L’attimo prima.
C’è questa cosa che sta arrivando la primavera e non voglio.
In giardino i primi uccellini cinguettano, è tornata la cornacchia nel bosco, ieri all’una del pomeriggio c’erano quindici gradi al sole.
Non amo la primavera, perché è un cliché. La vita che rinasce non m’interessa, sono per la vita che cova silenziosa sotto la cenere. Amo l’attesa del prima, la potenzialità latente, la sensazione del vuoto che precede il dispiegamento delle ali, la promessa che il freddo custodisce. Sono sempre stato affascinato dalle simbologie astrologiche – non dagli oroscopi. Il mio segno è considerato il segno d’acqua fisso dello zodiaco. L’acqua fissa è l’acqua ferma dello stagno, che si contrappone all’acqua corrente del fiume. L’ho sempre trovata un’immagine perfetta, che mi rappresenta in pieno. La vita brulicante sotto una superficie putrescente, immobile, senza alcuna increspatura. Quel che non vedi ma c’è, quel che non sospetti ma esiste. Il lavoro instancabile dietro al disegno del visibile.
La primavera è la vita che torna, sfacciata. L’inverno è la vita che cova, indomabile. La primavera è il pulcino che rompe il guscio dell’inverno. L’inverno è il pulcino che sogna la sua immagine mentre si forma poco per volta, si prende il tempo, respira sotto la neve intuendo appena la luce del mondo. La contrapposizione tra quel che è e il momento in cui tutto può ancora diventare.
Il bivio. Robert Frost l’attimo prima di scegliere la strada meno battuta, mentre si ferma qualche minuto nella locanda al limitar del bosco, sorseggiando un latte caldo al whisky e pianificando il proprio futuro in silenzio.
L’attimo prima del primo passo, nel primo minuto del primo giorno del resto della vita che stai per scegliere.
Il monopattino azzurro.
Ginevra e io stiamo scendendo le scale del nido. Abbiamo appena accompagnato Melania.
In fondo alle scale, subito fuori dalla porta, è posteggiato un monopattino azzurro. Ginevra lo fissa come si guarda una promessa.
– Papà, ma di chi sarà quel monopattino?
– Non lo so, Ginevra. Probabilmente è di un bambino che ha accompagnato il fratellino al nido e lo ha parcheggiato lí.
– Ma sai che c’era anche ieri?
– Lo avrà accompagnato anche ieri.
Attraversiamo il giardino. Sulla porta della materna Ginevra si ferma, si volta.
– Magari è morto.
– Non penso proprio, Ginevra.
– E tu come fai a saperlo?
– Perché i monopattini vanno sempre in cielo insieme ai loro padroni.
Mi fissa, sospettosa.
– Anche la tua macchina verrà in cielo con te, papà?
– Be’, sssí. A meno che tu non voglia che te la lasci.
– No no, portatela pure.
– Va bene.
– Lasciami solo un ghiacciolo e la mamma.
L’amore non si dice.
Paola non lo sa, ma io la osservo.
La guardo durante il sonno, mentre parla al telefono, quando scrive. Quando scrive risplende, anche se s’incastra in certe posizioni sulla sedia che manco un cormorano cieco. Qualche volta la sbircio nel riflesso dello specchio del bagno mentre si veste, come fanno quelli dei film romantici. Solo che io non sono nel letto che sonnecchio tra le lenzuola umide come Richard Gere dopo l’amore. Ma lí, tra la camera e il bagno, ci vengo apposta per guardarla.
Ogni giorno aggiungo qualcosa all’immagine della ragazza che in quel luglio si raccolse i capelli sulla testa e mi disse: «Andiamo», e io non sapevo dove e lei indossava solo un paio di shorts e una canottiera e negli occhi aveva diciott’anni o forse li avevamo entrambi e certi giorni li abbiamo ancora ed è quello che ci salva. A quell’immagine mi sono aggrappato un sacco di volte nei momenti difficili che, pure, ci sono stati. Perché le persone che ami stanno tutte negli occhi e nelle narici e basta. Certe volte nelle parole, il resto è un di piú.
Comunque non volevo dire dell’amore, perché penso che l’amore non si dice e dunque credo di aver finito. Solo una cosa, anzi.
Una volta ho letto che una coppia muore se non cresce insieme. Non è vero. Insieme non è fondamentale. Muore quando uno dei due non riconosce la crescita dell’altro. Le sue pause e i suoi tempi. Una coppia si fonda principalmente sulle attese, che è il motivo per cui molte persone si lasciano. Accettare che ci sia solo quel che c’è, certi giorni è devastante. Vorresti di piú, proprio in quel momento lí. A volte ti sembra quasi di essere solo nella stanza e ti chiedi dove sia finito l’altro.
Paola e io per esempio ci aspettiamo spesso. A volte ci sono io, a volte c’è lei, certi giorni non c’è nessuno. Quando ci incontriamo casuali come due che aspettano l’autobus sono i momenti piú belli, soprattutto perché l’autobus non arriva mai.
Nel frattempo abbiamo fatto tre figlie, realizziamo storie, paghiamo mutui, ridiamo. Ordiniamo un sacco di pizze a domicilio. Ci amiamo nei ritagli, negli angoli e in quel che rimane di tutto il resto. Perché la coppia è sí la base di una famiglia, ma come tutte le fondamenta resta spesso sepolta e non la vedi. Al punto che quasi te ne dimentichi e per continuare a sentirla devi possedere una fiducia visionaria. Paola e io ne abbiamo a pacchi e conosciamo pure qualche trucco: ci corteggiamo di striscio nei corridoi, ci incrociamo adolescenti tra la porta del soggiorno e quella della camera e io vorrei abbracciarla ma lei ha sempre in mano una tazza di tè piena fino all’orlo. Paola invece mi odia quando sto lavando i piatti o impanando cotolette e avrebbe voglia di abbracciarmi lei. Ci abbiamo gli abbracciamenti sfasati. Che in realtà è tutta un’inconsapevole tattica per render piú belli quelli inattesi.
Intanto io la guardo nei riflessi degli specchi, o quando scrive. Quando scrive risplende, anche se fa delle facce che manco un’iguana albina. La guardo anche mentre dorme e certe volte la faccio rotolare, perché russa come Popeye dopo una sbronza.
Ieri notte invece, che ho dormito da solo perché lei era via, mi son rotolato io e a lungo. Senza il suo russare mi sembra di essere a una festa quando è finita la musica, mentre mangi l’ultimo tramezzino rimasto con sopra la bandierina storta della Svizzera.
