II. L’IDEA IMPERIALE
Prima Parte
Lo studio delle idee e dei sentimenti politici è sempre di un’estrema difficoltà, in ragione di vari ostacoli; tra questi, i principali sono i seguenti. In una stessa coscienza, queste rappresentazioni, intellettuali o affettive, formano un tutto ben connesso. Esse si fondono le une nelle altre. Al contrario, per analizzarle occorre esaminarle in modo separato. Questa suddivisione è in larga misura artificiosa. D’altronde, una stessa istituzione, come l’Impero, è stata concepita e sentita in modo assai diverso, secondo le epoche, e, nel contempo, secondo i differenti ambienti sociali. È pressoché impossibile, nell’esposizione e spesso anche nella ricerca, entrare nel dettaglio di queste sfumature. Infine, idee e sentimenti sono conoscibili soltanto attraverso quanto ci rivelano i testi (accessoriamente nei monumenti figurativi e nei riti). Ora, la testimonianza è spesso distorta, soprattutto nel Medioevo, e altrettanto sospetta di insincerità, per l’impiego di stereotipi letterari o per interessi politici o personali. Difetto ancora maggiore è dato dal fatto che i testi in generale sono opera di «scrittori» di mestiere, letterati o chierici di cancelleria. Sarebbe puerile attribuire a Federico I o a Federico II tutte le teorie elaborate dai loro notai, oppure a tutti i Tedeschi senza eccezione le posizioni di parte di Walther von der Vogelweide o dell’autore del Ligurinus. Pertanto ci importa conoscere, piuttosto che le concezioni o le fantasie di qualche retore professionale, i pensieri e le aspirazioni degli uomini di azione e lo stato di spirito delle masse. In quanto segue io sarò obbligato a procedere alle necessarie semplificazioni, di cui occorrerà tener conto.
1. Le memorie storiche: tradizioni romane e carolinge
Una parte del prestigio di cui brillava il nome di Imperatore si fondava sulle memorie storiche che esso evocava. Sarebbe un grave errore, in effetti, credere che gli uomini dei secoli XII e XIII fossero insensibili alla storia. Essi la conoscevano in modo inesatto. Per loro essa si confondeva spesso con la leggenda. Ma questa storia, in larga parte fittizia o mal compresa, nutriva la loro immaginazione. Agli individui istruiti, soprattutto ai chierici, essa era trasmessa dalle immense cronache universali, allora così numerose. A Federico Barbarossa, suo zio, il vescovo Ottone di Frisinga, dedica la sua grande Historia de duabus civitatibus, una sorta di Discorso sulla storia universale. Per un pubblico che non leggeva il latino, un chierico di Ratisbona, che forse è lo stesso prete Corrado a cui si deve il celebre adattamento tedesco della Chanson de Roland, attorno al 1150 racconta in versi tedeschi – più di 17.000 versi – la storia dell’Impero, da Augusto a Corrado III. Nel secolo XII la nobiltà, in generale, è istruita, legge o soprattutto volentieri ascolta leggere, e anche coloro che ignorano le cronache raccolgono frammenti di storia sia attraverso i poemi epici, sia ancora attraverso le tradizioni puramente orali, che – è ben noto – correvano, per esempio, intorno a Carlo Magno. Queste narrazioni, agendo sugli spiriti in modo più forte del diritto, essenzialmente consuetudinario, o della religione, di natura tradizionalista, spinsero a credere che il passato fosse di per sé una cosa venerabile, sulla quale il presente si doveva modellare.
La monarchia imperiale si ricollegava a due grandi ricordi: la memoria dei Carolingi, soprattutto di Carlo Magno, e degli antichi Imperatori romani.
