Sotto il melo
Giú in fondo al paese abitava una certa Miriam McAlpin, che di mestiere teneva cavalli. Non erano suoi; lei si limitava ad accudirli e allenarli per i proprietari, gente delle corse al trotto. Insieme ai genitori anziani che uscivano di rado, stava in una casa che era stata la fattoria originale, accanto alle scuderie. Oltre la casa e le stalle, c’era un maneggio ovale dove di quando in quando capitava di sorprendere Miriam, il suo mozzo di stalla, o magari anche i proprietari, sprofondati nel sedile basso di un esile sulky, volare tutto intorno sollevando vortici di polvere.
In uno dei pascoli per i cavalli, lungo lo stradone, c’erano tre meli, l’avanzo di un vecchio frutteto. Due erano bassi e curvi e l’altro abbastanza grande, come un acero quasi adulto. Nessuno li potava né irrorava mai, perciò le mele erano tanto misere che non valeva la pena rubarle, ma quasi ogni anno la fioritura era ricca e c’erano fiori di melo ovunque, al punto che da una certa distanza i rami sembravano proprio coperti di neve a bioccoli.
Avevo ereditato una bicicletta, o comunque potevo utilizzarne una che aveva lasciato lí il nostro bracciante quando era andato a lavorare in una fabbrica di aerei. Era da uomo, ovviamente, leggera e con il sellino alto, un modello strambo ormai, fuori produzione da un pezzo.
– Non avrai intenzione di venire a scuola con quella, spero, – disse mia sorella, quando cominciai ad allenarmi su e giú per il vicolo. Ero piú piccola di mia sorella, ma a volte la mettevo in apprensione, forse perché capiva prima di me i vari modi in cui correvo il rischio di sembrare un’idiota. Non era solo l’aspetto di quella bici a impensierirla, ma il fatto che io avevo tredici anni e che avrei frequentato il primo anno di superiori, uno spartiacque cruciale per una femmina riguardo alla decisione di andare o no a scuola in bicicletta. Chi intendeva promuovere la propria femminilità, doveva per forza smettere di farlo. Chi continuava, o abitava troppo in aperta campagna per venire a piedi – e aveva una famiglia che non si poteva permettere di sistemarla in paese – oppure era semplicemente una svitata, incapace di tenere conto di certe regole implicite e ampiamente condivise. Noi stavamo appena oltre il paese, perciò se mi fossi presentata in bici – soprattutto quella bici – sarei senz’altro finita nella categoria svitate. Tra quelle che si mettevano i mocassini da donna, le calze in filo di Scozia e i bigodini nei capelli.
– A scuola no, – dissi. Ma cominciai a usarla lo stesso, per farmi dei giri in campagna sulle strade secondarie, la domenica pomeriggio. Era molto improbabile incontrare qualcuno che mi conoscesse, in quelle occasioni, e certe volte non vedevo anima viva.
Mi piaceva fare cosí perché, in segreto, ero un’amante della Natura. Il sentimento mi proveniva dai libri, in principio. Dai racconti per giovinette dello scrittore L. M. Montgomery, che spesso inseriva nel testo la descrizione di un campo innevato al chiaro di luna, di una pineta o di un piccolo lago le cui acque ferme specchiavano il cielo serale. Piú tardi si era mescolato a un’altra mia passione privata, quella per i versi poetici. Imperversavo furiosa sui libri di scuola per stanarli prima che finissero letti in classe e dileggiati.
Tradire uno qualunque di questi due vizi, a casa come a scuola, mi avrebbe relegata in una condizione di vulnerabilità permanente. Nella quale per alcuni versi già mi pareva di stare. Bastava che uno dicesse, in un certo tono di voce, ma tu davvero, oppure a te piace…?, che già sentivo puzza di derisione, aria di accusa, di rifiuto. Adesso però, con la bici, la domenica pomeriggio potevo inoltrarmi nel territorio apparentemente in attesa del tipo di omaggio che io smaniavo di offrire. Ecco le lastre d’acqua che scintillavano sulla campagna dopo le esondazioni dei torrenti, ed ecco le sponde fiorite di trillium sotto alberi carichi di gemme rosse. E poi i ciliegi selvatici della Virginia e della Pennsylvania, cresciuti ai due lati delle recinzioni, su cui si schiudeva qualche gemma tenera ancor prima che comparisse una sola foglia.
I ciliegi mi ricordarono gli alberi del pascolo di Miriam McAlpin. Non volevo perdermeli in fiore. Ma non volevo semplicemente guardarli, come poteva fare chiunque dalla strada; io volevo mettermi sotto quei rami, sdraiarmi con la testa appoggiata al tronco dell’albero e vederlo salire, come un prolungamento del cranio, sempre piú su fino a perdersi in un lago capovolto di fiori. E scoprire anche se si vedevano pezzi di cielo attraverso, perché volevo strizzare gli occhi finché dallo sfondo venivano avanti, come schegge di azzurro su quel bianco mare vaporoso. C’era in quell’idea una sorta di solennità che mi attirava moltissimo. Era quasi come genuflettersi in chiesa, gesto che nella nostra non era previsto. L’avevo fatto una volta, quando ero amica di Delia Cavanaugh e un sabato sua madre ci aveva portate alla chiesa cattolica per sistemare i fiori. Mi feci il segno della croce e mi inginocchiai in un banco e Delia mi disse, nemmeno tanto a bassa voce: – Perché fai cosí? Tu non sei mica obbligata. Soltanto noi.
Lasciai la bici nell’erba. Era sera. Avevo superato il paese passando da strade secondarie. Davanti alle scuderie e intorno alla casa non c’era nessuno. Scavalcai la siepe. Cercai di procedere il piú in fretta possibile, senza correre, sul prato dove erano stati i cavalli a brucare la prima erba. Mi infilai sotto i rami dell’albero grande e inciampando avanzai a testa bassa, schiaffeggiata ogni tanto dai fiori, finché raggiunsi il tronco e potei fare quello che mi ero ripromessa.
Mi sdraiai supina. Avevo sotto la schiena una radice dura come una spina dorsale, perciò dovetti spostarmi. E poi c’erano le mele dell’anno prima, scure come bocconi di carne disidratata, e fui costretta a levarle di mezzo, prima di sistemarmi. Anche dopo però, quando mi accomodai, mi sentivo il corpo piazzato in una posizione strana e innaturale. E quando guardai in alto, verso la pioggia perlacea di petali appena venati di rosa, verso tutti quei bouquet già confezionati, non mi ritrovai trascinata nello stato di venerazione mentale nel quale avevo sperato. Il cielo era velato di nuvole e quel che ne vedevo mi ricordava semmai dei cocci di porcellana grigiastra.
Ne valeva la pena lo stesso, intendiamoci. O comunque – cominciai a capire rialzandomi per sgattaiolare fuori da lí – valeva la pena di averlo fatto. Rientrava piú nel novero delle conferme, che delle esperienze. Attraversai di corsa il prato e la siepe, ripresi la bici e stavo già per partire quando sentii un fischio fortissimo e il mio nome.
– Ehi. Tu. Sí, dico a te.
Era Miriam McAlpin.
– Vieni un po’ qui un momento.
