla spalla e la felpa sbavata di biscotti.

Si guarisce un giorno alla volta, ma mai per sempre.

La parte migliore (Les enfants qui s’aiment).

In città, di ritorno dal meccanico, sono in auto e sto in coda al semaforo. È una giornata di sole brillante, è quasi l’una, siamo fermi sopra il ponte e l’aria è troppo calda per essere settembre. Tutte le macchine hanno i finestrini giú.

Nella fila accanto alla mia, esattamente di fianco, c’è una Twingo bianca. Ci sono dentro un ragazzo alla guida e una ragazza dai lunghi capelli castani e lisci, entrambi sui vent’anni. Si baciano. Si baciano e io li guardo come ammirassi un tramonto, o un’alba, o un torrente di montagna, con la stessa indomita attenzione. Mi sento quasi un vecchio spione, ma non riesco a distogliere lo sguardo. Si dànno lunghi baci estenuanti, incendiari. Fanno brevi pause nelle quali la ragazza appoggia la testa sulla spalla del ragazzo e lui le accarezza i capelli. Poi lei prende la testa di lui, quasi con forza, e ricominciano. Sono bellissimi. Li guardo e penso a quand’era cosí, o meglio a quand’era solo cosí, quando c’era solo baciarsi e niente problemi, niente soldi, nessun mutuo, il lavoro di là da venire. Quando responsabilità era tutto sommato ancora solo una parola. Quando l’unica cosa importante era viversi, e basta. A un certo punto un clacson suona, vicinissimo. La ragazza si stacca dal ragazzo, quasi spaventata, il ragazzo si volta. A suonare è il tizio nell’Audi dietro a loro. È scattato il verde da tipo mezzo secondo, infatti siamo ancora fermi, ma lui ha suonato. E io penso a che tipo di persona dev’essere uno che suona a due che si baciano. Ho quasi l’istinto di scendere, come avessi subito un’offesa personale. Dove cazzo devi andare, penso, adesso resto fermo qua in coda perché voglio vederti quando passi, devo guardarti in faccia.

D’un tratto la mia fila ha un sussulto, il tizio dietro alla mia auto suona anche a me. Gli faccio un segno con la mano destra a metà tra scusa e vaffanculo, riparto. Vedo la Twingo coi due ragazzi venti metri piú avanti, hanno messo la freccia per svoltare a sinistra. Nell’istante in cui li affianco di nuovo la ragazza guarda fuori, i nostri sguardi si incrociano per un attimo. In quell’attimo, sta sorridendo. Il sorriso non è per me ma non ha importanza, è la parte migliore della mia giornata di oggi.

Quando arrivo a casa, Virginia è appena tornata da scuola. La trovo al cancello, lo zaino ancora in spalla. Scendo dall’auto e le apro. Per un attimo me la immagino ventenne, e purtroppo per me non è nemmeno difficile.

– Papà, – dice, – cosa si mangia oggi?

– Eh, Virginia, – dico, – sono appena arrivato anch’io. Facciamo gli spaghetti col tonno e le olive?

– Sí, buonissimi! – dice.

La guardo ridere mentre corre in casa, e d’un tratto mi assale un inatteso senso di colpa nei confronti della ragazza della Twingo.

Perché la parte migliore della mia giornata è appena diventata un’altra.

Mobile dining.

Suona il telefono. Il numero è nascosto. Non rispondo.

Risuona il telefono. Il numero è nascosto. Non rispondo.

Passa qualche minuto. Suona ancora il telefono. Il numero è di Milano. Sono tentato di non rispondere, ma non conoscendo a memoria i numeri della Bonelli non me la sento di rischiare. Magari mi stanno chiamando dalla redazione.

– Pronto?

– Pronto, buongiorno. Posso parlare con chi in casa si occupa della spesa?

– Della spesa? Della spesa in che senso, scusi?

– Della spesa.

– Della spesa tipo il fruttivendolo, il supermercato eccetera?

– Esattamente.

– Sono io.

– Ah, buongiorno signora.

– Sono un uomo.

– Mi scusi, non volevo offenderla.

– Non mi ha offeso. Veniamo al dunque?

– Sí, mi scusi. Signor… Bussola, vero?

– Mi dica.

– Noi siamo la nuova catena di merkatering, il nuovo franchising della spesa.

– Ah.

– Stiamo contattando potenziali clienti per far conoscere i nostri servizi di mobile dining marketing, posso illustrarglieli?

Mobiledininmarsfhrs?

– La spesa a domicilio.

– Cioè, volete aiutarmi a portare a casa la spesa? Come si fa con le vecchiette?

– Non proprio, signor Bussola. Non è che la aiutiamo a portarla, gliela consegniamo noi direttamente a casa.

– Capisco. No, grazie.

– Ma perché no? Guardi che è praticissimo, ci pensi: lei sta lavorando, non sa cosa preparare per cena, non ha niente in frigo. Ci telefona oppure va sul nostro sito www.merkatering.com, si registra in un attimo e può fare la spesa dall’ufficio o da dove vuole, scegliendo tra i migliori prodotti sul mercato. Noi le recapitiamo la spesa a casa all’ora che ci dice lei.

– Eh, ma guardi, a parte che io non ho un ufficio…

– Era per dire, può farla anche dal suo smartphone.

– Non ho uno smartpho…

– Allora ci può chiamare direttamente dal fisso.

– Mi fa finire?

– Scusi.

– Dicevo, a parte l’ufficio e lo smartphone, è che io mi diverto troppo ad andare a fare la spesa. È proprio una delle gioie della mia vita, oltre che una delle rarissime occasioni in cui esco di casa. Non la delegherei mai a qualcun altro.

– Capisco. Posso chiederle perché?

– Perché cosa?

– Perché non esce mai di casa?

– Si sta facendo gli affari miei?

– No no, mi scusi, non volevo essere inopportuno.

– È che durante il giorno lavoro e basta. E dopo le tre, mi tornano le figlie da scuola.

– Non colgo il problema.

– Quando tornano mi vestono.

– La vestono?

– Da principe.

– Ah.

– Certe volte faccio Adelino.

– Adelino?

– Adelino è un rapitore di principesse.

– …

– E non posso uscire vestito da principe, o da Adelino. Cioè, ho provato, ma lei capisce.

– Ma scusi, ma a fare la spesa lei ci va, ha detto.

– E che c’entra. Lí è una questione di sopravvivenza. E poi mi piace troppo.

– Ma ci va vestito da principe?

– Non sempre. L’ultima volta ero vestito da Madre Gothel.

– Madre Gothel?

– La mamma di Rapunzel.

– Arrivederci.

La luce.

In auto, andando all’asilo.

– Papà, guarda! Tre torri Eiffel!

– Non sono torri Eiffel, Ginevra. Sono tralicci dell’alta tensione.

– No, sono torri Eiffel!

– No, Ginevra. Ci somigliano. Ma la torre Eiffel vera è una sola e si trova in un posto che si chiama Parigi.

– Che è dove abita il Lollo.

– No. Il Lollo abita ad Arbizzano. Però è vero che anche dove abita lui c’è un traliccio molto alto. Comunque queste non sono torri, sono tralicci che servono per tenere su i fili della luce.

– La luce?

– Sí, Ginevra. Quando tu a casa accendi la lampada in camera tua, la luce viene da quei fili lí.

Guarda fuori, verso i tralicci.

– Eccola, papà!

– Cosa?

– La luce!

– No, Ginevra, la luce dentro i fili non si vede.

– Ma io l’ho vista passare!

– Ah sí? E dove andava?

– In camera mia, perché lei non lo sa che adesso io sto andando all’asilo.

– Non ti preoccupare, quando vado a casa glielo dico io.

– Sí. Dille che intanto vada giú nel tuo studio, cosí ci vedi.

– Va bene.

– Però poi dille che stasera torni su, che la mamma mi deve leggere le storie!

– Glielo dico, glielo dico.

– Ma papà.

– Eh.

– Però tu come fai a parlare con la luce?

– Ehm. Perché quand’ero piccolo avevo tanta paura del buio, ma i nonni non volevano che si tenessero accese le lampadine di notte. E allora ho imparato a chiamarla.

– E come facevi?

– Chiudevo stretti gli occhi e mi rannicchiavo sotto le coperte e poi pensavo a una cosa che mi piaceva. Cosí non avevo piú paura e arrivava la luce.

– Ma ti arrivava dai fili?

– Be’. Un po’ dai fili e un po’ dai pensieri.

– Ma i pensieri fanno la luce, papà?

– Possono farne tantissima, sí. Soprattutto quelli dei bambini.

– Anche le torri Eiffel, però.

– Anche.