La tradizione carolingia era stata sempre viva nell’Impero. Perciò si spiega la scelta del luogo abituale – non obbligatorio, è vero – delle consacrazioni regie: ad Aquisgrana, la chiesa stessa in cui si vedeva la tomba di Carlo Magno. A torto o a ragione, si pensava che attraverso la madre di Enrico III, l’Imperatrice Gisella, la dinastia salica e di conseguenza, dopo di essa, la dinastia sveva, che ne era derivata in linea femminile, discendessero dal «generoso e antico seme carolingio»13. Sotto Federico Barbarossa si assiste in modo netto, nell’entourage del sovrano, a un’operazione concertata per valorizzare queste grandi memorie. Si costruisce un falso diploma di Carlo Magno per la chiesa di Aquisgrana, in cui si inserisce una delle espressioni più chiare che possediamo della teoria costituzionale imperiale. Un poeta latino, conosciuto sotto il nome di Archipoeta, che era al servizio del cancelliere dell’Imperatore, l’arcivescovo di Colonia Rainaldo di Dassel, mostra Federico «che trafigge i ribelli con la sua lancia vendicatrice, ripresentandoci Carlo dalla mano vittoriosa»14. La cancelleria stessa si compiaceva a riprodurre, in apertura di molti atti imperiali, il ridondante protocollo con cui iniziavano i diplomi di Carlo Magno15.
Ma c’è di più. Carlo Magno, noi lo sappiamo, era seppellito ad Aquisgrana. Ottone III, nell’anno mille, aveva fatto ricercare la sua tomba, allora, sembrerebbe, pressoché dimenticata, e l’aveva fatta aprire al fine di contemplare quei resti prestigiosi: episodio romantico che la leggenda riveste presto di colori ancor più romantici. Federico I osò una strada ancor più ardita. Collocò Carlo nel rango dei santi della Chiesa. La rimozione delle reliquie ebbe luogo, in pompa magna, il 29 dicembre 1166. Sfortunatamente, questa «canonizzazione» – è la parola impiegata da un diploma imperiale di dubbia autenticità, è vero, ma certamente redatto da un contemporaneo – si appoggiò sull’assenso di un Papa, Pasquale III, che, opposto dalla parte imperiale all’eletto dalla maggioranza dei cardinali, nella tradizione cattolica è considerato un antipapa: così che un dubbio aleggia ancora oggi sulla legittimità dell’atto e non si sa di preciso se Carlo Magno sia davvero «san Carlo Magno».
Ecco dunque, a quanto pare, il largo posto fatto alla tradizione carolingia. Tuttavia, sotto lo stesso Barbarossa, questa tradizione non sembra essere stata in primo piano; e in seguito si riduce visibilmente. Per trovare, intorno all’anno 1200, una monarchia ispirata al ricordo di Carlo Magno, impegnata a ravvivarlo e a sfruttarlo, non bisogna rivolgersi verso la Germania, ma verso la monarchia capetingia, quella di Filippo-Augusto. Perché questa debolezza relativa e perché l’affievolirsi in Germania di questo aspetto della memoria storica? I miei studi mi hanno portato spesso a pormi la questione, senza che io possa, ancora oggi, risolverla in maniera soddisfacente. Senza dubbio occorre attribuire grande importanza a contrasti puramente letterari. In Francia le letteratura epica, assai presto, ha reso popolare la leggenda carolingia. La Germania, per contro, su tale materia ha conosciuto soltanto una letteratura di riflesso; la sua epopea si è diretta in altre direzioni. Resterebbe, è vero, da spiegare perché la Germania non abbia avuto gesta carolinge autoctone. Io non so se l’esistenza di temi leggendari propriamente germanici, che si offrivano con facilità allo sfruttamento poetico, sia sufficiente a rendere conto di questa singolare carenza. In ogni caso, le cose stanno così. È probabile che, alla fine del secolo XII, per la massa del pubblico tedesco la leggenda di Carlo Magno già sapesse di estraneo, di francese; perciò doveva risultare assai poco adatta a sostenere una monarchia agli occhi di coloro a cui il regno capetingio – malgrado le eccellenti relazioni di Filippo-Augusto o di san Luigi con gli Hohenstaufen – non poteva mancare di apparire come un rivale. Del resto, gli Imperatori avevano da invocare altri precedenti, che erano di loro pertinenza e nessuno poteva loro contestare (naturale che essi vi si attaccassero di preferenza), ovvero quanto offriva l’antico Impero romano. In un atto del 26 settembre 1165 il Barbarossa cita, tra i suoi «predecessori», a fianco di «Carlo» (Carlo Magno) e di Ludovico (il Pio), Costantino, Giustiniano e Valentiniano16.