Però lei questo non lo sa, perciò non diteglielo.
Le cassiere dell’Esselunga leggono Bukowski.
Le cassiere dell’Esselunga ti guardano con quell’aria supponente, ben sapendo di essere l’unico filtro possibile fra te e la libertà.
Ti analizzano la spesa, indagatrici. Intuiscono chi sei da ciò che posi sul nastro trasportatore, alzando impercettibilmente sopracciglia.
Le cassiere dell’Esselunga per anni mi hanno ammiccato suadenti. Quando avevo l’aria da giovane single ribelle ma l’evidente sicurezza di uomo con un lavoro vero. Quando acquistavo casse di Tennent’s, pasta di Gragnano trafilata al bronzo, salmone e tonno per il sushi, caffè di marca.
Quando me li potevo permettere.
Oggi invece mi guardano meste. Osservano i miei abiti casuali e la mia pasta in offerta, i pacchi giganti di pannolini, gli omogeneizzati e le confezioni di latte per l’infanzia, con un’indulgenza crudele. Mi ricordano certe bagnanti che al mare guardano rassegnate l’acqua sporca.
Non appena ho pagato, pressano la mia spesa in un angolo con quella sponda mobile che somiglia a un enorme schiaccianoci. Poi mi lanciano pietose un paio di sacchetti di plastica ecologica, che si rompono regolarmente prima che io arrivi all’ascensore.
Oggi accade una cosa diversa.
La cassiera dell’Esselunga, mentre estraggo la spesa dal carrello, mi fissa con un’insistenza benevola. Non è un’impressione. Il suo sguardo si alza e abbassa su di me, per tutto il tempo.
La cassiera avrà poco piú di trent’anni. Capelli rossi raccolti con grazia dietro la nuca, pelle bianca lattiginosa. Di cera. Quando i suoi occhi incrociano i miei, non so se sentirmi lusingato o imbarazzato. Forse da qualche parte resistono residui del mio fascino da finto maudit di provincia, penso. Una patina che tre figlie e le notti in bianco e due mutui e pochi soldi non sono ancora riusciti a sbiadire del tutto.
Riempio l’ultimo sacchetto, con il mio ego di quarantenne appagato.
– Tu sei il Bussola, vero? – mi chiede cosí, a bruciapelo.
Sto per infilare il bancomat nella macchinetta. Mi cade.
– Ehm, sí, – dico.
Faccio gli occhi a fessura e la osservo, cercando di rintracciare sul suo viso un indizio qualsiasi.
– Ti leggo su Facebook, – dice d’un colpo.
– Ah, – dico.
– Scrivi molto bene, – dice.
– Grazie, – dico.
Fa una pausa. Prende fiato come stesse per confessarmi un segreto.
– La tua scrittura mi ricorda molto Bukowski.
– Eh. Tu sei un bel po’ troppo gentile. Io comunque, va detto, ormai ho smesso di essere un alcolista.
Sorride. Non sa che le ho appena svelato un pezzo di esistenza che conoscono in pochi. Forse anche per questo non so piú cosa dire. Non sono piú abituato a parlare con la gente e la mia timidezza reclama il suo dazio.
– Scusa, devo proprio scappare, – dico.
Saluto in fretta, prendo i sacchetti ed esco.
Fuori, sta per piovere. Apro l’auto di corsa e mentre sistemo tutto nel bagagliaio mi vengono in mente tre cose, in quest’ordine:
1. La situazione mi ha frastornato al punto che non le ho nemmeno chiesto il nome.
2. Magari scrivessi davvero come il vecchio Charles, ragazza.
3. Alla faccia di tutti i luoghi comuni: le cassiere dell’Esselunga leggono Bukowski.
Per un racconto sarebbe un bellissimo titolo, penso.
Quasi quasi lo scrivo davvero.
Essere genitori.
Stanotte non riuscivo a dormire.
Ho scovato il telecomando sotto le coperte e ho acceso la tivú. C’era una di quelle trasmissioni di terza serata, in cui alcuni scrittori e studiosi si confrontano su un argomento. Non sono riuscito a cogliere quale, ma a un certo punto uno che non so chi fosse ha detto una cosa che mi ha sconvolto.
Ha detto che non è mica vero che l’alcol denaturato è un disinfettante.
Sí, proprio quello rosa che da piccoli le mamme e le nonne ci mettevano sui tagli o ci premevano sulle ginocchia sbucciate. Non solo non disinfetta, ma è un irritante ed è pure tossico. Incredulo, sono andato a verificare in rete, e in effetti è proprio cosí.
Il che significa, in definitiva, che per centinaia di anni hanno sempre avuto ragione i bambini. Quando piangevano e dicevano che l’alcol brucia, avevano ragione loro. Brucia e basta, in maniera del tutto inutile. Ma nessuno li ha mai ascoltati.
Mi è sembrata un’immagine terribile, ma al tempo stesso simbolica e potente. D’un tratto, ho compreso meglio il senso di molte cose che scrivo.
I racconti delle mie figlie o dei nostri viaggi in macchina o delle loro visioni laterali e buffe sul mondo sono forse un tentativo di prestar loro ascolto. Di ricordarmi che il mio ruolo di adulto e di padre non è quello di avere ragione, ma quello di riconoscere le ragioni. Non è solo proteggere, ma è anche essere protetto. Non è solo guidare, ma anche lasciarsi condurre. Che i bambini non hanno ragione in quanto bambini, ma hanno diritto alle loro ragioni di bambini.
Che la parte piú importante e difficile dell’essere genitore è forse proprio quella di prestare attenzione, sempre, a non bruciare loro la pelle per niente, con le nostre fallibili ragioni di adulti.
La primavera non serve a niente.
In auto, andando all’asilo.
– Papà, ma perché la primavera viene una volta sola?
– Non viene mica una volta sola, Ginevra. Viene una volta l’anno, però torna tutti gli anni.
– Sí, la primavera è come Babbo Natale.
– Piú o meno, il concetto è quello.
– Solo che la primavera non porta i regali.
– Be’, dipende. Per esempio vengono le primule. E le viole. E il cinghiale nel bosco.
– E si può andare al mare.
– No, Ginevra, lo sai che al mare si va d’estate.
– Ma uffa, papà!
– Cosa c’è?
– La primavera non serve a niente.
Pesce d’aprile.
Il primo pesce d’aprile me l’hanno fatto nella primavera del 1983.