Arriviamo all’asilo. Ci sediamo sulla panca di fronte agli armadietti, le infilo il grembiulino.

– Papà, ma i pensieri dei bambini quelli che fanno la luce hanno il bottone da schiacciare come la mia lampada del letto?

– Be’, Ginevra. Diciamo non tutti. Però certi sí.

– E dove ce l’hanno?

La guardo di sottecchi e lei mi fissa furbetta perché ha intuito cosa sta per succedere.

– Qui! – le dico premendola sul fianco, dove so che soffre il solletico.

Lei comincia a ridere talmente forte che io non so davvero a cosa stia pensando, ma deve essere sicuro un pensiero bellissimo, perché fa una luce cosí intensa e calda che anche Parigi può andare a nascondersi.

Pregiudizio.

Sento i cani abbaiare, so che qualcuno sta per suonare al cancello. Suonano. Sto affettando cipolle e sono nel bel mezzo del sugo, ma siccome Paola sta facendo il bagnetto a Melania, vince lei e devo andare io. Il citofono è rotto da un pezzo, perciò come al solito scosto la tenda per vedere. C’è un ragazzo di colore con un borsone sulla schiena. Penso quasi di non uscire, temo che il sugo si attacchi e tanto gli direi: «Non mi serve niente, grazie» per poi finire come al solito a pagare cinque euro una confezione di fazzoletti di carta. Vinco la mia pigrizia, perché penso che il minimo che gli devo è rispondergli. Prima di uscire controllo di avere almeno cinque euro in tasca. Scendo, mi avvicino al cancello. Lui sta sorridendo, mi saluta, lo saluto. Attendo che si tolga il borsone dalle spalle. Invece mi dice: – Scusa, per favore, potresti darmi un po’ d’acqua? – e mi porge una bottiglietta di plastica vuota. Mi sento una merda. – Certo, – gli dico. Mi faccio dare la bottiglietta, salgo in casa, gliela riempio, dal frigo ne prendo un’altra di acqua frizzante. Scendo di nuovo e gliele consegno entrambe. Lui sembra non capire. – Tieni anche quella, – gli dico, – è piú fresca –. Sorride sorpreso, mi ringrazia, ci salutiamo e se ne va.

Quando rientro in casa il sugo non si è attaccato neanche un po’.

L’edicolante.

«Allora, signor Matteo, ci son novità in uscita?»

Il giornalaio fa sempre cosí, ormai me lo chiede tutte le volte. Maledetto quel giorno che per convincerlo a farmi attaccare una locandina mi son lasciato sfuggire che «’sto fumetto l’ho fatto io».

«Come, fatto tu?»

«Fatto io».

«Ma nel senso fatto come? Disegnato? Ma come fai a disegnare cosí piccolo?» e via a seguire tutto l’inevitabile catalogo di amenità, del tipo: «Eh, ma ti pagano?», «Ah, ma li fai a mano?», «Eh, ma scrivi prima le pipette o fai prima i disegni?» – sia detto una volta per sempre: le pipette, che poi sarebbero i balloon, non sono i testi. I testi si scrivono prima, e solo alla fine si mettono dentro le pipette eccetera eccetera.

Comunque, dopo averlo nei mesi scorsi preventivamente avvisato dell’uscita di «Lukas» e di «Orfani» – piú che altro per impedirgli di esporli di fianco a «Poochie» – e averlo allertato su tutte le uscite della Cosmo (cosí me le tiene), ieri finalmente l’ho informato dell’imminente esordio di «Adam Wild», il nuovo fumetto Bonelli ambientato in Africa di cui – gli ho detto – mi pregio di essere uno dei disegnatori.

Oggi passo.

– Eccolo! – sento quando non ho ancora varcato la soglia dell’edicola. – Signor Matteo, qua gh’è uno che legge «Zagor»! – dice l’edicolante, festoso. Me lo annuncia come fosse un evento.

– Ah, – dico. – Bene.

Butto un’occhiata al tizio. Sui cinquanta, ben vestito, massiccio. Ha due mani come Gianni Morandi.

– Ma tu quale fai? – esordisce lo zagoriano, a bruciapelo.

Preso in contropiede, non realizzo subito. – Cosa? – dico.

– Di «Zagor», – dice.

– Ma no, no. Io non disegno mica «Zagor». Sono al lavoro su una serie che si chiama «Adam Wild», – dico.

– Ah certo, ho visto la pubblicità! – dice. – Quello sull’Africa!

– Quello, – dico.

– E che numero disegni, dell’Africa? – dice.

– Be’, sono al lavoro su due numeri in contemporanea. Sto inchiostrando il numero undici e disegnando per intero il numero venti, – dico.

Mi fissa. Ha la faccia di uno che ha appena avuto un’intuizione. Ce l’ho anch’io, ovvero intuisco che sto per subire la sua.

– Deve ancora uscire il primo numero, – dice. – Non si può disegnare il venti! Oppure sai già cosa succede dopo?

Cerco di restare calmo.

– Eh sí, lú sa tutto prima, – interviene fiero l’edicolante.

– Il fatto è che i numeri si scrivono e si disegnano con larghissimo anticipo, – spiego. – Di «Adam» sono in lavorazione i primi ventiquattro numeri, per capirci. Ma è normale prassi, – dico. – Pure con «Zagor» funziona cosí.

– In che senso? – dice.

– Nel senso che, – dico, – pure i disegnatori che si alternano su «Zagor» disegnano il loro numero anche anni prima dell’uscita in edicola.

– Va be’, anni, – mi fa.

– Anni, – confermo.

– Ma anche quello che fa le copertine? – dice.

– Anche, – dico.

– Visto? Te g’avèa díto che questo sa tutto! – rincara l’edicolante. – E aòra, quando esce ’sto suo numero di «Zagor», eh, signor Matteo?

Guardo entrambi e per un attimo mi sembra di essere nel profondo Kansas in un film di Wes Craven. Il bello è che so con precisione cosa sta per accadere.

– Me lo fai un disegno? – dice il tizio. Cosí. Come niente. Alle otto di mattina. Come se avessi scritto in fronte «insert coin» ma, ovviamente, senza coin.

– Ehm, guarda. Adesso ho la macchina messa male, e non ho neanche una penna, – faccio finta di non vedere l’edicolante che si allunga verso i pacchi di bic nuove alle sue spalle, – e sto accompagnando le bimbe a scuola. Ma facciamo cosí: te lo faccio a casa, poi domani o dopodomani te lo porto qui, okay? Se non ti vedo lo lascio in consegna a lui, – dico indicando il giornalaio che stringe nel pugno ventiquattro bic.

– Ah, va benissimo, grazie! – dice.

– Cosa vuoi nel disegno? – chiedo a scanso di equivoci.

Lui mi guarda come avessi appena bestemmiato in chiesa.

– Zagor! – dice.

– Sssí. Ma io non disegno «Zagor», – gli faccio.

Mi fissano entrambi con l’occhio pallato e incredulo dei ramarri.

– Okay, allora Zagor, – dico io.

– Zagor in Africa, – mi fa lui.

Io penso: «E una fettina di culo, no?», ma non lo dico.

– Zagor in Africa, okay, – dico. – Allora a presto, ciao.

Esco.

– Signor Matteo! – la voce mi raggiunge mentre sto aprendo la portiera della macchina.

– Cosa? – dico.

– Me fàlo un disegno ànca par mí? – dice l’edicolante.

– Eh? – dico.

– Un disegno, – dice.

– Non per domani però, – metto subito in chiaro.

– No, noooo, – mi fa lui. – Tranquillo. Anche per sabato.

Dentro di me sento salire repentino un noto intercalare veneto. Fuori invece quasi sorrido, incredulo.

– E cosa vuoi? – gli dico io già pronto al peggio.

– Cànon, – mi fa.

– Cànon? – ripeto.

– Sí, Cànon. Il guerriero. Il barbaro, – precisa lui con l’aria da «ma non sai proprio gnénte».

– Cànon, – ripeto ancora, trattenendo a stento le lacrime. – Perfetto.

– In Africa, – aggiunge.

– Cànon il barbaro, in Africa, – dico. – Okay, ciao.

– Ciao! – dice.

A questo punto vedo solo due strade possibili, dinanzi a me:

1. Cambio edicola, sparendo nell’oscurità per sempre come un ninja.

2. Vado lí sabato e, giuro, gli porto il disegno di una fotocopiatrice nella savana con sopra un leopardo.

Lettera a mia figlia che sta diventando grande.