Visioni tradizionali, che risalgono all’umanesimo del secolo XVI, ci spingono ancora oggi a immaginare una profonda frattura tra quella che noi chiamiamo Antichità e quello che chiamiamo Medioevo. Gli uomini dei secoli XII e XIII non vedevano le cose in questa maniera. Il loro pensiero, quando si riferiva alla storia, in generale era dominato dalla nozione dei quattro Imperi, che dipendeva dalla profezia di Daniele. In ordine di tempo, il quarto Impero era l’Impero romano, dopo il quale doveva avvenire la fine del mondo. Questa non era ancora arrivata: dunque, verso il 1200, si era ancora sotto l’Impero romano. Naturalmente, questa rappresentazione aveva una forza particolare nello spirito dei principi che si chiamavano Romanorum Imperatores, e in quello dei loro sudditi. La Kaiserchronik, l’ho già detto, comincia da Augusto e prosegue in modo ininterrotto fino al primo degli Hohenstaufen, Corrado III. «Io ho trattato», scrive Ottone di Frisinga nel prologo del suo Libro delle due città, «della serie degli Imperatori romani […] fino a colui che regna oggi».
L’idea di questa continuità di tradizione faceva parte del più antico patrimonio della storiografia medievale. Ma, all’epoca degli Hohenstaufen, più che mai seduceva gli spiriti, poiché andava nella stessa direzione della corrente generale delle idee. Oggi si parla volentieri del «Rinascimento del secolo XII». L’espressione non è inesatta. Non soltanto, in effetti, questo secolo vede prodursi nell’ordine dell’intelligenza un vero rinnovamento; ma tale fermento intellettuale, estremamente intenso e originale, trovò – come più tardi il grande slancio del secolo XVI – il proprio alimento prediletto nei modelli letterari antichi. C’è un umanesimo del secolo XII. Il ritorno al classicismo non poteva non esercitare la sua azione anche in ambito politico. Esso ispira direttamente due movimenti, molto differenti e tuttavia imparentati.
Da una parte, nella stessa Roma quando, nel 1143, la popolazione della città si rivoltò contro il Papa. Questa insurrezione comunale, nei suoi inizi, simile a quelle di cui tante altre città, in lotta contro il signore-vescovo, erano state teatro, prese presto il carattere di un tentativo di ricostituzione quasi archeologica: ristabilimento del Senato, ricomparsa dell’acronimo S.P.Q.R. sulle iscrizioni. La direzione di questa curiosa iniziativa fu assunta da un chierico istruito, Arnaldo da Brescia. I Romani cercarono di negoziare con i Re tedeschi, Corrado III e poi Federico I. Essi chiedevano soltanto di trovare sostegno nell’Impero, ma volevano un Impero veramente romano, il cui capo risiedesse nella Città Eterna. Essi pretendevano ancora, se non di eleggere l’Imperatore, almeno di confermarlo. Federico Barbarossa non si curò di questo Impero, italiano, popolare e anticlericale, aiutando invece il Papa a domare la rivolta romana.
Ma – e questo è il secondo aspetto dell’influenza politica esercitata dall’umanesimo – il sovrano tedesco e il suo entourage non erano meno sensibili alla gloria del passato romano di quanto lo fossero Arnaldo da Brescia e i suoi seguaci. Soltanto ne interpretavano la lezione in senso differente: era l’Impero, non il Senato, che essi volevano ristabilire nella sua antica grandezza. Una parte delle loro idee in proposito era stata ispirata dai giuristi italiani. Sempre in Italia si era mantenuto il gusto per gli studi giuridici e nelle scuole si era insegnato il diritto. Ma, alla fine del secolo XI, anche in questo ambito si era prodotto un rinnovamento. Le grandi compilazioni giustiniane, pressoché cadute in oblio, furono ritrovate, diventando oggetto di insegnamento – soprattutto nella grande scuola di Bologna – e materia di numerosi commentari, di «glosse». La rinascita del diritto romano è una delle forme – una delle più precoci e importanti nei suoi effetti – della grande Rinascita dell’Antichità. Nel Codice e nel Digesto si vedeva rivivere un Impero bene ordinato, governato da un Imperatore assoluto. I giuristi che in Italia si dedicavano allo studio del Corpus iuris, i glossatori, furono per la maggior parte devoti agli Imperatori. Molti si misero al servizio dell’amministrazione imperiale. Taluni vissero nell’entourage di Federico Barbarossa durante i suoi soggiorni a sud delle Alpi.