Mi avevano detto che piacevo alla ragazza bionda seduta in fondo. La ragazza bionda si chiamava Vittoria e fu il mio secondo amore. Il primo, Arianna, mi venne sottratto in quarta elementare dai suoi genitori, che si trasferirono in un’altra città.
Per Vittoria mandai in avanscoperta il mio amico Riccardo, perché comunque non mi fidavo ed ero timido a livelli patologici. Lo mandai a chiederle la conferma definitiva. Riccardo la avvicinò dopo la campana dell’una, mentre Vittoria stava rimettendo i libri in cartella. Le chiese dritto: «Ma è vero che ti piace Matteo Bussola?»
Io ero inginocchiato fuori dalla porta dell’aula, facevo finta di allacciarmi una scarpa. Lei mi vide e rispose guardandomi.
«No», disse.
Riccardo tornò a riferire ma io già sapevo. Mi rialzai e andai a prendere l’autobus facendo finta di ridere. In cortile c’era Antonio, era stato lui a dirmi che.
«Pesce d’aprile! Pesce d’aprile!» mi canzonò.
Continuai a ridere, che Antonio era piú grande di due classi ed era vietato incazzarsi con lui. Quando arrivai a casa, mia mamma aveva preparato gli gnocchi. Mangiai meno del solito e mi chiusi in camera. Lei venne a chiedermi se andasse tutto bene e io le dissi che una cosa a scuola era andata male. Lei capí subito. Nel pomeriggio mi regalò cinquemila lire per comprarmi un gioco che mi piaceva e io, in pieno trip da abbandono, qualche giorno dopo mi comprai la cassettina di Che male fa innamorarsi alla mia età di Julio Iglesias.
Ieri Virginia, mentre ero sul letto in attesa della puntata serale di Goldrake, mi ha appiccicato sulla schiena un pesciolino ritagliato da un foglio di carta. – Girati, – mi ha detto. Quando se n’è andata sogghignando, l’ho tolto. Sul pesce di carta c’era scritto: «Io amo la mamma della Vittoria». La Vittoria di cui parla Virginia è una sua compagna di classe. Quando ho letto il pesce di carta, un po’ mi è venuto da ridere. Sono andato in soggiorno e c’era Melania intenta a scarabocchiare il pavimento con un pennarello blu. L’ho tirata via e l’ho portata in camera con me. Lei è scesa dal lettone, è fuggita ancora in soggiorno, ha preso un pennarello arancione dalla scatola e ha ricominciato a scrivere sul pavimento. Ho pulito stamattina, mentre preparavo le colazioni per tutte e tre.
Sul tavolo c’era un altro pesciolino di carta ritagliato per metà con su scritto a matita: «Io amo papà».
È mia madre.
Sono in farmacia, c’è una lunga coda. Accanto a me un tizio sulla cinquantina, ben vestito, un fazzoletto annodato con cura attorno al collo e i capelli come Aldo Biscardi. Davanti a noi c’è un’anziana signora col velo. Lui mi fa un cenno col mento, come a dire: «Hai visto?» Io gli faccio un gesto con la mano come a dire: «Che?»
– Ormai semo circondé, – mi dice cercando intesa e indicando la signora col velo. Non lo dice a voce alta ma nemmeno piano, lo dice senza preoccuparsi che la signora davanti a noi possa sentirlo. Mi verrebbe da rispondergli: «Sí, dai coglioni come te».
– È mia madre, – gli dico invece.
La signora col velo si volta appena e mi sorride di profilo. Io mi gusto la faccia del tizio, la sua espressione in equilibrio tra un imbarazzo crescente e un turista coi sandali che ha appena pestato una merda di elefante.
Vorrei tanto avere uno smartphone e fargli una foto come promemoria, per ricordarmi sempre dove cazzo vivo.
Invece non ce l’ho e scrivo questo.
I colori dei maschi.
Stamattina abbiamo visto il bimbo del monopattino azzurro.
Ci siamo incrociati all’ingresso, mentre accompagnavamo Melania al nido. Noi stavamo entrando, lui usciva con la mamma tirando il monopattino per il manubrio. Avrà circa otto anni, è biondo, ha i capelli corti davanti e lunghi dietro come i figli dei tedeschi negli anni Ottanta. Ginevra lo ha guardato con sospetto e una punta di delusione.
– Hai visto papà? Non era mica morto, – mi ha detto sulle scale.
– Meno male.
– Sennò sai la sua mamma che triste.
– Già.
– E poi se era morto magari non sapevano a chi dare il suo monopattino.
– Sí, e poi azzurro è pure da maschio.
Si ferma su un gradino e mi guarda.
– Cosa c’è?
– Papà. Guarda che i colori sono solo colori, sai?
Poi è ripartita facendo la sostenuta e lasciandomi lí sulle scale, con Melania in braccio avvolta nel suo cappottino rosa e un sorriso da padre sulle labbra.
La festa della birra.
Paola è al supermercato. Le ho fatto la lista della spesa, voce per voce. Mi telefona.
– Dimmi.
– Senti, sono qui al discount e c’è un cartello con su scritto: «Festa della birra» e allora ti volevo chiedere se invece della birra quella…
– FERMA! Non prendere iniziative di alcun genere! Prendi quella che ti ho detto e basta, mi raccomando!
– Uff, ma io cercavo solo di essere gentile, eh.
– Scusa, hai ragione. Dài, dimmi meglio.
– Ci son le birre belghe in offerta.
– Mh.
– Ce ne sono di due tipi.
– Sí. Spiegami cosa vedi scritto.
– Una è bianca e una è gialla.
– Eh.
– Quella gialla è il volume sette, quella bianca il volume cinque. Quale ti prendo?
Rido.
– Guarda, lasciale pure lí, che i primi quattro volumi non li ho letti.
C’è quest’ora.
C’è quest’ora, in perfetto equilibrio tra il pomeriggio e la sera.
Quando il sole appare in bilico tra i pini e la collina, la luce entra pulviscolare dalla finestra, gli ultimi raggi proiettano lunghe ombre sul muro dello studio e fanno scintillare la bottiglia vuota di Franziskaner che uso come porta pennelli. Tutto si gioca nel giro di pochi minuti. La luce si affievolisce piano e accendo la lampada sul tavolo, i cani rientrano dal giardino per farmi intendere ch’è ora di cibo, sento piedini correre svelti al piano di sopra, Paola si prepara l’ennesima tazza di tè, che abbandonerà nel lavandino o appoggiata sulla libreria. Io comincio a pensare a cosa fare per cena mentre il pennello scivola sulla carta, quando il fuoco del tramonto si confonde per pochi secondi con la luminosità elettrica della lampadina, finché la mano accarezza volti africani e paesaggi rocciosi che prendono vita tra la luce e l’ombra, in perfetto equilibrio tra l’è stato e il sarà, nel mezzo del guado del potrebbe ancora essere. Poi l’occhio sceglie, la mano esegue, la china scorre, il sole scompare dietro i tetti delle case lasciando una scia prima arancione, poi viola, poi argento, poi tutto. Poi niente. Poi sera.
