INTRODUZIONE
La Germania di Marc Bloch. Tre frammenti
di Francesco Mores
Nel 1927-1928 Marc Bloch pronunciò a Strasburgo una serie di lezioni. Lo scopo di queste lezioni è già stato ricordato nella Prefazione; furono pubblicate l’anno seguente1, con un titolo ben preciso: L’Impero e l’idea di Impero sotto gli Hohenstaufen. Il piccolo libro che il lettore ha tra le mani reca un titolo ben diverso: La natura imperiale della Germania. Le ragioni del cambiamento non riguardano la forma, ma la sostanza delle lezioni. Come ha notato Grado Giovanni Merlo, L’Impero e l’idea di Impero sotto gli Hohenstaufen si conclude con uno scarto. Dopo aver dedicato buona parte delle sue lezioni al XII e XIII secolo, il testo blochiano rivolge improvvisamente la sua attenzione alla seconda metà dell’Ottocento e agli anni Venti del Novecento:
Tutto ciò è stato, in diversi momenti, un argomento importante di discussione da parte degli intellettuali tedeschi per sapere se i sovrani, nel Medioevo, avessero avuto ragione o torto nel perseguire vaste ambizioni imperiali, al posto di limitarsi al compito più modesto dell’unificazione nazionale, compiuto, per esempio, dai Re di Francia. Negli anni dal 1859 al 1862, quando la Germania cercava ancora la sua unità, una vivace polemica su questo tema mise di fronte, da una parte, uno storico protestante, di tendenza Kleindeutsche, Heinrich von Sybel, e, dall’altra, un cattolico, favorevole all’Austria, Julius Ficker. Il primo affermava che «l’Impero… aveva arrecato costantemente danni agli interessi della nazione»; il secondo, al contrario, esaltava la grandezza dell’idea imperiale. La disputa, nell’Impero rinnovato dopo il 1871, si calmava. Benché «la piccola Germania», la Germania prussiana, cara a Sybel, avesse trionfato, la grande maggioranza degli storici si espresse a favore della tesi di Ficker: la Weltpolitik contemporanea aveva risvegliato le simpatie per la Weltherrschaft medievale. Ma anche la Weltpolitik non ha avuto una fine positiva. Nel 1927 Georg von Below riprende la vecchia querelle, collocandosi sotto la bandiera di Sybel. Questi giudizi di valore sul passato interessano soltanto come sintomi di tendenze del presente. Molto più importante sarebbe cercare di analizzare l’influenza dell’idea imperiale sul movimento generale degli spiriti, in Germania, dopo il 1250, perché quell’idea in definitiva mai è stata dimenticata: a diversi livelli, secondo le epoche, la storia e la letteratura ne hanno sempre conservato il ricordo. Forse non sarebbe impossibile, ancora oggi, rintracciarne gli effetti in certi tratti, fondamentalmente dominatori, del patriottismo tedesco.
Per quale ragione L’Impero e l’idea di Impero sotto gli Hohenstaufen si piegò tanto chiaramente verso il problema della (allora) contemporanea natura imperiale della Germania? Perché Marc Bloch arrivò a sostenere che «i giudizi di valore sul passato interessano soltanto come sintomi di tendenze sul presente»? La risposta più immediata è strettamente contestuale.