Tornai indietro. Là sul viottolo tra la vecchia cascina e le scuderie, Miriam si rivolgeva a due uomini che dovevano essere arrivati a bordo dell’auto parcheggiata sul ciglio della strada. Addosso avevano camicie bianche, gilè e pantaloni – l’abbigliamento tipico di chiunque lavorasse a una scrivania o dietro un bancone in quei giorni, il completo da infilare al mattino e non togliere piú fino a sera, quando si andava a dormire. Accanto a loro, Miriam in braghe da lavoro e camicione a scacchi sembrava un dodicenne impertinente, benché fosse invece una donna tra i venticinque e i trent’anni. Oppure poteva far pensare anche a un fantino. Capelli corti, spalle curve, pelle arrossata. Mi lanciò un’occhiata al tempo stesso minacciosa e sprezzante.
– Ti ho vista, sai? – disse. – Là nel prato.
Non replicai. Sapevo quale sarebbe stata la domanda successiva e cercavo di farmi venire in mente una risposta.
– Beh? Che ci facevi laggiú?
– Cercavo una cosa, – risposi.
– Cercavi una cosa. Ma certo. E cosa?
– Un braccialetto.
Non avevo mai posseduto un braccialetto in vita mia.
– E perché pensavi che fosse lí?
– Credevo di averlo perso.
– Ma tu guarda. Proprio lí. Come mai?
– Perché l’altro giorno ero venuta a raccogliere le spugnole, – farfugliai. – Ce l’avevo addosso e mi sono detta, magari ti si è sfilato.
Ero abbastanza sicura che la gente andasse in cerca di spugnole sotto i vecchi meli in primavera. Anche se dubito che si ingioiellasse i polsi per farlo.
– Ah-ah, – disse Miriam. – E ne hai trovate? Dico di... come si chiamano? Di spugnole?
Dissi di no.
– Meno male. Perché sarebbero state mie.
Mi squadrò dalla testa ai piedi e tirò fuori quello che aveva intenzione di dire sin dal principio: – Cominci presto, eh, tu?
Uno degli uomini aveva gli occhi a terra, ma pensai che sorridesse. L’altro mi guardava in faccia, sollevando un po’ le sopracciglia in un’espressione di scanzonato rimprovero. Altri, che sapessero chi ero io, e chi era mio padre, probabilmente non avrebbero permesso ai propri sguardi di essere cosí espliciti.
Capii. Miriam pensava – lo pensavano tutti e tre – che la sera prima o chissà quando fossi stata là sotto il melo insieme a un uomo o a un ragazzo.
– Su adesso, vattene a casa, – disse Miriam. – Torna a casa, tu e i tuoi braccialetti; e vedi di non venire piú a fare la stupida nella mia proprietà.
Miriam McAlpin era nota per la sua tendenza a strepitare contro la gente. Una volta l’avevo sentita nella bottega dell’alimentari, strillare come un’aquila per delle pesche ammaccate. Il modo in cui mi trattava era prevedibile, e i sospetti sul mio conto sembravano suscitarle una sensazione di autentico e puro disgusto che non mi stupiva per niente.
Erano gli uomini a farmi schifo. Gli sguardi che mi avevano lanciato, carichi di doveroso rimprovero e ignobile apprezzamento. Quel leggero, fiacco incurvarsi e appesantirsi delle loro persone, mentre saliva dentro la loro testa il livello della morchia.
Durante il verificarsi della scena, era uscito anche il mozzo di stalla. Portava il cavallo di uno dei due o di entrambi quei tizi. Si fermò in cortile però, non venne oltre. Dava l’impressione di non guardare la sua datrice di lavoro, né i proprietari del cavallo, né me, e di non provare il minimo interesse per quanto avveniva. Doveva essere abituato al modo in cui Miriam metteva in riga la gente.
I pensieri degli altri su di me – non solo pensieri tipo quelli che Miriam e quei tizi potevano aver formulato, ciascuno a modo suo piuttosto pericoloso –, ma qualunque pensiero in effetti, mi pareva costituire una misteriosa minaccia, una sguaiata insolenza. Detestavo perfino ricevere commenti relativamente innocui.
– L’altro giorno ti ho vista passare per strada. Sembravi un po’ tra le nuvole.
Giudizi e ipotesi, tutti un unico sciame di insetti pronti a infilarmisi in bocca e negli occhi. Che voglia di schiacciarli. Di sputarli via.
– Fango, – bisbigliò mia sorella quando tornai a casa. – Hai del fango sul dietro della camicetta.
Mi osservò mentre me la toglievo in bagno e la strofinavo con un pezzo di sapone da bucato. L’acqua calda corrente ce l’avevamo solo d’inverno, perciò mi chiese se ne volevo un po’ dalla cuccuma. Non mi domandò come ci fosse finito lí sopra il fango, voleva solo eliminare le tracce, tenermi fuori dai guai.
Il sabato sera c’era sempre una folla nello stradone. Allora nella regione non esistevano i centri commerciali, e fu solo parecchi anni dopo la guerra che la grande serata dello shopping diventò quella del venerdí. L’anno di cui sto parlando è il 1944, quando ancora avevamo le tessere annonarie e un mucchio di roba – che so, auto nuove o calze di seta – non potevi comprarla per niente, però i contadini arrivavano in paese con qualche soldo in tasca e i negozi si erano rimessi un po’ a nuovo dopo le malinconie della Depressione, e rimanevano tutti aperti fino alle dieci di sera.
Chi stava in paese faceva acquisti perlopiú durante la settimana e di giorno. A meno che lavorasse nelle botteghe o nei locali, il sabato sera se ne stava alla larga, giocando a carte con i vicini o ascoltando la radio. I giovani sposi, i fidanzati, e le coppiette che «uscivano insieme», si isolavano abbracciati nel cinema oppure, sempre ammesso che riuscissero a procurarsi i buoni per il carburante, raggiungevano in macchina una delle sale da ballo in riva al lago. Era la gente di campagna a prendere possesso della via, e i giovani contadini liberi di entrambi i sessi a riempire il Night Owl di Neddy, quello con la pista rialzata rispetto al pavimento di terra battuta, dove ballare costava dieci centesimi alla volta.
Io me ne stavo vicina alla pista con qualche amica della mia età. A nessuno veniva in mente di spendere dieci centesimi per una di noi. Sfido io. Sghignazzavamo, prendevamo in giro ballerini, tagli di capelli, vestiti. Certe volte chiamavamo troietta o finocchio qualcuno, pur non avendo un’idea precisa del significato di quei due appellativi.
Magari era lo stesso Neddy, addetto alla vendita dei biglietti, a venire a dirci: «Ehi, ragazzine, non vi pare che un po’ d’aria fresca vi farebbe bene?» E allora noi uscivamo tutte compunte. O capitava che ci annoiassimo e decidessimo di andarcene di nostra iniziativa. Ci compravamo un cono gelato che ci leccavamo a vicenda per assaggiare i vari gusti, e marciavamo impettite su e giú per lo stradone, superando gruppetti di chiacchieroni e sciami di ragazzini che si schizzavano d’acqua delle fontanelle. Nessuno era degno della nostra attenzione.