Il soldino.
In cucina, ore 7.30.
– Papà.
– Dimmi, Ginevra.
– Stamattina è meglio se tu non esci.
– Dici?
– Sí, è meglio se stai a casa, che sei malato e mi accompagna a scuola la mamma.
– Ah, se la mamma è d’accordo, allora va bene.
– Cosí almeno la mamma si abitua.
– A cosa?
– Che tanto dovrà portarmi sempre lei, quando tu sarai morto.
– Ginevra, io veramente spero che quando sarò morto tu le scuole le avrai tutte finite e avrai pure la patente da un pezzo, eh!
– Sí, ma se anche vuoi morire prima non ti preoccupare, sai, basta che me lo dici.
– Grazie, allora in caso ti scrivo un biglietto.
– Papà!
– Cosa?
– Io non so leggere!
– Ah, giusto. E allora come facciamo?
– Se muori, lasciami un soldino di cioccolata sul cuscino.
– Va bene.
– Di quelli grandi!
– Okay. Anzi, guarda, per sicurezza facciamo che te ne lascio due.
Mi viene un attacco di tosse, dura circa venti secondi.
– Papà.
– Eh.
– Uno me lo dài subito?
Il sentiero delle briciole.
Stamattina ho accompagnato le bambine a scuola e ho dato a entrambe due bacini, uno per Paola e uno per me. Sono andato in farmacia e ho comprato due medicine, una per Paola e una per me. Sono andato in panetteria a prendere una brioche vuota e una con la marmellata, la prima per Paola e la seconda per me. Poi sono tornato a casa, mi sono fatto il terzo caffè leggero e sono sceso in studio. Ho risposto a due mail urgenti, controllato il conto, preparato un foglio squadrato per una nuova pagina. Il pettirosso mi ha battuto come ogni mattina sul vetro, perché a quell’ora vede il suo riflesso nella portafinestra e se la prende con sé stesso. Gli ho aperto e gli ho tirato poche briciole di brioche, ma si è spaventato ed è volato via. Certe volte succede cosí anche con le persone, ho pensato. Quando apri loro la porta troppo in fretta, prendono paura e se ne vanno. Ho impugnato la matita e mi sono messo al lavoro con questo pensiero in testa, non so perché. Il pensiero è qui con me anche adesso, mentre disegno ricordandomi di due paure che hanno scelto di fidarsi l’una dell’altra senza scappare, di due porte che alla fine sono diventate una sola. Dietro quella porta è pieno di briciole, e a me piace pensare siano la testimonianza visibile della fatica che abbiamo fatto per costruire la strada verso casa, come un Pollicino all’incontrario. La casa contiene cinque vite e due percorsi, uno per Paola e uno per me. I due percorsi convergono in un punto, quel punto è essere qui. Da qui parte un sentiero comune di briciole che si perde nell’orizzonte di una fiducia visionaria, e si rinnova ogni giorno.
Per Paola e per me.
Daughter Go.
Suona il telefono, il numero non compare.
Me la rischio.
– Pronto?
– Pronto, buongiorno. Il signor Matteo Bussola?
– Sono io.
– Salve, signor Bussola. Sono Valentina di Sky.
– Buongiorno, Valentina.
– Senta, signor Bussola, io la chiamo per proporle un nuovo servizio che Sky mette a disposizione gratuitamente per i suoi clienti piú affezionati.
– Mi dica.
– Ecco, col nuovo servizio Sky Go, lei potrà vedere Sky sempre, ovunque, anche se dovesse cambiare casa o andare, per esempio, in vacanza.
– Ah, capisco. Non mi interessa, grazie.
– Ma come? Guardi che è un servizio utilissimo, sa?
– Sí, ma mi creda, Valentina. Uno: non ho in previsione di cambiare casa per i prossimi, diciamo, trent’anni. Due: non vado in vacanza se non una settimana al mare, a luglio.
– Ma è gratis!
– Va bene. Allora facciamo cosí. Mi convinca, la ascolto.
– Bene. Lei si immagini di andare in vacanza al mare come diceva. Ma non ha la tivú. Con Sky Go lei può accedere a tutti i servizi e alla programmazione di Sky, anche dalla spiaggia.
– Dalla spiaggia?
– Eh.
– Scusi, a parte che in spiaggia di solito leggo o mi seppelliscono nelle buche con la sabbia, ma se non ho la tivú, come lei dice, come la vedrei tutta la programmazione di Sky? Per magia?
– Be’, ovviamente sul suo tablet o sul suo smartphone abilitati.
– Ah, ma quindi è una roba di telefono. Allora niente, vede? Io non ce l’ho, uno smartphone.
– Come, non ha uno…
– Ho un Nokia del 2002. Me l’hanno regalato quando mi si è rotto il Motorola che mi avevano regalato alla laurea. Telefona e basta e mi ci trovo benissimo.
– E non ha nemmeno un tablet?
– Ma un iPad, dice? Sí sí, quello ce l’ho.
– E allora, vede?
– Sí ma, mi corregga se sbaglio. Se io sono al mare, col mio tablet e Sky Coso, devo avere un abbonamento telefonico funzionante, giusto? Insomma il mio tablet dovrebbe essere collegato a una rete cellulare.
– Be’, ovviamente.
– Ecco, io non ce l’ho.
– Come, non ce l’ha?
– Non ho una scheda cellulare attiva sul tablet, l’abbonamento mi costa troppi soldi. L’iPad lo uso solo da casa, connettendomi in automatico alla rete domestica.
– Scusi, ma. Allora a cosa le serve? Il tablet, per definizione, è un dispositivo portatile. Sarebbe come se lei avesse un cellulare e lo usasse solo per chiamare da casa.
– Ah, ma portatile è portatile, eh? Infatti lo usiamo principalmente sul lettone, per guardare i filmini di Peppa Pig su YouTube.
– Ecco, perfetto! Vede? Con Sky Go lei potrebbe guardare Peppa Pig sul lettone, sempre sul tablet ma da Sky, accedendo a molte piú puntate!