Un documento giuridico, appunto, fornisce la manifestazione più caratteristica, al tempo del Barbarossa, di ciò che si può chiamare la teoria della continuità dell’Impero. Nel novembre 1158, alla dieta di Roncaglia era stata promulgata una legge in favore degli studenti17. Essa si chiude con queste parole: «Noi ordiniamo che questa legge sia inserita nelle costituzioni imperiali sotto il titolo ne filius pro patre», intendendo che la legge dovrà essere inserita nel Codice Giustiniano, al libro IV, titolo 13, al seguito di frammenti delle costituzioni di Gordiano e di Diocleziano, di cui la più recente era del 294 d.C. Come testimoniano numerosi manoscritti, l’ordine venne eseguito. Non si potrebbe sottolineare meglio la volontà di rinnovare la catena della tradizione legislativa. Del resto, indipendentemente da decisioni venute dall’alto, per la mera comodità del lettore, altre costituzioni degli Hohenstaufen furono aggiunte dai glossatori a differenti titoli del Codice. I maestri di diritto applicarono anche a questi atti dei sovrani contemporanei il medesimo procedimento che essi usavano correntemente per quelli della legge di Giustiniano, che, essendo posteriori alla confezione del Codice, non vi avevano trovato posto. Piuttosto che usare una raccolta a parte di queste disposizioni, si era trovato più agevole cucirle per frammenti alla trama stessa del Codice: è ciò che veniva chiamato le Autentiche. È sintomatico che Federico I e Federico II, in tal modo, siano stati messi sullo stesso piano di Giustiniano. Tra gli Imperatori cristiani, al Principe Legislatore andavano le preferenze degli «scrittori», giuristi o non, quando essi volevano evocare la memoria degli antichi precursori degli Hohenstaufen.
Naturalmente, talvolta anche Costantino è nominato, benché meno sovente che al tempo degli Ottoni. Vediamone un esempio. Egli era ritenuto comunemente come l’autore della celebre Donazione, attraverso la quale avrebbe ceduto al Papa l’autorità su Roma e sulla maggior parte dell’Italia. Soprattutto dopo che era scattato, sotto i Salici, il grande conflitto tra Sacerdozio e Impero, quella concessione risultava assai sgradevole agli occhi degli imperiali. Se essi fossero stati buoni storici nel senso in cui l’intendiamo oggi, ne avrebbero potuto constatare con facilità il valore, poiché questo celebre documento, senza ombra di dubbio, è un impudente apocrifo forgiato nel secolo VIII. Invero, nell’entourage di Arnaldo da Brescia vi erano spiriti assai arditi da metterne in dubbio l’autenticità. Ma il senso critico era allora troppo poco generalizzato perché il loro scetticismo si diffondesse. I più fedeli partigiani degli Hohenstaufen ammettevano la realtà della donazione. Essi si limitavano a biasimarla; cosa che fa, per esempio, Walther von der Vogelweide. Dal suo punto di vista, mentre Costantino aveva dato al Papa «la lancia, la spada e la corona», si era udito un angelo gridare: «Sventura, sventura, tre volte sventura!». Non fa meraviglia, allora, che il nome del principe che – per parlare ancora come Walther – «aveva donato questo veleno alla cristianità» non venisse ricordato volentieri.