Cara Virginia,

ti scrivo perché ci sono mattine in cui io ti vedo bene, mentre ti prepari per andare a scuola, e questa è una di quelle. Col tuo berretto rosso che fa da cornice a quegli occhi brillanti e il tuo zaino che pesa sempre troppo e la merenda che non è quasi mai quella che vorresti, mi fai cosí tenerezza che ti abbraccerei fino a non lasciarti piú.

Tu sconti l’ingrato destino dei primi e purtroppo non ci si può far molto. Devi essere sempre la piú brava, sei l’unica che riordina, sei quella che si vede scippare i giochi dalle sorelle piú piccole e deve spesso stare zitta. Fu cosí anche per me, sappilo. E so che i secondi penseranno la stessa cosa e gli ultimi pure, che ognuno ha le sue lotte. Dunque mettiamola cosí: avendo condiviso la tua stessa sorte di primogenito, io comprendo meglio la tua situazione.

Vorrei dirti che tu sei l’origine di tutto. Che, se non fosse stato per te, tua madre e io ci saremmo forse lasciati, schiacciati dal muro delle nostre differenze. Invece tu ci hai dato modo di intravedere in quelle differenze delle opportunità. Perciò, anche se non lo sai, tu hai la responsabilità di quanto è venuto dopo: delle tue due sorelle, di questa casa, della forza che io sento di avere oggi e che devo quindi soprattutto a te. Che poi è un’altra maniera di dire che tua madre e io lo dobbiamo a noi, ma tu ne sei comunque il miglior riassunto.

Sei molto bella. Ormai è un fatto e questo sarà un grosso problema. Lo sarà anche per me. Perché io so che la bellezza non protegge da niente. Non dalla superficialità delle persone, non dal dolore, non dalle difficoltà né dalle sconfitte, e stare a guardarti quando queste cose arriveranno, da sole o tutte insieme, sarà durissima. Molti pensano alla bellezza come a una specie di ombrello. Invece certe volte diventa un sacchetto dentro il quale si fa fatica a respirare. Spero che per te non sia cosí, ma se accadrà, sappi che sarò lí a fare in quel sacchetto tutti i buchi che serviranno.

Per tua sfortuna, sei anche molto intelligente e hai ereditato l’empatica sensibilità di chi tu sai. Ed è questo che ti farà soffrire di piú.

Ti prometto fin d’ora che se vorrai fare i fumetti farai i fumetti e se vorrai suonare l’arpa suonerai l’arpa e che né io né tua madre cercheremo mai di sviarti su qualcosa che ci somigli e basta. Sarà sempre e solo la cosa che vorrai. Tu, in cambio, dovrai metterci tutto quel che hai, e trasmetterti questa lezione è un preciso impegno che mi prendo come tuo genitore.

Ti scrivo perché non mi vergogno di farlo, come non mi vergogno dei miei sentimenti, ma soprattutto perché cosí questa lettera resterà. E siccome quando sarai grande sarà digitale tutto, magari perfino l’amore, forse per te sarà piú comodo cosí, a ritrovare le mie parole tra le pagine di un vecchio libro, scritte in Garamond 12 solo per te.

Il resto secondo me lo sai, perciò non lo scrivo.

Sarà comunque mia premura fartelo sentire, ogni giorno.

Il bacio.

Vado a prendere Melania all’asilo.

Comincia a ridere non appena mi vede e mi corre incontro come fossi arrivato inatteso a salvarla. La sua sorpresa è dovuta al fatto che di solito io la porto al mattino, mentre la mamma si occupa del ritiro pomeridiano.

Recuperiamo dall’armadietto il giubbino, indossiamo le scarpe, rimettiamo a posto le antiscivolo e scendiamo. Appena giú dalle scale, c’è un bambino biondo che piange inconsolabile. È piú piccolo di lei, avrà forse un anno e mezzo, Melania pare la sua custodia. La mamma del bambino lo guarda con l’aria da «adesso ti tiro su», ma ha un secondo figlio in braccio e tiene un passeggino con l’altra mano. Melania si avvicina al bambino, gli si para davanti. Lo abbraccia. Poi gli dà un delicato bacio sulla guancia. Il bambino smette di piangere quasi subito, come se qualcuno avesse spento un interruttore. La mamma e io ci guardiamo, il mio sguardo nel dubbio dice «scusa», perché Melania ha un po’ di raffreddore e le mamme non sai mai bene come la prendono, mentre quello della mamma mi sembra piú orientato verso un «grazie».

– Hai visto che gentile la bambina, Denis? – dice la mamma. – Dàlle un bacino anche tu!

Il bambino guarda mia figlia, mia figlia lo guarda. Denis scatta in avanti, le prende la testa con le mani, spalanca la bocca tipo squalo e comincia a limonarla duro. Melania, sorpresa, si offende e lo allontana con uno spintone. Il bambino atterra sul culetto e ricomincia a piangere piú forte di prima. La mamma mi lancia un’occhiata che dice: «Eh, ma tua figlia, però, prima fa la facile e poi non ci sta!» Il mio sguardo invece dice: «Non è che se vi diamo un labbro allora vi prendete tutta la lingua, eh?»

Melania mi fa segno che vuole essere presa in braccio. Salutiamo e ci allontaniamo, mentre Denis la guarda con l’espressione di un gatto al quale è appena sfuggito un merlo.

Quando siamo in macchina, legandola al seggiolino, le dico: – Melania, ’sta cosa dei baci deve finire, però –. Lei mi fissa seria, poi comincia a ridere. Infine mi dà un leccone sulla faccia che parte dal mento e mi arriva sulla fronte. Chiudo la portiera ridendo anch’io e mi pulisco dallo sbavo con la manica della felpa. Mi volto appena in tempo per beccarmi lo sguardo carico d’odio di un bambino biondo, che spunta con la testa dalla spalla della mamma. Lo sguardo dice, inequivocabile: «Ridi, ridi, vecchio di merda. Aspetta tipo tredici anni, che poi rido io».

Durante il viaggio di ritorno Melania canta un Fra Martino Campanaro fatto tutto di vocali.

Io ho in testa in loop Highway to Hell e mi viene in mente che l’altro giorno dal ferramenta ho visto tre rotoli di filo spinato in offerta.

Il cappotto.

Stanotte stavo male e ho fatto un sogno che mi ha lasciato addosso una sensazione vischiosa di paura. Poche ore di sonno intermittente non predispongono a una grande benevolenza verso il fatto di alzarsi, ma sapevo che insistere a restare sdraiato sarebbe stato inutile.

Ho provato a scendere in studio sul presto e lavorare, perché di solito lasciar andare la mano sul foglio è la terapia migliore per ripulire i pensieri. Non ha funzionato. Sono risalito alle sette, ho preparato le colazioni e ho svegliato le bambine per la scuola. Ginevra era raffreddata e ho deciso di tenerla a casa. Paola si è occupata delle pettinature e ha preparato i vestiti per tutte, poi è tornata a dormire che era venuta a letto molto tardi. Io mi sono fatto il secondo caffè, la paura era ancora lí e Ginevra era strana.

– Cos’hai, Ginevra? – ho detto.

– Sono arrabbiata con te, – ha detto.

– E perché?

– Perché mi hai aperto il flautino invece me lo volevo aprire da sola!

– Scusa, – ho detto, – hai ragione, domani te lo do e fai tutto tu.

– È perché tu fai sempre cosí, prima fai le cose e poi chiedi scusa!

La frase mi ha colpito, perché è una cosa che mi dice spesso anche sua mamma. Paola, quando capita di bisticciare e io ho quasi sempre torto – sí, è un’ammissione – di fronte alle mie scuse dice: «Tanto ormai la porta in faccia l’ho presa». È vero. Se la porta l’hai presa, le scuse fanno poca differenza, è cosí che si impara a prestare attenzione. Il bello è che ci ho impiegato anni per imparare a farle, le scuse, perciò penso sempre che l’intensità del mio sforzo nel porgerle si percepisca, e possa compensare il danno. Non è quasi mai cosí.

Ho dato un bacino sui capelli a Ginevra e sono andato all’asilo con Melania.

Quando siamo arrivati, abbiamo incontrato un altro bambino nella sala degli armadietti. Hanno giocato a nascondino, infine sono entrati in aula correndo. Poi sono sceso giú alla materna a restituire un libro che Ginevra aveva preso in prestito. Uscire in giardino senza salutarla, senza fare il saltone e vederla ridere alla finestra, mi ha fatto un effetto stranissimo, come se mi avessero derubato.

Sono tornato all’auto e, nel cortile della casa di fronte, c’era una donna molto anziana che dava da mangiare ai gatti, saranno stati sei o sette. La donna era in pantofole e camicia da notte, e aveva un berretto di lana troppo piccolo per la sua testa. Dall’interno della casa è uscito un ragazzo di circa vent’anni, aveva in mano un cappotto beige, che le ha posato delicatamente sulle spalle. La donna non ha smesso di dar da mangiare ai gatti, né il ragazzo ha insistito per portarla dentro. Sono solo stati lí a finire. Il ragazzo era piegato su di lei e la avvolgeva col cappotto, come fosse una bambina.

