Stipendiata

Mrs Montjoy mi stava mostrando come ritirare tegami e padelle. Ne avevo messi alcuni nel posto sbagliato.

Se c’era una cosa che detestava, disse, era un armadio pieno di pentole alla rinfusa.

– Si perde solo piú tempo, – disse. – Si perde piú tempo a trovare le cose se non sono al loro solito posto.

– Succedeva cosí anche a casa nostra, con le stipendiate, – ribattei io. – Per i primi giorni non facevano altro che ritirare la roba chissà dove, cosí nessuno riusciva piú a trovarla.

– Le chiamavamo cosí, a casa nostra, – aggiunsi. – Le domestiche, per noi erano le stipendiate.

– Ah, sí? – fece lei. Ci fu un attimo di silenzio. – Il colino invece va appeso a quel gancio.

Come mai mi ero sentita in dovere di pronunciare quella frase? Che bisogno c’era di far presente che a casa avevamo delle stipendiate?

Beh, l’avrebbe capito chiunque. Per mettermi un po’ di piú al suo livello. Come se si potesse. Come se una qualsiasi informazione riguardo a me o alla mia famiglia potesse incuriosirla o sorprenderla.

Però era vera, la storia delle stipendiate. Se n’era susseguita una processione, quando ero piccola. C’era stata Olive, una ragazza dolce e indolente alla quale non piacevo perché la chiamavo Olive Oyl. Non cambiò parere nemmeno dopo che fui costretta a chiederle scusa. Forse nessuno di noi le andava granché a genio perché era una Cristiana della Bibbia, il che la rendeva diffidente e schiva. Cantava sempre mentre lavava i piatti e io li asciugavo. C’è un balsamo in Gàlaad… Se provavo a cantare anch’io, lei smetteva.

Poi ci fu Jeanie, la mia preferita perché era carina e la sera, quando si faceva la piega, metteva i bigodini anche a me. Teneva un elenco dei ragazzi con cui usciva e faceva dei segni accanto ai loro nomi. x x x o o * *. Non durò molto da noi.

E neanche Dorothy, che stendeva il bucato in modo stravagante – appeso per il colletto, oppure una manica o una gamba dei pantaloni – e scopava lo sporco in un angolo e poi ci appoggiava contro la scopa perché non si vedesse.

Ma già dopo i miei dieci anni, le stipendiate erano acqua passata. Non so se dipendesse dal fatto che eravamo piú poveri o perché ero considerata abbastanza grande da rendermi utile a tempo pieno. Erano vere entrambe le cose.

E adesso, a diciassette anni, ero in grado di guadagnarmi uno stipendio a mia volta, anche se solo come aiuto stagionale, perché mi mancava ancora un anno prima di finire il liceo. Mia sorella aveva dodici anni e poteva prendere il mio posto a casa.

Mrs Montjoy era venuta a prendermi alla stazione di Pointe au Baril, e mi aveva portata all’isola su un fuoribordo. A raccomandarmi in quell’impiego era stata la signora del negozio di Pointe au Baril. Era una vecchia amica di mia madre – avevano insegnato nella stessa scuola. Mrs Montjoy le aveva chiesto se conosceva una ragazza di campagna, abituata ai lavori di casa e disponibile per l’estate, e lei aveva pensato che fosse l’ideale per me. Ne ero convinta anch’io: non vedevo l’ora di conoscere un po’ di mondo.

Mrs Montjoy indossava pantaloncini kaki con la camicia infilata dentro. Teneva i capelli corti e schiariti dal sole tirati dietro le orecchie. Saltò sulla barca come un ragazzo, diede uno strattone deciso al motore, e fummo proiettate sul mare corto della Georgian Bay, di sera. Per una buona mezz’ora procedemmo a slalom tra isole verdi e rocciose, con le loro casette isolate e le barche beccheggianti alla darsena. I pini sporgevano da riva ad angolazioni bizzarre, proprio come si vede nei quadri.

Mi tenevo ai bordi della barca e rabbrividivo dentro il vestitino leggero.

– Un po’ di nausea? – chiese Mrs Montjoy con il sorriso piú breve possibile. Anzi, quasi solo l’annuncio di un sorriso, dal momento che la circostanza non prevedeva il fenomeno completo. Aveva grossi denti bianchi su un viso lungo e abbronzato, e la sua espressione naturale pareva di impazienza perenne, trattenuta a stento. Probabilmente lo sapeva che la mia era fifa, non nausea, e buttò là la domanda per evitare sia a me, sia a lei stessa, eventuali imbarazzi.

Ecco la prima differenza, dal mondo al quale ero abituata. In quello, la paura era all’ordine del giorno, almeno per le femmine. Potevi aver paura dei serpenti, dei tuoni, dell’acqua alta, del buio, del vuoto, del toro e della strada deserta che attraversava la palude, e nessuno ti avrebbe giudicata male. Nel mondo di Mrs Montjoy invece, la paura era una vergogna e una cosa da vincere, sempre.

L’isola verso cui eravamo dirette aveva un nome: Nausicaa. Era scritto su un’insegna di legno al fondo del molo. Lo lessi ad alta voce, sperando si capisse che mi era familiare e pacatamente gradito, e Mrs Montjoy commentò un po’ sorpresa: – Ah, sí. Si chiamava già cosí, quando papà la comprò. Viene da un personaggio di Shakespeare.

Feci per aprire bocca e dire no, no, Shakespeare non c’entra, e spiegarle che Nausicaa era la fanciulla che, giocando a palla con le amiche, sulla spiaggia, era stata sorpresa da Ulisse al suo risveglio dal sonno. Ormai avevo imparato che perlopiú la gente dalle mie parti non sapeva che farsene di quel genere di informazioni, e me ne sarei rimasta zitta perfino se a chiederlo fosse stata la professoressa a scuola, ma ero convinta che nel mondo – quello vero, s’intende – le cose andassero diversamente. Mi frenò appena in tempo il tono sbrigativo con cui Mrs Montjoy aveva detto «un personaggio di Shakespeare»: l’allusione al fatto che di Nausicaa, Shakespeare e qualsiasi mia osservazione in proposito, lei poteva benissimo fare a meno.

Il vestito che avevo messo per il viaggio me l’ero fatto da sola, con del cotone a righe bianche e rosa. La stoffa era scadente, anche perché non adatta a un abito ma piuttosto a una blusa o a una camicia da notte, e il modello che avevo scelto – stretto in vita e a gonna svasata, come si usava allora – era stato un errore. Quando camminavo, mi saliva in mezzo alle gambe e dovevo tirarmelo giú di continuo. Era la prima volta che me lo mettevo, e ancora speravo che il problema potesse essere temporaneo: magari, con uno strattone deciso, la stoffa poteva cadere come si deve. Ma quando sfilai la cintura, scoprii che il caldo della giornata piú quello del treno avevano creato un problema peggiore. La cintura – una fascia alta elasticizzata color vino – aveva stinto. Il girovita dell’abito mostrava un alone rosso fragola tutto intorno.