Le ragazze che partecipavano a questo genere di processioni non erano certo la crema del paese – come avrebbe detto mia madre, con una punta di mesto sarcasmo nella voce. Non ce n’era una che in casa potesse vantare una veranda e neppure un padre da giacca e cravatta, se non la domenica. Quel tipo di ragazza era in casa propria a quell’ora, oppure a trovare l’amica per giocare a Monopoli, fare le caramelle di latte o provare nuove acconciature. A mia madre spiaceva constatare che io non ero stata accettata in quel mucchio.
A me invece stava benone. Cosí potevo fare il capobanda e la spaccona. Se era solo una maschera, bisogna dire che la portavo con disinvoltura. O forse non era una maschera, bensí una delle tante personalità incoerenti e diverse di cui parevo essere fatta.
Su un terreno vuoto all’estremità settentrionale del paese si erano sistemati alcuni membri dell’Esercito della Salvezza. C’era un predicatore, uno sparuto coro preposto a intonare inni, e un ragazzo ciccione al tamburo. Piú uno alto al trombone, una ragazza al clarino e un paio di ragazzetti armati di tamburini.
Quelli dell’Esercito della Salvezza erano ancor meno crema delle ragazze che frequentavo io. Il tizio che predicava era il carrettiere che consegnava il carbone. Certo si era lavato bene, ma sulla faccia gli restava una specie di patina grigia. Nello sforzo di predicare, sudava copiosamente, e pareva che pure il sudore dovesse essere grigio. Certi, passando in macchina, suonavano il clacson per coprirgli la voce. (Incuranti dello spreco di carburante, c’erano dei giovanotti che andavano su e giú da nord a sud per tutta la via in continuazione). Perlopiú la gente passava oltre con facce perplesse ma rispettose, ma qualcuno si fermava a guardare. Come noi ad esempio, in attesa di una ragione per ridere.
Presero su gli strumenti per attaccare un inno, e mi accorsi che il ragazzo del trombone era proprio il mozzo di stalla rimasto nel cortile mentre Miriam McAlpin procedeva a rifilarmi la strigliata. Quando cominciò a suonare, mi sorrise con gli occhi, e non pareva volesse ricordare la mia umiliazione con quel sorriso. Ma esprimere una gioia incontenibile, come se vedere me gli riportasse alla mente una scena del tutto diversa da quella, di naturale felicità.
«Nel Sangue ci scorre il Potere, Potere, Potere, Potere, Potere», cantava il coro. I tamburini furono sollevati sopra le teste dei suonatori. Un’euforia cordiale contagiò gli astanti, e quasi tutti si misero a cantare con tono di allegra ironia. E ci sentimmo autorizzate a unirci al coro anche noi.
Poco dopo la cerimonia era conclusa. I negozi chiudevano, e ciascuna si avviò verso casa. Per me c’era una scorciatoia: un ponte pedonale sul fiume. L’avevo quasi percorso tutto quando sentii dei passi di corsa pesanti, delle specie di tonfi alle mie spalle. Le assi mi tremavano sotto i piedi. Mi feci di lato, stringendomi contro il parapetto, un po’ spaventata, ma decisa a non darlo a vedere. Non c’erano luci nei pressi del ponte ed era ormai abbastanza buio.
Quando arrivò vicino, mi accorsi che si trattava del suonatore di trombone in greve uniforme scura. Era la custodia dello strumento a fare quel baccano, sbattendo contro il parapetto.
– Tutto bene, – disse lui, trafelato. – Sono soltanto io. Volevo provare a raggiungerti.
– Come hai fatto a sapere che ero io? – chiesi.
– Un po’ ci vedevo. Che abiti da questa parte me lo ricordavo. E poi sapevo che eri tu per come cammini.
– Come? – feci io. Di solito, una presunzione del genere mi avrebbe irritata troppo per chiedere.
– Non so. È proprio il modo che hai di camminare.
Si chiamava Russell Craik. I suoi erano membri dell’Esercito della Salvezza: il carrettiere predicatore era suo padre, e sua madre, una delle coriste. Lavorando con il padre si era impratichito con i cavalli, perciò Miriam McAlpin l’aveva assunto appena finita la scuola. Vale a dire dopo la terza media. Al tempo non era affatto insolito per i ragazzi. Data la guerra c’erano un mucchio di lavoretti che potevano fare aspettando, come nel suo caso, di avere l’età per entrare nell’esercito. Lui l’avrebbe raggiunta a settembre.
Se Russell Craik avesse voluto portarmi fuori normalmente, invitarmi, che so, al cinema o a ballare, non avrebbe mai e poi mai ottenuto il permesso. Mia madre avrebbe sentenziato che ero troppo giovane. Con ogni probabilità avrebbe ritenuto inutile specificare che faceva il mozzo di stalla e che suo padre era un carrettiere e che l’intera famiglia portava la divisa dell’Esercito della Salvezza e testimoniava regolarmente in strada. Tali considerazioni avrebbero avuto un certo peso anche per me, se si fosse trattato di presentare Russell ufficialmente come il mio ragazzo. Avrebbero avuto un certo peso almeno fino a quando non si fosse arruolato diventando presentabile. Ma per come stavano le cose, non era il caso di preoccuparsi. Russell non poteva portarmi né al cinema né a ballare perché la sua religione proibiva anche a lui di andarci. La modalità di rapporto che nacque fra noi mi pareva semplice, naturale quasi, perché per certi versi, non tutti, somigliava agli appaiamenti casuali, inosservati e provvisori di ragazzi e ragazze dell’età mia, piú che della sua.
Per cominciare, andavamo in bici. Russell non aveva la macchina e nemmeno poteva chiederne una in prestito, pur sapendo guidare, come dimostrava il fatto che portasse il furgone per il trasporto dei cavalli. Non veniva mai a prendermi a casa e io mi guardavo bene dal suggerirlo. La domenica pomeriggio uscivamo ciascuno per conto suo dal paese e ci incontravamo sempre nello stesso posto, davanti all’incrocio della scuola a due o tre miglia di distanza. Le scuole di campagna ce le ricordavamo tutte con un nome piú che per il numero impresso all’entrata. Non dicevamo alla Pubblica n. 11, o alla n. 5, ma alla Scuola dell’Agnello, oppure al Taverniere, o alla Mattoni Rossi, oppure alla Scuola al Masso. Quella che scegliemmo, a me già nota da prima, si chiamava la Scuola della Sorgente. In effetti, a giustificare quel nome, in un angolo del cortile c’era un cannello dal quale scorreva un filo d’acqua continuo.
Intorno al cortile, dall’erba rasata anche nelle vacanze estive, si ergevano dei grandi aceri la cui ombra formava a terra delle pozze quasi nere. In un angolo c’era un mucchio di sassi dai quali spuntava l’erba alta, e lí nascondevamo le bici.
La strada davanti alla scuola era tenuta pulita e coperta di ghiaia, ma quella laterale, in salita, era poco piú di un viottolo nell’erba, o di un sentiero. Da un lato costeggiava un pascolo con qualche cespuglio di ginepro e di biancospino, e dall’altro, un boschetto di querce e pini che una fossa separava dal ciglio della strada. La fossa era diventata una discarica, non quella ufficiale allestita dal comune, ma una abusiva, utilizzata dai contadini. Russell la trovava molto interessante e, tutte le volte che passavamo di lí, dovevamo sporgerci a sbirciare dentro, per vedere se c’era qualcosa di nuovo. Non capitava mai; probabilmente nessuno la usava piú già da anni, ma spesso Russell individuava qualcosa che non aveva notato prima.
