La parte giusta.

Stanotte ho sentito un rumore.

Erano le quattro e dormivamo con la finestra aperta. Mi sono tirato su nel buio, mi sono infilato la maglietta alla rovescia e sono uscito in corridoio. Ho acceso la luce del bagno per vederci e sono entrato in camera delle bambine. C’era Ginevra seduta in un angolo del letto, le ginocchia raccolte sotto il mento. – Papà, – mi ha detto, – mi porteresti una bottiglietta di acqua piú fresca? – Mi ha dato in mano la bottiglietta, ho fatto scorrere l’acqua in bagno, l’ho vuotata e l’ho riempita di nuovo. Mi sono seduto di fianco a lei, ha bevuto, ha voluto che le sistemassi il letto e ha ricominciato a dormire. A quel punto ero sveglio e sono andato in cucina. Ho preso una schiacciatina e un caffè e sono sceso prima in studio, poi in giardino. Mentre bevevo il caffè al buio, seduto sul muretto, mi sono venuti a trovare i pensieri. Le solite cose da padre e da quarantenne, i problemi di soldi, il lavoro da inventare ogni giorno, quanto mi piacerebbe un computer nuovo. Quarant’anni alle quattro di mattina li senti di piú. A quell’ora può capitarti di voltarti indietro e scorgere un paio di rimpianti piccoli che nell’oscurità s’ingigantiscono, o un pugno di ricordi belli che ti spaccano il cuore. Poi mi sono accorto che l’albicocco che abbiamo appena piantato era un po’ secco, allora ho riempito una bacinella d’acqua e gli ho dato da bere. È stato guardando l’albicocco che mi sono ricordato di una cosa. Mi sono ricordato di quando fra cinque anni mangeremo le albicocche del nostro giardino. Me ne sono ricordato perché il mio sguardo è stato per un attimo quello di un quasi cinquantenne che si volta indietro, si ricorda l’albicocco, si ricorda con una punta di malinconia come sono stati i primi frutti e i sorrisi delle bambine. Oppure no, magari l’albicocco morirà e diventerà un ricordo triste. Ora però, seduto al buio sul muretto – ho pensato – io sono un quarantenne che guarda avanti. L’albicocco è qui e deve ancora crescere. Lo guardo e non vedo un rimpianto, né un ricordo, vedo solo un obiettivo. Mi viene in mente quest’immagine di un senso unico trafficato in cui c’è un uomo che deve attraversare sulle strisce. L’immagine mi porta un pensiero. Il pensiero è che quel che conta, quando ti avventuri su una strada, che tu sia al volante o che tu stia attraversando a piedi, è solo ricordarsi di guardare dalla parte giusta.

Non succede niente.

Paola è dai suoi con le bimbe, io devo fare la spesa.

Scendo in giardino e apro il cancellone, saluto il vicino che sta estirpando le erbacce dall’orto. Salgo in auto. Giro le chiavi nel cruscotto e non succede niente. Riprovo. Non succede niente. Riprovo. Il motorino di avviamento emette una specie di rantolo come i gangster nei film – quando gli sparano e fra le braccia dell’amico devono sussurrare un’ultima fondamentale verità – poi muore. La mia verità è che la batteria è a terra. Considero le opzioni: potrei chiamare l’elettrauto e farlo salire fin qui per farmi ripartire la macchina, ma sarebbero venti euro solo per l’uscita. Oppure Paola ha i cavi nella sua auto, tornano dopodomani, in fondo si tratta di attendere quarantott’ore. In un impeto di bucolico entusiasmo mi dico: «Massí, il supermercato è solo a tre chilometri, e poi devo prendere quattro cose, che vuoi che sia». Afferro il borsone giallo, scendo, risaluto il vicino nell’orto, che mi ha guardato per tutto il tempo con un’aria da «guarda che se l’accendi va piú veloce», e m’incammino.

All’andata, la strada è in discesa, per il primo chilometro mi sembra di essere in un film di Gene Kelly, c’è perfino la musica di Gershwin in sottofondo. A metà del secondo chilometro comincio a sentire il caldo. A metà del terzo mi sento come Vince Vaughn in True Detective, nella puntata in cui si fa a piedi il deserto dopo che gli hanno sparato. Quando entro al supermercato, la mia maglietta verde chiaro è diventata verde scuro. Incrocio lo sguardo di una nuova commessa con la treccia, giovane e carina, e riesco solo a pensare che da oggi mi ricorderà per sempre come il Vecchio Quello Tutto Sudato, ma confido che la scritta «King of Cool» sulla t-shirt mi renda ai suoi occhi il mago dell’autoironia. Butto dei limoni nel cestello e proseguo verso il reparto carni. Ci sono i fusi di pollo in confezione da sei, massí. Prendo una busta di grana, un pacco di spaghetti, i gelati. Un barattolino di acciughe. Poi accade: leggo «offerta» vicino a «birre». L’offerta scade oggi. Considero che al ritorno saranno tre chilometri in salita, che ho già rischiato l’enfisema all’andata, in discesa e privo di carico, ma una voce uguale a quella del sergente di Zack Mayo in Ufficiale e gentiluomo mi urla nella testa: «Candidato Bussola, stia dritto nel fango!» Metto cinque birre da mezzo litro nel cestello, facciamo sei. Una lattina di scorta di birra «Birra», che si sa mai. Arrivo alla cassa. Riempio il borsone giallo. Pago.

Quando esco, il sole delle undici mi bacia in fronte come una promessa. La promessa dice: «Aspetta che prendo i pop-corn». La mia camminata somiglia a quella di Gnaghi mentre trascina un cadavere. Dopo la prima curva non mi sento piú il braccio destro. Dopo la seconda, non mi sento piú il sinistro. Dopo la terza non mi sento piú e basta. Le birre tintinnano nella borsa, canzonandomi crudeli. In un impeto di genio cerco di mettermi il borsone sulle spalle tipo zaino, desisto solo dopo aver rischiato lo strangolamento per la quinta volta. Quando passa un Ape Car celeste, per un secondo penso di buttarmi a peso morto sul cassone dietro, ma la voce del sergente Foley mi urla nella testa: «Due cose sole vengono dal Veneto, tori e leghisti!» e in un moto di bovino orgoglio mi ripiglio. Quando sono piú o meno a metà della salita, decido di fermarmi a rifiatare un attimo al bar della Marisa, in fondo che vuoi che sia. La Marisa oggi non c’è, al bancone c’è la figlia. Le chiedo se mi può tenere i gelati in frigo finché sto seduto. Ordino una birra piccola e lei invece mi arriva con una media chiarissima, che «questa è nuova, la devi assolutamente assaggiare, si beve col pepe!» Col pepe. A ’sto punto portami una calibro nove carica, penso, ma non riesco a esplicitare il pensiero. Riparto e faccio il resto della salita in un quadro di Salvador Dalí. Davanti a me, tra le gocce di sudore che mi offuscano gli occhi tipo cataratta, vedo solo orologi che si sciolgono, alberi che cercano di afferrarmi, tigri volanti che emergono dalla bocca di pesci pagliaccio con i denti da vampiro. A meno mezzo chilometro, vedo passare Francesco Moser in skateboard. Gli ultimi trecento metri li faccio spinto unicamente dal garbo veneto. Quando avvisto casa sono tutto tinta unita, perfino la maglietta verde è diventata bordeaux. Il vicino dell’orto mi guarda dal balcone, gli faccio un cenno con la testa come a dire: «Tranquillo, un’oretta di camminata la consigliano anche i medici, che anno è, che giorno è, questo è il tempo di vivere con te». Apro il cancello, faccio le scale impiegandoci un quarto d’ora, rotolo sul divano spesa e tutto. Chiudo gli occhi mentre in testa mi rimbomba la voce di Nando Martellini che urla: «Campioni del mondo! Campioni del mon…» Li riapro sbarrati. Mi viene in mente che i gelati sono rimasti dalla Marisa e che ho dimenticato di comprare il burro.

