Il peso dell’elefante.
Era il gennaio del 2007, era un sabato come oggi, il cielo era basso e pieno di nuvole.
Ero in ospedale, guardavo i dottori passare, le vestaglie, le macchinette del caffè, e il fatto di diventare padre per la prima volta mi faceva sentire come non fossi io, quasi assistessi alla vita di un altro.
Era sera, ero nella sala d’aspetto e non vedevo nessuno fumare. Nei film fumano sempre, pensavo, io invece no. Anche questo contribuiva a farmi percepire tutta la scena in maniera irreale, al rallentatore, attraverso un filtro.
Quel filtro ero io. Era la vecchia concezione di me stesso, la mia vecchia vita, la vecchia idea di tutto, tutto ciò che stava per cambiare e che io sentivo incombere su di me come quelle nuvole increspate e gonfie.
Paola sembrava tranquilla, mentre io somigliavo a un ubriaco prima del bicchiere di troppo. Camminavo ovattato, ondeggiante, con un sorriso ebete che, visto dal di fuori, doveva farmi apparire sereno ai limiti dell’incoscienza, oppure deficiente.
L’infermiera ci disse prima le otto, poi le nove, poi le dieci, poi le undici, poi non fece piú differenza.
Fu una notte lunghissima, interminabile. In cui affrontai tutte le mie paure in una volta sola e tutta la mia impotenza in una volta sola e tutta la mia inquietudine prima e il calo di adrenalina poi, che liberarono una gioia tenuta sotto pressione che mi invase i sensi quasi rabbiosa.
E niente, proprio ora, mentre sto scrivendo, mi rendo conto che in realtà non ho voglia di descrivere la situazione, il terrore, la forza vista ed espressa. Perché non è mica possibile o perché io non sono abbastanza bravo da saperlo dire. E anche perché sono cose cosí personali che poi sono diverse per ciascuno, e quindi alla fine l’esperienza mia resterebbe solo quella: la mia.
Dunque quel che volevo dire, che poi è il motivo di questo scritto, che sto digitando di corsa su un iPad mentre preparo le bambine per andare a scuola, che poi sono precisamente quelle che mi hanno ispirato lo scritto, è che secondo me ci sono solo due momenti decisivi nella vita di un uomo: c’è il prima e c’è il dopo.
Il prima e il dopo non sono uguali per tutti. Conosco persone per le quali il dopo è stato lasciarsi, altre per le quali è stato sposarsi. Per alcuni è stato trovare il lavoro dei propri sogni, per certi invece solo trovarlo, un lavoro. Per altri il dopo è stato andare ad Haiti con Medici senza frontiere. Una volta parlai con un vecchio, che avrei solo avuto voglia di abbracciarlo per tutto il tempo, e mi raccontò di quale dopo fosse stato esser liberato dagli americani, e di come al contempo ci siano cose che annullano tutti i dopo e offuscano molti prima, che mentre le vedi ti azzerano il futuro per sempre.
Quando diventi padre, il tuo dopo è che pesi tre chili e mezzo in piú, all’incirca. Comprendi già dal primo secondo che quello sarà un dopo definitivo, l’unica cosa della tua vita dalla quale non potrai mai piú tornare indietro. Nemmeno volendo, neanche impegnandoti con tutto te stesso, qualunque cosa tu faccia del tuo futuro, questo dopo non cambierà.
In compenso cambierà te. Ti sta già cambiando, lo ha già fatto, in una maniera che non sapresti dire ma che senti nelle braccia e nelle gambe, una metamorfosi.
Io ora di chili in piú ne ho circa una sessantina. Li porto a scuola ogni giorno e tutto il resto. Mi muovo come un elefante e non piú come una gazzella.
Ma il punto resta che la gazzella ogni mattina si alza perché sa che il leone. E il leone ogni mattina si alza perché sa che la gazzella.
L’elefante invece se ne frega. Non fugge e non rincorre. L’elefante si alza pure se ha dormito due ore e fa quel che bisogna fare, sapendo che è proprio il suo essere elefante a tenere insieme le cose. Si alza quando deve e si muove piano, anche nei negozi di cristalleria.
Ma quando si muove, non lo fa né per i leoni né per le gazzelle.
Lo fa perché la sua vita è cominciata quando è diventato elefante. È cominciata dopo. E quel dopo lí, quello dell’elefante, è l’unico dopo al mondo che è anche un prima. È il prima definitivo, il prima di tutto, l’inizio e la conclusione insieme. È anzi l’unica esperienza che azzera tutti i prima e tutti i dopo e trasforma tutto in durante.
L’elefante vive solo il presente e sa che il suo presente ha un peso, lo sente nelle braccia e nelle gambe. Nella schiena.
È questa la sua forza. Tutta quella che gli serve.
Quella che le gazzelle vorrebbero, e che i leoni si sognano.
Perché i bambini devono andare a scuola.
In auto, sto andando all’asilo con Ginevra e Melania dopo aver accompagnato Virginia a prendere il pulmino per la scuola elementare.
– Papà, ma perché i bambini devono andare a scuola?
– Eh, Ginevra, perché devono.
– No, ma perché i bambini devono andare a scuola?
– Perché è il loro lavoro. Il lavoro delle mamme e dei papà è lavorare. Il lavoro dei bambini è andare a scuola.
– Ma se i bambini fanno un lavoro, allora perché non ci dànno i soldini?
– Ah, ma ve li dànno, eh! Ve li dànno, ve li dànno. Solo che li teniamo noi mamme e papà. Poi, quando siete grandi, ve li restituiamo.
– Papà, ma quanti soldini ci dànno?
– Eh, un po’. Soprattutto ai bambini che fanno i bravi a scuola.
– Ma piú di un euro?
– Ehm, sí sí, molti di piú.
– Quanti?
– Dieci euro.
– DIECI EURO? Ma sono tantissimi!
– Già.
– Papà, ma quando torniamo a casa me li fai vedere, i miei soldini?
Penso: «Meno male che non ho detto cinquecento».
– Va bene, Ginevra. Oggi quando torni te li faccio vedere.
– Ma, papà, anche a te ti dànno dei soldini per il tuo lavoro?
– Be’, certo.
– Ma sempre dieci euro?
– No, no, a me ne dànno di piú. Perché io sono grande.
– E quanti?
– Venti euro.
– VENTI EURO? Ma allora hai tantissimi soldi! Sei ricchissimo!
– No, Ginevra, venti euro non sono tantissimi soldi.
– Però sei ricchissimo, vero?
La guardo nello specchietto. Vedo gli occhi che ridono. Di fianco, Melania si sta ciucciando una calzina antiscivolo.
– Sí.
La festina.
Paola è via per lavoro, le due piú piccole sono dai nonni, Virginia e io siamo a casa soli.
Ieri l’ho accompagnata a una di quelle terribili feste di compleanno delle elementari. La festa era di una sua amichetta, si svolgeva nello scantinato dell’oratorio che il prete mette gentilmente a disposizione, e c’era un’atmosfera che pareva di essere in un film di Nightmare. I soffitti alti poco piú di due metri, le bocche di lupo al posto delle finestre, qualche triste festone appeso ai muri, una scritta storta che diceva «Buon compleanno Mar a na», che i bimbi ci avevano già staccato le lettere. Le mamme erano tutte stipate nell’angolo in fondo, accanto al tavolino con le patatine e le Dixi, come tanti conigli in batteria.
Quando siamo entrati, essendo io l’unico papà presente, mi hanno squadrato come se un Unno ubriaco e nudo avesse fatto irruzione nella loro cartolina natalizia. È durata solo qualche secondo, perché io alle mamme faccio simpatia.
Dopo circa tre minuti la Maria Carla mi stava parlando dei suoi problemi di cervicale, la mamma di Mattia mi diceva che somiglio a coso quello là insomma hai capito dài, e la madre della festeggiata mi ha portato un panino col salame.
Io volevo solo la morte e infatti mi ostinavo a tener su il giubbino con la cerniera chiusa e la sciarpa come segnale internazionale, a dire: ve la lascio e torno a prenderla poi, non fatevi illusioni, ho la macchina qua fuori col motore acceso e un cadavere nel baule. Ma niente, mi sono dovuto fermare mezz’ora a subire una conversazione che piuttosto le martellate sui calli con un battipalo arroventato.
Sul piú bello, mentre saluto Virginia sussurrandole: – Divertiti, passo a prenderti alle sette, – non entra il padre della festeggiata, carico di vassoi, e mi lancia uno sguardo che manco un cane randagio con la rogna sotto un acquazzone primaverile? «Dove cazzo vai, – diceva lo sguardo, – non puoi lasciarmi da solo con queste. C’è un patto di sangue fra tutti i maschi del mondo e tu lo sai, maledetto, stai qui, condividiamo la sorte avversa da buoni fratelli». Io l’ho riguardato e il mio sguardo diceva: «Col cazzo, la festina è tua e la figlia è tua e io ne ho già fatta una l’altro ieri, in casa, e a te non ricordo di averti visto, merda, e ringrazia che non ti sgambetto facendoti cadere tutti i tramezzini con le bandierine». E i suoi occhi, di rimando: «Non si fa cosí, però, questo è accanirsi, un errore capita a tutti, e poi io della tua festa manco lo sapevo, mia moglie mi dice solo quel che vuole e m’ha nascosto il bigliettino d’invito, scusa». Allora io ho ceduto al sentimento e mi sono avvicinato e gli ho preso mezza pila di vassoi e quando li abbiamo posati sul tavolone lui mi ha sorriso complice e dandomi di gomito mi ha detto: – Ce la facciamo una birretta? Eh? Eh? – che già su «birr» s’è sentito lo spostamento d’aria di ventiquattro mamme che si giravano verso di lui, all’unisono, fulminandolo con lo sguardo come se avesse bestemmiato in chiesa, pardon, all’oratorio. «Birra a una festa per bambini, lo hai detto, vergogna!» dicevano i quarantotto occhi colpevolizzanti. Al che ho preso la palla al balzo, gli ho messo una mano sul braccio, fraterno, e gli ho detto: – Guarda, grazie, ma ci ho il minestrone a casa sul fuoco e devo andare pure a fare la spesa –. In quel momento, i ventiquattro sguardi si son tramutati d’un colpo in occhiate di commozione coi luccichini e io sono uscito facendo la passerella, accarezzato da quarantotto ciglia di mamme che avevano appena sentito pronunciare «minestrone» da un maschio veneto e la parola non era nella frase: «Alòra! È prònto il».