Le lezioni sull’Impero e l’idea di Impero sotto gli Hohenstaufen furono scritte, pronunciate e pubblicate per un pubblico che si apprestava a sostenere l’agrégation per poter insegnare la lingua e la cultura tedesca; nel 1931 Marc Bloch tracciò un ritratto dello studioso evocato al termine delle lezioni, Georg von Below2, che si concludeva con un elogio della «libertà d’azione» concessa agli studiosi tedeschi, in evidente contrasto con la sorte delle facoltà di lettere francesi, trasformate ormai in «scuole preparatorie per i professori dei licei e dei collèges»3. Membro di una «nobiltà d’oltr’Elba» che non aveva mai dimenticato «i paesaggi della Prussia orientale»4, von Below aveva avuto tutto il tempo per riflettere sulle sorti della Germania stretta tra l’idea di nazione e di Impero. I risultati di questa riflessione trovarono vari sbocchi, furono seguiti dettagliatamente da Bloch5 e, nell’anno della morte di von Below (1927), furono riassunti in un volume sulla Politica imperiale italiana del Medioevo tedesco6. Bloch lo citò allusivamente nelle conclusioni delle sue lezioni e allusivamente fece riferimento a tutta l’ampia produzione di Georg von Below. Da von Below era possibile trarre tutti i frammenti necessari a ricostruire la propria idea di Germania, poiché l’idea di Germania di Marc Bloch era molto diversa da quella di Georg von Below. La distanza tra i due si collocava tanto sul piano scientifico quanto sul piano dei giudizi di valore sul passato, che si apprestavano a divenire sintomi di tendenze del presente. La natura imperiale della Germania che Below rigettava era per Bloch un problema storico, che si era formato attraverso un lungo confronto con la cultura tedesca: non potrò seguirlo dettagliatamente, ma proverò almeno a esemplificarlo attraverso tre frammenti della biografia di Bloch.
Tra il 1914 e il 1918 Marc Bloch combatté, durante il primo conflitto mondiale, nell’esercito francese, contro la Germania imperiale e i suoi alleati. Nel corso di quattro anni scrisse di ciò che accadeva intorno a lui, ma solo nel 1921 pubblicò le sue riflessioni sulla guerra. Le Riflessioni d’uno storico sulle false notizie della guerra7 sono uno dei saggi più noti di Marc Bloch, continuamente ristampato e commentato: che posto occupa in esso la Germania? Quale contributo la cultura tedesca poteva offrire al problema studiato da Bloch?
Alle origini del rapporto tra Bloch, le false notizie e la Germania troviamo un laboratorio, quello di criminologia dell’Università di Berlino. Agli inizi del Novecento, il direttore del laboratorio simulò un attentato e registrò le reazioni degli studenti: il campione era forzatamente limitato e i risultati lo furono altrettanto8. Lo studioso scrupoloso non poteva permettersi di generalizzare risultati ottenuti al chiuso, al sicuro; il suo campo d’azione era altrove, in luoghi meno sicuri, ma di certo più ricchi di imprevisti e in fin dei conti di vita:
Le notizie false! Per quattro anni e più, ovunque, in tutti i Paesi, al fronte come nelle retrovie, le si vide nascere e pullulare; esse turbavano gli animi, talora sovraeccitando e talaltra abbattendo gli ardori; la loro varietà, la loro forza stupiscono ancora chiunque abbia buona memoria e si rammenti d’aver creduto. Ha ragione il vecchio proverbio tedesco: Kommt der Krieg ins Land, Dann gibt’s Luegen wie Sand9.
Non era di gran consolazione andare alla ricerca della vita in quattro anni di dura, impersonale, morte. E tuttavia una guerra mondiale (Weltkrieg) fu un’occasione irripetibile per sperimentare su larghissima scala la trasformazione della realtà dell’errore nella psicologia del falso. Lo fecero gli scienziati della letteratura dell’Università di Kiel, fondando una rivista intitolata «Archiv für Kriegsseelenkunde»10 e lo fece (per smentire delle presunte violenze a danno dei cattolici belgi da parte dell’esercito tedesco) un gesuita, Duhr, con il suo libro Der Lügengeist im Volkskrieg11. Né mancarono gli eccessi: «Si trovò uno studioso per dimostrare che tutte le atrocità dei franchi tiratori erano già virtualmente scritte, per chi sapesse leggere, nell’arte fiamminga»12.