Feci quella scoperta spogliandomi nel solaio della rimessa per le barche, dove avrei dormito insieme a Mary Anne, la figlia di dieci anni di Mrs Montjoy.

– Che cosa è successo al tuo vestito? – chiese Mary Anne. – Tu sudi parecchio, eh? Che peccato.

Risposi che tanto era un vestito vecchio e che mi ero messa la prima cosa che capitava per viaggiare in treno.

Mary Anne era bionda e lentigginosa, con il viso lungo come sua madre. Le mancava però quell’aria da giudizio sommario in agguato sottopelle, pronto a scagliartisi addosso. La sua espressione era benevola e seria, dietro occhiali spessi che teneva anche per stare seduta a letto. Di lí a poco mi avrebbe spiegato di aver subíto un’operazione per raddrizzarsi gli occhi, ma che anche dopo, la sua vista non era stata un granché.

– Ho gli occhi di papà, – disse. – Sono anche sveglia come lui, perciò è un peccato che non sono un maschio.

Seconda differenza. Da dove venivo io, di solito si guardava con maggior sospetto l’intelligenza di un maschio che di una femmina, pur non considerandola chissà quale vantaggio per nessuno dei due sessi. Le femmine potevano studiare da maestra, e non c’era niente di male – anche se poi spesso restavano zitelle –, ma se un maschio proseguiva gli studi, in genere voleva dire che era una signorina.

Per tutta la notte sentii l’acqua schiaffeggiare le assi di legno della rimessa. Il mattino arrivò presto e mi chiesi se mi fossi spinta cosí a nord che il sole sorgeva effettivamente prima che a casa mia. Mi alzai e guardai fuori. Dalla finestra vidi l’acqua liscia come seta, scura di sotto ma incendiata in superficie dal riflesso di luce del cielo. Le sponde rocciose della caletta, le vele ormeggiate, il canale aperto piú in là, il poggio di un altro paio di isolotti, altre rive e canali ancora. Non sarei mai riuscita, mi dissi, a ritrovare da sola la strada verso la terraferma.

Non avevo ancora capito che le domestiche non avevano bisogno di trovare nessuna strada. Loro restavano ferme, là dove c’era lavoro. Solo chi il lavoro lo creava poteva andare e venire.

La finestra posteriore affacciava su un masso grigio che sembrava una parete inclinata, piena di anfratti e crepacci sui quali avevano attecchito piccoli pini e cedri e cespugli di mirtillo. Ai piedi della parete partiva un sentiero – mi ci sarei piú tardi incamminata – che attraversava i boschi e portava a casa di Mrs Montjoy. Lí sotto era ancora tutto bagnato e pressoché buio, sebbene allungando il collo si vedessero pezzi di cielo sbiancare tra le fronde degli alberi in cima al masso. Quasi tutta la vegetazione era composta di sempreverdi severi e profumati, dai rami pesanti che non favorivano il proliferare del sottobosco – niente intrichi di rovi, sterpi e arbusti come quelli ai quali mi avevano abituata le distese di latifoglie. L’avevo già notato il giorno prima dal finestrino del treno: quello che noi chiamiamo bosco si trasformava in una vera e propria foresta, dalla quale spariva ogni forma di rigoglio, di caos e di mutamento stagionale. A me pareva che quella vera foresta fosse dei ricchi – un parco giochi di una sobrietà adatta a loro – e degli indiani, al servizio dei ricchi in veste di guide e di sudditi esotici, residenti lontano dagli occhi e dai cuori, in località dove il treno non arrivava.

In ogni caso, quella mattina, io scrutavo fuori con intensità, come se in quel luogo dovessi vivere e a quello scenario abituarmi. In effetti finii per conoscerlo bene, almeno i posti in cui mi portava il lavoro che dovevo sbrigare. Ma la barriera restava. Forse barriera è un termine troppo forte – piú che un monito era come un luccichio a mezz’aria, un promemoria innocuo. Non per te. Non c’era bisogno di dirlo. E nemmeno di scriverlo su un cartello.

Non per te. E benché la sentissi, non ero disposta del tutto ad ammettere che quella barriera esisteva. Non avrei ammesso neppure di essermi mai sentita sola o umiliata, o di essere una autentica serva. Ma smisi di pensare all’ipotesi di abbandonare il sentiero, e di andare in perlustrazione fra gli alberi. Se qualcuno mi avesse vista avrei dovuto spiegare che cosa stavo facendo, e a loro – a Mrs Montjoy – la cosa non sarebbe piaciuta.

E a dire il vero, a casa non era poi tanto diverso, se mostrarsi interessati alla vita all’aperto per ragioni di non assoluta praticità, o fantasticare sul concetto di Natura – anche solo utilizzare quella parola, Natura – poteva farti ridere dietro.

A Mary Anne piaceva chiacchierare da sdraiata sulla branda, la sera. Mi informò che il suo libro preferito era Kon-Tiki e che non credeva né a Dio né al Paradiso.

– Mia sorella è morta, – disse. – E non credo che se ne vada in giro svolazzando in camicia da notte bianca. Semplicemente è morta, e non è piú niente.

– Era bella mia sorella, – disse. – Rispetto a me, almeno. Mia madre non è mai stata bella e papà è decisamente brutto. Una volta era bella zia Margaret, che però adesso è grassa, e anche Nana che però adesso è vecchia. La mia amica Helen è bella, ma l’altra mia amica Susan, no. Tu sei bella, ma non conta perché sei la cameriera. Ti offendi se te lo dico?

Dissi di no.

– Sono la cameriera soltanto quando sono qui.

Non che fossi l’unica domestica sull’isola. Gli altri erano una coppia di coniugi, Henry e Corrie. Non si sentivano sminuiti dal loro lavoro; riconoscenti, anzi. Erano arrivati in Canada dall’Olanda pochi anni prima e avevano trovato impiego dai Foley, i genitori di Mrs Montjoy. Erano i Foley i proprietari dell’isola: dalla loro grande villa di legno bianco, tutta tendoni e verande, ne dominavano il punto piú alto. Henry tagliava l’erba, badava al campo da tennis, dipingeva le sedie da giardino e dava una mano a Mr Foley con le barche e la ripulitura dei viottoli e la manutenzione del molo. Corrie sbrigava le faccende domestiche, cucinava e badava a Mrs Foley.