Considero le opzioni.

Piuttosto mi preparo un sorbetto col sapone Palmolive alla mela verde, e tento la via della margarina facendo cagliare direttamente il basilico.

Quattro.

Sono tornate a casa tutte e quattro e sono filate subito a dormire, mentre io sono giú in studio che lavoro con l’orecchio teso.

Una l’ho messa a letto senza pantaloni. Una senza il suo orsetto marrone. Una senza una calzina.

Una senza di me.

La gatta.

Melania non dice piú solo: «A!»

Adesso dice anche «Iiiih» per dire sí, che una volta su dieci quando imbrocca la s diventa: «Scííí», e allora lí scatta l’applauso. Poi dice «Búbbu» per dire i cartoni. Infine dice «Cóa!» per dire ancora. Ancora cosa, non si sa, può essere ancora acqua, ancora patatine, «Tirami su, vecchio, non lo vedi che voglio sedermi di nuovo sul tuo sterno? E imparati l’italiano, che è ora».

L’unica parola comprensibile, che scandisce (quasi) correttamente, l’unica parola inequivocabile che ha scalato la sua personalissima top five di passioni, scalzando dalla testa perfino la mamma, è: «Tótta!»

«Tótta» è qualsiasi prodotto dolciario, dalle caramelle, ai flautini al latte, alla cioccolata dell’uovo di Pasqua, a una coppetta di budino. Ma la «Tótta» definitiva resta l’imbattuto plumcake del discount. Il plumcake del discount, ovvero il plumcake «Plumcake», è giallo paglierino, quando lo scarti odora di fieno e miele e formaggio Philadelphia. Ha una confezione azzurrina che lo fa somigliare ai mezzi pacchetti di crackers che ti portano all’ospedale. Glielo devo aprire, ma senza buttare la confezione, che deve rimanere sempre a vista. Poi lo devo scollare dalla barchetta di carta che funge da involucro interno, però senza estrarlo del tutto. Lei lo afferra, lo incide da un solo lato col dentone a rostro, infine lo sbriciola meticolosa in circa un centinaio di pezzi. Terminata l’operazione, raccoglie le briciole e se le lancia in bocca come coriandoli il martedí grasso.

Finita la «Tótta», Melania ti guarda e ti snasa. Lo snasamento si è evoluto rispetto a un tempo. Oggi oscilla tra: «Dammi l’acqua», «Voglio mezzochilo di patatine ma nel piattino dell’elefante», «Desidero subito un blocco di grana, anzi del prosciutto, facciamo due würstel», «Tirami fuori dal seggiolone, ho detto tirami fuori dal seggiolone, ho-detto-tirami-fuoriiii!», «Tutti i pennarelli qui, ora!», «Dove sono quelle cazzo di pentoline?», «Per finire una cotoletta con patate fritte, grazie».

Quando mi morde il naso e ride significa che è proprio contenta. Quando mi morde il naso e ride sono proprio contento anch’io.

Quando mi si addormenta sulla pancia la sera, poco dopo la cena, le mangio di dosso le bricioline di cotoletta o di plumcake come una gatta che lecca il suo cucciolo per pulirlo. Poi la sollevo appena, mi avvicino all’orecchio e le sussurro: – Melania, andiamo a fare la nanna? – e lei tira su di poco la testa e senza aprire gli occhi mi dice: – Scí.

Mi alzo tenendola stretta, percorriamo piano il corridoio, la adagio nel lettino, le sistemo le gambe e le accarezzo i capelli. Quando accosto la porta della cameretta finisce la mezz’ora migliore del mio giorno, ogni giorno. Con una piccola fitta di nostalgia che si fa ogni sera piú forte, la felpa sbavata sempre dalla stessa parte, che ormai pare fatta apposta cosí, e una voglia terribile di plumcake alla cotoletta che mi auguro non passi mai.

Cyrano.

La prima volta che mi sono rotto il naso, è stato il giorno in cui ho compiuto dodici anni.

Eravamo a una festina delle medie, la festina era la mia. La mansarda, con le luci stroboscopiche e i faretti blu e rossi e i cartoni delle uova incollati sul soffitto per insonorizzare, era una meraviglia. Ci avevamo lavorato a lungo e bene, appendendo alle pareti i poster di Gazebo, degli Spandau e dei Police, pareva una vera discoteca casalinga.

Io stavo ballando con Lara, alla quale sapevo di piacere. Sapevo anche che il mio amico Riccardo – che era il padrone di casa – aveva una gigantesca cotta per Mariarosa. Quel che Riccardo non sapeva, era che Mariarosa non aspettava altro che lui le chiedesse di ballare. Non che fossi cosí intuitivo, è che Lara me lo aveva appena confidato. Da dietro i suoi capelli, scrutavo entrambi: l’insopportabile indecisione di Riccardo e la sofferenza speranzosa di Mariarosa.

Quando partí Careless Whisper non ebbi dubbi, dissi a Lara: – Un attimo, – mi diressi correndo verso lo scemo del mio amico, avendo ben chiaro il concetto che stavo per illustrargli con decisione. Qualcosa come: «Se non la inviti ora, smetto di passarti i compiti di Storia per sempre».

Ero ormai a un solo metro da lui, quando sulla traiettoria della mia falcata incrociai suo fratello. Quindici anni, alto una testa piú di me, torace e spalla ingessati a causa della recente frattura della clavicola. Nel semibuio intermittente della mansarda, mi sfracellai di faccia contro il suo gesso come una Cinquecento su un muro di mattoni. Caddi all’indietro e persi i sensi, finendo riverso nel mio stesso sangue.