Ho risalutato Virginia con un bacio in fronte e sono uscito nell’aria fresca della sera e mentre andavo verso l’auto un bambino m’ha tirato un petardo, facendomi fare un salto che per poco non cadevo. Non ho potuto fare a meno di pensare che il maledetto m’avesse mandato un sicario come avvertimento. «Torna dentro, – diceva quel petardo, – o qui finisce male, ricordati che abbiamo tua figlia!»
Ma io non mi sono fatto intimidire, sono risalito in auto deciso, sono partito e mi sono diretto verso il discount, dove ho fatto la spesa da vero uomo. Poi sono andato a casa, ho lavato i piatti, ho risposto a tre mail, ho dato da mangiare ai cani ed era già ora di tornare a prenderla.
– Ti sei divertita, Virginia? – le ho detto mettendole il cappotto.
– Sí, papà. Stasera mi fai la pizza?
– Stasera non fa in tempo a lievitare, ma domani te la faccio, promesso.
Lei ha sorriso e abbiamo salutato tutti e abbiamo infilato le scale di corsa mentre la Maria Carla ci guardava come a dire: «Portatemi via con voi, va bene anche nel baule di fianco al cadavere!», e la mamma della festeggiata stava sgridando il marito che aveva appena mangiato l’ultimo paninetto con la mortadella, ma senza chiedere.
Garrett (O del buonsenso).
Ho due cani. Qualche anno fa erano quattro, ma poi la vita.
Il piú grosso dei due si chiama Garrett, in onore di un nostro amico che – al tempo – stava presentando al Lucca Comics una miniserie a fumetti che s’intitolava cosí.
Garrett è proprio un cane toscano, perché venne adottato precisamente in quell’edizione della fiera di Lucca.
Paola era incinta di Virginia, e quel giorno aveva espresso il desiderio di pranzare lontano dalla ressa fumettistica. Uscimmo coraggiosamente dalle mura, scoprendo che esisteva vita intelligente anche fuori. Trovammo un delizioso localino che si chiama ScusaAmeri – ho controllato, c’è ancora – in cui Paola ordinò un abbondante piatto di salsicce e würstel con patatine, perché con la gravidanza l’insalata le era preclusa. Io invece non ero incinto ma si sa, per la compagnia.
Alle mie spalle c’era una bacheca con degli annunci. Fra i vari «Vendo moto Tuareg immatricolazione 1986 MAI USATA» e «Dio c’è o ci fa», spiccava la foto di un musetto buffo. Pareva un incrocio tra un tartufo e Fozzie dei Muppet. Paola staccò il volantino e iniziò a fissarlo con occhi nostalgici e luccicanti. Il foglio con la foto del musetto recitava: «Cucciolo di tre mesi smarrito in cerca di adozione, se non trovo qualcuno dovrò portarlo al canile, perché io non posso piú tenerlo». Seguiva numero di telefono, chiedere di Eleonora.
Va detto che al tempo avevamo già tre cani. Anche per questa ragione, eravamo da poco andati a vivere in affitto in una vecchia casa disastrata, che però aveva un giardino enorme.
Paola mi guardava con gli occhioni, e io avevo letto da qualche parte che è meglio non contraddire le donne incinte. Pensai al giardino di 1500 metri quadrati, ai pini secolari. Ai miei genitori che mi avrebbero detto, indignati: «Ma come? Ne avete già tre!» Alla quantità di cacche che, già cosí, dovevo raccogliere ogni giorno dal prato. Alla figlia in arrivo che avrebbe sconvolto le nostre vite, in una maniera che prima non è possibile immaginare nemmeno di striscio. Ciononostante, in un impeto d’amore e tenerezza pensai: «Massí, cacca piú cacca meno».
– Okay, telefona, – dissi.
– Stai scherzando? – disse Paola.
– No, no, telefona davvero, – dissi io. – Almeno vediamolo, dài.
Paola mi saltò al collo e poi chiamò, forse non in quest’ordine.
La Fiesta della ragazza arrivò dopo un quarto d’ora. Dal baule balzò fuori il cucciolotto della foto. Buffo, tenero e bellissimo. L’unico dettaglio che stonava erano le zampe enormi, totalmente sproporzionate rispetto al resto del corpo. Fu il solo momento in cui guardai Paola, perplesso.
– Mi hai detto che dovrebbe restare piú o meno cosí, vero? – chiesi.
– Ehm, sí. Sí. È una razza che resta abbastanza piccola… – disse Paola.
– Okay, – dissi.
Ringraziammo la ragazza, baci e abbracci e scambio di numeri e indirizzi. Eravamo all’improvviso con un cane, a Lucca.
Durante il viaggio di ritorno, Garrett fu buonissimo. Non emise un guaito, non abbaiò una volta, non fece la pipí in auto. Se ne stette acciambellato sul sedile dietro, con un’espressione placida, proprio come Fozzie dei Muppet.
Una volta in casa, dopo aver incontrato i suoi sospettosi compagni di pelo, come benvenuto pisciò sul tappeto.
– È un cucciolino, – mi disse Paola, – deve ancora imparare.
– Okay, – dissi io.
Il giorno dopo fece la cacca nello studio.
A parte i primi incidenti, Garrett si ambientò in fretta. Lana lo ignorava, Skippy quasi – si risentiva solo quando Garrett gli si sedeva sulla testa – mentre Lippa, la nostra cagnolina di taglia media, lo scelse come compagno di giochi. Nel giro di due settimane, Garrett era grande come lei. Dopo tre mesi, era un cane di trentacinque chili, con una passione notturna per i gatti e le pigne, e famoso in tutto il vicinato.
Sgroppava di continuo nell’erba sempre alta del giardino, con le orecchie al vento, inseguendo qualsiasi cosa si muovesse: merli, api, farfalle. Postini.
Il suo appuntamento preferito, irrinunciabile, era verso le quattro del pomeriggio, piú o meno un paio di volte a settimana.
Garrett si posizionava nell’angolo, esattamente all’incrocio delle inferriate, come in attesa di un’apparizione. Dopo un po’ spuntava la bambina in bicicletta. Avrà avuto nove o dieci anni, non gliel’ho mai chiesto. Garrett saliva con le zampone sul muretto e si sporgeva in fuori con testa e busto, piú che poteva. La bambina buttava la bici a terra, saliva sul muretto a sua volta, e lo abbracciava stretto per qualche minuto.
Io spiavo dalla finestra dello studio, e in quei momenti sentivo forte la consapevolezza che, se anche fossi morto l’indomani, nessuno avrebbe mai potuto togliermi il fatto di avere salvato almeno una vita nella vita. Solo andando deliberatamente contro quella cosa che troppi chiamano: buonsenso.
Con la stessa collaudata tecnica, mi licenziai dal lavoro in una giornata nevosa per fare i fumetti, l’anno seguente adottammo Cordelia – in onore di Anna dai capelli rossi, e qui chi sa, sa – poi accettai di fare un’altra figlia e di tenere pure la terza perché il sonno, in fondo, è un concetto sopravvalutato.
Karma.
Quando lavoravo per la pubblica amministrazione, sono riuscito a progettare un bel po’ di piazze.
Il senso di progettare una piazza potrà forse sfuggire a qualcuno. A quei pochi, basti credere che anche le assenze vanno pensate con cura. I vuoti urbani sono molto piú importanti dei pieni, perché sono ciò che regala respiro al tessuto architettonico di un territorio – anche se in Italia avrebbe piú senso parlare di tessuto edilizio, ma non sottilizziamo.
La progettazione partiva da un brainstorming iniziale – «Bisòn che fén na piàssa», fine brainstorming – intervallato periodicamente da quel che gli amministratori (diciamo l’equivalente del sindaco di un paese, via) amavano chiamare «check», perché l’avevano sentito dire da La Russa in televisione.
Esempio di check:
«Túto ben?» mi chiedevano, affacciandosi alla porta dell’ufficio.
«Túto ben», era sempre la mia risposta.
Quando il progetto era concluso, dovevo confrontarmi con tutta una serie di imprescindibili e preziose obiezioni, tipo:
«No, qua la fontana no, perché poi il filtro si intasa con le foglie dell’oleandro».
«Basta togliere le foglie una volta ogni due settimane».
«No, no, meglio non metterla proprio. Anzi, non mettiamo manco l’oleandro».
Roba cosí.
Superato questo scoglio, mi attendeva puntuale l’agognata commissione urbanistica.
Il problema non era tanto la prima seduta con i vari amministratori – per quanto – ma l’assemblea aperta al pubblico nella quale i cittadini, per interventi di una certa rilevanza, avevano diritto di esprimere un loro orientamento.
Lí, la difficoltà maggiore era sempre adattare il linguaggio tecnico e le mie ragioni agli interlocutori. Era una cosa molto importante, perché se non fossi riuscito a farmi capire non avrei avuto alcuna speranza.
Ricordo che una volta riuscii a convincere un signore incazzato perché, secondo lui, erano stati stanziati troppi fondi per il settore cultura.
«Parché la gente i libri la gà da léserseli a casa sua!»
Riuscii a fargli cambiare prospettiva spiegandogli semplicemente che quei soldi non sarebbero serviti solo per i libri, ma che per esempio pure la Sagra della salamina era cultura. Ebbi fortuna e il mio esempio colpí nel segno, perché a lui il risotto con la salamina piaceva molto e partecipava ogni anno al torneo di freccette della sagra.
Tornando alle piazze. Rammento una sera d’inverno, in particolare, in cui un tizio del pubblico mi spiegò garbatamente durante un’assemblea che «non ha senso pérder tempo a progettare un càsso! Parché le robe se fa prima a farle e basta! Cosa ghe vòl par méter dú alberi e trí pànchine?!»