Bloch scelse una via diversa. Provò a combinare la letteratura sull’argomento (in lingua tedesca, ovviamente, ma non solo) con le proprie esperienze personali. Il risultato fu quello che segue:
Era il mese di settembre 1917. Il reggimento di fanteria di cui facevo parte occupava sul plateau del Chemin-des-Dames, a nord della cittadina di Braisne [presso Soissons], il settore chiamato Épine-de-Chevregny. Ignoravamo quali unità avessimo di fronte; occorreva saperlo; infatti il comando che approntava in questa fase, nella stessa regione, l’attacco alla Malmaison, non poteva permettersi delle lacune nelle informazioni sul piano di battaglia nemico. Ricevemmo l’ordine di fare dei prigionieri. S’imbastì un colpo di mano – uno di questi sontuosi colpi di mano, come se ne organizzavano allora, con gran rinforzo d’artiglieria d’ogni calibro; e fra le rovine d’una piccola postazione tedesca, crollata sotto le bombe, la truppa d’assalto sorprese in effetti e riportò nelle nostre linee una sentinella. Ebbi occasione d’interrogare quest’uomo; era un soldato d’età già avanzata, riservista ovviamente, e, in civile, un borghese dell’antica città anseatica di Brema [in francese, Brême]. In seguito, fu portato nelle retrovie sotto buona scorta; e pensammo tranquillamente che non ne avremmo mai più sentito parlare. Poco tempo appresso, a poco a poco giunse alle nostre orecchie una storia curiosa; la raccontavano degli artiglieri, degli autisti addetti al vettovagliamento. Dicevano più o meno questo: «’Sti Tedeschi! Che stupendi organizzatori! Avevano spie ovunque. Facciamo un prigioniero a Épine-de-Chevregny; chi troviamo? Uno che, in tempo di pace, s’era stabilito come commerciante a pochi chilometri di lì: a Braisne»13.
«’Sti Tedeschi! Che stupendi organizzatori!». La notizia registrata da Bloch come vera nel 1917 e commentata nel 1921 serve da introduzione al secondo dei frammenti che compongono il mosaico della Germania di Marc Bloch. Negli stessi mesi in cui egli presentò le lezioni che pubblichiamo, la «Revue historique» ospitò la prima ampia rassegna organizzata sulla storiografia tedesca di ambito medievale uscita dalla penna di Bloch14, che fu pensata con uno scopo preciso: dare il senso dell’organizzazione degli studi in Germania.
Lo scopo fu raggiunto in pieno e la coincidenza con le lezioni è altrettanto piena. Divisa in quattordici paragrafi, la rassegna fu chiusa nel luglio del 192715, in tempo per inserire quella che sarebbe stata una parte delle conclusioni dell’Impero e l’idea di Impero sotto gli Hohenstaufen:
La politica imperiale e italiana degli Ottoni e dei loro successori fu una disgrazia per la Germania, come riteneva Sybel, prussiano e protestante, oppure, al contrario, la si deve considerare, come voleva il cattolico e Grossdeutsche Ficker, come uno dei più bei titoli di gloria di cui possa andare fiera la nazione tedesca? Questa vecchia controversia sembrava assopita; dal 1871 e soprattutto dopo l’avvento della Weltpolitik, le idee di Ficker avevano a poco a poco conquistato la maggior parte degli storici tedeschi, anche i più contrari alle sue tendenze romane e austriache. Ora, ecco che oggi Georg von Below intraprende una difesa della tesi di Sybel16.
Difesa inutile, dedusse Bloch, ma utile per noi, dal momento che, in questo caso, egli rese esplicito il suo riferimento all’ultimo libro pubblicato in vita da von Below. Il già ricordato La politica imperiale italiana del Medioevo tedesco (1927) offriva un orientamento sicuro per impostare una serie di lezioni sull’Impero e l’idea di Impero sotto gli Hohenstaufen, pieno com’era di «osservazioni giudiziose e spesso penetranti»17. I continui riferimenti a von Below nella rassegna assicurano sulla lunga consuetudine con l’opera di questo studioso; molto meno noto doveva essere uno studioso oggi tanto spesso evocato quanto poco letto, la cui opera maggiore – una biografia dell’Imperatore Federico II – non aveva certo suscitato gli entusiasmi di Bloch:
Molto recentemente, il signor Kantocorowicz, che non è affatto, credo, erudito di professione, ma piuttosto uomo di lettere di quel circolo viennese che si raggruppa intorno a Hugo von Hofmannsthal [in realtà Stefan George], ha consacrato a Federico II un ampio studio, piacevole da leggere, a volte emozionante, ma che avremmo preferito un poco più conciso e semplice nel tono. In fondo, il più significativo rimprovero che si deve fare a questo racconto, sapientemente condotto, è quello di virare troppo facilmente verso il panegirico […]. E soprattutto di non dire nulla di particolarmente nuovo. Forse questi due difetti sono legati a una stessa causa: una certa mancanza di conoscenza del contesto e dei precedenti storici […]. Sull’atmosfera messianica che lambisce tutta la storia tragica dell’Imperatore, per gli uni un quasi-Messia, per gli altri Anticristo, il signor Kantocorowicz ha pagine intelligenti e letterariamente ben riuscite; ma la ricerca d’insieme, indispensabile al soggetto, non c’è18.