Mrs Foley passava tutte le mattine di bel tempo seduta fuori su una sdraio, con i piedi allungati al caldo e un parasole attaccato alla sedia a farle ombra alla testa. Corrie usciva di casa e la riorientava in base agli spostamenti del sole, la portava in bagno, e le serviva tazze di tè e bicchieri di caffè freddo. Assistevo a quel rituale quando da villa Montjoy salivo dai Foley, per una commissione, o per mettere o ritirare qualcosa nel congelatore. Averne uno in casa era ancora piuttosto una rarità e un lusso al tempo, tanto è vero che dai Montjoy non c’era.

– Non si succhiano i cubetti di ghiaccio, – sentivi Corrie dire a Mrs Foley. Apparentemente la vecchia non le diede retta e si mise a succhiare, imperterrita, il suo cubetto di ghiaccio, e Corrie le disse: – No. Non si fa. Sputa subito. Sputa qui, nella mano di Corrie. Non si fa. Devi ubbidire a Corrie, da brava.

Raggiungendomi mentre entravo in casa, mi disse: – Io non so piú come dirlo che si può strozzare. Ma Mr Foley risponde, e dalle ’sti cubetti di ghiaccio, anche lei vuole bere come tutti gli altri. E io mi sgolo a ripeterle, non si succhiano i cubetti di ghiaccio. Ma lei manco mi sta a sentire.

Certe volte mi mandavano su ad aiutare Corrie a lustrare i mobili o lucidare i pavimenti. Era molto esigente. I ripiani di cucina ad esempio, non si limitava a passarli, lei li raschiava. Faceva ogni cosa con l’energia e la concentrazione di chi remi controcorrente e con il vento a sfavore. Quando stendeva uno straccio pareva tirasse il collo a una gallina. Pensavo che sarebbe stato interessante riuscire a farla parlare della guerra, ma lei diceva semplicemente che avevano tutti una gran fame e che con le bucce di patate si faceva la minestra.

– Non serve, – diceva. – Parlarne non serve.

Preferiva il futuro. Lei e Henry stavano risparmiando dei soldi per mettersi in proprio. Volevano aprire una casa di riposo. – Ce n’è tanta di gente come lei, – diceva Corrie, gettando indietro la testa senza smettere di lavorare, per indicare Mrs Foley seduta sul prato. – E sempre di piú, domani. Perché gli danno le medicine e cosí non fanno piú in fretta a morire. E chi se li guarda?

Un giorno Mrs Foley mi chiamò mentre passavo in giardino.

– Si può sapere dove scappi? – mi disse. – Vieni a sederti qui con me e riposati un attimo.

Aveva i capelli bianchi sotto un cappello di paglia floscia, e quando si sporgeva in avanti il sole filtrava nei fori della paglia, disseminando di puntini di luce le chiazze rosa e marrone chiaro della sua faccia. Gli occhi erano di un colore talmente smorto che non avrei saputo definirlo. Mentre di corpo era strana: torace stretto e piatto sopra a un addome gonfio coperto da strati di stoffa morbida e stinta. La pelle delle gambe, quando le distendeva al sole, era lucida, scolorita e piena di crepe finissime.

– Vorrai scusarmi se non ho messo le calze, – disse. – Sai, oggi sono un po’ pigra. Certo che tu sei proprio una ragazza in gamba. Farti tutta questa strada da sola. Ti avrà aiutata Henry, spero, a portare le borse su dal molo.

Mrs Montjoy ci salutò con la mano. Era diretta al campo da tennis, per la lezione di Mary Anne. Le insegnava a giocare tutte le mattine, e a pranzo discutevano degli errori che aveva commesso.

– Eccola là, quella signora che viene a giocare a tennis, – disse Mrs Foley, parlando di sua figlia. – Viene tutti i giorni, perciò deve avere il permesso. Tanto vale che usi il nostro se non ha un campo suo.

In seguito Mrs Montjoy mi chiese: – Mrs Foley t’ha chiamata a sederti con lei in giardino?

Le dissi di sí. – Credeva che fossi una ragazza che porta la spesa.

– Ah, sí, mi pare ci fosse una ragazza che faceva la spola in barca. Ma sono anni ormai che nessuno consegna piú la spesa. Sai, Mrs Foley ogni tanto si confonde un po’.

– Di lei ha detto che era la signora che viene a giocare a tennis.

– Ah, davvero! – commentò Mrs Montjoy.

Il lavoro che dovevo sbrigare non era gravoso per me. Sapevo infornare il pane, stirare e pulire un forno. In quella cucina nessuno entrava con le scarpe sporche di letame e non c’era da lottare per spremere tute pesanti dentro lo strizzatoio. Tutto si riduceva all’ordinaria amministrazione di mettere ogni cosa perfettamente a posto e lucidare un bel po’. C’erano le piastrine del gas da far brillare dopo ogni utilizzo, e le rubinetterie, e la vetrata che affacciava sul pontile fino a che il vetro spariva e si rischiava di andare a sbatterci la faccia dentro.

Casa Montjoy era moderna, dotata di tetto piatto, di un pontile che si estendeva fino all’acqua e di una moltitudine di finestre che Mrs Montjoy avrebbe voluto veder diventare invisibili come la porta a vetri.

– Ma devo restare coi piedi per terra, – diceva. – Lo so che se ti mettessi a fare quello, non ti resterebbe quasi piú tempo per nient’altro –. Non si può dire che fosse tirannica. Aveva con me un tono fermo e leggermente irritabile, ma con gli altri non era diversa. Era in costante stato di allerta per disattenzioni e incompetenze, che detestava. Sciatto era la sua accusa preferita. O, in alternativa, insulso e inutile. La gente faceva un mucchio di cose inutili, alcune delle quali erano anche insulse. Altri avrebbero definito certi atteggiamenti pretenziosi, o intellettuali, o permissivi. Mrs Montjoy tagliava corto e azzerava tutte le sfumature.

Consumavo i miei pasti da sola, durante le pause in cui non servivo chi mangiava sul pontile, né i commensali in sala da pranzo. Per un soffio mi ero evitata un grosso errore in proposito. La prima volta che Mrs Montjoy mi sorprese diretta fuori con tre piatti in mano – portati con ostentato stile da cameriera provetta – esclamò: – Come mai, tre piatti? Ah, già, due fuori e uno per te, qui dentro. Dico bene?