Ora, a me, una delle tre cose al mondo che fanno veramente girare i coglioni è quando viene messa in discussione, anche solo tra le righe, la mia professionalità o l’utilità della stessa. La mia professione, al tempo, era appunto progettare.
Presi il microfono.
– Lei che lavoro fa? – dissi.
– Gò un bar, – disse lui.
– Ottimo. Come si fa un Negroni?
– ’Sa c’entra?
– È solo una domanda. Come si fa un Negroni? Lo sa o no? – lo incalzai.
– Eeh, buteléto! – mi disse. – Và ch’el Negroni l’ho praticamente enventà mí! L’è un terso de gin, un terso de Campàri e un terso de Martini rosso.
– Perfetto. E la fettina d’arancia?
– Sí, ànca quela ala fine. L’era sottinteso.
– Benissimo. Grazie per averci appena illustrato il progetto di un Negroni.
– Eh?
La sala rise. La piazza passò a larga maggioranza.
Io e il tizio del bar ci rivedemmo in ufficio sei mesi dopo, quando venne a protestare per la rotonda realizzata di fronte al suo locale mentre lui era in ferie. Senza perder tempo a fare alcun vero progetto, semplicemente mettendola a bilancio come manutenzione ordinaria.
La rotonda era non troppo grande, molto verde, e si affacciava direttamente sul bar del nostro.
Il bar si chiamava: L’angolo.
Ancora oggi, quando ci penso, non riesco a smettere di ridere.
A!
Melania ha quasi due anni ma l’unica parola che dice è:
«A!»
La maggiore delle tre, per dire, ha esordito tipo a un anno con un: «Vuolsi cosí colà dove si puote ciò che si vuole, e piú non dimandare».
La seconda, a tredici mesi, citando direttamente Shakespeare.
Melania invece se ne frega. È meravigliosa anche per questo, perché sembra che di parlare non le importi. Del resto, perché dovrebbe, quando riesce a comandare l’intero universo con una semplice vocale? La cosa incredibile, infatti, è che lei si fa capire comunque, e bene, solo modificando il tono di voce.
Esempi:
«A!» (ciao!)
«aA!» (tirami su, presto!)
«AaA!» (ho detto prendimi in braccio, stolto straniero!)
«AaaaaaaaaAAAA!» (che bello!)
«AAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA!!» (che schifo!)
«AaaaaaAA. A!» (ho fame!)
E via cosí.
L’unica eccezione a Vocalandia è l’acqua. Perché Melania, per chiedere l’acqua, snasa. Fa un buffissimo verso col naso, in cui le vengono gli occhi a fessura e inspira ed espira molto rapidamente, sembra un segugio quando annusa. Ecco, quello significa: voglio bere.
La cosa curiosa è che al nido dove va tutti i giorni ci sono anche bimbi molto piú grandi e che parlano abbastanza bene. La speranza era che Melania potesse farsi contagiare da loro ed evolvere il suo linguaggio (non la sua capacità espressiva, intendo proprio le parole). Risultato? Tutti i bimbi del nido, anche quelli che sapevano parlare benissimo, quando devono chiedere l’acqua ora snasano.
Paola e io non ammetteremmo mai che la situazione in fondo non ci dispiace affatto. Perché questo «ritardo» di Melania ci culla nell’illusione di avere ancora una bambina piccola tra le mani e contribuisce a farci sentire giovani. Per il resto Melania corre come un bolide, mangia come un drago, si arrampica sulle librerie, riesce a raggiungere oggetti inaccessibili, è capace di telefonare ai nonni e in Bonelli e la settimana scorsa ha scritto tutto il divano con una tratto pen rossa rubata alla mamma. La realtà è che nostra figlia è Stewie dei Griffin in incognito.
La macchinetta fotografica.
Abbiamo regalato a Virginia una macchinetta fotografica digitale usata.
Gliel’ho consegnata neanche mezz’ora fa. Da allora, ha fatto una trentina di foto a me e una ventina a Melania. Io dopo la quinta foto ero già cieco. Verso la quindicesima ha imparato a togliere il flash. Adesso ha scoperto come si fanno i filmini e me ne sta facendo uno mentre scrivo sull’iPad. Il filmino è una specie di intervista.
– Ci dica, signor Bussola, le piace vivere in questa casa?
– Sí.
– Ed è contento di avere tre figlie?
– Moltissimo.
– Ed è contento di avere la mamma che abbiamo?
– Decisamente.
– Bene bene, e senta, ora la domanda piú importante.
– Mi dica.
– Stasera prendiamo la pizza?
Il battito.
Accade quasi ogni mattina. Entro nella stanza per svegliarla, indugio per un attimo in ascolto, nel buio, e non sentendo alcun rumore, nemmeno quello del respiro, le poso una mano sulla schiena, col palmo tutto aperto, e lei non si muove, allora premo leggermente, la scuoto appena, e dopo circa un secondo balza in piedi sul lettino come una molla. In quel lunghissimo secondo, il mio cuore salta un battito. È accaduto anche con le altre due, è una roba che ti dura fino a quando hanno all’incirca tre anni. Se metto insieme tutti i battiti persi, una settimana di vita viene fuori. Robe da padri.
Allora passo.
Suona il telefono, il numero non compare.
– Pronto?
– Pronto, buongiorno. Il signor Matteo Bussola?
– Sono io, chi parla?
– Ah, salve. Sono Giacomo da UniCredit.
– Buongiorno, Giacomo.
– Buongiorno. Senta, io la disturbo per chiederle se la settimana prossima potrebbe gentilmente passare in filiale, nella sede di via dell’Artigliere.
– Ussignúr. E perché mai? Mi avete scoperto?
– Scoperto?
– Lasci stare, era una battuta.
– Ah.
– No, dicevo, passare perché?
– Perché, se lei passa, saremmo lieti di presentarle tutti i nostri nuovi magnifici prodotti, che incontreranno sicuramente il suo interesse.
– Prodotti?
– Sí. Le nuove obbligazioni, la nuova linea di carte di credito, le nostre nuove e vantaggiose condizioni di prestito a garanzia ridotta, eccetera.
– Ah, no no, allora non passo.
– Scusi?
– No, è che, vede, tanto io sono povero. E le carte di credito a me non le date ma, soprattutto, i prestiti non me li fate.
– Ma che dice, signor Bussola. Se lei è nostro correntista da tempo, le garantisco che con queste nuove agevolazioni e in linea di massima non ci sono problemi.
– Guardi, Giacomo. Già il primo prestito avete fatto fatica a farmelo, otto anni fa. E me lo avete concesso solo perché lavoravo nella pubblica amministrazione.
– Ah, ma lei è uno statale? Allora per un prestito le garantisco personalmente che non c’è alcuna difficoltà.
– Lavoravo.
– Come?
– Lavoravo, nella pubblica amministrazione.
– Ah. Mi dispiace. Questi maledetti tagli alla spesa…
– No, non fraintenda. Mi sono licenziato io.
– Si è licenziato… lei? Da dipendente?!
– Già.
– Ommadonna. E adesso, se posso permettermi, cosa fa?
– Faccio i fumetti.
– Scusi?
– Faccio il disegnatore di fumetti.
– Il disegnatore?
– Di. Fumetti.
– Ma… dài! Che bella cosa! Ma sa che io ho tutta la collezione di «Topolino»? Va be’, quasi. E poi ho anche qualche libretto di quello, come si chiama? Lo comprava mio fratello. «Mark Mistèr».
– Martin, Mystère.
– Quello, sí. Ma lei, mi faccia capire. Cioè lei che fumetti disegna?
– Io lavoro appunto per la Sergio Bonelli Editore, e poi lavoro per una casa editrice francese.
– Francese?
– Sí. So che sembra incredibile, ma i fumetti li leggono pure là.
– Ma pensa, ma che bello. E per la Bonelli editrice cosa disegna, invece?
– Disegno un fumetto ambientato in Africa che si chiama «Adam Wild».
– No, quello non lo conosco.
– Immaginavo. E «Dylan Dog»?
– Ah sí sí, quello sí! Quello dei mostri. Ma disegna anche quello?
– No. Quello lo scrive la mia compagna.
– Ma dài!
– Giuro.
– Ma lo scrive in che senso?
– Nel senso che scrive le storie.
– Le storie?
– Le sceneggia. Si inventa la trama e i dialoghi e poi scrive una sceneggiatura dettagliata che verrà inviata a un disegnatore, che infine la disegnerà.
– Ah. Quindi scrive le parole nelle pipette, in pratica.
– No, quello lo fa il. Anzi: sí. Sí, scrive le parole nelle pipette, sí. Tutti i giorni. Una faticaccia, sapesse.
– Immagino. Ma pensa. Che coppia!
– Già.
– Va bene, senta. Come le dicevo, io penso che comunque non ci dovrebbero essere problemi.
– Si fidi, il prestito non me lo fate.
– Ma non è vero, signor Bussola! Perché è cosí negativo? Oggi le condizioni sono cambiatissime, sa? Basta che lei mi presenti una busta paga.
– Non ce l’ho.
– Come?
– Non ce l’ho, la busta paga. I disegnatori di fumetti sono liberi professionisti. Non sono assunto, mi pagano a ritenuta d’acconto quando consegno.
– Ah. Va be’, ma se lei comunque ci mostra l’andamento delle sue entrate sul medio periodo, diciamo due anni, e quelle sono costanti, sono sicuro che non c’è problema. E poi magari il suo inquadramento previdenziale.
– Non ce l’ho.
– Come?
– I fumettisti non ce l’hanno, l’inquadramento previdenziale.
– Cioè, non ha la pensione?
– No. E manco le ferie pagate.
– E se s’ammala?
– M’attacco.
– Il Tiefferre?
– Una stretta di mano, quando va bene.
– Una stretta? D’accordo, senta. Le ripeto: lei passi, sono sicuro che una soluzione la troviamo. Anzi, guardi, se mi dice gentilmente il numero del suo conto, io osservo subito l’andamento cosí vedrà che è tutto a posto.
– Il numero è xxxxxxxxxxxx.
– Ecco, ci sono.