D’altronde, gli Imperatori cristiani non erano i soli di cui ci si compiaceva di evocare la memoria. Per l’Archipoeta, Barbarossa offre non soltanto l’immagine di Carlo Magno: egli era ugualmente il nuovo Augusto. Sotto Federico II, queste reminiscenze propriamente classiche e quasi pagane si manifestano in modo assai chiaro nell’arte. Come un Cesare di un tempo, l’Imperatore si fa erigere la propria statua, vestito della clamide, su una porta trionfale all’entrata di Capua. Incoronata di alloro, con un’imitazione evidente degli antichi tipi monetari romani, la sua effigie figura sulle belle monete d’oro che egli fa coniare, dopo il 1231, a Brindisi e a Messina: gli «Augustali».
La tradizione antica fornisce all’Impero non soltanto forme di espressione letteraria o plastica. Essa sta alla base di certe pretese di carattere molto più concreto. Noi affronteremo presto lo studio del contenuto pratico dell’idea d’Impero. Prima occorre però dire una parola circa un altro elemento del prestigio imperiale: il carattere sacro del sovrano.
2. L’Imperatore personaggio sacro: il messianismo
L’idea di una regalità sacra, comune a tutto il Medioevo, non si applicava soltanto alla monarchia imperiale. Essa risaliva a concezioni assai vecchie. Le dinastie dell’antica Germania erano state rivestite di un carattere ereditariamente religioso. Più tardi, con l’epoca carolingia, in qualche modo, la Chiesa aveva autentificato questa concezione cristianizzandola. Si riprese allora dall’Antico Testamento il rito dell’unzione. Dall’unzione con l’olio santo il Re può trarre, agli occhi della maggioranza dei suoi sudditi, un carattere quasi sovrannaturale. Ora, l’unzione non era propria soltanto degli Imperatori. Egualmente i Re di Francia e d’Inghilterra – per non citare che loro – ne avevano diritto. In nessun luogo, è vero, meglio che nell’Impero, si era saputo trarre dall’impronta sacra ricevuta dal sovrano le conseguenze che essa poteva comportare. Un tedesco, Guido d’Osnabrück, ha detto: «Il Re deve essere separato dalla folla dei laici; infatti, unto dall’olio consacrato, egli partecipa al carattere sacerdotale»18. Ma Guido d’Osnabrück scriveva queste parole nel 1084 o 1085, sotto Enrico IV, al momento in cui il vigoroso attacco condotto dalla riforma gregoriana contro la regalità sacra era al culmine e provocava le più vivaci repliche da parte degli imperiali. Sotto gli Hohenstaufen, la controversia su tale punto si è assopita e le posizioni sono diventate meno nette. I Gregoriani, desiderosi di ridurre il regno a semplice potenza temporale e i Re alla condizione di semplici laici, vi riuscirono in modo parziale. Senza dubbio, la vecchia nozione del potere sacro dei Re non scomparve dalle coscienze. Il canonista Rufino, che scrive sotto il Barbarossa, sa che, per giustificare il giuramento di fedeltà prestato dai vescovi all’Imperatore (un sacerdote, per principio, non doveva giurare fedeltà in mani laiche), si poteva dire che l’Imperatore «consacrato con la santa unzione, non è del tutto laico»19. Noi vedremo presto prove ancor più evidenti della longevità latente di questa idea; ma, quando si esprime, di solito avviene sotto forme attenuate. Secondo l’antico rituale della consacrazione, il futuro Imperatore riceveva dal Papa le vesti sacerdotali; e i testi ufficiali riferivano di questa parte della solennità attraverso le seguenti parole esposte dal già ricordato Guido d’Osnabrück: «Qui il Papa lo fa chierico (Ibique facit eum clericum)». Sotto gli Hohenstaufen perdura la cerimonia della concessione delle vesti; ma le si dà un senso affievolito: si presume che il Re dei Romani venisse ammesso nel numero dei canonici di san Pietro; notevole decadenza, poiché nel Medioevo si poteva essere canonico senza aver ricevuto gli ordini. Nel resto del rituale si segnala una tendenza molto curiosa: non potendo non riconoscere all’Imperatore un rango, nella cristianità, superiore a quello di un semplice laico e volendo evitare di assimilarlo ai preti, si cerca di collocarlo a livello dei diaconi. Non vi erano, in quel canonicato e in quel diaconato, grandi motivi di prestigio per la monarchia imperiale.