Quando mi svegliai, Riccardo non aveva ancora ballato con Mariarosa. In compenso, il mio profilo sembrava quello di Pippo Franco. Mi portarono al pronto soccorso e tutto, ma erano i primi anni Ottanta e in quegli anni quel che ti facevi ti tenevi, a meno di non essere in pericolo di vita. Il mio naso restò cosí.

Sette anni dopo, me lo ruppi per la seconda volta durante un incontro di karate. Filippo mi spazzò via la guardia con un ura mawashi geri da manuale, che mi centrò in pieno viso facendomi volare lungo. Cadendo sul tatami, udii distinto il pop della cartilagine del naso. Quando tornai a casa, col kimono bianco che pareva la bandiera del Giappone se l’avesse dipinta Pollock, mia madre mi disse: – Forse è meglio che ricominci ad andare in bici.

Non feci in tempo, perché mi trasferii a Venezia.

Lí, durante la mia prima festa delle matricole, scivolai su un ponte a causa del ghiaccio – e del vin brulé – e caddi di faccia su uno scalino. Quella fu la terza volta che mi distrussi il naso, anche se me ne accorsi davvero solo la mattina dopo, svegliandomi a casa della ragazza bionda che abitava al Campo delle Girandole.

L’ultima volta è stata undici anni fa.

Avevo appena conosciuto Paola, ma non ci eravamo mai visti. Era ancora la fase in cui ci scrivevamo e basta e lei mi considerava un inoffensivo coglione, zeppo di inutili faccine.

Una sera di giugno di quel periodo, in un noto bar di Verona, uno fece una battuta sbagliata al mio amico Silvio. Io con gli amici sono molto protettivo e gli risposi dritto, con la mia innata e reattiva – ehm – capacità di sintesi. Il tizio se la prese un po’ per scherzo e un po’ no, e si abbassò di colpo mimando una testata nella mia direzione. La mimò cosí bene che inciampò e mi centrò dritto sul naso. Volarono un paio di schiaffi privi di convinzione e dopo mezz’ora stavamo bevendo due gin tonic seduti sulle scale. Lui mi raccontò che era epilettico e mi chiese una sigaretta. Io gliela diedi, lui la annusò forte e poi se la infilò dietro l’orecchio.

– Scusa ancora per il naso, – mi disse.

– Ma se ti viene un attacco mentre sei sbronzo? – dissi io.

– Resto sbronzo, – disse lui.

– Ah, ecco, – dissi.

Tornai a casa col naso gonfio e alle due del mattino scrissi a Paola.

Fu la prima volta che mi rispose subito.

Una settimana dopo uscimmo insieme.

L’amore sono tanti.

Stamattina, mentre eravamo in auto, Ginevra mi ha chiesto dell’amore.

– Papà, – ha detto cogliendomi di sorpresa, – ma due donne possono sposarsi?

Prima di rispondere ci ho pensato molto bene, avrei tanto voluto che al mio posto ci fosse la mamma.

– No, – le ho detto per non mentirle, – nel nostro Paese no, però possono volersi bene e vivere insieme.

– Come te e la mamma? – ha detto.

– Sí.

– Ma perché non possono sposarsi?

– È un discorso difficile, Ginevra, – ho detto. – In certi Paesi possono, da noi ancora no.

– A Sant’Ambrogio possono?

– No, Ginevra, non intendevo paesi paesi, intendevo Stati come l’Italia.

– Ma io a Sant’Ambrogio ho visto due ragazze che si baciavano.

– Non c’è niente di male, Ginevra. Tutti, se si vogliono molto bene, possono baciarsi.

– Anche i maschi?

– Se si vogliono tanto bene, sí.

Ha fatto una pausa che pareva una rincorsa.

– Papà, – ha detto, – ma quando si sposano due donne come fanno a volersi bene?

– Come fanno tutte le persone del mondo, – ho detto. – Col cuore.

– Dentro al cuore c’è il bene?

– Dentro al cuore c’è tutto.

– Perché?

– Perché il cuore è come un grande armadio, Ginevra, – ho detto. – Ci sono dentro le persone che hai scelto, poi ci sono il ripiano dei baci, i cassetti degli abbracci, gli appendini degli sguardi, gli scaffali del male e quelli del bene. Tutto.

– Melania ha il cassetto dei lecconi sulla faccia!

– Vero, – ho detto ridendo.

– Papà, – ha detto.

– Cosa?

– Nei cuori ci sono anche l’amore, vero?

– Sí, ma non si dice ci sono, Ginevra. Si dice c’è, l’amore è singolare.

– Non è vero! – ha detto seria. – L’amore sono tanti.

Mi sono zittito e non l’ho corretta piú, perché l’amore sono tanti anche secondo me.

Il corriere.

Sabato mattina presto, sono giú in studio, suonano.

Vado a vedere. È un corriere con un pacco. Il corriere è un baldo giovanotto con una barbetta affusolata e un berretto di Spiderman. Il pacco, dalle dimensioni, sembra un libro e penso di sapere quale.

– Paolo Barbato? – mi chiede il corriere.

– Paola, – dico io.

Mi guarda strano.

– Intendo dire che Paola è mia moglie. Cioè, non è mia moglie, ma insomma, il pacco è per lei, – dico.

– E lei come fa a sapere per chi è il pacco? – dice.

– Me lo ha appena detto lei, scusi, – dico.

– Io le ho detto che è per Paolo Barbato, – dice.

– Sí. E io le ho detto che c’è un errore, il nome è Paola Barbato, – dico.

– Io qui ho scritto «Paolo», – dice.

– E invece è Paola, – dico.

Se ne sta lí davanti a me, indugiando col mio libro in mano. Mi fissa perplesso. Io sono uscito in canottiera, fa un po’ freschino e voglio tornare dentro.

– Va bene, allora sono io, – dico.

– È lei Paolo? – dice.

– Sí, – dico.

– E non poteva dirlo subito? – dice.

– È che mi vergogno, è un nome che non mi piace, – dico.

Mi guarda interrogativo. Mi passa l’affare elettronico con la penna attraverso il cancello chiuso.

– Firmi, – dice.

Firmo. Mi consegna il pacco. Gli ridò l’affare elettronico.

– Chi è Matteo Bustolo? – dice.

– Bussola, – dico.

– Chi è Matteo Bussola? – dice. – Non era mica Paolo Barbato, lei?

– Senta, – dico. – Il pacco contiene un libro. Se vuole indovino il titolo senza nemmeno aprirlo. Sul campanello c’è scritto «Bussola-Barbato». Chi sarà mai Matteo Bussola?