– Lo vede, l’andamento?
– Ah.
– Che dice, allora: passo?
– Signor Bussola.
– Dica.
– Lei stamattina ha prelevato venti euro?
– Sí.
– Cioè, lei ha fatto un prelievo di contante di venti euro?
– Perché, non si può? Dovevo comprare «Ken Parker» e l’olio.
– Lo sa che in questo momento, sul suo conto, lei ha due euro e cinquanta?
– Dài? Pensavo meno. Allora domani passo, eh? A che ora è meglio?
– Buongiorno.
– Pronto?
Poi quello negativo sono io.
Il signore in macchina.
Stanotte ho dormito un’ora.
Melania aveva la febbre alta ed è stata nel lettone con noi, prima spiaggiata contro la mamma a tirarmi calci, poi buttata addosso al mio sterno a tossirmi in faccia. Verso le due ho gettato la spugna, le ho costruito una pila di cuscini a bordo letto da prendere a pedate e mi sono alzato. Sono andato in cucina a farmi un caffè, però leggero, che non volevo rinunciare del tutto alla speranza di dormire. Sono sceso un po’ in studio e mi sono messo al lavoro sulle matite di una pagina nuova. Non mi sono accorto del passare del tempo e d’un tratto erano le otto. Sono salito, mi sono fatto il secondo caffè e sono andato a vedere in camera. Paola e Melania dormivano ancora, immerse nel silenzio innaturale della casa, dovuto all’assenza delle sorelle maggiori, che sono in montagna dai nonni per il fine settimana. A guardarle dalla porta, nella penombra in controluce del corridoio, parevano una cosa sola, un’unica forma, come se fossero di nuovo unite. Paola a un certo punto si è accorta che ero lí e mi ha chiesto di preparare il latte. Quando sono tornato in camera Melania era sveglia, Paola le ha dato il biberon e a me è venuto in mente che dovevo uscire a comprare delle buste.
Dall’auto, lungo la discesa, c’era un cielo azzurrissimo e una luce brillante, che l’aria invernale sembrava amplificare. Arrivato sul vialone degli alberi, ho visto una Punto verde ferma in mezzo alla strada. Subito ho pensato a un incidente, o a un guasto meccanico, o a un parcheggio troppo avventuroso. Ma una volta affiancata l’auto ho notato, seduto alla guida, un signore anziano con un cappello marrone. Immobile. La macchina spenta e il mento appoggiato sul volante. Magari ha un malore, mi è venuto da pensare. Stavo quasi per scendere, quando d’un tratto mi sono accorto che il signore stava guardando qualcosa. Aveva il viso illuminato, guardava verso il cielo con gli occhi socchiusi e piangeva ridendo.
Fissava il sole, o almeno cosí sembrava, fermo con l’auto proprio nel punto in cui il sole aveva appena scavallato la collina, avanzando lungo la via come il faro di un concerto. Chissà a cosa starà pensando, mi sono detto. Aveva un’espressione bellissima. In quel momento un’auto ha suonato e ci ha superati. Poi un’altra. Dietro di noi si era formata una piccola coda, di cui non mi ero accorto a causa dei riflessi appannati dal sonno.
Ho ingranato la prima e sono ripartito, il signore invece è rimasto lí.
Quando sono uscito dalla cartoleria ho deciso che già che ero fuori mi conveniva fare un po’ di spesa. Al supermercato ho comprato il latte, il sedano per fare il brodo e delle arance in offerta.
Tornando a casa, mi sono fermato sotto agli alberi del viale a mangiarne una in macchina.
Il signore non c’era piú, adesso c’ero io.
Quattro anni.
Oggi Ginevra compie quattro anni.
L’ho appena accompagnata all’asilo ma, per il suo giorno, andremo a prenderla prima. Cosí a pranzo festina coi nonni e, dopo le quattro del pomeriggio, baldoria in casa con le amiche.
Agli armadietti mi ha chiesto: – Papà, ora che ho quattro anni sono grande? – e io non sapevo cosa risponderle, perché non ero sicuro di cosa desiderasse sentirsi dire. Ho azzardato un: – Sí, – ma lei mi ha incalzato quasi subito dicendomi: – Io non voglio diventare grande, voglio restare piccola.
Al che io, dopo tutte le rassicurazioni del caso su quanto sia bello diventare grandi, ho deciso di lasciarmi alle spalle le banalità pedagogiche o le insulsaggini da padre, tipo: «Si fa cosí perché bisogna», mi sono seduto sulla panca, me la sono tirata sulle ginocchia, e quasi stessi per confessarle un segreto le ho detto: – Sai una cosa, Ginevra? Per quanto uno possa diventare grande, se vuole può restare piccolo lo stesso. Anche da adulto.
– E come si fa?
– Basta continuare a fare le cose che ci piacciono di piú.
Lei mi ha guardato fisso negli occhi e subito non ha detto niente, ma io sapevo che aveva capito. L’ho accompagnata in classe e prima che me ne andassi si è voltata e mi ha detto: – Papà, oggi quando torno a casa posso dipingere le ciliegie? – E io le ho detto: – Sí, Ginevra, puoi.
Poi sono uscito, ho fatto il giro dell’edificio e mi sono piazzato davanti alla finestra per il saltone di saluto. Lei mi rideva dal vetro e io pensavo solo: «Ti prego, resta sempre cosí», perché a me quello che piace di piú al mondo è accompagnarla all’asilo in auto e vederla saltare dietro quella finestra e ridermi con quei dentini piccoli, come se quell’immagine fosse davvero l’unica cosa in grado di salvarmi dal diventare un adulto triste e senza speranza.
La custodia.
Virginia ha realizzato una custodia per la sua macchinetta fotografica.
Ha preso una scatola di cartone tipo quella delle scarpe ma piú stretta, l’ha riempita di cartine appallottolate, vi ha adagiato dentro la macchinetta e l’ha chiusa col coperchio. Poi ha rivestito l’esterno con della carta da regalo colorata, sigillando i bordi con lo scotch, proprio come fosse un pacco di Natale. Quando è venuta a mostrarmela tutta fiera le ho fatto notare che, forse, come custodia non era molto pratica, visto che ogni volta per estrarre la macchinetta avrebbe dovuto togliere lo scotch, sfilare la carta da regalo, aprire il coperchio, farsi largo fra le cartine appallottolate. Virginia mi ha guardato come fossi scemo e mi ha detto: – E allora? Ci impiegherò solo un po’ di piú ad aprirla, ma almeno è bellissima!
A me, lí per lí, lo confesso, è venuto da ridere. Poi invece ci ho pensato un po’ su e sono giunto alla conclusione, ma tipo che in questo momento sono proprio sicuro sicuro, che senza saperlo mia figlia mi abbia ricordato una lezione fondamentale: la bellezza non è facile mai. E se non la scegli solo perché magari ci vuole piú tempo ad aprirla, o a raggiungerla, tutto il tempo che risparmierai evitandola non sarà mai una vittoria, ma la piú clamorosa delle sconfitte.
Perché la mamma.
– Papà, ma perché la mamma va sempre a Milano per lavorare?
– Ma non ci va mica sempre, Ginevra. Andrà una volta al mese.
– E perché tu invece sei sempre qua?
– Be’, perché io faccio i disegni da casa e poi li spedisco in redazione, non ho bisogno di andare fino a Milano per cose di lavoro. E poi cosí posso stare con voi, no?
Mi fissa con insistenza.
– A te non ti vuole vedere nessuno, vero, papà?
– Già.
– Stasera prendiamo la pizza?
– Va bene, Ginevra. Fra un pochino telefono.
– Speriamo che ti rispondano.
L’albero storto.
Nel nostro giardino c’è un albero storto.
L’albero è molto alto e pericolosamente inclinato verso la casa. Quando tira vento forte, ondeggia sinistro.
Quest’estate ho chiamato una ditta specializzata. L’idea originaria era di risolvere il problema alla radice (sic) abbattendo l’albero. Paola però non era contenta. Continuava a bofonchiare che insomma, eliminare un abete solo per ridurre un rischio che forse non si presenterà mai, una pianta viva e in salute, non era giusto, ecco. Mi son perciò fatto fare due preventivi: uno per l’abbattimento e un altro per lo sfoltimento in imbragatura. Il caso ha voluto che lo sfoltimento costasse meno e abbiamo deciso di prenderlo come un segno del destino.
Sono arrivati in un’assolata mattina di luglio. Si sono arrampicati, hanno pelato ben bene l’albero dall’eccesso di fronde, dai rami pesanti e da quelli troppo sporgenti. Hanno ridotto l’effetto vela. Hanno riequilibrato la pianta fornendo precise garanzie sulla sua stabilità e promettendoci che cosí non sarebbe successo niente. «Anche se, oh, con la natura non si può mai esser certi al cento per cento».
Fatto sta che da luglio a dicembre l’albero si è storto sempre di piú. Ora che è quasi solo fusto, la cosa risulta ancor piú visibile. Se ti metti a una decina di metri e ne osservi il tronco, ti accorgi che è inclinato e piegato proprio come fosse un arco. Quando tira vento, ondeggia ancora piú sinistro.
Ieri pomeriggio, prima di andare a prendere le bambine, ho chiamato Paola in giardino. – Vieni a vedere, – le ho detto. L’ho portata nel punto di osservazione migliore e le ho indicato l’albero, percorrendo in aria col dito la curvatura del tronco.
– Eh, ma insomma, e basta con ’sta storia! È un albero fatto cosí, va bene? – mi ha detto. – A te l’ha mai fatto pesare nessuno che sei storto, eh? Eppure ti teniamo uguale –. L’ho guardata sorridendo. Non tanto perché ho pensato che aveva ragione da vendere. Ma perché nella vita le situazioni in cui ti ricordi davvero i motivi per i quali stai con qualcuno, i momenti in cui lo senti, saranno quattro o cinque in tutto, e se sei fortunato.
Uno dei miei motivi è che quando Paola e io ci siamo incontrati la prima volta eravamo due alberi storti. Abbiamo deciso di metterci insieme, ma ci è risultato evidente da subito che non era possibile che l’uno riuscisse a raddrizzare l’altro, né che dai nostri due alberi storti potesse venirne fuori uno solo diritto.