Mangiando, leggevo. In fondo allo sgabuzzino delle scope avevo trovato una pila di vecchie riviste – «Life» e «Look» e «Time» e «Collier’s». Si vedeva benissimo che Mrs Montjoy non gradiva l’idea che me ne stessi seduta a leggere riviste mentre pranzavo, anche se non capivo esattamente perché. Che c’entrasse il fatto che non è educato leggere mangiando, o piuttosto che non avevo il permesso? Piú probabilmente, interpretava l’interesse per cose che non avevano nulla a che fare con il mio lavoro come una specie di subdola impudenza. Un gesto inutile.

Si limitò a dire: – Chissà quanta polvere su quei giornali vecchi.

Risposi che prima li pulivo sempre.

Ogni tanto veniva un’ospite a colazione, un’amica in visita da un’isola vicina. Sentivi Mrs Montjoy che diceva: – … tocca farle contente queste ragazze, se no se ne vanno all’albergo, o al porto. Non ci mettono niente a trovarsi un impiego là. Non è piú come una volta.

E l’altra: – Verità sacrosanta.

– Perciò tocca venirgli incontro, – ribadí Mrs Montjoy. – Trattarle coi guanti –. Mi ci volle un momento per capire che si stava parlando di me. «Ragazze» voleva dire quelle come me. E allora mi chiesi in che modo mi si stesse facendo contenta. Magari con quei terrorizzanti giri in barca quando Mrs Montjoy decideva di andare a fare la spesa? Oppure permettermi camicetta e pantaloncini, o perfino il prendisole, anziché la divisa con collo e polsini bianchi?

E comunque, di quale albergo si stava parlando? Di quale porto?

– Cosa sai fare meglio? – chiese Mary Anne. – Che sport?

Dopo un attimo di riflessione risposi: – Pallavolo –. Dovevamo giocarci a scuola. Non ero granché, ma era lo sport che facevo meglio, essendo l’unico.

– No, non giochi di squadra, – disse Mary Anne. – Volevo dire cosa fai meglio tu. Che so io, tennis. O nuoto, o equitazione. Per me, è equitazione perché non importa tanto come ci vedi. Per zia Margaret era il tennis, e anche per Nana, per il nonno la vela, per papà il nuoto, direi, per zio Stewart il golf e la vela e per mamma il golf e il nuoto e la vela e il tennis e tutto quanto, ma forse il tennis è un pochettino meglio degli altri. Non so cosa sarebbe stato per mia sorella Jane, se non fosse morta, ma forse nuoto perché sapeva già nuotare e aveva soltanto tre anni.

In un campo da tennis non c’ero mai stata, e l’idea di uscire in barca o di montare sopra un cavallo mi terrorizzava. Sapevo nuotare, ma non benissimo. Il golf l’avevo visto fare solo nei cartoni animati a una banda dall’aria cretina. Gli adulti che conoscevo non si dedicavano a giochi che prevedessero sforzi fisici. Se non lavoravano, si sedevano a riposare, ma succedeva di rado. Però d’inverno la sera capitava che giocassero a carte. A briscola. A rubamazzo. Giochi diversi da quelli di Mrs Montjoy.

– Tutti quelli che conosco io hanno troppo da fare per darsi allo sport, – dissi. – In paese non abbiamo né il campo da tennis né quello da golf –. (In realtà li avevamo avuti tutti e due, ma poi non c’erano stati abbastanza soldi per tenerli in ordine durante la Depressione e da allora non si erano piú riaperti). – Nessuno di mia conoscenza ha una barca.

Sorvolai sul fatto che invece avevamo la pista da hockey e il campo da pallacanestro.

– Davvero? – disse Mary Anne molto seria. – E cosa fanno allora?

Lavorano. E non hanno mai un soldo, finché campano.

Poi aggiunsi che quasi tutta la gente che conoscevo non aveva mai visto uno sciacquone se non nei bagni pubblici e che a volte i vecchi (cioè, quelli che non potevano piú lavorare) dovevano starsene a letto tutto l’inverno per tenersi al caldo. I bambini giravano scalzi fino alle prime gelate, per risparmiare il cuoio delle scarpe, e morivano di mal di pancia che in realtà erano appendiciti, perché i genitori non potevano pagare un dottore. C’era qualcuno che a cena mangiava foglie di denti di leone, e nient’altro.

Nessuna di tali affermazioni, compresa quella sui denti di leone, era del tutto falsa. Cose simili, le avevo sentite dire sul serio. Quella sugli sciacquoni nei gabinetti era probabilmente la piú vicina alla verità, ma si applicava alla gente di campagna, non a chi abitava in paese, e perlopiú a una generazione anteriore alla mia. Però quando parlavo con Mary Anne mi si riempiva la testa di tutti i casi limite e gli aneddoti assurdi mai sentiti, al punto che quasi finivo per credere di essere andata scalza io stessa, coi piedi lividi sul fango gelido: proprio io, che potevo vantare il privilegio di olio di fegato di merluzzo, e vaccinazioni, che ero stata spedita a scuola a ogni costo e che mi ero coricata con la fame solo quando avevo rifiutato di mangiare piatti come la cagliata dolce, la zuppa di pane raffermo o il fegato in padella. E la falsa impressione che davo pareva giustificata, come se le mie esagerazioni, per non dire fandonie, sostituissero una realtà che non potevo chiarire.

Come spiegare, ad esempio, la differenza tra la cucina dei Montjoy e quella di casa? Non bastava descrivere i pavimenti lustri e perfettamente puliti di una e confrontarli con il linoleum consumato dell’altra, o paragonare il fatto che per avere acqua dolce in casa noi la dovessimo pompare da una cisterna, mentre lí usciva dai rubinetti sia calda sia fredda. Si sarebbe dovuto dire che in un caso si stava parlando di un ambiente che si atteneva alla perfezione all’ideale di cucina in quel dato momento, e nell’altro invece di un locale che si trasformava a volte in virtú dell’uso e dell’improvvisazione e che tuttavia non cambiava affatto e apparteneva in modo assoluto a un nucleo famigliare e agli anni e decenni di vita di quella famiglia. E quando pensavo a quella cucina, a quel misto di legno e di fornelli elettrici che lucidavo con i sacchetti di carta cerata del pane, ai vecchi barattoli scuri delle spezie dai bordi arrugginiti, riordinati anno dopo anno negli armadietti, ai vestiti da stalla appesi dietro la porta, mi sembrava di doverli proteggere dal disprezzo – quasi dovessi proteggere dal disprezzo un intero modo di vivere prezioso e intimo anche se non gradevole. Era disprezzo la minaccia che immaginavo sempre in agguato, guizzante dentro cavi dell’alta tensione, a fior di pelle e dietro ogni percezione di gente come i Montjoy.