Mi guarda strano.

– Sua moglie? – dice.

Cinque cicatrici (L’abitudine di restare).

Ho cinque cicatrici.

Una me la feci a tre anni ruzzolando per le scale. Sbattei forte col mento contro uno spigolo, il mento si aprí a metà. Ogni tanto Virginia mi dice: «Papà, mi fai vedere la cicatrice sotto la barba?», io alzo la testa e lei fruga fra i peli della barba e guarda la cicatrice, poi mi chiede se fa male.

La seconda è sul torace, frutto di un lungo intervento chirurgico di quando mi esplose un polmone in una sera d’estate. Ci dormii su per tutta la notte pensando a un dolore intercostale, invece era un polmone che mi era collassato sul cuore. Sopravvissi per un misto d’intuizione e tempismo e perché il secondo medico mi prese sul serio, anziché rimandarmi a casa con due compresse di Voltaren come aveva fatto il primo.

La terza cicatrice è sul medio della mano destra, che mi affettarono con un coltello quand’ero giovane e troppo stupido per capire che certe volte vinci proprio quando perdi.

La quarta e la quinta non si vedono, ma sono le uniche cicatrici che fanno ancora male.

Dalle prime tre non ho imparato niente, dalle altre invece sí.

Ho imparato che quando le cose finiscono non è necessariamente colpa tua, ma che, se tieni distanti gli altri nel tentativo di proteggerti, allora non puoi pretendere di riprenderteli quando d’un tratto ti senti pronto tu. Che la vita è quel che accade, anche se è fatta di quel che scegli. E con quel che accade hai in genere solo due alternative: abbracciarlo con tutto te stesso oppure andare via.

Ho a lungo creduto che la libertà che serve fosse quella di un marinaio sempre pronto a prendere il mare. Invece oggi so che la libertà che scelgo e la forza che conta, quell’orizzonte che sentivo di dover cercare ogni volta piú lontano, non si fondano sull’attitudine a partire.

Ma sull’abitudine di restare.

La cena.

La cena a casa nostra.

Metto le polpette davanti a Melania. – Gno! – e spinge via il piatto. Comincia a puntare il toast della sorella. – Cchío! Cchío! – (traduzione: anch’io! Subito! Affamatori!) Virginia le allunga pietosa metà del suo toast. Melania lo sbriciola in trecentosettantasette pezzi, scopre che dentro c’è il prosciutto, lo succhia, scende dalla sedia e corre via. Si alza anche Paola. – Dove vai? – chiedo. – La seguo, ho paura che si butti dal balcone, – e corre via anche lei. – AVEVO DETTO CINQUE OLIVE FUORI E TRE DENTRO! – urla Ginevra al suo panino. Poi mi guarda con un occhio fucsia e una mano già pucciata nei trucchi giocattolo e mi dice: – Vado a farmi bella! – si alza e se ne va. Virginia abbandona la sua palla di Philadelphia ciucciata e il suo mezzo toast e mi dice: – Devo fare la pipí! – e se ne va pure lei, e quattro.

Resto a tavola da solo nel giro di quindici secondi, nel tripudio della briciola, con lo stesso intimo senso di solitudine del tizio del tonno Insuperabile. Mi caccio in bocca mezzo toast sbavato, faccio una palla mista di Philadelphia, molliche di pane, grasso di prosciutto, insalata, presso tutto in gola e sparecchio mentre sto ancora masticando. Torno indietro e ingollo le polpette di Melania spremendomi in bocca un po’ di senape dal tubetto, mentre guardo la fine della puntata di Peppa Pig quella di Nonno Cane con la barca.

Poi dice che ti viene la gastrite e diventi introverso.

Il solletico.

Stamattina Ginevra e io ci siamo svegliati alle cinque.

Ieri ha fatto i capricci per addormentarsi e si è lamentata a intermittenza per tutta la notte. Prima aveva caldo, poi freddo, poi sete, poi prurito. Verso le quattro e mezza ha cominciato a dire di avere male ai piedi. Quand’ero piccolo anch’io avevo dei mal di piedi fortissimi, che hanno costellato di lamenti ogni visita a ogni museo d’arte europeo, per la gioia di mio padre, che credeva sempre esagerassi. Cosí le ho preso i piedi tra le mani e li ho massaggiati a lungo. Non è servito, perché Ginevra rideva, dicendo che le facevo il solletico. A quel punto eravamo svegli entrambi ed era inutile costringerla a dormire, perciò ci siamo alzati, ci siamo vestiti in bagno e siamo andati in soggiorno. Ci siamo buttati sul divano e abbiamo guardato un po’ di cartoni sgranocchiando biscotti. Ginevra era molto contenta, perché i cartoni che ci sono a quell’ora sono diversi da quelli che dànno la mattina piú tardi. Ieri sera ci siamo scordati di abbassare le tapparelle e in soggiorno c’era una luce tenue, simile a quella di quando, da bambino, ti svegliano presto per partire per il mare. È stata la prima alba che abbiamo visto insieme da quand’è nata. Ginevra indossava la sua maglietta celeste nuova di Peppa Pig e la accarezzava come fosse un cucciolo. A un certo punto si è voltata e mi ha detto: – Papà, vuoi che ci svegliamo sempre insieme tutte le mattine, solo noi due? – Io ho sorriso perché sapevo che, grazie alla levataccia, stasera si addormenterà alle nove e domattina dovrò svegliarla con le cannonate per accompagnarla in montagna dai nonni. – Vedremo, – ho detto. È lí che Virginia è piombata in soggiorno arruffata e umida dicendo: – Ti sei dimenticato di me? – e Melania si è svegliata nel lettino intonando un Brilla brilla la stellina fatto solo di vocali. Sono entrato in cameretta e l’ho tirata su e mi ha appoggiato la testa sudata su una spalla. Virginia è andata in bagno a lavarsi i denti. Ginevra ha chiesto un flautino e, mentre davo il latte a Melania, mi guardava con una complicità adulta, come custodissimo un segreto.

In macchina, mentre andavamo a fare la spesa, si è tolta i sandali e si toccava i piedi.

– Papà, adesso i piedi non mi fanno piú male, sai? – ha detto.

– Bene, – ho detto.

– Però il solletico ce l’ho ancora, – ha detto, – e mi viene da ridere.

Nello specchietto guardavo lei e Melania masticare un pezzetto di crostata rimasto sul sedile da sabato.

– Anche a me, – ho detto.

Toi, tu la connais?

Mi scrive un editor francese di fumetti che non sento da circa un anno.

Il senso della conversazione, in francese stretto, è piú o meno quello qui sotto.

– Ullallà, profiterole! Te l’avev détt che mi sarei rifatt viv, n’est-ce-pas?

