Messaggera

Mio padre ha scritto che il paesaggio agricolo creato dalla fatica dei pionieri era cambiato pochissimo ai suoi tempi. I terreni conservavano le dimensioni gestibili all’epoca, i boschi occupavano gli stessi spazi e i recinti, sebbene riparati piú e piú volte, stavano ancora al loro posto. E cosí pure gli enormi granai rialzati – non i primi magari, ma quelli costruiti verso la fine del diciannovesimo secolo, in larga misura come magazzini per il fieno e stallaggi invernali. Anche molte abitazioni – quelle in mattoni che avevano sostituito le prime strutture in tronchi – potevano essere lí a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Certi nostri cugini, anzi, avevano addirittura conservato la casa in legno costruita dai primi giovani Laidlaw residenti nel comune di Morris, limitandosi ad aggiungervi altri corpi di edificio in tempi successivi. L’interno era sconcertante, magnifico, pieno di svolte e imprevedibili piccole rampe di scale.

Adesso la casa non c’è piú, i fienili sono stati demoliti (come pure la vecchia stalla di tronchi). La stessa sorte è toccata alla casa in cui nacque mio padre, e a quella in cui visse da bambina mia nonna, e a tutti i fienili e le stalle. Forse è ancora possibile individuare il luogo in cui si ergevano tali edifici per un leggero innalzamento del terreno, o magari un cespuglio di lillà; per il resto, è ormai tutta un’unica distesa di prati.

In principio si praticava un intenso commercio di mele nella contea di Huron – centinaia di migliaia di stai imbarcati, mi dicono, o venduti a Clinton per l’essiccazione. Quel commercio è morto svariati anni orsono, quando divennero competitivi i frutteti della Columbia Britannica che avevano il vantaggio di una stagione di crescita prolungata. Ora capita di vedere qua e là qualche pianta dai piccoli frutti bacati. E gli eterni cespugli di lillà. Sono loro i soli superstiti delle cascine perdute: non resta altro segno che qualcuno abbia mai abitato da queste parti. I recinti sono stati abbattuti ovunque le coltivazioni abbiano preso il posto dei pascoli. E naturalmente, nel corso dell’ultimo decennio, hanno fatto la loro comparsa i capannoni bassi e lunghi come isolati di città, sgradevoli e ostili come penitenziari, affollati di bestie che nessuno vede mai: polli, tacchini e maiali allevati secondo metodi moderni ed efficienti.

La rimozione di tanti recinti, e frutteti e case e fienili, a me sembra aver avuto l’effetto di ridurre alla vista le dimensioni del paesaggio, anziché di ingrandirlo: un po’ come lo spazio occupato da un edificio risulta sorprendentemente piccolo, se se ne guardano solo le fondazioni. Tutti quei pioli, il filo spinato, le siepi e i paraventi, quei filari di piante fronzute, l’uso variegato degli appezzamenti di terra, quei tipici grappoli di case abitate con i granai e gli altri edifici di servizio annessi, grossomodo ogni quarto di miglio, tutta quella organizzazione e quella cura destinate a esistenze note e al tempo stesso segrete, facevano apparire significativo ogni angolo di steccato, ogni ansa del torrente.

Come se allora fosse possibile vedere di piú, anche se adesso si vede piú lontano.

Nell’estate del 2004 mi recai a Joliet, alla ricerca di qualche traccia della vita di William Laidlaw, il mio trisnonno che lí era morto. Dall’Ontario attraversammo in macchina il Michigan lungo quella che un tempo era la Chicago Turnpike e, prima ancora, la via percorsa da La Salle e da molte generazioni di viaggiatori delle First Nations mentre ora è la Highway 12 che attraversa le antiche città di Coldwater, Sturgis e White Pigeon. Le querce erano fantastiche. Querce bianche, rosse, comuni, i cui rami si inarcano sulle vie dei paesi e lungo tratti di strade di campagna. E poi noci immensi e aceri, naturalmente, tutto il rigoglio della zona caroliniana che mi è un po’ meno familiare, trovandosi a sud della regione che conosco bene. L’edera velenosa qui cresce alta quasi un metro anziché formare un tappeto sul pavimento della foresta, e i rampicanti sembrano avviluppare ogni tronco al punto che non si riesce a penetrare con lo sguardo il bosco che costeggia la strada, perché ci sono ovunque cortine e grovigli di verde.

Ascoltavamo musica sulla National Public Radio e quando perdemmo il segnale di quella stazione, sentimmo un predicatore rispondere a certe domande sui demoni. I demoni sono in grado di possedere animali e case e ambienti naturali, oltre che esseri umani. Talvolta anche intere comunità e paesi. Il mondo ne pullula e si stanno rivelando vere le profezie in base alle quali si sarebbero moltiplicati in prossimità della Fine del Mondo. Che si sta avvicinando.

Ci sono bandiere ovunque. Cartelli. Dio benedica l’America.

Infine, le strade a sud di Chicago, i lavori, alcuni caselli inattesi, il ristorante costruito su un cavalcavia e ormai buio e deserto, un prodigio di tempi andati. E Joliet, orlata di periferia come ogni città moderna, acri di case, miglia di case, unite o separate, ma comunque identiche. E pur sempre, a mio avviso, preferibili alla tipologia piú ambiziosa della zona, quegli edifici singoli, vagamente diversi l’uno dall’altro ma tutti simili, dotati di enormi rimesse per auto e finestre che basterebbero a dare luce a una cattedrale.