Noi siamo – sotto Federico Barbarossa, Enrico VI o Federico II – al momento in cui si fa il più largo uso delle parole «sacro» e, anche, «santo» applicate alla maestà imperiale, al palazzo dell’Imperatore, alle sue leggi o ai suoi diplomi, all’Impero stesso. L’espressione Sacrum Imperium – da cui più tardi Heiliges Reich, Saint-Empire, Sacro Impero – è di quel tempo. Di più: questi termini ancora umani di sacro o di santo sono rimpiazzati talvolta da quello, quasi blasfemo, di divino. «Deus es, de prole deorum», dice Goffredo da Viterbo (italiano, ma di una famiglia di origine tedesca), indirizzandosi a Enrico VI20, e Federico II scriveva a suo figlio: «O Cesarei sanguinis divina proles». Ma l’origine di tali espressioni ridondanti non è da cercare in convinzioni profonde: essa è affatto letteraria. I chierici di cancelleria o gli «scrittori» le hanno prese in prestito dal vocabolario del Basso Impero, dal Corpus iuris civilis stesso. Quando si interpretano gli atti di quel tempo, occorre sempre tener conto di un arcaismo, di una voluta pedanteria di linguaggio: innumerevoli carte chiamano «consoli» i conti; la cancelleria del Barbarossa, occasionalmente, parlava degli arcivescovi come di archiflamines21. Le parole sacro, santo o divino erano reminiscenze; tuttavia reminiscenze nient’affatto prive di senso, che esprimevano una concezione elevata della dignità imperiale, di cui vedremo più avanti le applicazioni. Ma erano parte di discorsi di individui istruiti, attraverso i quali si esprimevano le idee di circoli assai ristretti.
Al contrario, le speculazioni sulla fine del mondo, adattate alla monarchia imperiale, coinvolgevano intensamente le anime. Il punto è assai importante e curioso. Val la pena di soffermarvisi un momento.
Le genti del Medioevo pensavano molto alla fine del mondo. La immaginavano volentieri assai prossima e, utilizzando i dati dei Libri Santi, amavano riflettere sulle condizioni in cui doveva realizzarsi il Grande Giudizio. Si intende che esso doveva essere preceduto dalla venuta e dal trionfo dell’Anticristo. Lo schema generale degli avvenimenti – secondo fonti il cui studio qui non ci interessa – era stato esposto, alla fine del secolo XI, da un monaco borgognone, Adso di Montiérender, nel trattato De Ortu et Tempore Antichristi, che ebbe immensa risonanza. Verrà un Re dei Franchi, il quale riunirà sotto la sua dominazione tutto l’Impero romano. Una volta vittorioso, si recherà a Gerusalemme e, sul Monte degli Ulivi, depositerà lo scettro e la corona. Allora apparirà l’Anticristo. Naturalmente, nell’Impero ricostituito dai monarchi tedeschi, l’ultimo e glorioso Imperatore si presenterà sotto l’aspetto di uno di questi sovrani; e ci si potrebbe chiedere se non dovesse essere il principe del momento colui al quale spettava questa sorte prestigiosa. La persistenza di tali speculazioni, al tempo del Barbarossa, tra altre fonti, è attestata da un dramma in versi latini, probabilmente composto nell’abbazia bavarese di Tegernsee, il Ludus de Antichristo22. Vi si vede l’Imperatore romano (Imperator Romanus) sottomettere successivamente il Re di Francia, il Re dei Greci, il Re di Gerusalemme; riportare la vittoria sul Re (pagano) di Babilonia; poi deporre la corona imperiale sull’altare di Gerusalemme, restando Re di Germania (Rex Teutonicorum). L’Anticristo entra in campo e, incapace di trionfare per mezzo delle armi del Re tedesco, si afferma attraverso falsi miracoli. Seguono l’apparizione e il martirio dei profeti Enoch ed Elia; l’Anticristo regna, quando, tutt’a un tratto, si sente un suono di trombe; l’Anticristo crolla e tutti cantano Laudem dicite Deo nostro. Dovrò tornare presto su tale testo curioso in cui, sotto l’affabulazione teologica tradizionale, si esprime con forza la fede nella supremazia imperiale.