– Aléalé, con càlm, eh. Che non ti véniss il fiatòn.

– Sént, donc, siccòm in pràtic non abbiam trovàt nisciún, ti andrébb di fàr delle pròv per quest nuov prosgétt? Scioè, sia chiàr, te lo chied pourquoi abbiam pròpr pròpr pensàt à toi da immediatement, eh?

– Ahahah, merci. Son contént che avét pensàt à moi, mais, al moment, je suis impegnàt con un’altra pròv e con un àlb italién. Sciavét propr frétt frétt?

– Hai détt italién? Scioè tu vorrést paragonàr un prosgétt italién con una propòst internasionàl della nostr très grand maison editríc?

– Non, moi non è che volév paragonàr, sol che al momént son impegnàt, tutt’ici.

– Mais pour quànt?

– Eeeh, pour quànt, tutt l’an di sicúr. Ma miním miním, eh?

– Quind lo prénd comment un: «No, merci?»

– Eh oui, purtròpp.

– Che italién sciàltron de merde!

– A soreta.

– Scús?

– Mes respects à ta soeur.

– Toi, tu la connais?

– En Italie, tutti.

Gli occhi da cane.

Paola mi ha sempre detto che ho gli occhi da cane.

Gli occhi da cane sono quegli occhi dal taglio leggermente all’ingiú, che conferiscono allo sguardo, nonostante tutto, un’espressione di vaga e indelebile malinconia – che poi è quella che gli incauti scambiano per profondità, e invece. Io so che questa cosa è un complimento, perché Paola ama i cani piú di tutto. Ma ogni volta che ci penso mi viene da ridere: mi viene in mente che a volte magari crediamo di innamorarci di qualcuno perché è sensibile, o bello, o gentile, o perché corrisponde ai nostri bisogni, o perché è arrivato al momento giusto. Invece capita che lei si innamori di te perché hai gli occhi da cane, o perché quando ridi ti viene una fossetta sola, a sinistra. E tu di lei perché ha le orecchie tonde come quelle dei cartoni animati. O perché, ogni volta che la vedi ridere, ti viene una fossetta sola.

A sinistra.

La Marisa.

Stamattina sono uscito senza fare colazione.

Il fatto che le due figlie maggiori siano in montagna mi ha sfasato i ritmi, e quando mi sono ritrovato in auto mi

sono accorto che non avevo nemmeno preso il caffè. Perciò mi sono detto ’fanculo alla miseria e mi sono fermato al bar della Marisa, intenzionato a drogarmi di cornetto e caffè doppio. Quando sono sceso dalla macchina ho incontrato sulla porta la Marisa intenta nelle pulizie, la scopa in mano, il locale deserto e le tapparelle mezze abbassate. Mi sono ricordato, d’un tratto, che di lunedí il bar è chiuso.

– El végna, el végna lo stésso, – mi ha detto la Marisa, – ch’el me fa compagnia.

Mi ha fatto accomodare e mi ha portato una brioche alla crema e un succo all’albicocca, che la macchina del caffè ce l’aveva spenta e, anche se insisteva, non ho avuto cuore di fargliela accendere solo per me. Mi si è seduta di fronte con quell’aria di stanchezza consapevole che hanno le signore di quella generazione lí e tutte le mamme dopo i sessanta. Mi ha raccontato per l’ennesima volta la storia della sua vita, di come abbia tirato su tre figli da sola, di come sia riuscita a comprare il bar dopo aver fatto la mondina, la calzolaia, l’ortolana e infine l’operaia, in un grande stabilimento al Sud, per dieci anni. Quasi un’emigrata all’incontrario.

Mentre finivo la brioche, buonissima, pronto a chiederne una seconda lanciando sguardi languidi al cabaret di delizie che faceva bella mostra di sé sul bancone, mi è venuto un pensiero.

– Marisa, – ho detto, – ma com’è che ci hai le paste e le brioche anche il giorno di chiusura?

– Eeh, parché un po’ par abitudine e un po’ parché el panettièr l’è un sémo che nol capísse gnente, – ha detto. – E comunque qualcosa ghe ne fàsso sempre, dài.

È stato a quel punto che è arrivato, facendo il suo ingresso come John Wayne in un saloon, un ragazzo nero carico di borsoni, alto quasi due metri. È entrato nel bar senza preavviso, come fosse casa sua. Io ho pensato subito ecco, stiamo per assistere alla solita tragedia del «no me serve gnente, el vàga via che gh’è chiuso», come minimo.

– Marisa! – è esploso il ragazzo nero, – hai visto che bella giornata?

– Eh sí, almànco non te ciàpi mía ancòra l’acqua sula testa, stèla bèla, – gli ha detto la Marisa alzandosi.

Il nero ha posato le borse a terra, ha aperto la zip di una e ne ha estratto un contenitore di cartone pieno di accendini colorati tipo bic, di quelli piccoli.

– Come lo vuoi, oggi? – le ha chiesto.

– Dàmelo aràncio, dài, – gli ha detto la Marisa.

La Marisa ha preso l’accendino in mano guardando il nero da sotto in su, e lo ha posato su una mensola di fianco al bancone dove ci saranno stati, giuro, qualcosa come cinquanta accendini di tutti i colori. Poi ha sollevato il cabaret di paste che c’erano in bella vista, le ha messe in un sacchetto di carta coi manici, ci ha aggiunto dentro una bottiglietta di minerale e ha consegnato il tutto al ragazzo. Lui ha fatto un sorriso che ha mostrato una fila di denti bianchissimi, ha preso la borsa con le paste, si è caricato di nuovo i borsoni sulla schiena, ha ringraziato la Marisa e ha infilato la porta senza nemmeno chiedermi se volessi comprare qualcosa.

– No magnàrle tute ensième, Mamúr! – gli ha urlato la Marisa alle spalle.

Mamur, mentre salutava con la mano, stava già addentando la prima.

La Marisa è tornata da me e mi si è seduta vicino, cogliendo subito il mio sguardo interrogativo.

– Eeh, l’è che i àcendini no iè mai abastànsa, – mi ha detto scuotendo la testa.

– Sí, – ho detto.

Poi mi è partito il tic all’occhio sinistro come quando sento che sta per venirmi da piangere e la Marisa mi ha chiesto se volevo un altro succo ma io le ho detto di no, che dovevo proprio andare.

Sopra le nuvole.

Mi telefona Ginevra dalla casetta in montagna dei nonni.

– Papà, sai che qua c’è il sole?

– Sono contento, patata, qui invece pensa che c’è un po’ di nebbia.

– Perché qui non c’è?

– Perché lí siete piú alti della nebbia, è come se foste sopra le nuvole.

– Ma va’, le nuvole sono nel cielo!