Sono rimasto a guardarli per quasi un minuto. In quegli attimi, osservandoli da pochi metri, era come se quell’immagine mi stesse risarcendo di qualcosa.

Quando sono risalito in auto, la paura non c’era piú.

Cànon.

Siccome per mia sfortuna non riesco a guarire dalla malattia di essere uomo di parola, oggi porto il disegno all’edicolante.

Quando mi vede, la sua faccia si accende come una lampadina.

– Signor Matteo! – mi fa. – È uscito «Dàilan Dog» e ànca «Ken Parker», e ànca «Burberrí»!

L’ultimo dev’essere evidentemente un ranger con un brutto carattere, penso.

– Sí, – dico. – Lo so. Ma io sarei passato solo a portarti il tuo disegno.

– Ah, certo certo, – dice, – gràssie mille!

Glielo porgo. Lo apre. Sul foglio campeggia uno splendente Cànon il barbaro, in Africa. Che siccome non mi pagano e siccome non avevo tempo e oltretutto vista la – ehm – cultura fumettistica del commissionante, ho praticamente ricopiato da un Conan di Buscema, senza alcun senso di colpa. Ci ho fatto pure la dedica: «Cànon, per Renato, con amicizia», perché non volevo scuoterlo dalle sue certezze.

Lui fissa il disegno, perplesso. Ha l’aria di uno che cerca di leggere delle istruzioni Ikea in svedese.

– Qualcosa non va? – dico.

– No no, – dice. – Il disegno l’è bélissimo. L’è che il nome qua l’è mica giústo.

Ecco, penso, ha finalmente realizzato che non si chiama Cànon ma Conan. Vedi a sottovalutare le persone?

– Mí me ciàmo Rinaldo, – dice, – no Renato.

La visita.

Oggi viene a trovarmi mia mamma.

Quando viene a trovarmi mia mamma, anche solo per un caffè, in casa si scatena il panico, l’allarme passa a Defcon 2, oppure 1, dipende solo dall’anticipo con cui viene comunicata la materna visita. La differenza, per capirci, consiste nel fatto che se lo so tre giorni prima pulisco di fino il fornello della cucina col Cif al doppio limone e il brillantante, se invece sono meno di dodici ore di preavviso ci butto direttamente un bidone di acido muriatico e lo smeriglio indossando guanti di ghisa e usando la paglietta a grana grossa da falegname. Si passa poi alla palla delle robe da stirare, da me amorevolmente soprannominata «Umberto», poiché ormai da tre anni vive spiaggiata sul divano del soggiorno tipo Umberto Smaila ubriaco sul cofano di una Panda diesel, e ogni volta la si fa rotolare nello sgabuzzino accertandosi prima che non ci sia finita dentro per sbaglio qualche figlia, oppure quella mezza prosciutto e funghi che era sparita e ci si era accusati a vicenda per una settimana a colpi di «l’hai mangiata tu!», «no, tu!», e magari si era infilata nel taschino del mio cardigan fresco di bucato. Darò una passata veloce al bagno, chiuderò Garrett e Cordelia in taverna che mia mamma ha paura, cercherò con meticolosa cura di tracciare in giardino un sentiero sgombro da foglie secche e cacche e pigne, e cacche che sembrano pigne, che conduca in sicurezza alla porta di casa, e invece ogni volta succede che mia mamma si dimentica qualcosa in auto e quando ritorna si sbaglia e fa l’altro percorso, quello dove ci sono i cinghiali acquattati nell’erba alta come viet-cong.

E niente, ogni volta rifletto su questa cosa, su come le persone alle quali cerchiamo di nascondere chi siamo davvero, come viviamo sul serio, siano spesso quelle alle quali vogliamo piú bene. Perché, nonostante gli anni e i chilometri e la genitorialità, si resta sempre anche figli, non si riesce mai del tutto ad affrancarsi da questo. Il fatto è che come figlio hai il continuo timore di deludere, anche da adulto, mentre come genitore hai il ruolo di educare e vigilare. E pensavo che però non ci salviamo nemmeno quando diventiamo genitori, perché il terrore di deludere ce l’abbiamo anche verso i nostri figli, ogni giorno, e viviamo schiacciati come una fetta di formaggio tra due fette di toast esistenziale, tra senso di colpa e senso di colpa. E pensavo a quanto sarebbe bello se, invece del senso di colpa, riuscissimo a imparare il senso di polpa. Il senso di polpa, almeno per me, sarebbe riuscire a vedere la bellezza nel cuore delle cose, e allo stesso modo saperla mostrare agli altri, senza attribuirla a ciò che siamo riusciti o non riusciti a fare. Perché non sono le palle di robe da stirare a tenerla nascosta, la nostra bellezza, o le pigne in giardino, ma tutto quello che facciamo per fare finta che quella palla di robe da stirare e quelle pigne in giardino non siamo noi, con le nostre difficoltà, i rischi che abbiamo scelto di prendere, la precedenza che abbiamo scelto di dare alla vita invece che al voler sembrare sempre perfetti. Quelle pigne in giardino e quella palla di roba da stirare e il fornello sporco alla fine dicono di noi molto di piú di tutto il resto. Non dicono che siamo brutte persone, o negligenti, ma che andiamo avanti nonostante tutto, ogni giorno, e questa è una cosa di cui forse dovremmo andare fieri.

Oggi viene a trovarmi mia mamma.

Andrò a prenderla al cancello, la accompagnerò in casa e le farò un caffè sul mio fornello sporco. La farò sedere sul divano, sopra uno dei miei maglioni da piegare, le darò quello piú morbido. Sosterrò sorridendo il suo sguardo di malcelata disapprovazione, riuscendo a vedere la bellezza che c’è dietro e che solo io, in quanto figlio, conosco cosí bene.

Sarà tutto quello che ci serve.

Trecentoquarantasette.

Discutevo ieri con un’amica del fatto che l’amore, alla fine, è sempre una distanza da coprire.

Quando è poca puoi gettare un ponte. Quando è tanta, c’è sempre almeno uno dei due che si deve fare un bel pezzo a piedi. Perché in una relazione c’è sempre chi si sposta piú dell’altro, chi è piú disponibile a uscire dal suo sé per mettersi in gioco e avventurarsi sul terreno sconosciuto e scivoloso dell’incontro. È la ragione per cui a tutti nella vita, prima o poi, capita di diventare il rimpianto di qualcun altro. Succede quando chi ti rimpiange si rende conto troppo tardi di non aver accettato la scommessa di fare il suo pezzettino di strada. Gli amori migliori sono quelli in cui ci si sposta insieme, partendo da distanze lontanissime, certe volte solo intuendosi. Annusandosi a chilometri oppure anni di distanza. Per poi incontrarsi d’un tratto perfettamente al centro, come si fosse sempre stati lí, in un punto in cui uno piú uno non fa per forza due, può fare anche trecentoquarantasette. Perché l’amore non è mai una somma algebrica perfetta, funziona piú come tirare un sasso nell’acqua. Quando incontri qualcuno che ti piace, fai la tua mossa e te ne stai lí a contare i cerchi che si formano. Ci sono personalità imperturbabili che non si increspano, restano piatte. Altre che fanno cerchi ampi e lenti, altre ancora che invece, ed è un mistero, entrano in risonanza con la tua. Te ne accorgi perché le onde non sono regolari, ma arrivano a intervalli imprevedibili e, quando pensi l’inerzia si sia esaurita, ricominciano. In quel caso, i cerchi non scorrono semplicemente lungo il pelo dell’acqua, è come derivassero da ciò che sta sotto. Il che svela che alla fine l’amore è sí una distanza, ma parte da una profondità, da qualcosa che deve prima affiorare in superficie. È una specie di immagine che vediamo apparire un po’ per volta, come una fotografia durante la fase di sviluppo in camera oscura. Quell’immagine, solo poche persone sono in grado di svelarla, anche a noi stessi: perché alcune e non altre, resta la vera domanda.

La vera risposta è trecentoquarantasette, oppure l’amore.

Le orecchie.

In auto, andando all’asilo.

– Papà, ma perché abbiamo le orecchie?

– Per sentirci, Ginevra.

– No, ma perché abbiamo le orecchie?

– Perché cosí possiamo ascoltare le parole.

– No, ma perché abbiamo le orec…

– Perché cosí quando i bambini piangono le mamme e i papà li sentono.