– Sí. Ma nella camera dove c’è il lettone ho già una tivú. Con Sky. Dunque, a che mi servirebbe guardare Peppa Pig sul tablet da Sky se posso guardarla su Sky dalla tivú? Sempre sul lettone, s’intende.
– Scusi, ma se lei può già guardare Peppa Pig su Sky dalla tivú, perché la guarda invece su YouTube dal tablet?
– Perché alla tivú su Sky guardiamo Dora l’esploratrice.
– Scusi, non capisco.
– Valentina.
– Mi dica.
– Lei non ha figli, vero?
– No.
– Immaginavo. Senta, le faccio una proposta.
– Una proposta?
– Ne vuole mica una?
– Scusi?
– Ne vuole una, di figlia? Gliene mando una direttamente a casa. In prova e senza impegno.
– A casa?
– Sí. È portatile, eh.
– Ma…
– Può portarsela pure al mare, se vuole, al mare funziona benissimo anche senza abbonamento.
– Guardi, signor Bussola…
– E le garantisco che in spiaggia, se se la porta, vedrà delle cose che con Sky Coso se le sogna e potrà accedere a tutta la sua programmazione di giochi. In altissima definizione, eh.
– Arrivederci.
– Aspetti, è gratis!
Click.
Non ho fatto in tempo a dirle che poteva pure sceglierla fra tre misure diverse.
Speriamo richiami.
Vivere – per – sempre (I morti vanno in cielo con la macchina?)
Stamattina dovevo essere su un treno per Milano, e invece no.
Sono quasi piú contento, perché cosí ho potuto portare le bambine a scuola anche oggi.
Mentre eravamo in auto, abbiamo incrociato un carro funebre. Ginevra ha cominciato a chiedermi cosa fosse quella macchina strana, perché fosse tutta nera e lunga. Ho cercato di spiegare meglio che potevo, ma non sembrava convinta del tutto.
– Ma allora i morti vanno in cielo con la macchina? – ha detto.
– No, Ginevra, – ho detto, – in cielo ci vanno senza.
– Ma perché le persone muoiono, papà? – ha detto a un certo punto, dal nulla.
– Perché è cosí, – mi è venuta come unica risposta. – Ma per fortuna è una cosa che è uguale per tutti.
Ha fatto una lunga pausa guardando fuori dal finestrino, poi ha ricominciato.
– Papà, – ha detto, – io voglio vivere per sempre.
– Eh, ma non si può.
– E perché?
– Perché non si può.
– Sí, ma perché?
Per aiutarla a capire ho cercato un’immagine.
– Ginevra, – ho detto. – Facciamo finta che la vita sia come una pizza. Tutti nasciamo che abbiamo fame, e a ognuno di noi viene data la sua pizza. Vivendo, la mangi un pezzettino per volta, una fetta tutti i giorni. Ciò che conta non è quanto grande sia la pizza, ma solo che alla fine tu non abbia piú fame, capisci che intendo?
– Io prendo sempre la pizza col prosciutto, – ha detto.
– È vero, – ho detto, – e la lasci sempre a metà perché per te è troppo grande e diventi sazia prima di averla finita. Perciò, che senso avrebbe che ti portassero una pizza che non finisce mai?
Si è zittita per qualche secondo, poi mi ha guardato.
– Papà, – ha detto, – tu hai ancora tanta fame?
– Sí, – ho detto, – direi ancora abbastanza.
– Ma cosa c’è sulla tua pizza? – ha detto.
– Ci sono le cose che ho scelto, – ho detto.
– Ci sono anch’io?
– Sí.
– E anche la mamma e la Virgi e Melania?
– Certo.
– Sulla mia pizza invece c’è tutto il mondo, – ha detto, – perché io ho solo quattro anni.
Due anni.
Oggi Melania compie due anni.
Verranno a trovarci i nonni e cucinerò solo cose che piacciono a lei. Riso coi piselli e prosciuttini, polpette di carne e patate, ci sarà una torta al cioccolato. È dalle sette di mattina che le canto «Tanti auguri a te» e il risultato è che ora sfreccia per la casa nel suo pigiamino rosso urlando: «Atté! Aaaaatté!» con la stessa intonazione di uno starnuto.
Stamattina mi sono alzato prima delle cinque per lavorare alle pagine e compensare il tempo che perderò oggi per la festa, dato che ho la consegna alla fine della settimana prossima.
«Perderò» è un termine inesatto, perché tutto il tempo speso con lei da quand’è nata è stato solo tempo guadagnato.
La verità infatti è che non mi sono svegliato prima delle cinque per portarmi avanti col lavoro, ma perché portarmi avanti col lavoro mi consente di poter passare piú tempo con lei.
Oggi che è la sua festa, vale per due.
Come i suoi anni, che sono ciò che dà valore e senso ai miei.
Posso, papà?
Salendo in auto per andare all’asilo.
– Papà, posso portarmi due soffioni dente di leone dal giardino?
– No, Ginevra, in macchina no.
– Ti prego, uno solo!
– No, perché poi tu lo soffi in macchina come l’ultima volta e i semini si appiccicano tutti ai sedili.
– E ci sporchiamo anche i vestiti.
– Appunto.
Mentre usciamo dal cancello, guarda fuori dal finestrino.
– Papà.
– Eh.
– Allora posso un merlo?
Il disegno per la scuola.
Virginia stava facendo un disegno per la scuola.
Ci lavora da quasi una settimana e avrebbe dovuto consegnarlo stamattina. Ieri sera, mentre eravamo su Skype con la mamma da Milano, Melania si è intrufolata nella cameretta di Virginia, è salita sulla sedia della scrivania, ha preso un pennarello e ha completato l’opera dipingendo tutto il cielo con ampie spirali di verde. Virginia prima si è arrabbiata, poi ha pianto, poi voleva che le scrivessi una giustificazione per la maestra. Non l’ho fatto e, in accordo con la mamma, le ho detto che purtroppo avrebbe dovuto rifare il disegno per intero, perché era sua responsabilità non lasciarlo incustodito con i pennarelli a vista e senza tappo – cosa alla quale continuiamo a ripeterle di prestare attenzione – ma soprattutto perché, se si fosse concentrata invece di lamentarsi, avrebbe avuto tutto il tempo. Mi ha chiesto un foglio di quelli belli e ha ricominciato il disegno sbuffando, alle sette di sera. Alle otto abbiamo cenato e ha proseguito subito dopo. Mentre ero in camera a guardare su YouTube un tutorial su come si fanno le trecce, con Melania che saltava sul lettone e Ginevra che guardava i cartoni, Virginia veniva a mostrarmi gli step intermedi prendendo sempre piú fiducia. Ogni volta la incoraggiavo. Ha smesso verso le dieci ed è andata a letto col cielo a metà. Ha ultimato il disegno stamattina, prima di fare colazione, alzandosi mezz’ora prima del solito. Quando lo ha finito, è venuta a mostrarmelo di corsa mentre stavo vestendo Melania. Aveva gli occhi che le brillavano e un’espressione incredula sul viso. Il disegno era molto accurato, ha voluto che lo fotografassimo con l’iPad e mi ha fatto promettere che oggi lo avrei inviato alla mamma.