– Sí, intendevo che se la nebbia fosse una nuvola, voi sareste piú alti ancora.

– Papà, ma se io mi tuffo su una nuvola cosa succede?

– Che caschi giú, perché la nuvola è fatta di vapore.

– E se salto sopra alla nebbia?

– La nebbia è uguale alla nuvola, non puoi saltarci sopra.

– Uffa, papà!

– Ginevra, non è colpa mia, se non si può non si può.

– Passami la mamma che lo chiedo a lei, tu non mi fai mai fare niente.

La scatola (Vita con Paola).

Vivo dentro una scatola.

La scatola ha un coperchio. Il coperchio ha piccoli buchi. Dai buchi entrano l’aria e poca luce. L’aria e la luce mi fanno venire voglia di fare cose. Certi giorni, la voglia di fare cose mi assale come un’onda. Allora tolgo il coperchio alla scatola, che si trasforma in barca. La scatola naviga spinta dalle onde. Non sono onde di marea, somigliano alla corrente di un fiume. Cominciano con la formazione di rade increspature, che diventano presto piccoli gorghi. Quello che riesce a risucchiarmi per primo, vince. Non è quasi mai il gorgo che mi aspettavo all’inizio. Dentro il gorgo, rimetto il coperchio alla scatola. Dai buchi non entrano piú l’aria e la luce, s’infiltra solo acqua. La scatola non si riempie mai del tutto. Quando riemergo dal gorgo, tolgo il coperchio alla scatola. Il gorgo mi ha bagnato, ma non ucciso.

La scatola mi serve per respirare. I buchi sul coperchio mi servono per alimentare il desiderio. Le onde mi servono per spingermi lontano. I gorghi mi servono per scendere in profondità nel fiume e comprendere l’importanza della scatola. La scatola è l’unica maniera che ho di fare le cose. Nel silenzio della scatola sogno la bellezza del fuori. Nella bellezza del fuori rimpiango il silenzio della scatola.

La maggior parte delle persone che ho incontrato ha cercato di tirarmi fuori dalla scatola. Poche persone sono venute dentro la scatola con me. Quelle poche, non hanno resistito a lungo.

La persona con cui vivo oggi è l’unica che abbia mai portato la sua scatola dentro la mia.

Per poi farmi capire ch’è la stessa.

Gianni.

Al telefono con Virginia.

– Papà, sai che oggi nel bosco col nonno abbiamo visto un serpente?

– E che serpente era, Virginia?

– Il nonno ha detto che si chiama orbettina.

– Orbettino. Allora va bene, non è pericoloso. Adesso ti mando un bacio e mi passi tua sorella, okay?

– Va bene papà, ciao!

Si passano il telefono.

– Ciao papà! Sai che oggicolnonnonelboscoabbiamovistounserpente enorme!

– Ah, ma pensa. E che serpente era, Ginevra?

– Si chiama Gianni.

Vincere.

Osservare le mie figlie è un modo per fissare alcuni punti e mettere meglio a fuoco la vita.

Per esempio in questo momento Paola è al supermercato, e loro stanno giocando a fare le gare di corsa in casa. Dico «unduetrevia» e loro partono dalla cucina a razzo, per attraversare il soggiorno e il corridoio e arrivare fino in camera. Poi rifanno il percorso al contrario.

Virginia e Ginevra, le due piú grandi, sfrecciano serissime, sgomitano e bisticciano e certe volte si accusano a vicenda di avere imbrogliato, perché ci tengono da morire ad arrivare prime. A volte vince una, a volte l’altra.

Melania invece rincorre le sorelle ed è sempre l’ultima, spesso viene doppiata e le altre le vanno addosso quando se la trovano imprevista in senso opposto. Ma lei si rialza, ogni volta, e riparte ridendo come una pazza.

A Melania non interessa vincere, non c’è alcuna competizione per lei, la gara non la vede nemmeno.

Le piace solo correre.

Il mio vicino ha una mucca.

Il mio vicino ha una mucca.

Ci separa una stretta fetta di bosco, in questo periodo dell’anno è un unico groviglio di piante che gli occhi non penetrano. Dietro quel bosco c’è una piccola stalla. Costruita sopra la stalla, come la torre di Rapunzel, c’è la casa del vicino.

La mucca del mio vicino ama la musica. E lui sa bene che se una mucca è felice fa il latte piú buono. Per questa ragione, verso le nove di sera – la domenica, alle tre del pomeriggio – il vicino le spara una serie di compilation a tutto volume. Il bosco risuona di Romagna mia, Romagna in fiore, La mazurka del buon vino e altre hit d’avanguardia.

Quando la mucca è un po’ giú o ha avuto giornate difficili, il vicino le mette lo stereo pure di notte. Col buio, però, il volume è piú contenuto e il repertorio cambia – dal giorno alla notte, è il caso di dire. Il bosco allora sussurra sonate di Chopin e Haydn, anche se il cavallo di battaglia resta Beethoven.

E tu sei lí, con la finestra aperta per il caldo, all’una del mattino, che cerchi di dormire cullato da quei muuu che – mistero – sembrano sempre perfettamente a tempo in mezzo alla sonata per pianoforte numero 14 Chiaro di luna.

Poi a un certo punto arriva il cinghiale e sarebbe bello partisse Wagner, ma non è che si può avere tutto.

Soli (Mel & me).

Melania e io siamo a casa soli fino a domani.

Abbiamo passato la mattina a giocare sul balcone, prima tirandoci addosso i peluche e i legnetti colorati, poi lanciandoli direttamente giú nel prato. Sempre sul balcone, ci siamo dedicati a quell’oretta al giorno di attività motoria consigliata dai medici, sfrecciando lei sul monopattino e io sullo skateboard, ma abbiamo smesso dopo aver investito il basilico.