– La vedi quella? È la griglia di un V-8.
– E là, sotto quella ruota da carro? Quella è una vecchia radio a batteria.
Ero già stata qualche volta su quella strada da sola, senza mai fare caso alla discarica; sapevo altre cose, in compenso. Ad esempio che prendendo per la salita, sull’altro versante del colle, querce e pini si sarebbero persi fra larici, abeti e cedri, come pure il prato da pascolo, e che per un pezzo non avremmo visto altro che vegetazione palustre su entrambi i lati, con qualche chiazza di mirtilli rossi a stelo alto ai quali nessuno riusciva ad arrivare, e di un fiore rosso elegante di cui non ricordo bene il nome: qualcosa tipo il pennello del diavolo, mi pareva. Sul ramo di un cedro qualcuno aveva appeso il cranio di un animaletto, e questo sí che Russell lo notava, domandandosi immancabilmente se era di furetto o faina o visone.
In ogni caso era prova, diceva lui, che qualcuno era passato su quella strada prima di noi. A piedi, probabilmente, non in macchina: i cedri crescevano troppo vicini, e il ponte di legno sul corso d’acqua in fondo alla palude era molto rudimentale, vibrava sotto i nostri passi, e non aveva il parapetto. Passato quello, il terreno a poco a poco saliva lasciandosi alle spalle il pantano, e finalmente, oltre i grossi faggi, si cominciavano a intravedere campi su entrambi i lati della strada. Alberi talmente frondosi e fitti che la loro tersa luce grigia pareva operare nell’aria un autentico cambiamento, rinfrescandola come se ci si fosse inoltrati in un salone o dentro una chiesa.
E il viottolo si concludeva, dopo il tipico miglio e un quarto da incrocio a incrocio delle strade vicinali, sfociando su un’altra sterrata diritta. Lí, facevamo dietrofront e ritornavamo sui nostri passi.
Nella calura di metà giornata gli uccelli quasi non si sentivano e di certo non si vedevano, ed erano poche anche le zanzare perché gli stagni della bassa si erano perlopiú prosciugati. Ma c’erano le libellule sul corso d’acqua e spesso nugoli di farfalle minuscole, di un verde talmente pallido da far pensare che riflettessero solo la luce delle foglie.
Da sentire in ogni punto del percorso c’era invece la voce soddisfatta e pacata di Russell. Parlava della sua famiglia: aveva due sorelle maggiori ormai via da casa e poi un fratello e due sorelle minori, tutti dotati musicalmente, e ciascuno che suonava uno strumento diverso. Il fratello si chiamava Jackie: studiava trombone per poter prendere il suo posto. Le sorelline ancora in casa erano Mavis e Annie, e le due adulte, Iona e Isabel. Iona aveva sposato un tale che lavorava all’Acquedotto, e Isabel faceva la cameriera in un grande albergo. Un’altra sorella, Edna, era morta di polio dentro un polmone d’acciaio dopo due soli giorni di malattia, a dodici anni. Era l’unica della famiglia ad avere i capelli biondi. Anche Jackie aveva rischiato di morire, di setticemia, per aver messo il piede su un’asse con un chiodo arrugginito. Russell invece aveva i piedi duri come cuoio, perché d’estate girava sempre scalzo. Poteva camminare sulla ghiaia, le stoppie e i rovi senza mai farsi male.
In terza media era cresciuto di colpo fin quasi all’altezza attuale, e gli avevano dato la parte di Ali Baba nell’operetta scolastica. Un po’ perché cantava bene, e un po’ perché era cosí alto.
A guidare la macchina gli aveva insegnato suo zio quando veniva a trovarli da Port Huron. Lo zio faceva l’idraulico e cambiava automobile ogni due anni. Lasciava guidare Russell anche prima che avesse l’età per prendere la patente. Per il furgone di Miriam McAlpin invece aveva dovuto aspettare di averla. Ora lo guidava con e senza il rimorchio per il trasporto dei cavalli. Fino a Elmira, a Hamilton, una volta perfino a Peterborough. Non era facile perché il carrello tendeva a ribaltarsi. A volte andavano insieme, ma lei lo lasciava guidare.
Quando parlava di Miriam McAlpin gli cambiava la voce. Diventava cauta, tra l’ilare e lo sprezzante. Era un gendarme, diceva. Ma bastava saperla prendere. I cavalli le piacevano di piú della gente. Se ci si potesse sposare un cavallo, a quest’ora non sarebbe piú sola, diceva.
Io non parlavo tanto dei fatti miei, e nemmeno ascoltavo lui con grande attenzione. La sua voce era come un velo di pioggia fine tra gli alberi e me, la luce e le ombre sulla strada, l’acqua chiara della roggia, le farfalle e tutta la parte della mia persona che si sarebbe concentrata su quelle cose, se fossi stata da sola. Perlopiú fingevo interesse, come con le mie amiche il sabato sera. Ma adesso il cambiamento non dipendeva tanto dalla mia volontà e determinazione. Ero semi-ipnotizzata, non soltanto dal suono della sua voce ma anche dalla vistosa ampiezza delle sue spalle nella camicia pulita a maniche corte, dalla sua gola abbronzata e dalle braccia vigorose. Si era lavato con sapone marca Lifebuoy – lo riconoscevo dall’odore ben noto a tutti: del resto in quei giorni lavarsi era il massimo a cui arrivassero gli uomini, perlopiú; di certo non stavano a preoccuparsi del sudore in agguato nelle ore successive della giornata. Quindi sentivo anche quello. E, in lontananza, afrore di cavallo, di briglie di cuoio, di stalla e di fieno.
Quando non ero con lui, cercavo di ricordarmelo: com’era, bello o no? Di corpo era magro e aveva la faccia abbastanza carnosa, le labbra atteggiate a un broncio autoritario, e i grandi occhi limpidi e azzurri mostravano una specie di ostinato candore, una compiaciuta innocenza. Tutte cose che avrebbero potuto piacermi ben poco, in un altro.
– Digrigno i denti, di notte, – disse. – Io non mi sveglio mai, ma sveglio Jackie e allora sí, che si arrabbia. Mi rifila un calcio, io mi giro nel sonno e finisce lí. Perché lo faccio solo se sono sdraiato di schiena.
– E tu me lo daresti un calcio? – aggiunse allungando il braccio nei pochi centimetri di aria che ci separavano, trafitti dalla luce del sole, per prendere la mia mano. Disse che a letto gli prendeva un caldo che buttava via le coperte, e che anche quello faceva arrabbiare Jackie.
Avevo voglia di chiedergli se del pigiama metteva solo il pezzo di sopra, o quello di sotto, o tutti e due, o nessuno dei due, ma l’ultima ipotesi mi fece sentire troppo turbata per aprire bocca. Le nostre dita si davano un gran daffare, per conto proprio, finché furono troppo sudate e dovettero smettere e separarsi.