– Non è giusto, – disse Mary Anne. – È terribile. Io non lo sapevo che i denti di leone si mangiano –. Poi si illuminò. – Perché non vanno a pescarsi dei pesci?

– Perché se li è già presi chi non ne ha bisogno. I ricchi. Per divertirsi.

Va da sé che a casa qualcuno a pesca ci andava quando aveva tempo, sebbene altri, me compresa, trovassero i pesci del fiume troppo pieni di spine. Ma pensavo di poter chiudere cosí la bocca di Mary Anne, specie sapendo che Mr Montjoy organizzava delle giornate di pesca con gli amici.

La bambina non riusciva a smettere di rimuginare sul problema: – Non potrebbero chiedere all’Esercito della Salvezza?

– Sono troppo orgogliosi.

– Beh, mi fanno proprio pena, – disse lei. – Mi fanno tanta pena, ma secondo me è stupido. E i bambini, e i bambini piccoli? Dovrebbero pensare a loro. Non saranno mica orgogliosi anche quelli?

– Sono tutti orgogliosi.

Il sabato e la domenica, quando arrivava sull’isola Mr Montjoy, c’era molto trambusto e baccano. In parte perché veniva gente in barca a nuotare e bere e guardare le regate. Ma perlopiú a causa di Mr Montjoy in persona. Aveva un vocione da temporale e un corpo massiccio con la pelle refrattaria all’abbronzatura. Ogni weekend si scottava al sole, durante la settimana spelava e diventava rosa e cosparso di efelidi, pronto a scottarsi di nuovo. Quando si toglieva gli occhiali si vedeva che un occhio era mobile e storto e l’altro azzurro intenso ma inerte, come bloccato dentro una trappola.

Spesso sbraitava a proposito di cose che aveva messo nel posto sbagliato, o fatto cadere o in cui era andato a sbattere. «Dove diavolo è il…?», diceva, oppure: «Hai visto per caso la…?» E pareva cosí che insieme all’oggetto in questione avesse messo fuori posto, o non fosse riuscito ad afferrarne, anche il nome. Per consolarsi agguantava una manciata di noccioline, salatini o qualunque cosa ci fosse a portata di mano, e sgranocchiava senza sosta fino a che non restava piú niente. A quel punto fissava la ciotola vuota come se lo stupisse pure quella.

Una mattina lo sentii dire: – Allora si può sapere dove è finito quel… – E armeggiava rumorosamente sul pontile.

– Il tuo libro? – disse Mrs Montjoy in tono deciso e vivace. Si stava bevendo il caffè di metà mattina.

– Credevo di averlo lasciato qui fuori, – disse. – Lo stavo leggendo.

– Quello del Club degli editori? – fece lei. – Secondo me l’hai lasciato in soggiorno.

Aveva ragione lei. Mentre passavo l’aspirapolvere in soggiorno, pochi minuti prima, avevo raccolto un libro di traverso sotto il divano. Si intitolava Sette storie gotiche. Quel titolo mi fece venire voglia di aprirlo, cosí quando udii lo scambio di battute tra i coniugi Montjoy stavo appunto leggendo, con il libro aperto in una mano e l’aspirapolvere affidato all’altra. Da fuori non mi vedevano.

«No, no! Parlo col cuore! – disse Mira. – Per molto tempo ho cercato di comprendere Dio. Ora siamo buoni amici, io e lui. Per amarlo veramente bisogna amare la varietà, e anche le burle: sono queste le vere inclinazioni del suo cuore».

– Eccolo lí, – disse Mr Montjoy che, caso strano, era entrato nella stanza senza il solito sbattere di qua e di là, o comunque senza che io lo sentissi. – Brava, hai trovato il mio libro. Ah, sí, adesso mi viene in mente. Ieri sera ho letto qui sul divano.

– Era per terra, – dissi. – L’ho appena raccolto.

Doveva avermi vista leggere. Disse: – È un libro strano, ma ogni tanto si ha voglia di qualcosa di diverso dalle solite storie.

– Io non ci ho capito niente, – disse Mrs Montjoy, rientrando con il vassoio del caffè. – Sarà meglio che ci leviamo di mezzo e lasciamo che finisca di passare l’aspirapolvere.

Mr Montjoy tornò in continente, e in città, quella sera stessa. Era direttore di banca. Il che, a quanto pare, non vuol dire che lavorava in una banca. Il giorno dopo la sua partenza cercai dappertutto. Sotto le sedie e dietro le tende, in caso l’avesse dimenticato. Ma non riuscii a trovarlo.

– Ho sempre pensato che dovrebbe essere bello vivere qui tutto l’anno, come fate voi, – disse Mrs Foley. Doveva avermi di nuovo scambiata per la ragazza che portava la spesa. Certi giorni diceva: – Adesso ho capito chi sei. Sei la nuova aiutante di quella olandese che lavora in cucina. Però, scusami, non mi ricordo come ti chiami –. E certi altri giorni mi lasciava passare senza un saluto e senza mostrare il minimo interesse nei miei confronti.

– Una volta venivamo anche in inverno, – spiegò. – La baia gelava e c’era la strada che passava sul ghiaccio. Andavamo a camminare con le racchette. Ormai la gente non lo fa piú. O no? Si usano ancora le racchette da neve?

Non aspettò che le rispondessi. Si chinò verso di me. – Sai dirmi una cosa? – mi chiese con imbarazzo parlando a mezza voce. – Sai dirmi dov’è Jane? È da tantissimo tempo che non la vedo piú correre in giro.

Dissi che non lo sapevo. Sorrise come se la stessi prendendo in giro, e allungò una mano verso la mia faccia. Io mi ero chinata per ascoltarla, ma a quel punto mi rizzai, e cosí la mano incontrò il mio petto. Faceva caldo quel giorno e avevo addosso il prendisole, quindi mi toccò la pelle nuda. La mano era lieve e asciutta come trucioli di legno; le unghie, in compenso, graffiavano.

– Sono sicura che è tutto a posto, – disse.

Dopo quella volta, se mi parlava io la salutavo con la mano e tiravo dritta per la mia strada.

Un sabato pomeriggio verso la fine di agosto, i Montjoy diedero un cocktail party. La festa era in onore degli amici loro ospiti quel weekend: i coniugi Hammond. Si dovettero lucidare un bel po’ di forchette e cucchiaini d’argento per l’occasione, e Mrs Montjoy stabilí che tanto valeva occuparsi di tutta l’argenteria in una volta. Io lucidavo e lei se ne stava lí accanto, a controllare.