A pranzo le ho fatto l’insalata di riso. Melania è riuscita a mangiare solo il riso, facendo slalom fra tutti i condimenti e riempiendo il cucchiaino con un singolo chicco per volta. Terminato il riso, ha separato le rondelle di würstel dal tonno, ha radunato i capperi tutti da una parte del piatto, infine ha suddiviso i sottaceti per colore. Ha fatto delle piccole torri con i dadini di formaggio, che poi abbatteva rotolando le cipolline e le olive. Ha mangiato tutto separatamente, a parte i capperi di cui succhiava solo il sale per poi sputazzarli come avesse ingoiato una mosca. Ha voluto un panino e lo ha scavato cosí tanto all’interno che, alla fine, se te lo appoggiavi all’orecchio si sentiva il mare. Ha rubato il cordless di casa due volte. La prima volta l’ho trovato abbandonato a terra sotto il tavolo, con una telefonata attiva da diciotto minuti a quelli della pizza a domicilio. La seconda volta ha chiamato il copertinista di «Dylan Dog». Mentre ero in bagno ha rubato un pennarello e si è disegnata un’enorme x rossa che va dall’ombelico al torace, e ora pare uno che deve essere operato di colecisti. L’ho messa a fare la nanna verso le due. Si è svegliata una mezz’ora fa, cantando Fra Martino Campanaro e poi urlando: «PapàTteo!» Ho aperto la porta e l’ho tirata su, ha voluto il gelato e oggi, a sorpresa, ha scelto quello coi due biscotti. Il primo biscotto è finito incollato sullo schermo della tivú, il secondo è partito in missione esplorativa nel secchio del mocio e attendiamo presto le foto tipo sonda su Plutone. Con la palla di gelato nel mezzo è infine riuscita, impanandola sul tavolo fra le briciole di cracker e patatine di stamattina, a realizzare un perfetto canederlo freddo, che ha poi mangiato soddisfatta, ma solo per metà. L’altra metà me l’ha voluta offrire a tutti i costi e non me la sono sentita di offenderla. A parte il vago retrogusto di pennarello, non era neanche male.

Adesso siamo qui, è finita la puntata di Peppa Pig quella dove George ha il raffreddore, e siamo indecisi fra telefonare ai nonni, richiamare quelli della pizza, oppure chiamare in redazione e cantare al telefono tutta Brilla brilla la stellina, vedremo.

Gli adesivi della faccia.

Stamattina, mentre stavamo facendo colazione, Ginevra mi ha rivolto una domanda.

– Papà, – ha detto, – ma perché quando le persone muoiono vanno in cielo?

Siccome è un po’ di tempo che gira attorno al discorso della morte, e anche l’altro ieri ha sottoposto la mamma a un interrogatorio sullo stesso tema, ho fatto il finto tonto per capire meglio.

– In che senso, Ginevra? – ho detto.

– Perché andiamo nel cielo solo quando siamo morti? Sarebbe molto piú bello andarci da vivi!

– Ginevra, – ho detto, – è perché le persone da vive sono troppo pesanti.

– Perché?

– Perché il nostro corpo funziona come una zavorra. Sai cos’è?

– No, – ha detto.

– È una specie di ancora, come quella delle navi, – ho detto. – Ci tiene qui proprio come fossimo una barca ormeggiata in porto o che naviga quasi sempre in acque poco profonde. Quando l’ancora scompare, la barca prende definitivamente il largo.

– Ma allora siamo come delle barche, papà?

– In un certo senso.

– Allora quando moriamo è come se andassimo al mare?

– Be’, – ho detto, – al mare ci siamo sempre, anche adesso. Solo che magari quando moriamo non abbiamo piú paura di andare dove l’acqua è davvero altissima.

Ha fatto una lunga pausa.

– Ma Virginia mi ha detto che quando sei morto diventi trasparente. Io non voglio essere trasparente!

– Ginevra, ma tanto lo saresti solo per quelli che non ti conoscono, – ho detto. – Quando sei morto le persone che ti vogliono bene ti vedono lo stesso, anche se sei trasparente, sai?

– E come fanno?

– Ti vedono attraverso i ricordi, – ho detto. – È un po’ come quando tu guardi fuori dal finestrino della macchina, che è sí trasparente, ma siccome tu ci hai attaccato sopra i tuoi adesivi, allora lo riconoscerai sempre. Ecco, i ricordi, per le persone, funzionano piú o meno cosí.

– E finché sei vivo? – ha detto.

– Cosa?

– Finché sei vivo non diventi mai trasparente?

– Da vivo no, – ho detto. – Anche se certe volte, certi giorni, può capitare che alcune persone non ti vedano. Come se piú che trasparente tu fossi invisibile. Come quando è notte e non si vede niente.

– E perché?

– Perché per vedere gli altri bene bene, ogni giorno, devi avere uno sguardo attento, che vede anche al buio, anche di notte. Come quello dei gatti.

Ci ha pensato per un po’.

– Papà, – ha detto, – io di notte ti vedo, sai?

– Anch’io, Ginevra, – ho detto. – Per quello vengo a darti i bacini mentre dormi.

– Lo so.

– Lo sai?

– Sí, perché i baci sono come gli adesivi della faccia, vero?

– Sí, Ginevra, – ho detto, – è proprio cosí.

– È per quello che bisogna darsene tanti, – ha detto, – cosí non diventiamo trasparenti mai.

Noi due.

Ma perché mi ami?, gli aveva chiesto una volta. Lui stava affettando le carote. Si era fermato e aveva detto: perché sí. Come perché sí?, aveva detto lei, Che risposta è? Lui aveva posato il coltello e si era voltato. Perché ti piace la Coca-Cola?, le aveva detto. Cosa c’entra?, aveva detto lei. Rispondi, aveva detto lui. Perché è buona, aveva detto lei, perché mi piace, perché è la Coca-Cola! Ecco, aveva detto lui, a me la Coca-Cola non piace tanto, preferisco la birra. A me la birra non piace, aveva detto lei. È per quello che ti amo, aveva detto lui. Perché non mi piace la birra?, aveva detto lei. In un certo senso, aveva detto lui. Lei lo guardava, lui aveva ripreso ad affettare. Per cosa sono le carote?, aveva detto lei. Per il pollo al curry, aveva detto lui. A me il pollo al curry fa schifo, aveva detto lei. Lo so, aveva detto lui, ma io stasera ne avevo voglia e allora per te ho ordinato una pizza. Con le olive?, aveva detto lei. Ovvio, aveva detto lui. Mi hai ordinato anche la Coca?, aveva detto lei. Sí, aveva detto lui. Dammi un bacio, aveva detto lei. Va bene, aveva detto lui, e l’aveva baciata. Sai di birra, aveva detto lei. Mi dispiace, aveva detto lui, aspetta che vado a lavarmi i denti. E allora lei: baciami ancora, aveva detto.

La giornata tipo del fumettista padre.

Funziona cosí.

Sono le cinque e mezza del mattino. Scendo in studio. Faccio un giro su Facebook bevendo il caffè. Prima pagina di «Repubblica». Controllo la posta, che si sa mai.

Mi siedo al tavolo e accendo la luce. Il foglio bianco mi fissa. Io fisso lui. Restiamo cosí finché uno dei due non decide di abbassare lo sguardo – di solito: io.

Mi alzo. Sfoglio qualcosa di Williamson o di Boucq, giusto per darmi la carica. Invece mi deprimo.

Guardo fuori dalla finestra. Albeggia e piove. Mi risiedo al tavolo. Inizio a schizzare cose a caso per sciogliere la mano. Non sono veri e propri disegni, sono piú grovigli di segni, masse, prove di pressione del pennello. Facce.