Non risulta registrato alcun decesso a Joliet prima del 1843. Nessun Laidlaw compare sugli elenchi dei primi coloni o di chi fu sepolto nei vecchi cimiteri. Che assurdità da parte mia venire in un posto come questo – vale a dire, un qualsiasi posto che nell’ultimo secolo sia cresciuto, se non addirittura esploso – nella speranza di ritrovare tracce di come stavano le cose piú di un secolo e mezzo fa. Alla ricerca di una tomba, un ricordo. Un’unica indicazione attira il mio sguardo.

Cimitero ignoto.

Si riferisce a un certo angolo del comune di Homer, un luogo di sepoltura in cui sono state rinvenute due sole lapidi ma in cui si dice un tempo ce ne fossero una ventina almeno. Le due rimaste, secondo i documenti, recano il nome di persone morte nell’anno 1837. Si suppone che alcune di quelle scomparse potessero appartenere a soldati caduti nella guerra di Black Hawk.

Il che significa che qui esisteva già un cimitero prima che Will morisse.

Ci andiamo, in macchina fino all’angolo tra la Centoquarantatreesima e Parker. Sul lato nordovest c’è un campo da golf, a nord e sudest edifici residenziali recenti con parchi e giardini. A sudovest, altre case, anche quelle relativamente nuove, ma con la differenza che i loro giardini non arrivano fino alla strada ma ne sono separati da un’alta siepe. Tra questa siepe e la via si distende una striscia di terreno assolutamente incolto.

Mi ci addentro, facendomi largo in mezzo alla robusta edera velenosa. Fra alberi quasi adulti e un sottobosco pressoché impenetrabile, nascosta dalla strada, mi guardo intorno: non riesco a rizzare la schiena a causa delle ramaglie. Non vedo nessuna lapide reclinata, caduta o rotta, né alcuna pianta – che so, un cespuglio di rose – che possa essere segno della presenza di sepolture da queste parti. Tutto inutile. L’edera incomincia a mettermi in ansia. Cerco a tentoni una via d’uscita.

Ma come mai il terreno è rimasto incolto? I luoghi di sepoltura sono tra i pochi a poter rimanere indisturbati, oggigiorno, quando ogni fazzoletto di terra viene sfruttato.

Potrei seguire questa traccia. Cosí fa la gente. Una volta iniziato, un percorso segue ogni indizio. Gente che in vita sua ha letto assai poco è disposta a perdersi tra carte e documenti, e certi che farebbero fatica a dire in che anni si è svolta la prima guerra mondiale buttano là date su date dei secoli scorsi. Ci facciamo incantare. Succede perlopiú quando diventiamo vecchi, quando i nostri futuri cominciano a chiudersi e non riusciamo piú a immaginare quello dei figli dei nostri figli, a volte nemmeno a crederci. Non sappiamo resistere alla tentazione di frugare nel passato, scartando testimonianze poco attendibili, collegando nomi isolati e date incerte e aneddoti, aggrappandoci a fili, volendo stabilire a tutti i costi un legame con i morti e perciò con la vita.

Altro cimitero, a Blyth. Dove fu trasferita la salma di James, decenni dopo la sua morte sotto l’albero caduto. Qui è anche il luogo in cui è sepolta Mary Scott. Mary, che scrisse la lettera da Ettrick per adescare l’uomo che desiderava, e convincerlo a venire a sposarla. Sulla sua lapide è inciso il nome di quell’uomo, William Laidlaw.

Morto in Illinois. E sepolto Dio solo sa dove.

Accanto a lei, il corpo e la lapide di sua figlia Jane, la piccola nata il giorno in cui suo padre morí, e che giunse qui, neonata, dall’Illinois. Morí a ventisei anni, dando alla luce il suo primogenito. Mary la seguí solo due anni dopo. Perciò le toccò sopportare anche quella perdita, prima della fine.

Il marito di Jane le giace accanto. Si chiamava Neil Armour e morí giovane pure lui. Era fratello di Margaret Armour, moglie di Thomas Laidlaw. Entrambi, figli di John Armour, il primo maestro della scuola pubblica n. 1 del comune di Morris, frequentata da tanti Laidlaw. Il bambino che costò la vita a Jane fu battezzato James Armour.

E a questo punto mi attraversa la mente il brivido di un ricordo vivo. Jimmy Armour. Jimmy Armour. Non so che fine abbia fatto, ma conosco il suo nome. E non solo – credo di averlo anche visto, una o piú volte: un vecchio venuto da chissà dove a rivedere il posto in cui era nato, un vecchio in mezzo ad altri vecchi – il nonno, la nonna, le sorelle del nonno. E ora mi rendo conto che doveva essere cresciuto con loro, con il nonno e le mie prozie, con i figli di Thomas Laidlaw e Margaret Armour. Erano cugini primi, dopotutto, i suoi due cugini primi. Zia Annie, zia Jenny, zia Mary, il nonno William Laidlaw, il «Papà» delle memorie scritte da mio padre.

Ora tutti questi nomi che ho registrato si uniscono ai vivi nella mia mente, e alle cucine perdute, al lustro bordo di nichel delle vaste e maestose stufe nere, agli scolapiatti di legno fradicio che non asciugavano mai, alla luce gialla della lanterna a olio. Il bricco del latte in veranda, le mele in cantina, i tubi della stufa che uscivano dai buchi nel soffitto, la stalla intiepidita d’inverno dai corpi e dai fiati delle mucche – quelle mucche che ancora incitavamo con gli stessi richiami già comuni al tempo di Troia. Il freddo salotto incerato dove si sistemava la bara quando moriva qualcuno.

E in una di queste case – non ricordo di chi – un incantevole fermaporta, una grossa conchiglia di madreperla che riconoscevo come messaggera di luoghi vicini e lontani, perché potevo portarla all’orecchio, quando in giro non c’era nessuno a impedirmelo, e sentire il battito formidabile del mio stesso cuore, e del mare.