VI
Sesto e settimo giorno
Dopo aver viaggiato sul Concorde al doppio della velocità del suono, il volo da New York a Città del Messico risultò monotono come un tragitto in treno.
«Allora? Da dove hai intenzione di iniziare?» mi chiese dallo specchio il tipo con indosso un giubbotto uguale al mio.
«Devo trovare un attrezzo», risposi.
«Una Browning quarantacinque?» insisté lui.
«Non è il momento di fare il difficile. Ma rimedierò qualcosa di decente», assicurai.
«Buona fortuna, pensionato», mi augurò quella faccia nota.
«Lascio la valigia al deposito. Occupatene tu», lo salutai.
Il tassista che mi portò dall’aeroporto alla Zona Rosa era un professionista dei buoni consigli. Secondo lui dovevo condurre una vita da asceta, senza mangiare né bere, perché il governo aveva avvelenato numerosi alimenti e bevande in modo che la gente si preoccupasse d’altro e non parlasse più delle svalutazioni.
«È come in Inghilterra, capo. Là, perché la smettessero di chiacchierare del principe Carlo, della sua amante lady Tampax, di quella magra stecchita di Diana e dei principini, la vecchia volpe della regina ha dato ordine di far impazzire le mucche.»
La Zona Rosa è come un supermercato di armi. Feci un giro osservando l’attrezzatura che portavano le guardie giurate di varie agenzie di vigilanza.
Mi piacque la Colt calibro trentotto che spuntava dalla fondina di un tipo magro all’uscita dei grandi magazzini Sanborn’s. Piegai con cura un biglietto da cento pesos e mi avvicinai.
«Scusi, ho bisogno del suo aiuto», dissi infilandogli la banconota in un taschino della camicia.
«Dica pure, signore», rispose lui fingendo di non aver visto il regalo.
«Nel bagno c’è un finocchio. Sono andato a pisciare e mi ha toccato.
Cose del genere non si fanno a un vero uomo. Perché non gli mette una bella paura?»
«Forza. Facciamo scappare il finocchio a gambe levate», disse gonfiando i pettorali.
«Però ci vuole discrezione perché è figlio di un amico ed è di ottima famiglia. Prima vado io, gli parlo, e subito dopo arriva lei e me lo spaventa per bene.»
«Non si preoccupi. La seguo. Andiamo dal ragazzo.»
Nel gabinetto degli uomini c’erano due tizi davanti agli orinatoi.
Imprecarono quando mostrai loro il cartellino che diceva: «Pulizia dei bagni, vi preghiamo di scusare il disturbo».
I due finirono di fare i loro bisogni, uscirono, e io appesi il cartello fuori dalla porta d’ingresso. Poi chiusi le cabine dei cessi e aspettai. La guardia comparve dopo pochi minuti.
«Si è infilato lì dentro. Per la vergogna», dissi indicandogli una cabina.
«Esci fuori, ragazzo. Esci e non ti accadrà nulla», assicurò la guardia avvicinandosi alla porta.
Gli sbattei la testa contro la parete divisoria e completai il lavoro con due colpi alla nuca. Era abbastanza leggero e non mi costò alcuna fatica piazzarlo seduto su una tazza. La Colt sembrava impeccabile, e le dodici pallottole di scorta passarono in fretta nelle mie tasche.
Finalmente armato, lasciai la Zona Rosa e camminai fino al Sanborn’s di Avenida Insurgentes. Non avevo ragioni precise per andarvi, ma ricordai che una delle foto mostrava l’incarico mentre passava davanti alla libreria El Péndulo, a due passi da lì, nel quartiere Condesa. E ricordai anche che in un’altra foto appariva sulla soglia di una casa sopra la cui porta era stato posto un cartello del quale si leggeva solo la parola «vita».
Bevvi una birra e aspettai che mi venisse un’intuizione.
«Vita». Quartiere Condesa. O.N.G. Quartiere Condesa, la zona preferita dagli artisti, dagli intellettuali piccoloborghesi, dagli alternativi e, perché no?, sede di una O.N.G. il cui nome comprendeva la parola «vita».