Solo a quel punto apro la sceneggiatura. Leggo la pagina. Se ci sono dialoghi, leggo prima quelli a voce alta, senza soffermarmi sul resto. Se riesco a immaginarmi la scena, le espressioni, senza il bisogno di andare a vedere dove siamo o perché, allora è fatta. Scorro le altre informazioni (luogo, inquadrature) e inizio a buttare giú un rapidissimo layout in A4. Senza riferimenti, manco la gabbia, niente. Solo per valutare gli ingombri.

A quel punto comincia il divertimento vero: prendo il layout, lo scansiono, me lo stampo in A3. Cerco references varie su Google o ispirazioni sui lavori dei maestri. Posso ora cominciare a definire il tutto su un foglio piú grande.

È di solito in quel momento che, dalle scale, arriva la voce.

– Papààà!

Stai fermo. Forse è stata un’impressione e basta.

– Papàààààà!!

Non alzarti. È un’allucinazione uditiva.

PAPÀÀÀÀÀÀÀÀÀ!!!

Okay, non lo è.

– Sí, Virginia?

– Melania è svegliaaa!

– Ah. Salgo subito! E Ginevra?

– È andata a fare la pipíííí!!

Sono tipo le sette e quaranta.

Spengo tutto, il tavolo mi guarda struggente, nella testa mi parte in automatico Take My Breath Away. Salgo. Do la colazione alla grande, preparo il latte per la piccola. Vado a recuperare la media. È di là che salta sul lettone con un cadavere a fianco. La salma apre un occhio iniettato di sangue che scintilla nel buio, e mi fissa. Per fortuna ho studiato il linguaggio oculare. La pupilla dice: «Fammi dormire almeno un’altra ora, ti prego, son venuta a letto alle tre». Va detto che nel linguaggio pupillare «ti prego» e «vaffanculo muori» sono dannatamente simili.

Piglio le bimbe e ci mettiamo in soggiorno davanti ai cartoni. La media inizia a scrivere sui muri, la grande cerca di farsi dare i baci dalla piú piccola che, invece, le infila le dita negli occhi e le fa la presa con cui Tatsumi Fujinami ha schienato Riki Choshu nell’83. Io finisco un avanzo di flautino al cioccolato, prendo l’iPad e comincio a rispondere a mail a caso.

Quando Lazzaro risorge – entro un lasso di tempo che varia tra circa un’ora e mercoledí – ci dividiamo le figlie: la piccola giú in studio con me, le grandi di sopra con lei. Certe volte, viceversa.

Fa’ conto che sia un martedí di agosto, di una settimana qualsiasi. L’estate è stata tutta cosí.

Fra cinque giorni ricominciano le scuole.

Mi viene da piangere.

Lettera aperta a Fedez.

Caro Fedez,

noi non ci conosciamo, perciò innanzitutto mi presento: mi chiamo Matteo Bussola e sono un papà.

Ti scrivo perché la maggiore delle mie tre figlie, Virginia, a otto anni e mezzo si definisce con preadolescente spavalderia «la tua piú grande fan vivente» – ho provato a spiegarle che è difficile che i cantanti abbiano fan tra gli zombi, poi ho pensato che c’è pure gente che gli piace Mariano Apicella, per dire, e allora ho pensato che forse ha ragione lei. Va anche detto che Virginia è convinta che tu, in tutta la tua carriera, abbia scritto solo tre canzoni, che ascolta in loop nelle cuffiette dell’iPod (le altre le sono precluse per motivi di età) e, quindi, in questo senso, mi sento di poter dire che ti apprezza proprio per quel che canti, e non perché sei famoso.

Virginia, come suo piú grande desiderio universale, avrebbe espresso quello di ricevere un tuo autografo. Ora, ti confesso senza vergogna, caro Fedez, che io avrei preferito che mia figlia fosse fan di Julio Iglesias come il papà, oppure di Goldrake, però so anche che gli amori non si scelgono, capitano e basta, e cosí eccoci qua. Che poi io avevo pensato di inviarti un messaggio su Facebook, ma ho visto che non si può, allora avevo pensato di scriverti sulla bacheca, ma ho immaginato che un commento cosí lungo non lo avresti letto manco a Natale, infine ho pensato: «Vediamo se è vera quella storia dei sei gradi di separazione, e se è vero che su Facebook ci sono le persone e a volte succedono le cose». Cosí mi sono detto che forse era meglio fare in questo modo, che magari qualcuno fra i miei contatti ti conosce e avrà la bontà di girarti questa mia, chissà. Tra l’altro ho scordato di dirti che io sono un disegnatore di fumetti della Sergio Bonelli Editore e la mia compagna è una sceneggiatrice di «Dylan Dog», perciò se per esempio tu fossi un appassionato di fumetti – lo leggi «Dylan Dog»? O «Tex»? O «Zagor»? – magari potrei farti un disegno originale del tuo personaggio preferito, ovviamente firmato, e scambiarlo col tuo autografo, eh? Che ne pensi? Considera che pure noi nel nostro ambiente siamo un po’ famosini, nulla di paragonabile ai tuoi livelli, per carità, ma diciamo che, fingendo di essere anche noi cantanti, la mia compagna sarebbe tipo Biagio Antonacci, e io tipo Ivano e gli amici del Liscio. Che sí, lo so che ora tu avrai pensato: «Ivano chi?», però io ci metto tutto il mio impegno e quindi ecco. C’è anche da dire che X Factor ogni tanto lo seguo anch’io e da quando, l’altro giorno, ti ho rivisto commuoverti per l’audizione di Lorenzo Fragola ho capito che non dovevo avere alcun timore a scriverti. Su tutto, c’è che quando mia figlia mi ha detto: «Papà, come possiamo fare? Io devo avere l’autografo di Fedez!» con uno sguardo che non gliel’ho visto nemmeno quella volta che mi ha supplicato di accompagnarla sull’Oblivion di Gardaland – e io soffro di vertigini che piuttosto la morte – è stato lí che l’ho guardata negli occhi e le ho detto: «Virginia, possiamo provare». Ma a parte che, come dice il sommo Yoda, non esiste provare, esiste fare, sono ragionevolmente certo che Virginia abbia compreso quel «provare» come: «Tranquilla, ci pensa papà».

E quindi, caro Fedez, io ti prego: non farmi fare brutta figura con lei. Perché un mondo in cui le figlie di otto anni perdessero la speranza che i papà possano realizzare i loro sogni, ecco, io credo sarebbe un mondo peggiore per tutti, forse anche per te.

Ti ringrazio di cuore in anticipo, anche solo se leggerai.

Yo, o bella frate’, o bagna càuda, o insomma come si dice.

In fede(z)

Matteo Bussola