Il giorno della festa, gli ospiti arrivarono in motoscafo e in barca a vela. Certi andarono a fare il bagno per poi sistemarsi sugli scogli in costume, o sdraiarsi sul molo a prendere il sole. Altri salirono direttamente in casa e cominciarono subito a bere e chiacchierare in soggiorno, o fuori sul portico. Erano presenti ragazzi con la famiglia, e altri piú grandi venuti per conto proprio, sulle loro barche. Di bambini dell’età di Mary Anne non ce n’erano; lei era stata accompagnata dalla sua amica Susan, su un’altra isola. C’erano invece alcuni piccoli, arrivati con lettini pieghevoli e recinti al seguito, ma perlopiú i figli erano miei coetanei. Maschi e femmine sui quindici, sedici anni. Passarono quasi tutto il pomeriggio nell’acqua, a strillare, tuffarsi e fare a chi arrivava prima alla boa.

Mrs Montjoy e io avevamo sfacchinato tutta la mattina, a preparare i vari rinfreschi che ora sistemavamo sui vassoi per offrirli agli ospiti. Un lavoro da certosino. Farcire cappelle di funghi di ripieni vari o appoggiare una fettina di questo su una fettina di quello su un ritaglio preciso di pane piú o meno tostato. Le forme dovevano essere perfette: triangoli, quadrati, cerchi o rombi che fossero.

Mrs Hammond entrò in cucina piú volte ad ammirare il nostro impegno.

– Che meraviglia, – disse. – Avete notato che non vi offro aiuto. Sono un autentico disastro per questo genere di cose.

Quanto mi piacque il modo in cui lo disse. Sono un autentico disastro. Ammirai la sua voce roca, il tono cordiale e indolente, la capacità di insinuare che quei bocconcini geometrici di cibo non fossero poi cosí indispensabili, che anzi potessero quasi definirsi un tantino idioti. Io avrei voluto essere lei: in morbido costume nero, abbronzata come un biscotto, lisci capelli scuri sciolti sulle spalle, rossetto viola orchidea.

Non che sembrasse felice. Ma quella sua aria malinconica e insoddisfatta a me pareva talmente chic, e talmente invidiabile l’aura drammatica che l’avvolgeva. Lei e il marito erano dei ricchi completamente diversi dai Montjoy. Somigliavano di piú a quelli di cui avevo letto nei servizi sulle riviste e nei romanzi tipo I trafficanti: gente che beveva pesante, aveva relazioni sentimentali ed era in cura dallo psichiatra.

Si chiamavano Carol e Ivan. Pensavo già a loro con il nome di battesimo: cosa che non mi era mai passata per il cervello di fare con i Montjoy.

Mrs Montjoy mi aveva chiesto di indossare un vestito, perciò misi quello a righe bianche e rosa, con la stoffa macchiata a vita, nascosta sotto la cintura elasticizzata. Quasi tutti gli altri erano in pantaloncini e costume da bagno. Io giravo fra gli ospiti, offrendo rinfreschi. Non sapevo bene come fare. Certi stavano ridendo o conversando con tanto vigore da non notarmi nemmeno, e allora temevo che facessero volare via il vassoio con un gesto avventato. Perciò ripetevo: «Chiedo scusa, gradite uno di questi?», e alzavo la voce cosí da sembrare decisa, per non dire severa. A quel punto mi rivolgevano un’occhiata incredula e divertita, e io avevo la sensazione di aver offerto loro materiale per la battuta successiva.

– Smetti pure di passare per adesso, – disse Mrs Montjoy. Raccolse alcuni bicchieri e mi chiese di lavarli. – La gente non fa mai attenzione a dove l’ha lasciato, – spiegò. – Tanto vale lavarli e portarne degli altri puliti. E comunque è ora di tirare fuori dal frigorifero le polpette e scaldarle. Ti spiace pensarci tu? Non perdere d’occhio il forno, non ci vuole molto.

Mentre ero in cucina, udii Mrs Hammond chiamare: – Ivan! Ivan! – Vagava per le stanze sul retro della casa. Mr Hammond invece era entrato in cucina dalla porta che affacciava sul bosco. Se ne stava lí senza risponderle. Si avvicinò al ripiano e si versò del gin nel bicchiere.

– Oh, Ivan, eccoti qua, – disse Mrs Hammond, arrivando dal soggiorno.

– Eccomi, – disse Mr Hammond.

– Anche a me, – fece lei. E gli passò il bicchiere.

Lui non lo prese. Spinse la bottiglia di gin verso di lei e si rivolse a me: – Ti diverti, Minnie?

Mrs Hammond scoppiò in una fragorosa risata.

– Minnie? Dove hai rimediato l’idea che si chiami Minnie?

– Minnie, – ribadí Mr Hammond. Ivan. Si esprimeva con una voce sognante, artefatta. – Ti diverti, Minnie?

– Oh sí, – dissi, cercando di assumere un tono impostato quanto il suo. Ero impegnata a tirare su dal forno delle polpettine svedesi e avrei voluto levarmi gli Hammond di torno, in caso me ne fosse caduta qualcuna. Loro probabilmente avrebbero trovato la cosa esilarante e magari avrebbero riferito l’accaduto a Mrs Montjoy, la quale mi avrebbe costretta a buttare le polpette finite per terra, irritata per lo spreco. Da sola invece, avrei potuto raccoglierle e basta.

– Bene, – disse Mr Hammond.

– Ho fatto il giro del capo a nuoto, – fece Mrs Hammond. – Mi sto allenando per il giro completo dell’isola.

– Complimenti, – disse Mr Hammond, con la stessa voce con cui aveva appena detto «Bene».

Avrei tanto voluto sembrare meno cinguettante e sciocca. Avrei voluto disporre di quel suo tono scettico e sofisticato anch’io.

– Benissimo, – disse Mrs Hammond. Carol. – Allora vi lascio.

Avevo cominciato a infilzare le polpette con gli stuzzicadenti e a sistemarle su un vassoio. Ivan disse: – Ti serve aiuto? – e provò a fare lo stesso, ma non riusciva a centrarle e finiva per farle rotolare sul ripiano di cucina.

– Bene, – disse, ma sembrava aver perso il filo del discorso, quindi si voltò e prese ancora da bere. – Allora, Minnie.

Sapevo qualcosa di lui. Sapevo che gli Hammond si stavano concedendo una vacanza speciale perché Mr Hammond aveva perso l’impiego. Me l’aveva detto Mary Anne. «Lui è molto giú, – aveva aggiunto. – Ma non diventano poveri. La zia Carol è ricca».