Dovevo cercare un ago color paglia in un pagliaio. Nell’Avenida Baja California trovai un albergo dal nome premonitorio: Il Trionfo. Presi una camera e chiesi in prestito quella copia dell’enciclopedia britannica che è l’elenco telefonico di Città del Messico.
Alle cinque del mattino, dopo aver bevuto litri di Coca Cola, fumato cinque pacchetti di sigarette, e scorso i nomi di centinaia di imprese e di organizzazioni i cui nomi terminavano con la parola «vita», trovai quello che cercavo: Istituto Case Pro Vita. Sull’angolo fra Atlixco e Alfonso Reyes. Quartiere Condesa.
A quella scoperta il mio cervello si illuminò trovando delle coincidenze con ciò che sapevo dell’incarico: Istanbul. Il convegno. Le megalopoli.
Istituto Case. E i problemi migratori. Pro Vita. Tombola! mi sentii dire mentre indossavo il giubbotto e controllavo il tamburo della Colt calibro trentotto.
La porta dell’albergo era chiusa con una grossa catena e faticai a svegliare il portiere di notte, addetto anche alla reception.
«No. Non posso lasciarla uscire a quest’ora. È molto presto ed è ancora in giro la polizia. Le ruberebbero anche l’anima. È meglio che aspetti le sei. Su, metta le birre che io le offro le quesadillas che ha preparato la mia vecchia.»
Mentre aprivo delle bottiglie di Corona ringraziai la prudenza di quell’uomo. Avevo dimenticato che Città del Messico durante le ore notturne appartiene ai delinquenti della polizia giudiziaria. Bevemmo e mangiammo le sue quesadillas, fredde ma saporite, e alle prime luci dell’alba uscii per strada.
Riconobbi la casa immediatamente. Era la stessa che avevo visto nella fotografia. Mancava solo l’incarico in piedi sulla porta.
Di fronte all’edificio, al di là del viale Alfonso Reyes, c’era una chiesa.
Per fortuna i templi messicani aprono presto alla clientela. Entrai. Era quasi vuota, perciò non mi fu difficile arrivare fino alla porta che conduceva alle scale del campanile. I gradini erano coperti da uno spesso strato di polvere, segno che nessuno li calpestava da tempo.
Lentamente la strada si animò. Il chiosco di un fioraio aprì i suoi colori alla mattina. Un altro appese giornali e riviste. Un ragazzo entrò nella casa che stavo sorvegliando. Dopo un po’ vi entrarono anche due ragazze, che però vidi ricomparire mezz’ora dopo. Il postino suonò il campanello, aprì il ragazzo e prese un fascio di corrispondenza.
Le ore passavano lente. Tutta la mia attenzione era concentrata su quella casa, ma a tratti non riuscivo a impedirmi di immaginare la mia gran figa a passeggio sul viale. Che avrei fatto se l’avessi vista? Sarei sceso giù per andarle incontro? Era a Città del Messico, a Veracruz, o in volo per Parigi?
Alle due del pomeriggio si fermò davanti alla casa il fattorino di una pizzeria.
Consegnò tre scatole. Tre. E io avevo visto entrare solo un ragazzo. Chi erano gli altri due commensali?
Alle quattro del pomeriggio cominciai a lottare col sonno, e fui grato al rauco brontolio del cielo che annunciava un temporale in arrivo da nord.
Nuvoloni neri oscurarono rapidamente la strada e si scatenò quasi subito un acquazzone. Vidi uscire il ragazzo di corsa. Entrò nel supermercato sull’angolo di Atlixco e dopo pochi minuti ne uscì con due stecche di sigarette. Dal mio punto di osservazione riconobbi il marchio Chesterfield, e tornai a pensare alla mia gran figa, perché fumava proprio quella marca.
Alle otto di sera pioveva ancora. Ero fradicio e tremavo come un cane.
Mi tenevo sveglio passando le pallottole da una tasca all’altra come se fossero i grani di un rosario. La porta si aprì ancora una volta. Di nuovo il ragazzo. Stava per chiuderla dietro di sé quando si voltò e, anche se non potevo sentire cosa diceva, era ovvio che stava parlando con qualcuno all’interno. Poi dette due giri di chiave e si avviò in fretta sotto la pioggia.