Però, appoggiandoci, è venuta fuori una capanna. La capanna è viva e cresce ogni giorno. Certe volte ondeggia sotto il vento forte.
Fino a qui, niente è riuscito ad abbatterla.
La birra.
Paola va a fare la spesa. Le chiedo di comprarmi le birre.
Siccome la volta scorsa le ho detto: «Prendi quella nella lattina gialla» – che Paola è astemia e le marche non le capisce – ed è tornata con una lattina argentata che al confronto la Peroni è una Weissbier artigianale fatta col malto d’orzo raccolto a mano da vergini bionde nelle notti rugiadose di luna piena, stavolta le fornisco indicazioni piú specifiche. Le dico: «Prendi qualsiasi birra, ma non quella nella lattina argentata, per favore. In particolare, se proprio vuoi andare sul sicuro, prendi quella nella lattina azzurra e grigio chiaro. O quella gialla».
Stasera apro il frigo, afferro la birra. La lattina è nera come la morte con una striscia blu nel mezzo. Sul davanti campeggia un enorme 12, che lei deve aver scambiato per il numero di maglia di un giocatore dell’Inter. Sta invece a indicare che la birra in questione è una triplo malto da dodici gradi. In pratica, una lattina di vino. L’ho bevuta un tre, quattro volte ed era quel periodo in cui continuavo a scrivere status romantici a cazzo su Facebook tra le sette e le otto di sera. Poi credo mi sia venuta l’epatite.
Rovisto in frigo senza speranza, alla ricerca di non so nemmeno bene io cosa. A un certo punto, scansando le acciughe e i cetriolini, le mie mani toccano una seconda lattina. La guardo. È quasi tutta rossa ma non è una Coca. Signore, ti ringrazio, forse in un impeto di esagerazione e affetto Paola mi ha comprato una seconda birra!
Leggo la marca. Mai sentita. Guardo la gradazione per non avere sorprese.
È una birra analcolica.
Alfabeto sentimentale.
La mia vita è scandita da ritmi sempre uguali.
I ritmi ruotano principalmente attorno alle bambine. La mattina ci sono la preparazione per la scuola e i giri di smistamento. Il giovedí c’è la pallavolo di Virginia, il sabato il viaggio dai nonni, di pomeriggio i compiti e le merende. Ogni sera i giochi sul lettone e le favole con canzoncine annesse. Pranzi e cene a lottare un centimetro alla volta per introdurre nuove possibilità, combattendo sullo sdrucciolevole suolo dei gusti.
Il martedí è il pomeriggio in cui Paola accompagna Virginia e Ginevra in piscina. Io resto a casa con Melania.
Quando siamo da soli, Melania dilaga. Sembra un castoro, abituato a nuotare tra dighe di tronchi, scagliato senza preavviso in mare aperto. Prima vuole disegnare, poi vuole correre, poi chiede i biscotti, poi vuole bere, poi vuole scrivere sulla televisione, poi vuole stare in braccio ma vuole stare anche giú. Vuole tutto e non vuole niente, è energia allo stato puro, gioia elementare, moto perpetuo alimentato da una dinamo a briciole.
Io la adoro oltre ogni misura e limite. Perché ho la piena consapevolezza, quasi dolorosa certi giorni, che sarà la nostra ultima bambina piccola. Dopo di lei solo praterie di preadolescenze, porte che sbattono, maledette Winx e braccialetti di perline. Amo Simone, anzi no Mattia, Papà stai zitto, Non voglio l’insalata, e il resto del repertorio.
Melania invece me la godo ancora tutta e lei si gode tutto me. Sa che sono l’anello debole, lo ha capito dalla prima volta che l’ho presa in braccio in Maternità e l’ho cambiata con una mano sola mentre mi faceva la pipí nell’altra, sotto gli occhi divertiti dell’ostetrica.
Le cose cambiano, i figli crescono, tanto va la gatta al lardo che chi fa da sé fa per tre e una volta qua era tutta campagna. Io dovrei lavorare ma qui c’è il sole ed è campagna ancora. E oggi è martedí pomeriggio.
Perciò lavorerò stanotte, adesso mi godo momenti che serviranno a disinnescare futuri rimpianti. Faccio il mostro coi cuscini e accarezzo teste di riccetti. Scandisco il mio alfabeto sentimentale componendo torri coi cubetti.
Gli alfabeti sentimentali hanno tutte le lettere col punto esclamativo in fondo.
La prima lettera è A! e fa un suono rotondo.
I piedi e la musica.
– Papà, ma perché santa Lucia è cieca?
– Eh, Ginevra, perché un cattivo l’ha ferita agli occhi per farle fare una cosa che lei non voleva.
– E lei l’ha fatta?
– No.
– Ma se è cieca come fa a leggere le letterine dei regali dei bambini?
– Ah. Be’, penso che gliele legga il suo aiutante, il cocchiere che tira il suo asinello.
– E come si chiama?
– L’aiutante? Castaldo.
– Ma lei lo ama?
– Chi?
– Santa Lucia lo ama?
– Oddio, Ginevra, non lo so, non ci ho mai pensato. Sono sicuro che gli vorrà bene, certamente, ma non saprei dire se sono fidanzati o che.
– Ma se lei è cieca come fa ad amarlo?
– Eh? In che senso?
– Se non lo vede. Magari lui è brutto.
– Patata, senti. Tu vuoi bene al papà?
– No.
– Ecco. Cambiamo domanda. Vuoi bene alla mamma?
– Sí.
– Quando chiudi gli occhi le vuoi bene lo stesso?
– Sí.
– Ecco, con l’amore dei grandi è la stessa cosa, Ginevra. Non c’è solo quello che vedi, c’è soprattutto quello che senti, come quando ascolti le tue canzoni nelle cuffiette.
La osservo mentre ci pensa.
– Allora l’amore è come la musica, papà?
– Una specie, sí. Però non si ascolta con le orecchie.
– E con cosa?
– Be’, con tutto. Anche col naso. Anche con le mani. Anche coi piedi.
– Ma va’! Ma come fai coi piedi?
– Ti faccio un esempio. Sai cosa fanno le fidanzate coi fidanzati, per vedere se loro le amano davvero? Lo faceva sempre anche la mamma.
– Cosa?
– Quando all’inizio andavo a trovarla nella sua casetta, o mi veniva a trovare lei, e dormivamo insieme, di notte la mamma mi metteva sempre i suoi piedi ghiacciati sulla schiena, oppure sulle gambe.
– E tu cosa facevi?
– Li tenevo lí, e glieli scaldavo.
– Ma non ti facevano freddissimo?
– Un po’, sí.
– Ma quando la mamma ti metteva i piedi sentivi la musica, papà?
– Ogni volta.
Di fumetti e padri e figli.
– Come, i fumetti? – dice il padre.
– I fumetti, – dice il figlio.
– I fumetti quelli dei giornaletti? – dice il padre.
– Quelli, – dice il figlio.
– Sí, ma cosa significa che vuoi farli? – dice il padre.
– Che voglio farli. Disegnarli. Inventarli. Che voglio vivere immaginando storie e mettendole su carta. Poi un giorno voglio anche disegnare Tex, – dice il figlio.
– Tex? – dice il padre
– Tex. Il ranger. Quello con la…
– So chi è Tex, – dice il padre.
– E allora, – dice il figlio.
– E allora lo sai, – dice il padre, – che chi fa i fumetti di mestiere fa una vitaccia?
– Non è vero, – dice il figlio.
– Sí che è vero! – dice il padre. – Chi fa i fumetti di mestiere passa tutta la vita seduto, piegato su un tavolo. Non esce mai, disegna anche di notte, diventa un asociale. Pure un po’ pirla. Alla fine diventa uno convinto che il suo mondo sia tutto lí, nelle sue pagine e basta.
– Vuoi dire come te con le poesie che scrivi sui tuoi quaderni? – dice il figlio.
– Ma che c’entrano le poesie? – dice il padre. – Le poesie sono poesie. Non vorrai mica paragonare i giornaletti alle poesie, perdio! Le poesie mi servono. Sono la maniera che ho usato negli ultimi quarant’anni per resistere a questo schifo di mondo e anche a un lavoro che non ho scelto, – dice il padre.
– Ecco, appunto, – dice il figlio.
– Appunto cosa? – chiede il padre.
– Io lo sto scegliendo, invece. Te lo sto dicendo adesso, lo capisci?
– Che?
– Il mio lavoro! Lo sto scegliendo. Te lo sto dicendo. E sto scegliendo anche la mia maniera di resistere, farò entrambe le cose insieme. Il mio lavoro sarà la mia maniera di resistere! – urla il figlio.
– Ma lo sai che quelli che fanno i fumetti son tutti poveri? Eh? Lo sai, almeno? Lo sai che non hanno la pensione? E quando avrai dei figli? Eh? Come farai? – incalza il padre.
– Ma non è vero, – dice il figlio. – Ci sono anche fumettisti che sono diventati milionari! Non moltissimi, ma ci sono. E poi scusa, papà, ma tu sei ricco?
– Ma che c’entra, – dice il padre.
– E hai avuto dei figli, no? – dice il figlio.
– … – non dice il padre.
– Ecco, – dice il figlio.
– Va bene, ho capito! E allora fai ’sti fumetti! Ma prima finisci l’università, almeno!
– E a che mi serve, scusa?
– A fare i fumetti meglio, – dice il padre. – E anche per avere qualcosa da cui sfuggire, un giorno. Che, se non ce l’hai, rischi di fare dei fumetti di merda.
Il figlio guarda il padre, incredulo. Il padre guarda la tivú, incredulo. Al telegiornale stanno intervistando Brunetta da quattro minuti. Gli viene voglia di scrivere una poesia.
– Comunque, – dice il padre, – tu non diventare uno di quelli milionari, fammi ’sto piacere. Fai i fumetti, se proprio devi. Ma punta a vivere normale e basta.
– Eh? Perché? – dice il figlio.