A me lui non pareva depresso. Nervoso, semmai – specie con Mrs Hammond –, ma nell’insieme abbastanza soddisfatto. Era alto e sottile, portava i capelli scuri ravviati all’indietro, e i baffi gli disegnavano una linea ironica sopra il labbro. Parlando mi si chinava addosso, come gli avevo già visto fare con le signore in soggiorno. Allora avrei definito quel gesto galante.

– E tu dove vai a nuotare, Minnie? Lo fai anche tu il bagno, no?

– Sí, – dissi. – Giú alla rimessa –. Decisi che chiamarmi Minnie poteva essere un nostro scherzo privato.

– È un bel posto?

– Sí –. Per me lo era, perché non volevo allontanarmi dal molo. Prima di quell’estate non avevo mai fatto il bagno dove non toccavo.

– Lo fai mai senza costume?

– No, – dissi.

– Dovresti provare.

Mrs Montjoy entrò dal soggiorno e mi chiese se le polpette erano pronte.

– È proprio una combriccola di affamati, – disse. – Dev’essere il nuoto che fa questo scherzo. Come te la passi, Ivan? C’era Carol che ti cercava un attimo fa.

– È venuta qui, – disse Mr Hammond.

Mrs Montjoy addobbò il vassoio delle polpette con qualche foglia di prezzemolo. – Allora, – mi disse. – Credo che qua non ci sia piú bisogno di te. Penso di potermela cavare, adesso. Perché non ti fai un panino e non te ne torni alla rimessa?

Risposi che non avevo fame. Mr Hammond intanto si era versato altro gin con cubetti di ghiaccio e se n’era andato in soggiorno.

– Beh, meglio se prendi qualcosa lo stesso, – disse Mrs Montjoy. – Ti verrà fame piú tardi.

Il messaggio era che non dovevo tornare indietro.

Lungo il tragitto incrociai un paio di ospiti: ragazze della mia età, scalze, in costume da bagno, che ridevano come matte. È probabile che avessero fatto a nuoto un mezzo giro dell’isola e che fossero uscite dall’acqua nei pressi della rimessa. E adesso tornavano alla chetichella per fare una sorpresa a qualcuno. Si fecero educatamente di lato, per non sgocciolarmi addosso, senza smettere di ridere, però. Mi lasciarono passare senza nemmeno guardarmi in faccia.

Erano il genere di ragazza che avrebbe dato in chissà quale gazzarra di squittii, se fossi stata un cane o un gatto.

Il baccano della festa continuò a crescere. Mi coricai sulla branda senza spogliarmi. Stare in piedi dal mattino mi aveva stancata. Ma non riuscivo a rilassarmi. Dopo un po’ mi alzai, infilai il costume e scesi a fare il bagno. Mi immersi in acqua dalla scaletta, cauta come sempre – ero convinta che se mi fossi tuffata sarei finita sul fondo una volta per tutte – e nuotai senza meta nell’ombra. L’acqua su gambe e braccia mi ricordò quel che aveva detto Mr Hammond, perciò armeggiai con le spalline del costume e alla fine le tirai giú sfilando un braccio dopo l’altro in modo da lasciare il seno libero di galleggiare. E nuotai cosí un braccio dopo l’altro, aprendomi dolcemente un varco nell’acqua con i capezzoli…

Non mi sembrava impossibile che Mr Hammond venisse a cercarmi. Lo immaginai nell’atto di toccarmi. (Non sapevo con precisione come sarebbe entrato in acqua – non mi piaceva pensarlo mentre si toglieva i vestiti. Magari si sarebbe solo accovacciato sul molo e io gli sarei andata incontro a nuoto). Le dita di lui mi accarezzavano la pelle come nastri di luce. L’idea di essere toccata e desiderata da un uomo cosí vecchio – quaranta? quarantacinque anni? – in un certo senso mi ripugnava, ma sapevo che ne avrei tratto piacere, piú o meno come a farsi accarezzare da un affettuoso coccodrillo ammaestrato. La pelle di Mr Hammond – di Ivan –, di per sé liscia, sarebbe stata coperta di verruche e scaglie invisibili per effetto degli anni e dell’esperienza e del vizio.

Osai sollevarmi in parte fuori dall’acqua, tenendomi al molo con una mano. Feci su e giú, uscendo in superficie come una sirena. Balenando alla vista, in presenza di nessuno che guardasse.

E udii dei passi. Stava arrivando qualcuno. Sprofondai nell’acqua e restai immobile.

Per un attimo pensai che fosse Mr Hammond, e credetti di essere entrata davvero nel mondo della comunicazione segreta, nei violenti, muti accessi del desiderio. Pur non coprendomi mi appiattii contro il molo, paralizzata in un istante di orrore e rassegnazione.

La luce era accesa nella rimessa, e io mi girai piano nell’acqua e vidi che era il vecchio Foley, ancora in tenuta da ricevimento, con calzoni bianchi, giacca e berretto da yacht. Si era trattenuto il tempo di un paio di drink spiegando a tutti che la signora Foley non se la sentiva di affrontare tutta quella gente, ma faceva ai presenti un mondo di auguri.

Trafficava sulla mensola degli attrezzi. Poco dopo, avendo forse trovato quel che cercava o rimesso a posto quel che intendeva riporre, spense la luce e andò via. Non seppe mai che ero lí.

Mi tirai su il costume, uscii dall’acqua e salii la scala. Mi sentivo il corpo talmente pesante che arrivai in cima senza fiato.

Il chiasso della festa non smetteva piú. Dovevo fare qualcosa per distrarmi, e decisi di scrivere una lettera a Dawna, che al tempo era la mia migliore amica. Descrissi il ricevimento a tinte fosche: gente che vomitava dalla ringhiera del terrazzo, una donna che era svenuta sul divano talmente di schianto da non accorgersi che il vestito le era scivolato mostrando un vecchio seno dal capezzolo viola (che io chiamai poppa). Definii Mr Hammond un porco lascivo, pur aggiungendo che era davvero un bell’uomo. Dissi che mi aveva accarezzata in cucina mentre avevo le mani occupate con le polpette e che poi mi aveva seguita alla rimessa per le barche bloccandomi sulla scaletta. Io però gli avevo rifilato un calcio dove non se lo sarebbe piú scordato per un bel pezzo e cosí aveva desistito. Se l’è svignata, scrissi.

«Perciò trattieni il fiato in attesa del prossimo numero, – aggiunsi. – Dal titolo: “Avventure piccanti di una sguattera”. Oppure: “Violenta sugli scogli della Georgian Bay”».