Decisi di scendere e arrivai appena in tempo per impedire che un vecchio sbarrasse le porte della chiesa.
«Non l’avevo vista, signore. Per un pelo non resta qui rinchiuso fino a domani.»
Il temporale si fece più violento. Non si scorgeva anima viva e all’improvviso, dopo una serie di lampi, l’illuminazione pubblica si spense.
Mi fermai davanti alla casa. Impugnai la Colt nella mano destra, aspettai un nuovo fulmine e mi lanciai contro la porta.
La casa era tutta immersa nel buio, eccetto in fondo al corridoio dove si vedeva brillare una lucina fioca. Avanzando rasente al muro passai davanti alle due stanze che servivano da uffici, e poi a una cucina. Sollevai il cane della Colt e con un calcio aprii l’ultima porta.
La mia gran figa francese aprì gli occhi pieni di lacrime, voleva alzarsi dal materassino su cui era seduta, ma quando vide il revolver si limitò ad aprire la piccola bocca rossa. La luce della candela che illuminava la stanza si rifletteva sulle sue guance.
Accanto a lei c’era l’incarico. Tremava e sudava. Mi guardò e chiuse gli occhi facendo intendere che capiva la situazione.
«… A lei… non fare nulla… è una francesina… che si è cacciata in questo guaio senza rendersene conto», disse l’incarico.
«Volevo tornare, ma non potevo lasciarlo in questo stato. Guarda, guarda cosa gli hanno fatto», singhiozzò la mia gran figa francese.
«… Vi conoscete?… allora tu…?» L’incarico non riuscì a terminare la frase, perché le parole gli morirono in gola.
«Il mondo è piccolo, dannatamente piccolo», risposi.
«È tornato ieri da un viaggio. Sono venuta a salutarlo e all’improvviso sono arrivati degli uomini e gli hanno iniettato qualcosa. Bisogna chiamare un medico, ma lui non vuole», proseguì singhiozzando la mia gran figa francese.
«Quelli della D.E.A., vero?»
«… Quei figli di puttana… credono che a Istanbul abbia voluto giocargli un brutto tiro… ieri sono venuti e mi hanno fatto cinque dosi… per punizione…»
«Cos’è la D.E.A.? Perché parlate come se vi conosceste? Non capisco nulla. Nulla! Portami via da qui! Voglio tornare a Parigi, a casa!» strillò, poveretta, la mia gran figa francese.
«Bene, conosci già il motivo per cui sono venuto, ma prima voglio sapere perché lo fai. Perché introduci droga a buon mercato negli Stati Uniti?»
«Perché? Perché li odio, i gringo li odio… bisogna… bisogna farli marcire… vogliono l’eroina… be’, io gliela do… e quasi gratis… bisogna farli marcire dentro… è l’unica via di scampo che abbiamo noi latinoamericani… capisci?… per ogni ‘schiena bagnata’, per ogni immigrato clandestino… per ogni messicano che umiliano alla loro merdosa frontiera... io… io ne faccio marcire un bel po’… capisci?…»
«Addio, filantropo», dissi avvicinandogli la canna alla bocca.
La detonazione fu breve e secca. È così che latrano le Colt calibro trentotto. La mia gran figa francese, poveretta, tremava con gli occhi sbarrati. L’abbracciai maledicendo quella dannata trappola della vita.
«Portami via da qui…» gemette contro il mio petto.
«Certo, amore mio», le sussurrai all’orecchio prima di sparare sotto il suo meraviglioso seno sinistro, perché era vero, l’amavo, ma non potevo agire diversamente in quel mio ultimo lavoro. Ero un killer, e i professionisti non mischiano mai il lavoro con i sentimenti.
Prima di uscire andai in cucina e aprii tutti i rubinetti del gas.
Stavo salendo su un taxi in Avenida Tamaulipas quando udii l’esplosione.
«Cosa è stato, capo?» chiese l’autista.
«Il temporale. Che altro poteva essere?»
«Le dà fastidio la musica?»
«No. Lasci pure.»
Solo allora scoprii che dalla radio arrivavano i versi di quel corrido che dice: «Quando vide la mia tristezza lei voleva andare, ma era già scritto che quella notte avrei perso il suo amore…»
FINE