– Perché i milionari son tutti stronzi, – dice il padre. – E già avrò un figlio fumettaro e pirla. Ma almeno, stronzo, quello no.
Il figlio scoppia a ridere. Il padre dopo un po’ ride anche lui.
Per pochi secondi sembrano avere la stessa età.
Il caffè «Caffè».
Ho cambiato marca di caffè.
La compro al discount. Si chiama caffè «Caffè».
Il caffè «Caffè» ha la confezione giallo ocra e si trova accanto ai detersivi in offerta. Lui però non è in offerta mai, lo paghi sempre al prezzo pieno: novanta centesimi.
Sui caffè di marca nota, se leggi gli ingredienti sul retro del pacco, generalmente trovi scritto: settanta per cento robusta e trenta per cento arabica. O viceversa. Grado di tostatura, provenienza dei chicchi, un maldestro tentativo di descrizione di aroma e caratteristiche.
Sul caffè «Caffè» invece c’è scritto, ingredienti: caffè.
In realtà, vi dirò: nonostante il nome dichiari fieramente il contrario, io non sono cosí sicuro sia proprio caffè caffè, eh. Quando apro la confezione, infatti, invece di essere rapito da quella folata aromatica di tostatura e caffeina, che pervade le narici per mezzo minuto e mi riporta invariabilmente al tiramisú di mia nonna, il caffè «Caffè» emana solo un vago sentore di bruciacchiato che somiglia a quando cuoci troppo un toast.
Quando lo travaso nel barattolo che uso da diciassette anni, il caffè «Caffè» presenta due colorazioni distinte, come le venature del Colgate. C’è una vena marrone piú scura e una visibilmente piú chiara. Non si mescolano, il loro stato non fluido le condanna a questa separazione sedimentaria. Convivono.
L’idea che mi sono fatto è che quello di colore piú chiaro sia in effetti caffè caffè, mentre per quello di colore piú scuro ho elaborato due ipotesi: la prima è che tostino non solo i chicchi – la parte piú chiara – ma pure altre parti della pianta, tipo i baccelli, o le foglie, o i gambi (in questo momento non ho presente come sia fatta una pianta di caffè, perdonate). La seconda ipotesi è quella che avete pensato anche voi.
Il caffè «Caffè», quando sale nella moka, non fa il proverbiale fischio che sancisce il risveglio. Sale e basta. Questa cosa un pochino mi deprime. Però il mattino alle cinque e mezza ha una sua comodità, perché riesco a farmi il caffè nel piú totale silenzio.
Il caffè «Caffè», quando lo bevi, giuro, sa di caffè. È un mistero. Se avvicini il naso alla tazza fumante, sembra di annusare un copertone cui hanno dato fuoco con la grappa. Eppure il sapore è inequivocabilmente: di caffè.
Forte di questa cosa, ho deciso che la settimana prossima voglio provare le patatine «Patatine». Secondo me, anche se quando le apri sanno di banana fritta, non devono essere male.
All’improvviso, immagino un mondo di ridondanze in cui ogni cosa si chiami col proprio nome, ma due volte. In cui ci siano i caffè caffè, le case case, gli alberi alberi, i vaffanculo vaffanculo. Un mondo che se ne frega della sintesi, in cui perderemmo il doppio del tempo per dire, dove le polemiche su Facebook sarebbero interminabili e una puntata di Ballarò vista per intero spingerebbe al suicidio.
Ma anche un mondo in cui Will Hunting durerebbe quattro ore e Norwegian Wood di Murakami mi offrirebbe riparo per tutto il luglio dei miei ventidue anni, come una penombra. In cui le canzoni sarebbero lunghissime e i balli lenti interminabili.
Un mondo immaginario nel quale potremmo guardare nel profondo degli occhi occhi quell’unica donna e dirle senza paura di sentirsi ridicoli:
«Ti amo ti amo».
Vuoi mettere.
Le trecce.
In auto, andando all’asilo.
– Papà, ma perché stamattina la mamma si è alzata anche se ha la febbre?
– Eh, Ginevra, si è alzata appositamente per farti le trecce, pensa.
– Ma perché non me le fai tu?
– È che i papà, purtroppo, non sono tanto bravi a fare le trecce.
– Papà! Ma cosa dici?
– È la verità, Ginevra. I papà in genere con le pettinature sono un disastro. Io, di sicuro.
Entriamo, ci sediamo sulla panca e le infilo il grembiulino. Davanti a noi c’è un padre che armeggia con la figlia. Le ha appena tolto il berretto, evidentemente di corsa – pivello – demolendo il lavoro di fino fatto a casa dalla moglie, o dalla nonna, o dalla sorella piú grande, non so. Certo non da lui. Ha la disperazione dipinta sul volto.
– Madonna, Emma. Guarda qua! Vieni, che ti do una sistemata, madonna!
Sta cercando di aggiustare due codini con una tecnica ninja che mi sfugge. È incredibile, sembra quasi che non riesca a fare il doppio giro di elastico, una delle tre tecniche base della scuola di Hokuto per le acconciature. Suda.
A un certo punto si volta verso di me e gli parte un’occhiata supplichevole, non so se intenzionale. Magari stava solo fissando il vuoto cercando di ricordare il secondo principio della termodinamica.
– Vuoi una mano? – mi viene d’istinto.
– Ah! Sí sí, grazie! È che io non sono molto…
– Tranquillo, nemmeno io.
Ci sorridiamo complici, per lenire il nostro senso di inadeguatezza.
Lavoriamo insieme per qualche minuto, lui al codino sinistro e io a quello destro. Emma entra in classe che sembra uscita da una lavatrice, ma lui pare soddisfatto.
Quando il papà esce, prendo mia figlia da parte.
– Visto, Ginevra?
Glielo dico apposta, indicandole la bimba con lo sguardo, sottintendendo: «Te l’avevo detto che i papà».
Mia figlia le osserva la testa con gli occhi che brillano e l’aria sognante.
– Sí, quella bambina ha una pettinatura bellissssima!
Okay, deciso: da domani trecce io. Oppure si torna sereni alla cara vecchia fascetta di Sandokan.
Magari mi porto due fascette in piú nella tasca, che secondo me, agli armadietti dell’asilo, le smercio facile.
Quello che le donne non dicono.
La notte passata sono stato vittima del peggior mal di stomaco che io ricordi.
Una cosa improvvisa, che dopo cena mi ha anestetizzato il corpo togliendomi progressivamente il respiro, come se mi avessero riempito di pugni. Avrei solo voluto restare immobile sotto le coperte, con le mani sulla pancia. Invece Melania, che di solito dorme serena e senza problemi, stanotte si svegliava di continuo. Si svegliava e piangeva. La portavamo nel lettone ma continuava a piangere. Non voleva latte, o biscotti, o cartoni, niente. Per cinque volte si è assopita e l’abbiamo rimessa nel lettino, ma dopo pochi minuti piangeva daccapo. Allora ho detto a Paola, che a sua volta ieri non stava bene, che dato che non riuscivo a dormire per il male era inutile stessimo svegli entrambi a causa della piccola, tanto valeva dormisse almeno lei. Ho sollevato Melania piangente e lei mi ha teso le braccia come fa sempre, in quella maniera che riempie i cuori dei padri di un orgoglio ancestrale. Nessuna damigella salvata dalla torre potrà mai competere con la sensazione di salvare una figlia dal buio del proprio lettino. Siamo andati in soggiorno e ho provato ad accenderle i cartoni e cullarla un po’, ma non è servito. Allora mi sono steso sulla schiena e me la sono sistemata addosso. Ho tirato su le due coperte che ho trovato sul divano e ci siamo accoccolati lí, come fanno i gatti. Melania ha chiuso gli occhi sopra di me. Dopo un po’, il tepore del suo corpo ha cominciato a lenire il mio dolore, quasi fosse una piccola borsa dell’acqua calda. Il suo respiro sulla mia faccia, la sua testa incastonata nell’incavo del mio collo, i nostri diaframmi che nel giro di qualche minuto si sono sincronizzati, la posizione scomoda ma perfettamente naturale dei nostri corpi mi hanno trasportato in una dimensione quieta e densa. Sono quegli interstizi che i padri conoscono. I privilegi degli uomini quando hanno a che fare con la propria maternità. Stringere un pianto al proprio petto, ascoltarlo andarsene ed essere sostituito da un sonno prima irrequieto poi profondo. Abbandonarsi al precipizio del presente ed essere lí, corpo su corpo alle tre del mattino, la musica dei cartoni in sottofondo, la lampadina del soggiorno negli occhi, il cuscino messo male che vorresti sistemarti meglio ma non puoi. Capire in fretta che una posizione di fortuna può diventare la posizione perfetta, il miglior punto di osservazione su tutto il resto.
Quel che le madri non sospettano è che quando i padri si alzano alle tre di notte per coccolare i figli non è per fare i gentili, né per lasciarle dormire. È solo per recuperare il senso. Respirare, stringere, stare a godersi quel che c’è. Sentirsi un po’ piú vicini a una cosa che in fondo non hanno mai avuto e mai avranno.
Perché quello che le donne non dicono non è niente in confronto a quel che gli uomini non sanno.
Gli occhi di Andy García.
Vado a prendere Virginia a scuola, perché il giovedí ha pallavolo.
Mentre sono in giardino in attesa che suoni la campanella, mi accorgo che una mamma mi osserva a intermittenza. La vedo che si guarda attorno con aria spaesata. Poi si volta ancora verso di me. Infine si avvicina. La mamma è bionda, ha un cappottino grigio con i bordi delle tasche piú scuri e un berretto bianco leggero. Avrà quarant’anni. Quando mi è di fronte scopro un accenno di lentiggini, porta un paio di occhiali con la montatura blu che le fanno gli occhi piú grandi. Io sembro Babbo Natale in borghese poco prima che gli dicessero della prostata.
– Ciao, – mi dice, – sai mica se oggi escono dopo, per caso?
– No, – dico, – non credo.
– Perché di solito a quest’ora sono già usciti, no?
– Non so, – dico. – Non ho l’orologio. Io mi metto sotto il platano e aspetto.
– Ah, proprio cosí… zen.