Fu soltanto al nostro ritorno al cortile della scuola, quando stavamo per prendere le biciclette e rientrare in paese – ciascuno per conto suo –, che la ragione della nostra passeggiata, l’unica vera, per quanto ne capivo, ottenne la nostra attenzione assoluta. Russell mi tirò verso di sé nell’ombra, mi cinse con le braccia e si mise a baciarmi. Al riparo dalla strada, mi premette contro il tronco di un albero e ci baciammo prima in modo innocente e poi via via con piú ardore, avvinghiandoci l’uno all’altra, da in piedi, in preda a un fremente bisogno. E dopo – quanto sarà stato? – cinque o dieci minuti cosí, riprendemmo le nostre bici e ci salutammo. Avevo la bocca dolente a furia di sfregare, e guance e mento arrossati da spine di barba invisibili sulla sua faccia. La schiena mi faceva male per essere stata sbattuta contro l’albero e il davanti del corpo, per aver retto la pressione del suo. Io avevo la pancia piatta ma morbida; la sua invece, avevo notato, non cedeva per niente. Pensai che i maschi dovessero avere la pancia dura e perfino dotata di una sporgenza, di cui non ci si accorgeva a meno di abbracciarli molto stretti.
Sembra cosí strano che, con tutto quel che sapevo, io non abbia capito che cosa fosse quella pressione. Avevo un’idea abbastanza accurata del corpo di un uomo, ma chissà come mi era sfuggito il concetto di quel cambiamento di dimensioni e consistenza. A quanto pare ero convinta che un pene fosse costantemente al massimo in termini di grandezza, e classico, nella forma, ma che, ciononostante, lo si potesse tenere pendulo nelle gambe dei pantaloni, e non ritto a premere contro il corpo di un altro a quel modo. Avevo sentito un mucchio di battute e avevo visto animali accoppiarsi, ma si sa, quando l’educazione è informale, può rivelare delle lacune.
Ogni tanto parlavamo di Dio. In quelle occasioni Russell assumeva un tono pratico e sicuro, come se Dio fosse un ufficiale di grado superiore, talvolta benevolo ma perlopiú nervoso e inflessibile, in modo virile. Una volta finita la guerra e lasciato l’esercito («Sempre che non mi ammazzino», aggiungeva, gioviale), restavano comunque gli ordini di Dio da eseguire, e il Suo esercito da servire.
– Dovrò fare quello che Dio vuole da me.
Quella frase mi colpí. Che tremenda mitezza occorreva, per avere tanta fede!
Oppure – considerando la guerra e l’esercito regolare – anche soltanto per essere un uomo.
Il pensiero del suo futuro doveva essergli venuto in mente perché sul tronco di un faggio – un albero la cui corteccia grigia è ideale per i messaggi – aveva notato un viso intagliato e una data. L’anno era il 1909. Da allora, l’albero era cresciuto, il tronco era andato aumentando di diametro e cosí i contorni del volto si erano allontanati fino a confondersi in macchie piú larghe della faccia stessa. Il resto della data era ormai totalmente illeggibile.
– Risale a prima della Grande Guerra, – dissi. – Chiunque l’abbia scritto potrebbe già essere morto. Magari ucciso in guerra.
– O magari è morto comunque, – aggiunsi frettolosamente.
Fu quel giorno, mi pare, che, sulla via di casa, faceva talmente caldo che ci togliemmo calze e scarpe e ci calammo dalle assi del ponte per mettere a bagno le gambe fino al ginocchio, nel rio. Ci sciacquammo il viso e le braccia.
– Hai presente quella volta che sono stata beccata mentre uscivo da sotto il melo? – dissi, con mia stessa sorpresa.
– Sí.
– Le ho detto che cercavo un braccialetto, ma non era vero. Ero lí per un altro motivo.
– Ah, sí?
A quel punto mi ero pentita di aver cominciato.
– Volevo mettermi sotto l’albero quando era in fiore e guardarlo da sotto in su.
Scoppiò a ridere. – Che strano, – disse. – Anch’io avrei voluto. Non l’ho mai fatto, ma ci ho pensato.
Mi stupí, e per certi versi non favorevolmente, il fatto che condividessimo quello slancio. Eppure non gliel’avrei certo detto se non avessi sperato che mi poteva capire, no?
– Vieni a cena da noi, – disse.
– Ma non devi chiedere a tua madre se è d’accordo?
– Non le dispiace.
A mia madre invece sarebbe spiaciuto, sapendolo. Solo che non lo seppe, perché le mentii, dicendo che andavo dalla mia amica Clara. Ora che mio padre doveva essere in fonderia per le cinque – domeniche comprese, dato che era il guardiano – e mia madre spesso non stava bene, le nostre cene erano sempre piú improvvisate. Se cucinavo io, facevo cose che piacevano a me. Una era pane a fette con sopra uovo, latte e formaggio strapazzati, e passati in forno. Un’altra, anche quella al forno, era un polpettone di carne in scatola glassato allo zucchero di canna. Oppure montagne di patate affettate da crude e poi fritte sino a essere friabili. Lasciati a loro stessi, mio fratello e mia sorella cenavano a base di sardine sui cracker o biscotti spalmati di burro di arachidi. L’erosione delle abitudini domestiche in casa nostra sembrava facilitare il mio sotterfugio.
Forse, l’avesse saputo, mia madre avrebbe trovato il modo per spiegarmi come, una volta entrato in certe famiglie da pari o da amico – anche quando si trattava di case per alcuni versi perfettamente rispettabili –, dimostravi di non avere un’opinione molto alta di te stesso e dopo un po’ si sarebbero adeguati anche gli altri. Io ci avrei litigato, naturalmente, e con veemenza eccessiva, dovuta alla consapevolezza che quanto diceva era vero, almeno in paese. Dopotutto ero io quella che adesso inventava scuse per non passare con le mie amiche davanti all’angolo dove il sabato sera si sistemavano Russell e i suoi.
A volte speravo venisse presto il momento in cui Russell avrebbe messo via quella divisa vagamente comica, blu scura con la fascia rossa, per sostituirla con una color kaki. Mi pareva che il cambiamento riguardasse ben piú di un’uniforme, che potesse far cadere per sempre un’identità per lasciarne spuntare un’altra, gloriosa, inattaccabile, appena si fosse agghindato da combattente.
I Craik abitavano in una viuzza diagonale lunga un solo isolato, non lontano dalla scuderia. Non avevo mai avuto occasione di percorrere quella strada in passato. Le case erano addossate al marciapiede e vicine le une alle altre, senza lo spazio necessario per un passo carraio o un cortile laterale. Chi aveva la macchina era costretto a parcheggiarla a metà tra il marciapiede e quella striscia di prato che fungeva da giardino. La grande casa di legno dei Craik era dipinta di giallo – cosí infatti Russell mi aveva detto, di cercare la casa gialla –, ma la vernice si era scrostata e screpolata qua e là.
Esattamente come l’intonaco marrone che una volta, malauguratamente, aveva ricoperto i mattoni rossi di casa mia. In fatto di contanti le nostre famiglie non erano poi tanto lontane. Anzi.
Sul gradino d’ingresso stavano sedute due bambine, forse piazzate di guardia in caso avessi scordato la descrizione del posto.