– Papà, è venuto molto piú bello di prima, è stato quasi meglio che Melania me lo abbia rovinato! – ha detto alla fine, tutta fiera.
Sono stato molto fiero anch’io, perché oggi Virginia ha appreso una lezione importante. Ha imparato come non arrendersi e come si reagisce di fronte a una situazione difficile, senza perdersi d’animo. Che quando ti scarabocchiano il foglio e sei costretto a ripartire da zero, non è mica sempre un male. Che certe volte, quando ti sembra che la vita ti stia rovinando i piani, magari è semplicemente perché ha in serbo qualcosa di meglio.
Ma quel meglio dipende sempre da te.
Il cuore delle ragazze bionde.
Sono seduto nella sala d’attesa di uno studio medico. È piena di gente. Siccome lo avevo previsto, mi sono portato l’iPad. Per passare il tempo mi metto a scrivere.
Accanto a me si è appena seduta una ragazza bionda. Sui venticinque, indossa una felpa arancio con scritto «Aloha» sul davanti e un vistoso berretto azzurro calato fin quasi sugli occhi. Sta masticando una gomma o una caramella che fa un profumo buonissimo.
La ragazza sbircia quello che sto scrivendo, o cosí mi sembra. Allora scrivo: «La ragazza sbircia quello che sto scrivendo», e dopo tre secondi la sento ridere.
– Non è vero che sbircio, mi è caduto l’occhio solo un attimo, – dice. – E comunque non sono bionda.
– Che sei bionda l’ho scritto per confondere le acque e proteggere la tua identità.
– Per proteggerla da chi?
– Non si sa mai. Metti che poi pubblico questo scritto su Facebook e lo legge tuo padre che non sa che sei dal dottore.
– In effetti, non lo sa.
– Visto? Adesso cambio pure la felpa arancio con un maglione a collo alto turchese.
Ride.
– Cosa scrivi?
– Scrivo un diario.
– Ma dài, che bello. Come a scuola. Anch’io tenevo sempre i diari. Una volta.
Lo dice con un’aria di irrecuperabile rimpianto, come avesse mille anni. Fissa l’iPad in equilibrio sulle mie ginocchia, poggiato sopra la copia di un fumetto che ieri Paola mi ha portato dalla redazione.
– Sei un lettore di «Dylan Dog»? – dice.
– Sono uno dei disegnatori, – dico.
– Davvero? Giura! E chi sei?
Le dico il nome.
– Scusa, sai, ma io non ti ho mai sentito.
– Lo so, lo so. È che la mia storia uscirà nel 2027, se mai riuscirò a finirla. Fino ad allora sarò in incognito, dunque tienilo per te.
Ride.
– Le ultime storie sono abbastanza belle, – dice. – L’ultima mi è piaciuta molto. Quella disegnata cosí strana.
– Il cuore degli uomini?
– Sí.
– Disegnata cosí strana è una splendida definizione.
– Scusa, so che non riesco a spiegarmi bene, – dice. – È che i disegni li guardi e subito ti sembrano brutti. Però, dopo un po’, capisci che è proprio per quello che sono bellissimi. Non riesco a dirlo meglio di cosí.
– Mi pare che tu lo abbia detto benissimo.
D’un tratto si apre la porta dello studio medico. Non esce nessuno.
– Serughetti! – dice una voce da dentro lo studio.
La ragazza si alza di scatto e mi passa davanti. Si toglie il berretto appena prima di entrare. La sua testa è completamente priva di capelli. Tutti la fissano.
– Te l’avevo detto che non sono bionda, – dice voltandosi verso di me.
– Poco male. Tanto neanch’io disegno «Dylan Dog», – dico guardandola.
Ride.
– Mi ci metti lo stesso nel tuo diario? Anche se non sono bionda?
– Solo se vuoi.
– Sí, – dice un attimo prima di sparire dentro lo studio e richiudersi la porta alle spalle.
La cravatta.
All’asilo con Ginevra. Mentre le abbottono il grembiulino ci passa davanti un padre in completo scuro e cravatta, stringe una ventiquattrore nella mano destra. Esce.
– Papà, ma perché tu non hai la cravatta?
– Perché non mi serve, Ginevra.
– Ma perché gli altri papà ce l’hanno?
– Be’. Perché loro non fanno i disegni per lavoro.
– Ma perché tu fai i disegni?
– Forse perché non amo le cravatte.
Mi guarda seria.
– Le cravatte fanno schifissimo!
– Giusto!
– Papà.
– Eh.
– Il nonno domenica al mercato te ne ha comprata una arancio.
Salvarsi tutti i giorni.
Ogni mattina mi alzo alle 5.05.
In realtà mi sveglio circa un quarto d’ora prima, ma resto nel letto con gli occhi spalancati. Quando la sveglia a led rossi sul comodino di Paola segna le 5.05, allora mi alzo.
Vado in cucina, metto su la moka, poi scendo ad aprire ai cani cosí possono uscire in giardino. Risalgo, verso il caffè nella tazza con gli elefanti gialli, metto cinque biscotti in un piattino. Torno in studio al buio, cercando di non uccidermi sulla scala a chiocciola.
Lavoro dalle 5.05 alle 7.05. Disegno assorto nel silenzio, a volte in sottofondo c’è il respiro di Garrett che russa nella cuccia, altre c’è la musica classica su Radio 3 che ascolto a un volume bassissimo. Ascoltare la musica a un volume bassissimo trasforma le onde sonore in una specie di frequenza primigenia, come un battito cardiaco. La melodia passa in secondo piano, quasi non si sente, emergono con chiarezza i timbri, le percussioni. I bassi. Il ritmo. Quel ritmo lí mi aiuta a tenere il tempo del lavoro, diventa misura del segno sulla carta, che a sua volta si fa partitura delle vibrazioni, quelle che ascolto dalla radio e quelle che mi vengono da dentro. Il disegno è sempre una questione di sintonizzarsi. Perché il disegno, come la scrittura, ha a che fare prima di tutto col mettersi in ascolto. In pochi capiscono che non è quasi mai questione di dire, ma di dare. Di farsi strumento, cassa di risonanza, per qualcosa che a ben guardare in effetti gia c’è, e basta solo srotolarlo come fosse una tenda.