La vedo nello specchietto. Guarda fuori dal finestrino, seria.

– Papà.

– Eh.

– Ma li sentono anche quando ridono, però.

Sorrido pensando a quanto la sua versione sia piú bella della mia.

– Sí, soprattutto.

Quando mia figlia mi spiega la vita in macchina, dopo capisco sempre tutto meglio.

Io ho le orecchie per quello, son sicuro.

I sogni dei figli.

Esco a comprare una busta grande per la spedizione di un disegno.

La cartoleria è chiusa, vado da quella piú giú. Al bancone, la cartolaia sta parlando con una signora che somiglia a Virna Lisi in Sapore di mare.

– Eeh, perché a quell’età lí son cosí, – dice la cartolaia.

– Sí, ma almeno avere delle ambizioni vere, dài, – dice Virna Lisi.

– Scusi, ha mica bustoni di quelli gialli imbottiti? – mi intrometto.

– Là dietro, scelga pure la taglia, – dice la cartolaia.

Mi addentro e comincio a rovistare fra le buste.

– Che dopo, – dice Virna Lisi, – el se crede de diventàr Milo Manara. Invece sai quanta gente che fa quel mestier lí che i xè morti de fame?

– Eh, ma ànca el mio. A quindici anni el voleva fare l’attore. Dopo el gavéa el gruppo rock e el cantava. Dopo a forza de insistèr la ghè passà e el s’ha convinto, e adesso che ghè nato el buteléto el lavora quà con mí.

– Ma infatti, – dice Virna Lisi, – de ‘sti tempi ghe vol un minimo de piedi per terra, su. Per fortuna che me marí el s’ha imposto, e allora l’ha deciso de far el liceo scientifico, che l’è già meglio.

A «liceo scientifico» mi parte il déjà-vu. D’un tratto è il 1985, sono in soggiorno, i Righeira stanno cantando L’estate sta finendo e mio padre mi ha appena spiegato perché non farò l’artistico. Trovo la busta che mi serve e vado a pagare. Virna Lisi mi fa posto ed estrae dalla borsa uno smartphone verde acqua.

– Alòra, come va? – mi chiede la cartolaia.

– Bene, grazie, – rispondo, colto alla sprovvista.

– Senta, lú ch’el le conòsse, – dice, – podarésselo dirghe ai capi che ghè el semaforo qua davanti ch’el se incanta sempre?

– Ah, ma signora, io non lavoro piú nella pubblica amministrazione da un pezzo, – dico.

– Sí sí, i me gavéa dito, – dice. – Però almeno el conosse ben tutti, dài.

– Vedo quello che posso fare, – taglio corto.

– E cosa falo adesso? – dice forzando il bustone in un sacchetto troppo piccolo.

– In che senso? – dico.

– Di lavoro, – dice.

Non rispondo subito, ci penso su un attimo. Guardo Virna Lisi che pesta sui tastini dello smartphone.

– Faccio l’attore di musical, – dico.

– Ma dài? – dice la cartolaia. – Ma sul serio?

Virna Lisi solleva la testa dallo smartphone.

– Ma l’attore dove? – dice la cartolaia.

– Ah, dove capita, – dico. – Soprattutto a domicilio.

– A domicilio? – dice.

– Sí, – dico.

– Ma va’! – dice Virna Lisi. – Ma come, a domicilio? Porta a porta? E come si fa, cioè cos’è che recita di preciso?

– Allora, – dico, – di preciso di preciso, mando a fare in culo la gente.

– Affare? – dice.

– In culo, – dico. – Ma a domicilio proprio, eh! È lí il difficile!

– Ma, come…? – dice Virna Lisi.

– In pratica, – dico, – vengo contattato da persone che magari ce l’hanno con qualcuno, o hanno ancora su vecchi rancori. Mi dànno l’indirizzo del destinatario e io mi presento vestito da John Wayne, o da Superman, o da Rapunzel, certe volte anche solo in borghese. Poi metto su un cd con una base e li mando affanculo cantando.

– Ma, – dice Virna ridendo. – Ma non è vero, dài! Ma che lavoro è? Ma sul serio c’è gente che la assume per ‘ste robe?

– Sapesse, – dico. – Fidanzate piantate. Ex mariti. Avversari politici. Gente licenziata. Ma quelli che mi contattano piú spesso sono i figli di genitori oppressivi, molte volte anche quando sono già grandi.

– I figli? – dice.

– Già, – dico. – A proposito, qui avete mica uno stereo?

– Uh, no, – dice la cartolaia.

– Fa niente, – dico, – allora vado a cappella.

Perché il mondo esiste.

Virginia e io siamo in cucina, stiamo facendo colazione.

– Papà, ma perché il mondo esiste?

– Eh?

– Perché si è creato lo spazio?

– In che senso?

– Non poteva esserci solo tutto bianco e un enorme scarafaggio che vagava?

– Ussignúr, Virginia. Non lo so. In effetti, magari sarebbe stato meglio.

– Perché?

– Perché, al nostro mondo, noi abbiamo fatto anche tantissimo male. Gli scarafaggi invece per niente.

– Ma allora il mondo è arrabbiato con noi?

– Arrabbiato arrabbiato forse no, ma di sicuro non gli stiamo tanto simpatici.

– E non possiamo chiedergli scusa?

– Qualcuno ogni tanto ci prova, ma sono sempre troppo pochi. E in tanti non sanno come si fa.

– Perché?

– Perché per chiedere scusa devi prima ammettere di aver sbagliato, Virginia. E poi perché nelle scuse si tende sempre a scordarsi la parte piú importante. C’era un signore, che si chiamava Randy Pausch, che diceva che le buone scuse sono formate da tre parti: mi dispiace. È colpa mia. Cosa posso fare per rimediare? Ecco, quasi tutte le persone si dimenticano la terza parte.

– Anche col mondo?

– Soprattutto.

Ci infiliamo i cappotti e la accompagno a piedi a prendere il pulmino per la scuola. È pensierosa e con un’aria vagamente triste.

– Papà.

– Eh.

– Ho perso il quadernone di Tecnica.

– Virginia, e me lo dici adesso? Oggi ti serviva?

– Sí.

– Va bene, allora senti. In classe per prima cosa lo dici alla maestra e per stamattina farai i compiti di Tecnica su un foglio a parte, che poi inseriremo nel quadernone nuovo.

– Scusa, papà. È colpa mia.

– E poi, Virginia?

– E poi non trovo piú neanche il temperino.

Lucca Comics.

Paola e io domattina sul presto – si fa per dire, lo speriamo ogni volta e poi non si riesce mai a schiodare prima delle undici – inizieremo a muoverci in direzione del Lucca Comics.

Dico «inizieremo» perché il nostro tragitto prevede diverse tappe. Al netto di svegliale, vestile, nutrile, fatti la barba, sbarra le finestre, scaraventa le valigie in auto, cambia il secondo pannolino a Melania, chiudi il gas, attendi il tizio della pensione dei cani, il book lo porto o non lo porto, non trovo gli occhiali, chi cazzo ha aperto i Tuc che erano per il viaggio, ho perso lo spazzolino eccetera, dovremo infatti eseguire:

• tappa numero uno alla scuola della figlia grande per recuperare dei libri che Virginia ha lasciato incautamente sul banco e che le serviranno per fare i compiti nei prossimi giorni;

• tappa numero due dal benzinaio per controllo gomme/acqua/olio, va’ che carino ’sto arbre magique al mango selvatico, papà mi scappa la pipí;

• tappa numero tre al paese dei nonni Bussoli per lasciar giú Ginevra. Sopravvivi al caffè di tua madre, al «come vàlo el lavòro» di tuo padre, nonché all’addio straziante della figlia media che come sempre ci metterà del suo;

• tappa numero quattro dai nonni Barbati sul lago per il deposito della piccina urlante e della figlia maggiore che dovrebbe servire come deterrente per le urla della sorella minore. Sopravvivi al caffè del padre di Paola, agli abbracci di Virginia che in queste occasioni le viene sempre lo sguardo da piccola fiammiferaia con l’ultimo fiammifero controvento la notte di Natale, staccati dal polpaccio Melania e lasciati alle spalle una valle di lacrime. Torna indietro perché: «Mioddio, i cappellini son rimasti sul sedile»;

• tappa numero cinque all’autogrill preferito da Paola. Lo saltiamo sempre perché ogni volta «è il prossimo», e alla fine non si sa come finiamo ogni volta a mangiare lo stesso panino marcio in quella specie di capanna-bar a metà dell’autostrada della Cisa;

• tappa numero sei sull’autostrada della Cisa, dove regolarmente, subito dopo il panino, io dico: «Va be’ dài, ormai il peggio è passato, quest’anno ci va ricca», e sulla a di «ricca» si profila in lontananza una coda di cinquantotto chilometri da lí fino a Viareggio;

• tappa numero sette a La Spezia, che «te l’ho detto che dovevi girare a sinistra».