Anni dopo, Bloch avrebbe in parte modificato il suo giudizio e corretto il cognome di Ernst Kantorowicz19, ma nel 1928 Kantocorowicz20 restava il miglior esempio di un certo «nazionalismo storico», quasi comico quando pretendeva di dimostrare che Ottone IV avesse appreso alla corte di Riccardo Cuor di Leone l’avarizia propria di tutti gli Inglesi, «come se, d’altra parte si potesse definire Riccardo “inglese”!». Il fatto era comico, ma nello stesso tempo preoccupante, più della vocazione polemica di studiosi come Georg von Below o del ricorso costante da parte degli studiosi tedeschi a «concetti giuridici», ben più esteso rispetto ai loro «confratelli francesi o inglesi». L’eccessiva concentrazione sulla storia tedesca (qualunque significato si intendesse dare a tale aggettivo) impediva spesso di vedere ciò che stava accanto ad essa, prima di tutto la Francia e l’Inghilterra. Nel bagaglio di ogni storico, la dimensione orizzontale era fondamentale; per Bloch era necessaria anche quella verticale, tanto più se si intendeva chiarire la natura della Germania.
Natura della Germania e non solo natura imperiale della Germania. Dopo l’avvento al potere del nazismo nel 1933, divennero chiare le implicazioni di ogni giudizio di valore sul passato, inteso come sintomo di tendenze sul presente. Le discussioni intorno a von Below persero d’intensità, al punto che nel 1937, riflettendo ancora intorno all’idea di impero21, ricomparvero sulla soglia Sybel e Ficker, ma non lo stesso von Below22. L’interesse di Marc Bloch si era spostato altrove, verso un luogo che fu illuminato nel 1940, in occasione della recensione di un piccolo libro intitolato Mythes et dieux des Germains23. In esso sembravano convergere interessi di un tempo:
«Miti della sovranità», innanzitutto: si trovano qui, trasposte sul piano del rito e della leggenda, le origini della concezione germanica della regalità sacra; nutrite secondariamente di apporti romani e orientali, poco a poco, anche, colorate di tinte cristiane, restando in fondo profondamente antitetiche a ciò che il cristianesimo aveva di più puro, queste rappresentazioni dovevano – ho cercato altrove di mostrarlo [nei Re taumaturghi, apparsi nel 1924], e credo che Dumézil non mi smentirà – prolungare i loro effetti attraverso tutto il Medioevo e ancora molto oltre24.
E prospettive sul presente:
Non è tra le ragioni di minore interesse dell’opera di Dumézil l’aver saputo, con molta discrezione e un giusto senso dello sfumato, indicare come, nella stupefacente e formidabile Germania che abbiamo visto oggi sorgere di fronte ai nostri occhi, si prolunghino certe tendenze, miticamente guerriere e misticamente giovanili, che l’evoluzione delle tradizioni ricevute dal più antico passato indoeuropeo già mostrava25.