Mi accorsi di aver scritto «violenta» anziché «violentata», ma pensai che non importava, dal momento che Dawna non se ne sarebbe accorta comunque. In compenso, mi resi conto di aver esagerato nella parte su Mr Hammond, anche per quel genere di lettera, e a quel punto l’intera vicenda mi riempí di vergogna e mi fece sentire stupida e sola. Accartocciai il foglio. Scrivere quella lettera non aveva avuto altro scopo che rassicurare me stessa del fatto di essere in contatto con il mondo e della possibilità che anche a me accadessero esperienze eccitanti – legate al sesso. Ma non era vera nessuna delle due cose.

– Mrs Foley mi ha chiesto dov’era Jane, – avevo detto, mentre pulivo l’argenteria con Mrs Montjoy, o meglio mentre io lucidavo e lei mi teneva d’occhio. – Chi era Jane? Un’altra ragazza che lavorava qui d’estate?

Per un momento pensai che potesse non rispondere, ma mi sbagliavo.

– Jane era l’altra mia figlia, – disse. – La sorella di Mary Anne. È morta.

Dissi: – Oh, non lo sapevo –. E poi: – Oh, mi dispiace.

– È morta di polio? – incalzai, perché non avevo il buonsenso, dovrei dire la decenza, di fermarmi lí. E al tempo i bambini morivano ancora di polio, ogni estate.

– No, – disse Mrs Montjoy. – Morí una volta che mio marito spostò il comò in camera da letto. Cercava qualcosa e pensava che gli fosse caduto dietro il mobile. Non si accorse che c’era lei. Una rotella si agganciò al tappeto e il mobile le finí addosso.

Sapevo la storia per filo e per segno, ovviamente. Me l’aveva già raccontata Mary Anne. Ancor prima che Mrs Foley mi chiedesse dov’era Jane e mi artigliasse il petto.

– Che orrore, – dissi.

– Beh, sono cose che succedono.

La mia ipocrisia mi diede la nausea. Una forchetta mi cadde a terra.

Mrs Montjoy la raccolse.

– Ricordati di rilavarla.

Che strano che non mettessi nemmeno in dubbio il mio diritto di ficcare il naso, di intromettermi in questioni simili riportandole a galla. In parte doveva dipendere dal fatto che nel mondo da cui arrivavo, eventi del genere non venivano mai sepolti del tutto, ma risuscitati periodicamente, e che tali orrori diventavano come coccarde che la gente si appuntava sul bavero – specialmente le donne – per tutta la vita.

E in parte c’entrava anche la mia tendenza a non lasciarmi sfuggire ogni occasione di confidenza, o perlomeno di scambio alla pari, perfino con persone che non mi piacevano.

La crudeltà era un tratto che non mi riconoscevo. Mi ritenevo senza colpe, in quel luogo e in ogni rapporto con quella famiglia. E solo perché ero giovane e povera e perché sapevo chi era Nausicaa.

Non possedevo né la grazia né la forza d’animo necessarie per fare la serva.

L’ultima domenica ero sola nella rimessa, pronta a ritirare le mie cose nella valigia che avevo portato – la stessa che aveva seguito mio padre e mia madre in luna di miele, l’unica di famiglia, in effetti. Quando la estrassi da sotto la branda e l’aprii emanò odore di casa: dell’armadio a muro in fondo al corridoio al piano di sopra dove veniva messa di solito, accanto ai cappotti di lana con le palline di canfora e alle cerate da letto usate quando i bambini erano piccoli. Se la tiravi fuori in casa, in compenso odorava sempre un po’ di treno e carbone e città, di viaggio, insomma.

Sentii dei passi sul sentiero, qualcuno che entrava inciampando e raspava contro la parete. Era Mr Montjoy.

– Sei lassú? Sei lassú?

Aveva la voce gioviale e stentorea che gli avevo sentito altre volte, da ubriaco. Doveva avere di certo bevuto – perché c’erano altri ospiti in visita, per festeggiare la fine della stagione. Mi affacciai dalla cima delle scale. Lui appoggiava una mano sul muro per tenersi in piedi: sul canale era passata una barca e le onde erano arrivate fino alla rimessa.

– Senti un po’ – disse Mr Montjoy, guardandomi da sotto in su con cipiglio serio. – Senti un po’: ho pensato di venire adesso a portarti questo mentre me ne ricordavo.

– Questo libro, – disse.

Aveva in mano Sette storie gotiche.

– Perché quel giorno ho visto che lo guardavi, – proseguí. – Mi sembrava che ti interessasse. Cosí, dato che l’ho finito, ho pensato che tanto valeva passartelo. Mi è venuto in mente di darlo a te. Mi sono detto, magari le piace.

Io dissi: – Grazie.

– È probabile che non lo rilegga piú, anche se l’ho trovato molto interessante. Molto diverso dal solito.

– Grazie infinite.

– Prego. Ho pensato potesse piacerti.

– Sí, – dissi.

– Allora, tieni. Spero ti piaccia.

– Grazie.

– Beh, allora, arrivederci, – disse.

E io: – Grazie. Arrivederci.

Perché ci salutavamo sapendo per certo che ci saremmo rivisti prima di lasciare l’isola, e prima che io salissi sul treno? Forse voleva dire che quell’episodio, quel suo darmi il libro, era da considerare concluso, e che non dovevo parlarne a nessuno. E cosí infatti feci. O forse era solo ubriaco e non si rendeva conto che mi avrebbe rivista piú tardi. Ubriaco o meno, adesso lo vedo, appoggiato a quella parete, come una persona senza secondi fini. Semplicemente qualcuno che mi giudicava degna di quel dono. Di quel libro.

Sul momento, però, non ne fui felicissima o riconoscente, a dispetto dei ripetuti ringraziamenti. Ero troppo stupita e, in un certo senso, imbarazzata. Il pensiero di un angolino di me portato alla luce, e veramente compreso, mi metteva in allarme, proprio come l’essere ignorata mi procurava rancore. E, di tutta la gente incontrata lí quell’estate, Mr Montjoy era probabilmente la persona di cui mi importava di meno, quella la cui considerazione significava meno per me.

Uscí dalla rimessa e lo udii barcollare sul sentiero, di ritorno da sua moglie e dai suoi ospiti. Scostai la valigia e mi sedetti sulla branda. Aprii il libro a caso, come avevo fatto la prima volta, e cominciai a leggere.

Un tempo, le pareti erano state d’un color cremisi, ma con gli anni la tinta era sbiadita in infinite sfumature, come un calice pieno di rose rosse morenti… Un po’ di pot-pourri bruciava nell’alta stufa, sui fianchi della quale Nettuno col tridente guidava i suoi destrieri attraverso le alte onde in tempesta…

Dimenticai quasi subito Mr Montjoy. In capo a pochissimo tempo finii col convincermi che quel dono fosse stato mio da sempre.