– No no, che zen. È che odio gli orologi, e allora.
– Ah. Be’, ma dài, avrai un cellulare che indica anche l’ora, no?
– Sí, – dico. – È a casa sulla scrivania.
– Ahahah –. Mentre ride noto che ha gli incisivi leggermente separati.
– Comunque i genitori sono tutti qui e non mi sembrano agitati, – dico. – Quindi penso sia tutto a posto.
– Però è strano, dài. A quest’ora dovrebbero essere già usciti.
– Guarda, forse è meglio se chiedi a qualcun altro. Perché io vengo solo il giovedí, e francamente ignoro se ci siano stati cambiamenti.
– Okay.
Resta lí. Incrocia le braccia sul petto e attende accanto a me sotto il platano. Passano altri cinque minuti e niente.
– Comunque io sono Francesca, – dice allungando la mano aperta.
– Matteo, – dico.
– In che classe è tuo figlio?
– Figlia.
– Ah, hai una figlia anche tu?
– Ne ho tre.
– Ma dài!
– Sí.
– Scusa. Posso dirti una cosa senza che la prendi in maniera strana?
– Dimmi.
– Hai gli occhi uguali a Andy García.
– Ah, – dico. – Grazie?
– Sí sí, era un complimento, – dice. – Assolutamente.
Suona la campanella. I bambini escono in giardino in file ordinate, capeggiati dalle proprie maestre. Virginia mi vede, chiede il permesso alla sua, poi mi corre incontro.
– Ciao papà! – mi dice.
– Ciao amore. Sbrighiamoci che siamo in ritardo per pallavolo.
– Sí! – dice.
Mi volto un attimo per salutare la mamma, ma non c’è piú. La scorgo vicina al cancello del lato opposto. Tiene per mano una bambina, penso di quinta, comunque sicuro piú grande della mia. Prima di uscire si volta nella nostra direzione. Alza la mano per salutarmi. Saluto anch’io.
– Papà, – dice Virginia.
– Sí?
– Hai una caccola gigante attaccata al naso.
– Davvero?
Mi strofino il naso con la mano prima e col fazzoletto poi. Cerco di ripensare a tutta la conversazione appena avuta, immaginandomi con una caccola gigante attaccata al naso.
Tanto che mi frega, penso. Ho gli occhi uguali a Andy García.
Favola di Natale.
Sono dal medico.
Sono seduto nella sala d’attesa insieme a una ventina di persone. Ho la barba lunga, un berretto di lana calato sul viso, la febbre e gli occhi rossi. Nella stanza fa un caldo infernale e secco che mi fa tossire in continuazione.
I presenti mi guardano come un appestato. La signora seduta di fianco a me si alza facendo finta di cercare una rivista, poi va a sedersi da un’altra parte.
Dopo circa venti minuti si apre la porta ed entra un signore. Sui sessantacinque, vestito male, spettinato, ha i pantaloni sporchi e si esprime in un dialetto cosí stretto che mette a dura prova la mia conoscenza dell’idioma nativo. Mentre parla con la signorina della reception, noto che ha solo due denti. Lei lo guarda come fosse un clochard, con un misto di incredulità e sdegno. Gli sguardi degli altri presenti non sono da meno.
Il signore stringe nella mano destra un sacchetto di plastica azzurro e bucato. L’unica cosa che si riesce a comprendere con chiarezza di ciò che dice è: – È arrivata la dottoressa?
Continua, come un mantra: «È arrivata? È arrivata?» e la signorina della reception gli dice che sí, però lui si deve accomodare fuori perché ora è impegnata. Ma lui insiste: – È arrivata? – indicando la porta dello studio e dando l’impressione di voler entrare subito. Qualcuno tra i seduti mostra inquietudine, siamo tutti in attesa e molti pensano che il signore voglia saltare la fila. Il signore a un certo punto dice qualcosa che io intendo come: «Solo un attimo, devo vedere la dottoressa solo un attimo», e la receptionist gli dice che no, deve aspettare. Fuori, gli dice. Io dico che, se vuole, se è davvero solo un attimo, lo lascio passare volentieri e gli cedo il mio posto. Il resto della sala manifesta la propria disapprovazione. Lui allora fa una specie di cenno con la mano, come a dire: «No no, aspetto», io mi alzo e gli lascio la mia sedia. Lui si accomoda e mi fa un sorriso a due denti. La signorina, che se lo immaginava ad attendere fuori, visto che tutte le sedie erano già prese, mi guarda malissimo.
Cinque minuti dopo il signore si alza, si dirige di nuovo verso la reception e porge il sacchetto azzurro alla signorina. – Deve aspettare, – gli dice lei. Ma lui insiste e le porge il sacchetto quasi con urgenza e dice che non vuole farsi visitare e non può fermarsi, era passato solo a fare gli auguri di Natale alla dottoressa. La signorina della reception accenna un sorriso tirato e dice: – Ah –. Il signore le passa il sacchetto ed esce dalla porta elargendo a tutti: – Buon Natale, buon Natale, – e ridendo coi suoi due denti.
Nella stanza cala improvviso un silenzio di legno. La signorina abbassa il sacchetto azzurro e infine lo toglie, per sostituirlo con un altro giallo e senza buchi che ha già in mano. Poggia per qualche secondo il contenuto sul tavolino della reception.
Dentro il sacchetto del signore c’erano due bottiglie di vino senza etichetta, un pandoro del discount e un piccolo fiore rosso.
La minestrina.
Sono al tavolo del soggiorno che sto inchiostrando una pagina. Ginevra guarda fuori dalla finestra.
– Papà, ma perché se è inverno c’è il sole?
– Ginevra, il sole viene quando vuole, non è che in inverno piove sempre o c’è solo la nebbia.
– Ma tu avevi detto che quando veniva il sole andavamo al mare!
– No. Cioè, sí. Ma intendevo quando viene il sole dell’estate.
– E quanto manca all’estate, papà?
– Piú o meno sei mesi.
Fa una pausa, la vedo che sta riflettendo.
– Papà.
– Eh.
– Ma sei mesi sono prima di domenica?
– No, Ginevra, non ho detto sei giorni, sei mesi sono molto piú tempo.
– Meno male.
– Perché?
– Domenica la nonna mi fa la minestrina.
Dio e Rapunzel.
– Papà, che cos’è un musulmano?
– È una persona che crede in un Dio di nome Allah.
– Ma è diverso dal nostro?
– Sí e no, Virginia. Diciamo che in realtà indossa solo abiti diversi.
– In che senso?
– Come faccio a spiegartelo. Hai presente quando Ginevra si veste da Rapunzel? Si comporta in un’altra maniera e ti parla in modo differente, però tu in fondo sai che è sempre tua sorella, capisci che intendo?
– Sí.
Il nostro compleanno.
Oggi è il nostro compleanno.
Virginia compie otto anni di vita, noi otto anni come mamma e papà.
Ogni mattina, quando la sveglio per la scuola e lei mugugna mentre scende la scaletta del letto e mi si butta in braccio al buio, io sono di nuovo seduto nel mio tugurio da scapolo. Paola mi sta prendendo le mani e mi dice: – Su questo divano siamo in tre, – e io d’istinto mi guardo alle spalle pensando: «Dev’essere entrato ancora quel gatto dalla finestra».
Quel gatto era Virginia. Non era dietro di me, ma dentro Paola. Quindi non alle nostre spalle, ma proprio davanti a noi, a tracciare la nostra rotta insieme e a fondarci come famiglia.
Lascia stare che poi noi, per vocazione, s’è navigato a vista e alla faccia del cognome. È che siamo gente d’immaginazione. È solo che ci piace esser sorpresi e non abbiamo mai voluto stelle a orientare il nostro viaggio, nemmeno danzanti.
Ci è sempre bastato ascoltare il vento e avere fiducia nelle nostre mani.
E nei gatti dalla finestra, soprattutto in quelli.
Tutti per uno.
L’altra sera son venuti i ladri nelle case di due vicini.
Ieri, dopo il tramonto, Garrett abbaiava verso il bosco e sono andato a richiamarlo. Pensavo il solito gatto oppure un cinghiale, invece ho visto un’ombra che avanzava nel buio, illuminandosi il cammino con una piccola pila, tipo quelle del cellulare.
– Chi sei? – ho chiesto.
– Ho sentío dei rumori, – ha detto la voce.
Era il mio vicino di due case piú su.
– Eh, ho sentito dei rumori anch’io, ma eri te, – ho detto.
S’è avvicinato alla rete e mi ha raccontato dell’altra sera. Due ladri gli avevano rovistato in garage e lui, sentendo il trambusto, s’era affacciato alla finestra. Lo avevano visto ed erano scappati. Il vicino aveva preso la scacciacani e voleva sparargli per spaventarli col rumore, ma la moglie lo aveva fermato «perché sennò terrorizzi i bambini». Avevano chiamato i carabinieri e nel frattempo i ladri si erano dati per il bosco. Si erano fermati con calma a rubare per la seconda volta nella casa gialla giú in fondo.
Siccome Paola è via, stanotte ho deciso di dormire sul divano con la luce accesa. Ho barricato l’ingresso con la staccionata della Chicco e mi son tenuto a portata il mestolo da brodo in acciaio, che un coltello mi pareva eccessivo.
Verso le tre, un rumore violento mi ha svegliato di soprassalto. In tivú c’era un film di mostri su Italia Uno che, devo dire, non ha favorito la mia lucidità. Il cuore ha cominciato a battere forte, ho afferrato il mestolo e ho teso l’orecchio. Ancora un rumore, proveniva da giú. Ho stretto il pugno sul mestolo e mi sono infilato le infradito. Mi sono affacciato sulla scala a chiocciola e ho gridato: – Chi c’è? – In risposta, il silenzio. In effetti, ho pensato poi, è improbabile che qualcuno ti risponda: «Sono un ladro», ma sul momento non ci pensi. Ho aperto con uno gnek il cancellino che serve per impedire a Melania di rotolare giú dalla scala a chiocciola, e sono sceso piano. A fare la scala avrò impiegato dieci minuti, un minuto per gradino. Sentivo il mestolo sfrigolare nella mano come una spada laser Jedi. Ho fatto l’ultimo gradino con un balzo e il mestolo proteso in avanti, pronto al peggio.