Ma entrambe schizzarono in piedi senza aprire bocca, e scapparono dentro, manco le avesse rincorse un gatto selvatico. La controporta a zanzariera mi sbatté in faccia e rimasi lí in piedi a scrutare un lungo corridoio spoglio. Sentivo un trambusto sommesso arrivare dal retro; forse cercavano di stabilire chi dovesse venire ad accogliermi. Alla fine, giú dalle scale, arrivò Russell personalmente, con i capelli scuri perché se li era appena bagnati. Mi fece entrare.
– Allora ce l’hai fatta a trovarci, – disse. Si tenne alla larga dalla possibilità di toccarmi.
In casa, i Craik non portavano l’uniforme dell’Esercito della Salvezza. Chissà come mai avevo pensato il contrario. Il padre, che come predicatore di strada tendeva a mostrarsi piuttosto feroce, iracondo anche quando offriva speranze di misericordia e salvezza, e che quando sedeva curvo sul carro del carbone sembrava sempre di pessimo umore, mi venne incontro lustro e pulito con la sua lucida zucca calva, e mi salutò come se fosse davvero contento di vedermi in casa sua. La madre era alta, come Russell, larga di bacino e piatta davanti, con i capelli grigi tagliati all’altezza delle orecchie. Per farla girare, Russell dovette ripeterle due volte il mio nome, per il baccano che faceva frullando le patate del purè. Si asciugò la mano nel grembiule come se avesse pensato di stringere la mia, ma poi non lo fece. Disse che era lieta di conoscermi. Quando intonava inni agli angoli della strada, aveva una voce morbida e piena, mentre ora, parlando, era rotta dall’imbarazzo come quella di un adolescente.
Il padre di Russell fu pronto ad approfittare dell’incertezza. Mi chiese se avevo esperienza di galline nane. Dissi di no e lui ribatté che aveva pensato potessi intendermene, essendo cresciuta in campagna.
– Le galline sono il mio passatempo, – disse. – Vieni, ti faccio vedere.
Le due bambine intanto erano ricomparse e ciondolavano sulla porta del corridoio. Stavano per accodarsi al padre, Russell e la sottoscritta diretti in cortile, ma la madre le richiamò all’ordine.
– Anniemavis! Voi restate qui e apparecchiate.
Il galletto nano si chiamava King George.
– Per scherzo, – chiarí Mr Craik. – Perché mi chiamo cosí pure io.
Le galline portavano i nomi di Mae West, Tugboat Annie e Daisy Mae e altre celebrità dello schermo, dei fumetti o del folklore popolare. Il che mi sorprese, visto che il cinema era proibito alla famiglia e nei sermoni della domenica la sala cinematografica veniva descritta come un luogo da aborrire quant’altri mai. Mi ero fatta l’idea che il divieto valesse anche per i fumetti. Ma forse andava bene dare quei nomi a delle stupide galline. O forse i Craik non erano sempre stati membri dell’Esercito della Salvezza.
– Come fate a distinguerle? – chiesi. Chissà dove avevo la testa, se no avrei notato che erano ognuna diversa dall’altra, con un disegno particolare di penne rosse e marroni o color ruggine e oro.
Intanto era sbucato fuori il fratello di Russell. Ridacchiava sotto i baffi.
– Oh, si impara, – disse il padre. E si mise a indicarmele una per una, solo che le galline erano agitate da tutta quella attenzione e si sparpagliarono nel cortile, cosí lui non riusciva a stargli dietro. Il galletto era insolente e mi beccava le scarpe.
– Non spaventarti, – disse il padre di Russell. – Si dà solo un po’ di arie.
– Fanno le uova? – fu la mia successiva domanda cretina.
– Oh sí, sí, le fanno, ma non con molta frequenza. No. Non bastano neanche per noi. No, queste sono una razza ornamentale, nient’altro. Specie ornamentale.
– Adesso ti becchi un ceffone, – disse Russell al fratello, alle mie spalle.
A cena, Russell ottenne da un cenno del capo del padre l’incarico di chiedere la Benedizione, ed eseguí. In quella casa la preghiera era improvvisata senza fretta sul momento per adeguarsi alla circostanza, niente a che vedere con il Signore-benedici-questo-pane-e-la-nostra-famiglia che si farfugliava a tavola a casa nostra quando mangiavamo tutti insieme. Russell parlò lentamente e con tono sicuro ricordando il nome di ogni commensale, me compresa, chiedendo al Signore di farmi sentire la benvenuta. Rabbrividii al pensiero che la guerra poteva non risparmiarlo del tutto, che una volta finita avrebbe potuto rientrare in quell’altro esercito e indossare la vecchia divisa, che Russell poteva addirittura scoprirsi un dono e una vocazione da predicatore.
I piattini del pane e burro non c’erano. Si metteva la fetta direttamente sulla tela cerata oppure sul bordo del piatto piano. E con un boccone di mollica lo si puliva bene perché ci si doveva mangiare dentro anche il dolce.
Il galletto si presentò sulla porta ma venne cacciato via da Mr Craik. L’episodio causò risolini tra Mavis e Annie, che si coprirono la bocca con la mano.
– Se vi va di traverso, vi sta solo bene, – disse Russell.
Mrs Craik evitava di chiamarmi per nome – si rivolgeva a Russell in un sussurro rauco e diceva: «Passale i pomodori» –, ma sembrava piú per timidezza estrema che per cattiva volontà. Mr Craik continuò imperturbabile a fare gli onori di casa, informandosi sulla salute di mia madre, sui turni di mio padre alla fonderia e chiedendomi se gli piaceva quel lavoro, e come avesse trovato il passaggio da titolare di se stesso a dipendente. Sembrava piú un insegnante, un bottegaio, se non addirittura un professionista, piuttosto che un carrettiere, quando mi parlava. E pareva anche dare per scontato che le nostre famiglie fossero sullo stesso piano e si conoscessero piuttosto bene. Quanto all’essere sullo stesso piano, non si sbagliava poi di molto, ed era anche abbastanza vero che mio padre conosceva bene quasi tutti. Eppure la cosa mi metteva un po’ a disagio, quasi mi vergognavo, perché stavo ingannando questa famiglia e la mia, perché stavo seduta a quel tavolo sotto mentite spoglie.
Ma mi sembrava che, tanto, Russell e io saremmo stati sotto mentite spoglie a qualsiasi cena in famiglia, dovendo restarcene seduti a fingere di pensare solo al mangiare e alla conversazione del momento. Mentre in realtà segnavamo il passo perché non era lí che i nostri bisogni piú urgenti sarebbero stati soddisfatti, e perché la nostra sola smania era quella di volarci addosso.
Non mi passò neanche per la mente che in realtà quello fosse invece il posto piú adatto a una giovane coppia nella nostra condizione, introdotta cosí al primo stadio dell’esistenza che di lí a poco avrebbe fatto anche di noi due il Padre e la Madre. I genitori di Russell forse lo sapevano e magari in cuor loro se ne allarmavano, ma per decenza si mostravano ottimisti, o forse rassegnati. Russell era già una forza estranea al loro controllo, in quella famiglia. E lui lo sapeva, se in quel momento era in grado di pensare al dopo. Non mi guardava quasi per niente ma, se capitava, il suo sguardo era fermo, esigente, capace di scuotermi e risuonarmi dentro come se fossi stata un tamburo.