Arrivo a Lucca direi intorno alle 18.00, se va bene. Io sistemo elegantemente i miei abiti nell’armadio, Paola fa la solita palla col contenuto della sua valigia e la scaglia direttamente al centro del letto. Arriva la prima telefonata dai nonni Barbati, che si fingono disinvolti. Poco dopo arriva la seconda, dalla quale si capisce che sono nel panico.

A quel punto, due strade si parano innanzi a te nel bosco della vita, e una delle due è sempre: «Che dici, son quasi le sette, lo facciamo un saltino veloce in fiera?» ma io scelsi la meno battuta: pizza nel cartone in camera d’albergo, replica di Malattie Imbarazzanti o Rocky su YouTube, nanna alle dieci di sera, che son le uniche e dico le uniche tre sere tre in tutto l’anno che riesci a dormire di gusto e difilato fino alle otto del mattino, senza figlie che ti svegliano o cani che abbiano ai cinghiali o gente che ti telefona alle sette e cinque perché il tuo numero è uguale a quello dell’ambulatorio pediatrico, a parte il due finale.

Alle dieci e un quarto di solito chiama mia madre per chiedermi se siamo arrivati.

Le scarpe nuove.

Sono due settimane che mi chiede cosa vorrei per il mio compleanno.

Sono due settimane che rimando la risposta, cercando di prendere tempo.

Come faccio a dirle che sí, avrei bisogno di un computer nuovo, che però non ci possiamo permettere, ma che in realtà poi non mi serve davvero, che mi piacerebbe avere delle penne giapponesi che ho visto una volta su un sito ma tanto alla fine inchiostro sempre con la prima cosa che mi capita a tiro e mi diverto cosí, che potendo vorrei avere una donna delle pulizie una volta la settimana, oppure un tablet che quando clicco su un link me lo apra prima della quinta volta e non mi butti fuori dal browser quando schiaccio su Invio?

Che sarebbe bella una cassa di birra artigianale, o una tavola di Neal Adams, o facciamo tre paia di calzini senza buco. Anche un paio di scarpe nuove, magari. Oppure una salute meno cagionevole, ma quella forse è meglio se la chiedo direttamente a Babbo Natale.

Insomma, come faccio a dirle che mi piacerebbero un sacco di cose ma non ho davvero bisogno di niente? Perché tutto quel che mi serve, tutto ciò che dà un senso alle mie giornate, tutte le mie ragioni me le ha già regalate durante questi anni insieme, al punto che per il mio compleanno il regalo piú bello che riesco a immaginare sarebbe un lungo bacio appassionato vicino alla finestra mentre fuori piove e io le tengo la testa fra le mani?

Facciamo che non glielo dico e ci spero.

Per quanto, anche le scarpe nuove.

Che per continuare a camminare insieme e a lungo, quelle mi servono.

I capelli dei maschi.

In auto, andando all’asilo.

– Papà, ma perché ti sei tagliato i capelli?

– Perché ormai erano troppo lunghi, Ginevra. E poi lo avevo promesso alla nonna.

– Uffa.

– Perché? Non ti piaccio cosí?

– No.

– Oddio, e come mai?

– Perché prima eri uguale a un papà, adesso invece sembri un maschio!

Prendersi cura.

Stamattina sono andato in edicola sul presto.

Rinaldo mi aveva tenuto da parte un fumetto, e siccome c’è una giornata limpida e un’aria buonissima e avevo parcheggiato distante, tornando alla macchina ho deciso di sedermi per qualche minuto al parco giochi a sfogliare il mio acquisto.

Al parco giochi eravamo in tre. Forse perché non erano neanche le nove e faceva un po’ freddo. Davanti alla mia panchina c’era un uomo sui quaranta dall’aria assonnata che spingeva una bambina sull’altalena, probabilmente sua figlia. La bambina avrà avuto quattro anni, capelli lunghi e spettinati, indossava un giubbotto viola e una sciarpa entrambi troppo grandi per lei. Ho pensato subito a Ginevra, a quando la spingevo sull’altalena io e invece oggi fa tutto da sola e mi dice di non toccarla. A Virginia, che alle altalene non è piú interessata e vuole solo arrampicarsi sugli alberi. A Melania, che le ha scoperte da poco e ogni volta che ne vede una non riesci piú a farla scendere, vuole salire anche su quelle dei grandi e ha appena imparato a dondolarsi con le gambine, che se la guardi mentre ci prova non puoi fare a meno di ridere.

A un certo punto, l’uomo ha spinto un filo troppo forte e la bambina è caduta in avanti nell’erba. Lui è intervenuto subito, prima ancora che lei potesse spaventarsi, quasi prima che potesse rendersi conto della caduta. Prima del pianto. L’ha tirata su e si è inginocchiato nell’erba e la bambina lo abbracciava e sono stati stretti a lungo, la mano di lui sulla testa di lei, la testa di lei affondata nel petto di lui. Immobili. Io li guardavo e conoscevo bene il senso di colpa che si leggeva in faccia all’uomo, la paura di non esserci stato anche solo per quell’istante decisivo, mi succede tutti i giorni. Ma sapevo anche che per la bambina era molto piú importante essere stretta al petto di suo padre dopo la caduta, piuttosto che non essere caduta mai.

Una delle cose che impari quando diventi padre, una specie d’illuminazione che parte dal primo giorno e poi metti a fuoco meglio negli anni, è che non è vera quella storia che raccogli quel che semini. Seminare non serve a nulla se non predisponi anche un impianto di irrigazione, tieni lontani i parassiti, levi le erbacce, metti dei sostegni fino a quando le piante non saranno abbastanza forti per reggersi da sole. Se non sei lí a tirarle su quando il vento le ha piegate a terra.

Vale per qualunque tipo di amore, ma io l’ho capito davvero solo cosí.

Non si raccoglie quel che si semina e basta, non è vero niente. Raccogliamo solo ciò di cui ci prendiamo cura, sempre.

Tu ridi sempre.

Melania ha la tosse, siamo stati per metà notte l’una addosso all’altro, lei appoggiata al mio torace, io con il collo contro lo schienale del letto per tenerle la testa appena sollevata e farla dormire meglio.

Sono stato sveglio per tutto il tempo ad ascoltarla respirare, perso nei brutti pensieri che, mentre le accarezzavo la testa nel buio della stanza, sentivo esplodere come bolle di sapone troppo grandi. Quando il suo respiro si è fatto regolare e lento, mi sono sfilato piano e le ho creato una conca tra i cuscini e la mamma, che si era fatta la prima parte della notte. L’ho incastrata costruendo sul lato esterno una piccola barriera di coperte appallottolate e sono andato in cucina. Mi sono preparato un caffè e sono sceso in studio, tanto ormai non si dormiva piú.

Erano le 2.14. Il computer era rimasto acceso e le notifiche della posta segnalavano cinque nuove mail. Ho bevuto il caffè leggendo le prime tre, poi Cordelia è entrata in studio tirando a destra col muso, segno che voleva uscire. Ho aperto la porta, siamo andati in giardino e lei è corsa via. Fuori, pareva settembre. Mi sono seduto sul muretto sotto l’abete grande e ho respirato a fondo. Il bosco era muto, l’aria era fresca ma non fredda, si sentiva un cane abbaiare lontano. Quando Cordelia è tornata mi sono alzato per rientrare ma, passando sotto la finestra chiusa della camera da letto, ho sentito Melania che tossiva ancora. Sono salito e l’ho trovata nel lettone, coi piedi al posto della testa. L’ho presa in braccio e me la sono tirata addosso di nuovo, ho sollevato piano la trapunta e ho coperto le mie gambe e la sua schiena. Siamo stati lí per un po’.

Avevo quasi ripreso sonno, quando Ginevra ha chiamato. Ho adagiato Melania nella conca e sono andato a vedere.

– Mi copri? – ha detto Ginevra.

– Certo, – ho detto, – rimettiti giú.

– Sai cos’ho sognato, papà? – mi ha detto mentre appoggiava la testa sul cuscino.

– Cosa?

– Che eravamo al mare e tu non mi sgridavi piú.

– Ginevra, io ti sgrido solo quando fai la cattiva, come ieri. Non mi diverto mica a sgridarti, sai?

C’è stato un silenzio di qualche secondo, che il buio ha fatto sembrare piú lungo.

– Papà, – ha detto.

– Dimmi, – ho detto.