Erano interessi e prospettive non pacifici, non solo per il fatto che la recensione fu scritta quando la guerra della Francia contro la Germania era già stata dichiarata. Negli anni Ottanta del secolo scorso, le note a margine di Bloch furono al centro di un dibattito che riguardò le presunte «tracce di simpatie per la cultura nazista» nel libro recensito26. Il problema, dal punto di vista del recensito, non è stato risolto; e tuttavia, per il recensore, sembra valere quanto osservato a proposito dell’evoluzione dell’autore del volume che Marc Bloch lesse. Riflettendo sugli dei e i miti dei Germani, Georges Dumézil passò dalla «continuità inconsapevole» alla «continuità cosciente»27. E Bloch? Che cosa fece Marc Bloch?
Bloch non temeva di affrontare il problema della natura della Germania postulando l’esistenza, in Germania, di una «sopravvivenza profonda», non tanto di una forma di paganesimo, «ma, almeno, di tendenze sentimentali e religiose – e anche sociali – robustamente estranee all’universalismo della cristianità latina». D’altra parte, egli sapeva bene che in molti casi si trattava di un «ritorno di fonti solamente per metà nascoste»; ciò non significava – ovviamente – spiegare tutti i «caratteri particolari»28 della Germania (allora) contemporanea con una rilettura del ciclo dei Nibelunghi, ma, al contrario, prendere coscienza che «non tutto viene dalla Germania»29.
Una simile presa di coscienza era precisa e nello stesso tempo soggetta a continue riflessioni. Non si spiegherebbe altrimenti l’oscillazione – tre anni prima della recensione di cui ho appena dato conto – tra il rifiuto reciso di un libro sulla cultura preistorica della Germania (a sfondo angosciosamente razziale)30 e il fondamentale elogio di un libro largamente utilizzato da Dumézil sulle associazioni cultuali maschili, pieno di riferimenti a una mitologia germanica rappresentata come un condominio dalle porte girevoli, abitato da divinità naturali e divinità guerriere31. Non era certo quest’ultimo l’aspetto che Bloch poteva apprezzare di più. Semmai, a colpirlo fu la miscela di un metodo che lo avvicinava (senza riferimenti espliciti) all’etnografia britannica e alla scuola sociologica francese32 e una erudizione «stupefacente»33. Si potrebbe discutere a lungo su quest’ultimo aggettivo, ma non sul giudizio, analogo e ancor più caloroso, che Bloch riservò all’opera di uno studioso che nel 1935 aveva perduto la sua cattedra in un’università tedesca e che nel 1938 avrebbe dovuto rifugiarsi in Svizzera per sottrarsi alle persecuzioni antisemite. Le indagini di Eduard Norden «attraverso il mondo germanico» non erano semplice erudizione; erano la prova di una «scienza incredibilmente vasta e sicura, abile a cogliere, senza forzarli, i nessi più inattesi e quasi sempre i più persuasivi» di un mondo che era sì germanico, ma la cui origine, «come del mondo ellenico o di quello italico», affondava nella «preistoria europea»34.
«Il germanesimo non si spiega affatto con il germanesimo»35: ci voleva un certo coraggio per fare un’affermazione di questo genere nella Germania del 1934. Bloch la riportò nel 1937, in un momento in cui il suo centro di interesse si era in parte spostato dalle riflessioni sull’idea di Impero (in Germania) alla natura (della Germania). Quasi dieci anni prima, nel 1928, Bloch aveva recensito un’altra opera di Norden, dedicata alla cosiddetta Germania di Tacito36, rilevandone i meriti, ma auspicando nello stesso tempo un confronto non solo con gli «etnografi antichi», ma anche «con l’etnografia comparata del XIX e del XX secolo»37. Una piccola critica, frutto dei tempi, compensata dalla ripresa di un passo del testo di Norden, secondo il quale il breve trattato messo insieme da Tacito era stato «deposto da una fata buona nella culla della storia tedesca»38.
Molti secoli dopo Tacito, sotto gli Hohenstaufen, un’altra fata buona, solo un poco più invecchiata, avrebbe posto nella culla della storia tedesca l’Impero e l’idea di Impero: nel 1927-1928 fu possibile prendersi cura tanto di essi, quanto della natura della Germania, non per formulare giudizi di valore sul passato, ma, forse, per scoprire sintomi di tendenze sul presente.