Ormai era tarda estate, le serate finivano presto. In cucina si accese la luce mentre lavavamo i piatti. La bacinella fu messa sul tavolo, piena di acqua scaldata sul gas, il che era esattamente come facevo anch’io quando rigovernavo a casa. La madre lavava, io e le sorelle asciugavamo. Forse sollevata al pensiero che la cena fosse finita e io presto me ne sarei andata, la madre di Russell si lasciò scappare qualche affermazione.
– Si sporcano sempre piú piatti del previsto per preparare una cena.
– Lascia stare le pentole, tanto le metto sul gas.
– Bene, dovremmo aver proprio finito.
Quest’ultima frase suonò come il grazie che lei non sapeva dire.
Cosí vicine a me e alla madre, Mavis e Annie non avevano osato ridacchiare. Se capitava che ci intralciassimo a vicenda allo scolapiatti, a loro sfuggiva un «Pardon».
Russell rientrò dopo aver aiutato il padre a ritirare le galline nel pollaio. Disse: – Secondo me è meglio che ti incammini, – come se tornare a casa fosse l’ennesima faccenda da sbrigare, e non la nostra prima, attesissima passeggiata al buio. Per me, un’attesa muta, straziante, il cui pensiero era andato crescendo per tutta la cerimonia di asciugatura dei piatti fino a trasformarla in una specie di rito femminile misteriosamente legato a quanto sarebbe venuto.
Era meno buio di quanto avessi sperato. Per arrivare a casa mia avremmo dovuto attraversare il paese, da est a ovest, e quasi di sicuro qualcuno ci avrebbe notati.
Ma non era lí che eravamo diretti. Al fondo della stradina, Russell mi appoggiò una mano sulla schiena – una breve pressione allo scopo pratico di dirigermi non verso casa, bensí verso la stalla di Miriam McAlpin.
Mi voltai indietro per controllare che nessuno ci stesse spiando.
– E se tuo fratello e le tue sorelle ci hanno seguiti?
– Se ne guardano bene, – disse lui. – Se lo fanno li ammazzo.
La stalla era dipinta di rosso, una tinta uniforme, nella semioscurità. Le porte delle scuderie stavano al livello terra, sul retro. Sopra i portoni superiori, che si aprivano sulla strada, erano dipinti due cavalli bianchi rampanti. Per accedervi era stata costruita una passerella di terra e pietre utilizzata per scaricare le balle di fieno. Nella cornice di quelle grandi ante, era ritagliata una porta di proporzioni normali, cosí ben fatta che quasi non si notava l’interruzione del cavallo dipinto, piú o meno a metà di una delle zampe posteriori. La porta era chiusa, ma Russell aveva la chiave.
Mi tirò dentro dopo di lui. E quando ebbe richiuso, ci trovammo in un primo momento nel buio piú completo. Tutto intorno, quasi soffocante, l’odore del fieno nuovo dell’estate. Russell mi guidava per mano, sicuro come se ci vedesse. Aveva la mano piú calda della mia.
Di lí a un momento, riuscii a vedere qualcosa anch’io. Balle di fieno accatastate l’una sull’altra come giganteschi mattoni. Ci trovavamo in una specie di enorme solaio, sovrastante le stalle. Infatti oltre a quello del fieno, sentivo adesso odore forte di cavallo, e udivo i tonfi attutiti e il calpestio e il biascicare continuo, nei box. In quel periodo dell’anno i cavalli restavano perlopiú al pascolo tutta la notte, ma questi dovevano essere troppo pregiati per lasciarli fuori nell’oscurità.
Russell mi appoggiò la mano sul piolo di una scala, che ci avrebbe permesso di montare in cima alle balle di fieno.
– Vuoi che salga prima io? – bisbigliò.
Perché bisbigliava? Rischiavamo di disturbare i cavalli? O è solo che viene naturale, al buio? Oppure, quando ci si sente deboli di gambe, ma decisi e dolenti in un’altra parte del corpo?
A quel punto accadde qualcosa. Per un istante pensai a un’esplosione. A un fulmine. A un terremoto, perfino. Mi pareva che la stalla intera si scuotesse, inondata di luce. Naturalmente non ero mai stata nei pressi di un’esplosione, né a meno di un miglio da un luogo colpito da un fulmine, e non avevo mai neanche sentito un solo tremito di terremoto. Avevo udito il fragore di spari, ma sempre all’aperto, e a una certa distanza. Mai, lo schianto di un colpo di fucile esploso all’interno, in un locale dal soffitto alto.
Era questo che avevo sentito, infatti. Miriam McAlpin aveva sparato un colpo di fucile, mirando al mucchio di fieno, e poi subito aveva acceso le luci. I cavalli, spaventatissimi, si erano messi a nitrire e agitarsi e scalciare nei box, ma le urla di Miriam si distinguevano lo stesso.
– So che ci sei. Lo so.
– Va’ a casa, – mi sibilò Russell all’orecchio. E mi ruotò, dirigendomi verso la porta.
– Vattene a casa, – ripeté furioso, o comunque con una urgenza che somigliava alla furia. Come se fossi stata un cane che lo seguiva, oppure una delle sue sorelline, che non aveva il diritto di stare lí.
Forse me lo disse proprio, in un sussurro, o forse no. Con tutto il baccano che facevano insieme Miriam e i cavalli, non avrebbe avuto importanza. Russell mi rifilò uno spintone tutt’altro che tenero, poi si rivolse alla stalla e gridò: – Non sparare, sono io. Ehi, Miriam. Sono io.
– Lo so che ci sei…
– Sono io. Russ –. Era corso a piazzarsi davanti alla catasta di fieno.
– Chi c’è lassú? Russ? Sei tu? Russ?
Doveva esserci una scala a pioli per scendere alla stalla. Udii la voce di Russell allontanarsi in discesa. Sembrava spavaldo ma cauto, come se gli mancasse la certezza assoluta che Miriam non avrebbe ripreso a sparare.
– Sono solo io. Sono entrato da sopra.
– Ho sentito qualcuno, – disse Miriam, incredula.
– Lo so. Ero io. Ero solo venuto a dare un’occhiata a Lou. Per vedere come andava la zampa.
– Eri tu?
– Ma sí. Te l’ho detto.
– Che ci facevi su nel fienile?
– Sono entrato da sopra.
Sembrava piú calmo, adesso. In grado di formulare una domanda, a sua volta.
– Da quanto tempo sei qui?
– Sono appena arrivata. Ero in casa e di colpo ho pensato, c’è qualcosa che non va giú alla stalla.
– Come ti salta in mente di sparare? Potevi ammazzarmi.
– Cosí se c’era qualcuno si prendeva una bella strizza.
– Forse era il caso di aspettare. Urlare, prima. Potevi ammazzarmi.
– Chi andava a pensare che fossi tu?
A quel punto Miriam McAlpin gridò di nuovo, come se avesse intravisto un secondo intruso.
– Potevo ammazzarti. Oh, Russ. Non ci avevo pensato. Potevo spararti.
– Va bene. Calmati adesso, – disse Russell. – Potevi, ma non l’hai fatto.
– A quest’ora potevi essere steso per terra e sarebbe stata colpa mia.
– Ma non è successo.
– E se fosse successo, invece? Gesú, Gesú. E se fosse successo?