– Quando la mamma mi sgrida certe volte ho un po’ paura. Tu invece lo so che non mi fai niente.

– Ma non è vero! – ho detto, cercando di recuperare un minimo di autorità paterna.

– A te ti viene sempre da ridere.

– Mi viene da ridere perché sei una buffina.

– Papà.

– Che c’è?

– Stai ridendo, vero?

– Dormi, – ho detto tirandole su le coperte.

Uscendo dalla stanza, mi sono fermato in corridoio ad ascoltare, ma Melania non tossiva piú. Sono sceso di nuovo in studio facendo piano le scale. Mi sono seduto al tavolo, ho finito il caffè ormai freddo, ho preso un foglio e ho cominciato a disegnare.

Sto lavorando da cinque ore, le bimbe si sono appena alzate, il sorriso è ancora lí.

Il signor Mbokany.

Accompagno le bambine a scuola, poi mi allungo dal pediatra a ritirare un certificato per Melania.

Nella sala d’attesa siamo in sette. Sono seduto accanto a una signora riccia coi capelli raccolti sulla nuca e gli occhiali da segretaria, che sta digitando furiosamente su un tablet. Di fronte a me una coppia di colore con una bambina minuta che la mamma sta allattando al seno: sono cosí belle che sembrano un quadro. Una bambina bionda con le trecce, seduta di fianco a una nonna vestita elegante, li osserva ipnotizzata. Quando la bambina bionda scende dalla sedia, la nonna ha un sussulto. La bambina bionda va dritta dalla coppia di colore e prima che la nonna riesca a fermarla fa una carezza sulla testa alla bambina piccola. La mamma stacca la bambina piccola dal seno, si sistema, le batte sulla schiena, infine la volta tenendola seduta su una gamba proprio davanti alla bambina bionda, quasi per dargliela. La bambina bionda la fissa.

– Quanti anni hai? – dice la mamma di colore in un italiano incerto.

– Due, – dice la bambina bionda, facendo il segno con le dita.

– Ormai tre, – la corregge la nonna alle sue spalle.

– Come si chiama? – dice la bambina bionda indicando la bambina piccola.

– Si chiama Anele, – dice la mamma.

– E quanti anni ha? – dice la bambina bionda.

– Ha due mesi e mezzo, – interviene il papà, – è una bambina molto piccola.

La bambina bionda le avvicina la mano alla guancia e la accarezza ancora. La nonna ha sul viso un’espressione che pare dire «ecco l’Ebola». La bambina piccola, calmissima, sembra accennare un sorriso.

– Come si chiama di cognome? – dice la bambina bionda.

– Mbokany, – dice il papà.

La bambina bionda prova a dirlo, ma non ci riesce.

– È un nome difficile, – dice il papà. La bambina bionda prova ancora. La porta del pediatra si apre.

– Il prossimo! – dice il dottore.

La nonna si incammina e fa per entrare nello studio.

– Priscilla! – dice quand’è quasi sulla porta. – Vieni, dài.

Priscilla non si muove, continua a fissare la bambina piccola.

– Vai, che la mamma ti chiama, – dice l’uomo di colore.

Dalla porta la nonna guarda l’uomo.

– Sono la nonna, – dice con una punta di fastidio nella voce.

– Signora, credo volesse farle un complimento, – dico io.

L’uomo sorride, la nonna no.

Bokani! – dice Priscilla.

– Brava, – dice l’uomo, – ma adesso vai dalla nonna.

Priscilla obbedisce, entrano, la porta dello studio si chiude. L’uomo e io ci guardiamo. La signora riccia continua a digitare sul tablet.

– Non è che volevo fare un complimento, – dice, – è che nel mio Paese nonna e mamma si dicono nello stesso modo, e anche dopo quasi tre anni mi sbaglio sempre.

– Capisco. Io lo dicevo perché chiamandola mamma l’hai fatta sentire piú giovane, – spiego.

Giovane è un complimento? – dice.

– Di sicuro non lo è vecchio, – rido.

L’uomo mi fissa.

– Da noi i vecchi sono gli adulti piú rispettati, i piú preziosi, – dice. – Per questo durante la guerra li uccidono per primi.

Mi sento spiazzato, come se qualcuno avesse d’improvviso girato la mia testa in un’altra direzione.

– Ma se i vecchi sono piú preziosi, – dico, – allora perché mamma e nonna si dicono allo stesso modo?

Mi guarda con uno sguardo paterno, lo so perché lo riconosco.

– Perché mamme e nonne hanno dato la vita, – dice indicando prima sua moglie e poi sua figlia.

Penso che sia un concetto cosí elementare da sembrarmi meraviglioso. Guardo quest’uomo, la sua compostezza, lo ascolto parlare con misura e educazione, non una parola fuori posto. Penso pure che lui è lí con la sua famiglia, l’ha accompagnata. Mentre io, invece, sono dal pediatra da solo, e la bambina bionda è venuta con la nonna, e la signora riccia non ha mai sollevato la testa da quando siamo entrati.

Lo guardo e non conosco la sua storia, ignoro se sia arrivato qui su un barcone o su un jet privato, se faccia il lavapiatti o si sia laureato a Oxford. Ma non posso fare a meno di pensare allo sguardo della nonna di Priscilla, ai soliti discorsi sull’«invasione», a quelli che, senza farsi alcuna domanda, vorrebbero «aiutarli a casa loro». A quanto, invece, avremmo bisogno di persone come quest’uomo. Per guardare in altre direzioni. Per riscoprire i fondamentali.

Per aiutarci un poco a casa nostra.

C’è una mamma.

C’è una mamma.

La incontro al nido tutte le mattine. Prima non la incontravo mai. Forse ha cambiato orario lei, forse da un po’ sto anticipando io. È una mamma giovane, arriva in leggings e felpa, i capelli lisci raccolti sulla testa con un mollettone di plastica celeste. Mi sorride sempre. Guarda Melania e Ginevra che giocano a rincorrersi davanti agli armadietti, in attesa del nostro turno per entrare nella stanza dei piccoli. Poi si volta e mi sorride ancora. Mi sorride ogni mattina.

Io non so mai bene come prenderla. Non so se prendere il suo sorriso come sorriso di mamma oppure di donna. Non farebbe alcuna differenza, ma è solo per dire che le mamme e i papà vivono in una bolla che somiglia a una dimensione parallela. Il ruolo di genitore li assorbe quasi per intero, al punto che a volte si dimenticano di essere anche individui. Col fatto che vivo e lavoro sempre in casa, la mia è una bolla con le tapparelle abbassate. Al suo interno ci sono Paola e le bambine e basta. Non ho bisogno della luce del fuori perché dentro la bolla c’è tutta la luce che mi serve. Credo sia cosí per molti.

C’è una mamma. La incontro al nido tutte le mattine. Prima non la incontravo mai. Quando ci incontriamo sono spesso unto come una seppia, ho la faccia stanca per il poco sonno, indosso l’unica felpa che ho comprato negli ultimi sei anni, perennemente sbavata sulla spalla sinistra. Lei sembra sempre appena cascata dal letto, veste la sua bambina parlandole piano, come ultima cosa le sistema con cura i capelli. Io conosco la sua voce, lei conosce la mia, ma non ci siamo mai scambiati una parola. Io so perché non lo faccio. Perché, con quel che resta della mia vanità di uomo, preferisco sorrisi di donna a parole di mamma, o almeno mi piace immaginarli. Mi piace ricordarmi.

C’è una mamma. La incontro a casa tutte le mattine. Prima di conoscerla non l’avevo mai incontrata. Quando sono in studio che lavoro e sento la tapparella della camera alzarsi, poso il pennello e salgo le scale di corsa. Se è tornata a letto mi infilo sotto le coperte accanto a lei, certe volte è in bagno a fare la pipí e allora la aspetto. Per prima cosa mi chiede delle bambine. Io le dico tutto bene. Quando le dico tutto bene mi sorride piano, con la testa sul cuscino. Certe volte lo fa solo con gli occhi.

Il suo sorriso è di mamma e di donna insieme, ed è tutto ciò di cui ho bisogno.

Il papà stanco.

Stamattina ho incrociato un papà stanco.