Ogni mattina mi alzo alle 5.05. È cosí da anni, ho un’ipotesi sul perché.
La scritta rossa 5.05, sulla sveglia a led luminosi di Paola, con i tipici caratteri squadrati degli orologi al quarzo, io la leggo sempre come: S.OS. Esseoesse. Nella mia fantasia, è una richiesta di soccorso che viene da un’altra dimensione, come un messaggio dentro una bottiglia scagliata in mare aperto.
So che se mi alzo alle 5.05, da qualche parte nell’universo, sto salvando qualcuno. Ho scoperto solo da poco che quel qualcuno sono io.
Svegliandomi alle 5.05 mi salvo ogni mattina, perché le due ore tra le 5.05 e le 7.05 sono le piú proficue di tutta la giornata. Quando il mondo ricomincia, io sono già di buonumore, anche se all’orizzonte si profila una giornata di merda, perché sento di aver già fatto un pezzettino del mio. Come se ogni giorno mi portassi un pochino avanti, quasi vivessi con un orologio interiore che segna un’ora legale di due ore piú indietro, avvantaggiandomi sul normale scorrere del tempo.
Alle 7.05 salgo a svegliare Virginia. Poi Ginevra. Infine Melania. Quando tiro su Melania dal lettino e me la stringo addosso e mi appoggia la testa sulla spalla, nei trenta secondi prima di posarla nel lettone, proprio dentro l’abbraccio della mamma che la attende come una conchiglia, lí mi salvo una seconda volta, tutte le mattine.
La seconda volta non ha mai un orario preciso, ma è quella la volta che conta.
I soffioni.
– Allora stasera finalmente tagliamo l’erba…
– No, papà!
– No?
– No, se tagli l’erba rovini tutti i soffioni!
– Eh, Ginevra. E come facciamo, mica possiamo girarci attorno.
– Aspetta!
– Cosa?
– Vado fuori e li soffio tutti, poi quando ho finito ti chiamo!
La mamma dorme sempre.
In auto, andando all’asilo.
– Papà, ma perché la mamma dorme sempre?
– Ma non è mica vero che dorme sempre, Ginevra. È che la mamma lavora spesso di notte, mentre noi dormiamo. Allora qualche volta dorme di piú alla mattina, quando noi invece siamo svegli.
– Sí, la mamma è come i gufi.
Rido.
– Ma non può lavorare di giorno come te?
– Be’, qualche volta lo fa. Però dice che di giorno la disturbano: suona il postino, le telefonano, le scrivono, la chiamano i nonni, oppure io ho bisogno di chiederle delle cose. Invece di notte c’è piú silenzio e si concentra meglio. E poi al pomeriggio vuole stare con voi.
– Sí, e deve aiutare la Virgi a fare i compiti.
– C’è anche il fatto che la mamma preferisce lavorare di notte perché in fondo le piace, secondo me.
– Papà.
– Sí?
– E poi cosí di notte non ti vede.
Il bambino fumettista.
Esco a comprare la carta.
In cartoleria, davanti a me, c’è un bambino. Sui dieci anni, forse undici. Magrolino, poco alto per la sua età, indossa una t-shirt verde delle Ninja Turtles e delle braghe di un verde piú chiaro con i tasconi laterali. Ha i capelli corti tutti sudati.
– Anche una gomma pane e un album, però di carta ruvida, – dice. – E una squadretta, che mi serve per le vignette.
La cartolaia scompare. Lui mi guarda. Mi avvicino al bancone.
– Le vignette? – dico. – Devi fare un fumetto?
Mi fissa con uno sguardo a cavallo tra «ma i cazzi tuoi no» e «brutto maniaco».
– Sí, – dice. – Per la scuola. Solo che a disegnare io non sono mica tanto bravo.
– Non c’entra, – dico. – Per fare i fumetti non serve essere bravi a disegnare, sai?
Ora lo sguardo è a metà tra «ma sei scemo» e un barlume di interesse.
– Davvero, – dico. – Quel che conta è la storia. Tu pensa a quello che vuoi raccontare, poi il disegno vedrai che ti viene.
Mi fissa, indeciso se fidarsi o no.
– Io volevo fare una storia su delle scarpe.
– Bello, – dico. – Che scarpe?
– Delle scarpe che se te le metti sai il karate.
– Interessante.
– E poi quando te le levi torni normale.
– Mi pare una bella storia, – dico. – Però guarda che le scarpe sono difficili da disegnare. Mettici quelle senza lacci, mi raccomando.
– Io i lacci non li so disegnare.
– Io non so disegnare le scarpe.
– A me le scarpe vengono abbastanza.
– Le scarpe vengono solo a quelli bravi a disegnare, – dico.
Mi sorride. La cartolaia gli consegna in mano un sacchetto, lui paga, mi saluta ed esce quasi di corsa. Lo vedo dalla vetrina saltare in sella alla bici.
– È un bravo bambino, – dice la cartolaia.
– Ne sono sicuro, – dico.
– Cosa le serve?
– Due album di carta Fabriano F2.
– Liscia o ruvida?
– Ruvida. Ora che ci penso, mi dia anche una squadretta, che mi serve per le vignette.
La cartolaia mi fissa, perplessa.
– Devo fare un fumetto, – dico.
Il biscotto.
In auto, andando all’asilo. Stiamo facendo manovra per uscire dal garage.
– Papà, papà, ma quelli lí sono trampoli?
– Eh? Cosa?
– Quelli lí appoggiati al muro!
– Ma no, Ginevra. Quelli lí sono i binari del portapacchi.
– I binari?
– Sono dei perni, insomma, dei ferri. Li usiamo quando andiamo al mare. Li mettiamo sul tetto della macchina e, sopra, ci avvitiamo un grandissimo baule, dentro il quale mettiamo tutte le cose che ci serviranno per la spiaggia: l’ombrellone, i braccioli, la sdraio, i giochi eccetera.
– Papà.
– Sí.
– Quest’anno al mare voglio che facciamo un castello grandissimo!
– Va bene.
– Però ricordati di portarmi anche le palette.
– Sí, Ginevra, non ti preoccupare.
– E poi mi devi comprare le bandierine.