Piangeva, ripetendo all’infinito piú o meno la stessa frase, ma la sua voce arrivava ovattata, come se le avessero ficcato uno straccio in bocca.
O come se l’abbracciassero stretta contro qualcosa, o qualcuno, per consolarla e tranquillizzarla.
La voce di Russell intanto assumeva autorevolezza, si faceva suadente.
– Tutto bene. Sí. Va tutto bene, tesoro. Tutto bene.
Fu l’ultima cosa che sentii. Che strana parola da utilizzare parlando con Miriam McAlpin. Tesoro. La stessa che aveva usato con me, nella furia dei baci. Niente di particolare in effetti, ma a me era parsa dolce come miele, allora, come un sorso di pura dolcezza. Perché mai pronunciarla ora, dunque, senza avermi vicina? E nello stesso modo, per giunta. Lo stesso.
Fra i capelli, contro l’orecchio, di Miriam McAlpin.
Ero rimasta accanto alla porta. Temevo che il rumore che avrei fatto aprendola potesse arrivare fin sotto, nonostante il trambusto che continuavano a fare i cavalli. O forse non avevo ancora capito del tutto quanto la mia presenza fosse indesiderata, il mio ruolo concluso. Adesso però dovevo uscire. Non mi importava, se anche mi sentivano. Ma non credo che capitò. Mi tirai dietro la porta e mi precipitai in strada percorrendo di corsa la passerella. Avrei voluto continuare a correre, ma mi resi conto che qualcuno poteva vedermi e incuriosirsi. Dovetti accontentarmi di camminare molto spedita. Facevo fatica a fermarmi anche solo un istante, addirittura per attraversare la statale che era pure lo stradone del paese.
Russell non lo rividi piú. Si fece in effetti soldato. Non morí in guerra, e non credo che sia poi rientrato nell’Esercito della Salvezza. L’estate dopo questi fatti, mi imbattei in sua moglie: una ragazza che conoscevo di vista dai tempi del liceo. Era di un paio d’anni avanti a me, e aveva lasciato la scuola per un lavoro al caseificio. Stava con Mrs Craik ed era visibilmente incinta. Rovistavano nella cesta dei saldi fuori dal negozio di Stedman, un pomeriggio. Aveva un’aria mesta e bruttina – magari era solo l’effetto della gravidanza, ma io me la ricordavo brutta anche prima. O comunque, timida e insignificante. Timida, lo sembrava ancora, ma insignificante, non proprio. Il suo corpo era sgraziato, ma sorprendente, grottesco. E vedendola cosí mi sentii attraversare da un brivido di invidia sessuale, e di nostalgia, al pensiero di com’era diventata cosí. Quanta sottomissione, quanto fatalismo.
A un certo punto, dopo il ritorno dalla guerra, Russell si diede alla falegnameria e, grazie a quel lavoro, sfondò come impresario e si mise a costruire case nella inarrestabile periferia di Toronto. Ne sono informata perché si presentò a una riunione di ex allievi del liceo, con un’aria decisamente benestante, facendo battute sul fatto che non avrebbe avuto il diritto di stare lí, visto che alle superiori, lui, manco aveva messo piede. L’episodio mi fu riferito da Clara, la quale aveva mantenuto i contatti.
Clara mi disse che la moglie era diventata bionda, abbastanza grassa, e che sfoggiava un prendisole scollato dietro. Dal buco in cima al cappello da sole, spuntava una pagnotta di capelli biondi. Con loro, Clara non aveva parlato, perciò non poteva essere certissima se fosse la stessa moglie di prima, oppure una nuova.
Probabilmente era un’altra, ma non si può mai dire. Clara e io commentammo che quei raduni ogni tanto dimostrano come la vita possa accanirsi su chi sembrava piú sicuro, mentre chi stava ai margini, chi teneva sempre la testa bassa con aria di scusa, finisce magari col prosperare. E cosí poteva essere andata anche alla ragazza che avevo visto davanti al negozio di Stedman.
Miriam McAlpin tenne la scuderia finché un incendio non la distrusse. Non so come andò, forse come capita di solito: fieno umido, combustione spontanea. I cavalli si salvarono tutti, ma Miriam rimase coinvolta nell’incidente e in seguito tirò avanti con la pensione d’invalidità.
Era tutto normale quella sera quando tornai a casa. Era l’estate in cui mio fratello e mia sorella avevano imparato a fare i solitari, e ci giocavano in ogni occasione. In quel momento stavano seduti uno di fronte all’altra, a capotavola, in sala da pranzo: rispettivamente nove e dieci anni, l’aria seria da vecchi coniugi, ciascuno davanti alla propria distesa di carte. Mia madre era già andata a letto. Stava molte ore a letto, ma sembrava che non dormisse mai come tutti gli altri; si limitava a sonnecchiare per brevi momenti nell’arco del giorno come della notte, poi si alzava, si faceva un tè, o metteva in ordine un cassetto. La sua vita aveva smesso una volta per tutte di essere saldamente collegata a quella del resto della famiglia.
Mi chiese dal letto se avevo mangiato bene da Clara, e che cosa c’era per dolce?
– Budino di ricotta, – dissi.
Ero convinta che sarebbe bastato un frammento di verità, se avessi detto ad esempio «torta», a tradirmi immediatamente. A lei non importava, voleva solo fare un po’ di conversazione, ma io non ero in grado di soddisfarla. Le rimboccai il piumone ai piedi, come mi aveva chiesto, e scesi in soggiorno dove mi sedetti sullo sgabello basso davanti alla libreria e tirai fuori un libro. Restai lí seduta a strizzare gli occhi sui caratteri a stampa nella luce fioca che ancora arrivava dalla finestra lí accanto, finché fui costretta ad alzarmi e accendere la lampada. Anche dopo non mi sistemai comoda in poltrona ma tornai ad appollaiarmi sullo sgabello, riempiendomi la mente di frasi, una dopo l’altra, scaraventandomele nella testa per non pensare a quello che era successo.
Non so che libro fosse quello che avevo preso. Li avevo già letti tutti, i romanzi dello scaffale. Non erano molti. Il sole nero. Via col vento. La tunica. Riposa in pace. Figlio, mio figlio. Cime tempestose. Gli ultimi giorni di Pompei. La selezione non rifletteva alcun gusto particolare, e anzi, spesso i miei genitori non sapevano come mai un certo libro fosse finito lí: se era stato comprato o preso in prestito o dimenticato da qualcuno.
Però un senso doveva esserci, se a quella svolta della mia vita io presi in mano un libro. Perché fu proprio dai libri che, negli anni a venire, avrei pescato i miei amori. Uomini, non ragazzi. Tipi composti e sardonici, con una vena di ferocia, e riserve di malinconia. Non gli Edgar Linton, non gli Ashley Wilkes. Nessuno dai modi socievoli e cordiali.
Non che avessi rinunciato alla passione. Al contrario, era proprio una passione assoluta, devastante perfino, quello che cercavo. Tirannia e sottomissione. Non escludevo neppure una certa dose di brutalità. Niente confusioni, però, nessun doppio gioco, né sordida sorpresa o umiliazione. Potevo aspettare: avrei avuto anch’io la mia parte, mi dicevo, quando fossi alla fine sbocciata del tutto.