Il papà stanco ha gli occhi rossi e gonfi, quello sinistro piú chiuso come se avesse preso un pugno. Ha la barba lunga e l’alito cattivo. Probabilmente ha dormito male. Forse non ha dormito affatto. Il papà stanco sbuffa, ha quell’aria da: «Ma perché tocca sempre a me portare i bambini a scuola?» Quell’espressione da: «Si stava meglio quando si stava peggio», quando le donne facevano solo le mamme e i papà uscivano di casa la mattina alle sette e li rivedevi la sera alle otto, dopo l’aperitivo al bar. Quando rientravano a casa e si doveva fare silenzio e c’era già tutto pronto in tavola. Le pantofole sulla porta e certe volte anche un bagno caldo. Quando l’unico dialogo coi figli prima del letto era com’è andata a scuola e da lí, nel giro di una manciata d’anni, si passava direttamente ai vaffanculo e alle porte che sbattono. Il papà stanco lo vedo che indugia. Ha lo sguardo assente. Si capisce bene che con la testa è già sul lavoro, sui soldi, sui problemi. Si guarda attorno come cercando una via di scampo. La luce del mattino che entra dalla finestra è una promessa che non gli spetterà. Il papà stanco pensa – son sicuro – che le cose cambieranno, che in fondo è solo una fase, che poi i figli cresceranno e diventeranno via via piú indipendenti e lui tornerà libero, anche dalle preoccupazioni. Invece le preoccupazioni di oggi saranno sostituite da quelle di domani, che non saranno migliori né peggiori, solo diverse. Non sarà pronto nemmeno allora. Anche domani dovrà improvvisare con ciò che avrà, pensando: «Ma se me l’avessero detto prima». Te l’avevano detto, prima. Ma saperlo prima non ti prepara. Saperlo prima non serve a niente. Il papà stanco fa un bel respiro, si passa una mano fra i capelli radi, tossicchia come a schiarirsi la voce e si dice: «Andiamo». Smette di fissare lo specchio, indossa un bel sorriso e va a svegliarle per la scuola.

Quando Ginevra mi salta in braccio al buio, senza nemmeno guardare, la stanchezza scivola via come acqua sulle piume di un’oca.

The day.

Oggi è il giorno.

Faremo finalmente la prova. Per la prima volta dalla sua nascita Melania verrà lasciata un intero pomeriggio a casa dei nonni Bussoli. Proprio lei, quella che se vede altri esseri umani sopra gli otto anni – che non siano la mamma, il papà o i nonni già collaudati – inizia a urlare cosí forte che potresti usarla come sirena fendinebbia al largo dello stretto di Bering. Per renderle la situazione piú agevole lasceremo in pegno pure Virginia, che è una di cui si fida. Mio padre ha già rispolverato il suo archivio di filastrocche in dialetto dei primi del Novecento, mia mamma nel dubbio che non mangi e per essere pronta a tutto da tre settimane fa la spesa e mi chiede: «E se le facessi…?» Io per non offenderla non le ho detto che basta avere in casa un sacchetto di patatine vecchie e che per corromperla è sufficiente un mini Magnum al cioccolato fondente, e sennò ciao. Paola ha cominciato ad andare in ansia dalla fine di agosto. Dell’anno scorso.

Tutto è stato studiato nei minimi dettagli. Arrivo a casa dei nonni Bussoli previsto intorno alle 14.30-15.00, giusto per stroncarle a metà il riposino pomeridiano e portarla lí già con un alto tasso di giovialità. Un’ora seduto sul divano con lei attaccata tipo cozza allo scoglio, la testa affondata nell’incavo del mio collo, mio padre a due centimetri che mi rintrona il timpano destro con un sonaglietto in legno del ’48 ripetendo: «E il nonno! E il nonno!» alla nuca di Melania. Paola si intratterrà amabilmente con mia madre sul loro argomento preferito: la meteorologia. Oggi dovrebbe toccare all’approfondimento de «La curva barometrica di Babson: la piovosità nell’autunno 2015 a paragone con quella della primavera dell’82». Le altre due figlie cercheranno di fare ambient creando un’atmosfera di rasserenante clima domestico: Virginia si esibirà ne «la torre piú altissima del mondo» coi mattoncini della Duplo, Ginevra farà il balletto del ghiaccio vestita da Elsa di Frozen usando un Kinder bueno della scorta segreta della nonna come bacchetta magica. Verso le 16.00 tenterò di alzarmi dal divano fingendo indifferenza, shifterò con delicatezza Melania alla mamma e faremo cambio. Paola si siederà sul divano con lei, mentre mio padre le causerà cecità temporanea facendo roteare in aria il suo caleidoscopio in ottone del ’56 canticchiando: «E il nonno! E il nonno!», e io riprenderò con mia madre il nostro argomento preferito: «Prolegomeni di fenomenologia fiscale», alternato all’immarcescibile: «Hai pagato il bollo della macchina?» Verso le 17.00 mio padre ci offrirà una delle sue pizze all’aglio tanto per gradire, Paola declinerà con eleganza che poi sennò, io per non offenderlo e compensare ne mangerò una teglia annaffiata da «tàsta ‘sto rosso amabile e beverino, fa solo diciannove gradi». E sarà lí, proprio in quel momento, mentre sono obnubilato dai fumi dell’alcol, che tenteremo con garbo la via della fuga. Paola darà un bacino sulla fronte a Melania cercando di staccarla dal mio polpaccio, Virginia le accenderà i cartoni mettendo la puntata di Peppa Pig quella di George col singhiozzo, Ginevra si toglierà l’abito di Elsa e indosserà quello da viaggio di Rapunzel. Mia madre mi guarderà con gli occhi iniettati di sangue e fintamente serena dicendo: «State tranquilli, santo cielo, è solo una bambina!», stringerà in braccio Melania urlante che le perfora il timpano sinistro, con mio padre che le fa perdere anche l’uso del destro agitando le sue maracas artigianali del ’72 in legno di faggio e riempite con sassolini di fiume e bossoli di pallottola, mentre urla: «E il nonno! E il nonno!»

Ci allontaneremo nella luce fioca del tramonto, solo Rapunzel nel seggiolino dietro che trattiene a stento la gioia di essere figlia unica per una sera, giusto in tempo per il nostro appuntamento in città alle 18.30, al quale arriveremo in ritardo perché poi trovalo tu il parcheggio in centro di sabato. Non saremo nemmeno arrivati alla curva della discesa che squillerà il cellulare. Risponderò senza neanche guardare il numero. Sarà mia madre che mi chiederà: «E se le facessi…?», in sottofondo un mercantile nella nebbia sullo stretto di Bering, la puntata di Peppa quella della vespa sulla torta di Papà Pig, il tutto avvolto dalle note di un organetto del ’73 mentre mio padre ci canta sopra «E il nonno! E il nonno!» sulla musica dell’Internazionale socialista.

Due di cuori.

Ogni mattina aiuto Ginevra a lavarsi la faccia.

Mentre la pulisco, canto. È cosí da quand’è nata. Canzoncine sciocche inventate da noi, con protagonisti nasini impiastricciati e occhietti crostoloni.

Oggi Ginevra, mentre le passavo l’acqua sul viso, mi ha detto con tono perentorio: – Papà, basta cantare! – Le ho chiesto perché. – Perché da quando sono grande non mi piace piú.

Virginia ieri è tornata dal suo primo pigiama party a casa di un’amichetta della scuola. È arrivata alle dieci del mattino con le cuffiette dell’iPod affondate nelle orecchie, scendendo dall’auto di altri genitori che, per me, erano solo altre persone che non ero io. Mi ha raccontato che con le tre amiche ha dormito in taverna su un enorme divano letto, restando sveglia fino a dopo mezzanotte.

Melania ha imparato a dire «ciao». Prima diceva «tao» oppure «’ao», ma la maggior parte delle volte sembrava incespicare nella parola per puro caso, senza coglierne davvero il significato. Adesso invece ti guarda negli occhi e ti dice: «Ciaoooo», correndo via frettolosa come se le stesse partendo l’autobus.

Primi segnali, orbite che si fanno piú ampie, piccole cose che cambiano per sempre.

Gibran in una nota poesia diceva che i genitori sono come l’arco dal quale, come frecce viventi, i figli vengono lanciati in avanti.

La cosa che Gibran non ha detto è che ogni figlio è una freccia a due punte. Quando la scocchi, la prima punta si allontana veloce da te, seguendo la propria traiettoria in un futuro che non ti appartiene. La seconda, invece, viene scagliata all’indietro e si conficca per sempre nel tuo petto di genitore. Per ricordarti che resterai arciere anche senza frecce, e che quel dolore che sentivi incombere come un presagio fin dal suo primo giorno, ora è qui per non andarsene piú e scandirà il resto della tua vita.

Ogni padre e ogni madre sono accomunati da una ferita che non si rimargina.

Quella ferita è piú forte perfino dell’amore che li ha uniti e li unisce. È cio che li ha trasformati da amanti in arcieri, da complici in reduci. E quella punta di freccia inestraibile è ciò che permetterà per sempre ai loro cuori, nonostante tutto, di continuare a battere come fossero uno.