In taverna c’era un cane chiuso a panino dentro una brandina. La molla aveva ceduto, era scattata, e Garrett era rimasto dentro per metà, stile tagliola da bracconiere. Cordelia lo fissava da un angolo, seduta e perfettamente composta. Ho liberato Garrett e ho rimontato la brandina e a quel punto, già che c’ero, ho pensato di portarli a fare pipí in giardino, cosí al mattino non avrei trovato sorprese da pulire.
Non appena ho aperto la porta della taverna, Garrett è filato fuori abbaiando, seguito a ruota da Cordelia. Siccome erano le tre del mattino, l’ho rincorso subito per richiamarlo. Garrett era incollato alla rete del bosco ad abbaiare come stessero atterrando gli alieni. Mi sono affacciato verso gli alberi, si sentiva un fruscio di foglie strascicate. Ho ascoltato ancora e non c’era dubbio fossero dei passi. Ho stretto il mestolo piú forte, pensando che avrei fatto bene a portarmi pure il wok, ma le buone idee ti vengono sempre quand’è troppo tardi.
– Chi c’è? – ho urlato nel buio.
I passi si sono avvicinati, io ho alzato inconsciamente il mestolo sopra la testa.
– Ho sentío dei rumori, – ha detto il vicino.
– Mavacagare, – gli ho detto, – per poco non mi veniva un infarto!
Il vicino ha acceso la piccola pila e mi ha illuminato la faccia.
– Stavíto facendo il brodo? – mi ha detto.
– Ah, no no, – ho detto, – è che ho preso la prima cosa.
Poi abbiamo sentito altri passi. Ci siamo voltati insieme.
– Chi c’è? – abbiamo detto all’unisono.
– Ho sentío dei rumori, – ha detto il secondo vicino.
Quando si è fatto avanti, abbiamo visto che stringeva in mano una pinza da camino. Il primo vicino, mi sono accorto solo in quel momento, serrava nella sinistra una pompa da bicicletta.
Se prendiamo un ladro, uno lo pizzica, il secondo lo gonfia, il terzo gli tira i tortellini.
L’uomo che non ride.
Stamattina ho visto un uomo che rovistava nei bidoni.
Stavo accompagnando le bambine a scuola e non c’erano posti liberi accanto all’ingresso, allora abbiamo fatto il giro due volte, poi ho parcheggiato la macchina un po’ piú su sulla salita. L’ho messa vicina ai bidoni gialli della Caritas, quelli per la raccolta degli indumenti per i poveri. Uscito dalla materna, mentre tornavo all’auto a piedi, è stato lí che l’ho visto. In città mi capita sempre piú di frequente, ma qui in paese non mi era successo mai.
Dall’altra parte della strada, un tizio grosso sui sessanta vestito con un giubbotto verdone guardava a braccia conserte l’uomo che rovistava, con un’espressione a metà tra la sorpresa e un’incazzatura crescente.
– Va’ a rumàr a casa tua! – ha urlato il tizio alzando il braccio, dal marciapiede opposto.
Quell’«a casa tua» non l’ho colto subito, e un attimo dopo mi sono reso conto che l’uomo che rovistava, il viso quasi completamente coperto da un berretto di lana a righe bianche e rosse e le mani affondate nel bidone, era di colore. Stavo per rispondere al tizio dall’altra parte, quando è intervenuta una signora anziana e minuta che scendeva appoggiandosi a un ombrello nero, quasi fosse un bastone, venendo proprio verso di me.
– Che càsso vúto! – ha urlato la signora al tizio dall’altra parte. – Se el rúma nel bidòn el sarà poarèto ànca lú, o no?
Il tizio è rimasto interdetto, non aspettandosi di essere aggredito, e in quel momento l’uomo che rovistava ha estratto dal bidone un paio di vecchi zoccoli di plastica rosa. Li ha guardati, se li è rigirati fra le mani e li ha infilati in un sacchetto giallo del supermercato. Poi ha fatto un cenno di saluto alla signora come se si conoscessero già, ed è andato via senza dire niente. Io mi sono avvicinato a lei e volevo quasi abbracciarla, invece le ho solo teso la mano in silenzio. La signora mi ha guardato da sotto in su, sospettosa. Poi me l’ha stretta.
– ’Ste teste de càsso, – mi ha detto riferendosi al tizio. – Rengràssia che a tí nela vita t’è sempre ’ndà tuto bèn! – ha aggiunto agitando l’ombrello nella sua direzione.
– Vécia rencojonida! – ha urlato il tizio dall’altra parte della strada.
– To màre! – ha risposto la signora.
È stato lí che il tizio mi è parso sul punto di attraversare. Poi invece, forse perché ha visto che c’ero io, forse perché si è reso conto di quel che stava per fare, è rinsavito. Si è allontanato camminando in salita di fretta, mentre muoveva la mano in aria come a dire «andate a cagare tutti e due».
– Signora, però deve stare un po’ attenta, – le ho detto.
– Ma che atènta! – mi ha detto. – Quel mona lí el conòsso da quando ch’el gavèa dieze anni. E l’è sempre sta’ mona!
Mi è venuto da ridere. Ho salutato la signora, le ho stretto la mano di nuovo, sono risalito in auto e sono ripartito.
Quando sono arrivato al semaforo, ho visto l’uomo del bidone che consegnava gli zoccoli di plastica rosa a una bambina sui dieci anni.
La bambina rideva, l’uomo invece no.
Le tasche piene di sassi.
Nei giorni scorsi siamo stati male.
Melania ha contagiato tutta la famiglia con un virus terribile che ha dato luogo a scene da Esorcista. Si è dormito poco, si è mangiato meno, si è lavorato peggio, si è interagito appannati e lenti e con nervosismo crescente. Ginevra e Melania sono a casa da cinque giorni, Virginia è capitolata solo stamattina. Proprio per questo, fino a oggi è stata gelosa e scostante. Era l’unica ad andare a scuola, a essere costretta a prepararsi al mattino, senza la solidarietà delle sorelle e le pettinature della mamma. In piú di un’occasione mi è capitato di sgridarla, anche a causa della stanchezza.
Poi ieri sera, guardando il suo profilo di giovane donna che terminava i compiti sbuffando, mi sono ricordato di quando era una testa di riccioli piccola e inerme, quando a due anni sapeva a memoria Il libro della giungla e lo sfogliava recitando il testo con timing da doppiatrice, mentre io le facevo i filmini di nascosto per far credere agli amici che a due anni sapesse già leggere. Oggi invece va a scuola, dice che le piace uno che poi cambia il giorno dopo, si è appesa accanto al letto la foto di Marco Mengoni ed è a un passo dal mandarmi affanculo.
Essere padre è un’esperienza crudele.
Tua figlia avrà otto anni una volta sola e quattro anni una volta sola e due anni una volta sola, mentre ti trovi ad assistere ogni giorno, ogni ora, ogni minuto a una serie di spettacoli per i quali non sono previste repliche. Tu fra i trentacinque e i quaranta consumi nuove esperienze, fai cose, ma ti sembra nella sostanza di rimanere la stessa persona. Mentre loro tra i due e gli otto anni imparano a parlare, a scrivere, ad articolare ragionamenti, sviluppano gusti e indipendenza di giudizio. Diventano.
La cosa che non sai è che non è vero che tu resti la stessa persona. Perché mentre loro imparano la vita, tu impari a essere padre, cioè impari la tua seconda vita. Che vuol dire smettere di essere e cominciare a esserci, sapere che quel che c’è passerà presto, riuscire a cogliere la fortuna di quel sorriso tutto per te anche quando sei stanco, la bellezza di quel gioco anche se sei nervoso, la meraviglia di quei sedici chili che vogliono dormire solo addosso al tuo sterno anche quando sei devastato dalla stanchezza e daresti di tutto per dormire a pancia sotto, senza una manina che ti rovista nel naso. Il fatto è che le tue narici saranno uguali anche fra cinque anni. Quella manina invece no. E pure quella voglia di dormirti addosso se ne andrà, e tu maledirai ogni giorno che non ti sarai goduto, ogni carezza non fatta a quei capelli quando ce li avevi lí a portata, e quando lo spettacolo si sarà spostato su altri palcoscenici in cui non potrai essere presente, quando non sarai piú in prima fila ma fuori dalla porta, dormirai apposta sulla schiena solo per ricordare.
Essere padre t’insegna a stare sul pezzo, sempre. So che ci sono persone che lo fanno lo stesso, che non hanno alcun bisogno di avere figli per saperlo, è di sicuro una questione di attitudine e intelligenza. Una roba individuale, come si dice. Ma io, che non ho mai brillato per arguzia, l’ho imparato solo cosí.
Una volta il tempo lo perdevo a pacchi, oggi invece lo guadagno ogni giorno. Non mi sento un adulto che diventa vecchio mentre le mie figlie diventano giovani, ma somiglio a un vagabondo inesausto che lungo il cammino si riempie le tasche di sassi. Ognuno di quei sassi è un ricordo che con la sua consistenza mi racconta che c’ero. I sassi mi rallentano e mi rendono piú pesante, ma ognuno mi ancora al presente e mi fa diventare fondamenta per il futuro di qualcun altro. Quel futuro lí è ciò per cui lotto ogni giorno, lavoro anche con la febbre, non dormo per farmi cuscino, ho tutte le pareti di casa scritte di pennarello perché i muri sono solo muri mentre ciò che fa la differenza, almeno la mia, almeno quella che conta, sono i sassi che riuscirò a portare con me, finché le tasche non cederanno. Quando i sassi rotoleranno a terra, resteranno lí per chi vorrà raccoglierli. Alcuni magari scritti su iPad sotto forma di una nota alle nove di mattina, prima di scendere a lavorare, un caffè ormai freddo poggiato in equilibrio su un bracciolo del divano, mentre una figlia si addormenta con la testa sulle mie ginocchia e la schiena è ancora robusta e le mie tasche piene di posto.