Ai tempi di Federico II le riflessioni sull’Anticristo, più ardenti che mai, prendono una direzione singolare. Al volgere dal XII al XIII secolo, un po’ dappertutto in Europa, ma soprattutto in Italia, si produce un intenso fermento religioso. La Chiesa cattolico-romana allora è minacciata da una grande eresia mistica, quella dei Valdesi, e da una setta pressoché estranea al cristianesimo, ma ricolma di ascetismo e, per di più, ben disposta verso le invenzioni mitiche, la setta catara. Contro il pericolo, il papato si mobilita: organizza una Crociata e poi l’Inquisizione. D’altronde, nel 1209 – l’anno in cui Ottone IV fu incoronato Imperatore – inizia la grande predicazione francescana. Piena di pericoli per la disciplina, essa viene mantenuta nell’ambito della Chiesa, da una parte, dal profondo rispetto di san Francesco per il sacerdozio e, dall’altra, dalla larghezza di spirito e dall’avvedutezza della Curia. Tuttavia essa non sarà priva di deviazioni ereticali. Più che mai, si pensa all’aldilà e alla fine del mondo, all’Anticristo – cosa che è del tutto ortodossa – e perfino a un nuovo messianismo: cosa che è molto meno ortodossa. Un abate cistercense della Calabria, Gioacchino da Fiore, morto nel 1202, annuncia che, dopo il regno del Padre (la Legge Antica) e quello del Figlio, sta per venire il terzo regno, quello dello Spirito Santo, in cui i fedeli comprenderanno nel suo senso spirituale il Vangelo eterno. Gioacchino non credeva di rompere con la fede tradizionale. Ma i suoi discepoli, reclutati soprattutto nei conventi francescani, si spinsero molto più lontano di quanto aveva fatto lui; nella terza età, che ritenevano imminente, essi attendevano la rovina della Chiesa carnale del loro tempo.
Ora, in questa Italia, attraversata da speranze e da timori mistici, sotto Federico II si decide il destino dell’Impero. La guerra del partito imperiale contro il partito papale, coinvolgendo di continuo le città le une contro le altre e in ciascuna città anche i differenti partiti, sconvolge l’intero Paese, sollecitando ancor più gli spiriti a riflettere sull’avvenire. Da tutte le parti circolano profezie. Lo stesso Federico II è una personalità insolita, che ha occupato davvero l’immaginazione dei contemporanei e tuttora seduce quella di numerosi Tedeschi. Allevato in Italia, del tutto estraneo per costumi e mentalità alla Germania, di cui forse non parla la lingua, possiede una cultura assai vasta, tanto greca e araba quanto latina. Egli si circonda di un lusso orientale che colpisce e spesso scandalizza le folle. Si interessa di filosofia e osserva le cose della natura, probabilmente mistico alla sua maniera, ma di un misticismo, secondo ogni apparenza, mediocremente ortodosso, poiché sembra che questa alta intelligenza fosse stata toccata dalla filosofia averroista. Infine, com’era giusto, egli era profondamente convinto della grandezza del suo ruolo e politicamente spietato. A proposito di Federico II, i cervelli si muovevano nella direzione in cui li portavano il profetismo o il messianismo dominanti. Per i servitori del papato, per gli stessi Papi Gregorio IX e Innocenzo IV, Federico era, se non proprio l’Anticristo (questi teologi ben sapevano che egli non ne possedeva tutti i segni), per lo meno il precursore dell’Anticristo, «infelix prenuntius Antichristi», come diceva Innocenzo IV23, «la bestia uscita dal mare» ricavabile dai centoni dell’Apocalisse. I fedeli dell’Imperatore, naturalmente, si nutrivano di tutt’altre immagini. Uno di loro, il domenicano tedesco frate Arnoldo, a sua volta, crede di aver scoperto l’Anticristo. Nessun dubbio: è Papa Innocenzo IV! Soprattutto, in modo unanime, essi si fanno una concezione veramente messianica di quella che si potrebbe chiamare la missione storica del loro principe.