– Le bandierine?
– Le bandierine da mettere sui tetti del castello!
– Ah. E come le vuoi, le bandierine?
– Le bandierine da castello.
– Sí, ma di che Stati le vuoi?
– Eh?
– Di quali Stati.
– Eh?
– Le vuoi dell’Italia, della Francia, della Spagna, di cosa?
– Della Russia!
– Della Russia? Perché proprio della Russia? Ti piace?
– Mi piacciono le decorazioni che ci sono sulle case della Russia.
– E dove le hai viste le case della Russia, scusa?
– Le ho sognate. E lo sai che in Russia ci sono anche le tigri, papà?
– Ah. Be’, in effetti, in certe zone sí.
– Papà.
– Dimmi.
– Ma quest’anno al mare possiamo prendere la stessa casetta dell’anno scorso?
– Eh, Ginevra. Non so se riusciremo a farci dare proprio la stessa. Ogni anno siamo stati in una diversa, sono bungalow tutti vicini e ci dànno quello che ci dànno. In ogni caso sarà praticamente uguale, te lo prometto.
– Ma io voglio quella!
– Perché? Che cos’ha di particolare?
– Perché dentro il cassetto della mia cameretta ci ho nascosto un biscotto.
– Un biscotto? Oddio, Ginevra, hai lasciato lí un biscotto dall’anno scorso?!
– Sí.
– Ma guarda che dopo un anno non sarà sicuramente piú buono, eh? Sarà diventato vecchissimo.
Fa una lunga pausa.
– Sí, – mi dice. – Magari sarà morto.
Segnarsi per quest’anno al mare, eventi:
1. Castello di sabbia grandissimo.
2. Cercare bandierine della Russia.
3. Funerale al biscotto.
Il serpente.
Sono uscito a buttare l’immondizia e c’era un serpente.
Un biacco, di sicuro. Non molto lungo, penso un cucciolo. Era sulla strada.
Conoscendo i vicini ho capito che era spacciato. Perciò ho fatto una cosa che prima di Paola non avrei fatto manco in mille vite: sono entrato in casa, ho indossato due guanti da cucina uno sopra l’altro, ho preso la pinza da camino, sono uscito.
Il serpente era ancora lí, quasi nella stessa posizione. Mi sono avvicinato piano, ho respirato forte, e con mossa fulminea l’ho pinzato per la coda. Lui s’è subito spaventato e ha cominciato ad agitarsi e attorcigliarsi che sembrava in preda a un attacco epilettico. Io mi sono cagato addosso perché, per un attimo, mi ha attraversato l’idea che non fosse un biacco, che di serpenti ne capisco quanto di calciatori. Sono arrivato al bosco in due secondi netti, correndo come un pensionato con la canna da pesca inseguito da un assassino, e l’ho buttato in un cespuglio.
Poi sono entrato in casa, ho cercato su Google «sintomi dell’infarto» e dopo due minuti «come prendere un biacco».
Mai prenderli per la coda, dice. Perché «non appena si sentono afferrati, se non gli bloccate la testa con l’altra mano possono elargire dolorosi morsi».
Ecco, per fortuna ho incontrato l’unico biacco pirla del Veneto.
Del resto, come si dice: per riconoscerne uno, ce ne vuole un altro.
L’elastico.
Ieri Virginia mi ha chiesto: – Papà, ma se tu e la mamma vi lasciate, chi è che tiene due figlie e chi una?
Ero in cucina, stavo affettando le cipolle, la domanda mi ha colto di sorpresa.
– In che senso, Virginia?
– Siamo tre sorelle, – ha detto, – la terza sorella non potete mica dividerla a metà!
Mi è venuto da ridere. Stavo per risponderle: «Non ti preoccupare, amore, la mamma e io non ci lasceremo mai», ma non volevo mentirle, perché so che ogni relazione s’inventa ogni giorno, e il torto piú grande che puoi fare a te stesso, e agli altri, è proprio quello di crederti invincibile.
– Virginia, – ho detto, – se per caso la mamma e io un giorno ci separassimo vi vedremmo tutte e tre, un po’ io e un po’ la mamma, non ti preoccupare.
– Ma in Mrs Doubtfire il papà vedeva i bambini solo il sabato, – ha detto.
– Virginia, certe volte quando due genitori si lasciano possono succedere delle cose, – ho detto. – Magari non si sono lasciati bene, ma litigando. Ma la mamma e io siamo d’accordo che, anche se ci lasciassimo, voi verreste sempre prima di tutto. Hai capito? Sempre.
Mi ha fissato in silenzio.
– Papà, – ha detto d’un tratto. – Ma l’amore può finire?
Ci ho pensato un attimo prima di rispondere.
– L’amore non finisce, – ho detto, – sono le persone che cambiano.
– Le persone?
– Virginia, anche gli adulti crescono, sai? Tu adesso sei una bambina grande, sette anni fa eri una bambina piccola. Funziona un pochino cosí anche per le mamme e i papà. Io quando ho conosciuto la mamma ero una persona diversa, lo era anche lei. L’importante, quando due persone si amano, è riuscire a cambiare insieme o a rispettare i cambiamenti dell’altro. I genitori, con i figli, fanno proprio quella cosa lí, invece fra loro certe volte non ci riescono. È per quello che l’amore verso i figli è l’unico che non finisce mai mai.
– Ma tu, – ha detto, – quando hai incontrato la mamma, come hai fatto a sapere che era la mamma?
– Non ho capito.
– Come hai fatto a capire che volevi amarla?
– Ah, quello, – ho detto. – L’ho capito dopo circa dieci minuti.
– E da cosa?
– Quando ci siamo incontrati la prima volta, si è sollevata i capelli dietro la nuca, sopra la testa, e si è fatta uno chignon senza neanche un elastico, solo annodandoli.
– E allora?
– E allora lí ho capito che lei aveva disperatamente bisogno di un elastico. E io dei suoi capelli.
– E tu ce l’avevi, l’elastico?
– No, ma quando la mamma lo ha scoperto ormai mi voleva già bene.
– Papà, – ha detto. – Ma allora l’hai imbrogliata!
– Forse un pochino, – ho detto, – ma il punto è che la mamma è stata la prima che mi abbia mai fatto venire voglia di cercare un elastico, capisci che intendo?
Mi ha guardato per qualche secondo.
– Tieni, papà, – mi ha detto sfilandosi l’elastico che le teneva su i capelli. – Cosí tu e la mamma non vi lasciate.
Lei ha riso, io per fortuna stavo affettando le cipolle.