Da Anticristo a Messia, dopo tutto, il passo non è lungo: un semplice rovesciamento di punto di vista. Le stesse parole servono da entrambe le parti. Inmutator saeculi, colui che cambierà il secolo: in questi termini un pubblicista di parte papale, Albert von Behaim, designava Federico II, typicus praenuntius Antichristi24. Ora, vi sono molte maniere di «cambiare il secolo». Anche i fedeli di Federico II credevano in questo rovesciamento. Essi lo aspettavano dal loro signore, ma sotto la forma di questa nuova età dell’oro, alla quale le immaginazioni gioachimite avevano familiarizzato gli spiriti. Una profezia, molto diffusa per essere arrivata al cronista inglese Matteo Paris25, annunciava, in uno stile volutamente oscuro, questi giorni di gloria. «Coloro che marciano nelle tenebre, torneranno alla luce. Ciò che era diviso e disperso sarà unito. Una grande nube scaricherà la pioggia, poiché è nato colui che cambierà il secolo (quia natus est inmutatur saeculi)». La parola inmutator, caricata di senso mistico, restò attaccata alla figura di Federico II. Si noti come Matteo Paris connotasse la morte dell’Imperatore: «Verso questo tempo morì il più grande dei principi della terra, Federico, lo stupore del mondo e il miracoloso rivoluzionario (stupor mundi et inmutator mirabilis)»26.
Ma ritorniamo alla profezia appena ricordata. Una frase merita di attirare la nostra attenzione: «Una grande nube scaricherà la pioggia». Si tratta dell’evidente reminiscenza di un celebre versetto di Isaia (45, 8). Il versetto, riprodotto quasi letteralmente («Quem nubes pluruerunt iustum et super eum coeli desuper roraverunt»), si legge in un testo anonimo che lo riferisce anch’esso all’Imperatore, questa volta non più attraverso una semplice allusione, ma in maniera più esplicita. L’Imperatore è nominato e al suo nome si aggiunge un epiteto caratteristico: Federico il Santo27. Ora, non si sapeva che in quel versetto del profeta la Chiesa tradizionalmente vedeva l’annuncio della venuta del Cristo? Nell’entourage di Federico II, l’accostamento, per quanto ci appaia sacrilego, era perfettamente consapevole. Lo si ritrova negli atti dello stesso Imperatore, ossia redatti dalla sua cancelleria: per esempio, in una lettera al figlio Corrado, nella quale sono elencati i suoi successi sul Papa, è scritto28: «I pontefici e i farisei avevano unito i loro consigli contro il Signore Cristo; il principe della sedizione, pieno di impeto e di orgoglio, si è sollevato contro il principe dei Romani, per combatterlo con i fatti e con le parole; ma ecco che il Dio degli eserciti ha umiliato l’orgoglio del principe dei sacerdoti». In una lettera alla città di Iesi, luogo in cui «brillò la sua culla», la sua città natale è detta, per due volte, la sua «Betlemme»29.
Agli uomini del secolo XIII discorsi del genere apparivano molto meno blasfemi di quanto potrebbero risultare ai nostri contemporanei più pii. Gli spiriti erano abituati allora a una concezione simbolica dell’universo. Ognuno sapeva che un mortale poteva essere la «figura» del Cristo senza cessare di essere semplicemente umano. Si conosce la posizione che i discepoli di san Francesco – o, per lo meno, i più esaltati tra loro – derivarono dall’idea della perfetta imitazione di Gesù: «Occorre sapere che Francesco, nostro padre santo, in tutti i suoi atti fu conforme al Cristo», questo è l’inizio comune agli Actus beati Francisci et sociorum eius e ai Fioretti30. Ma essere considerato l’immagine del Salvatore era già molto per un Imperatore. Non si potrà rifiutare di vedere in questa audace concezione una delle forme estreme assunte, sotto l’influenza del misticismo italiano del secolo XIII, dalla vecchia nozione, sempre viva nei cuori, della regalità sacra; e facilmente si capisce come, in larga misura, simili idee e speranze spieghino la leggenda postuma di Federico II, di cui qui non parlerò.