III

Terzo giorno


In ogni capitale c’è un hotel Sheraton e sono tutti uguali. Gli addetti alla reception sembrano copiati da un unico modello e dicono sempre la stessa cosa:

«Il signore ha una prenotazione?»

Ce l’avevo. L’uomo degli incarichi è abbastanza preciso in questo, ma, come succede di solito negli hotel Sheraton, mi dettero la stanza peggiore.

Non m’importava. Non ero venuto a Istanbul per turismo, ma per osservare l’incarico.

«Mi secca ammetterlo, ma si tratta di un materiale molto difficile da reperire», aveva detto l’uomo degli incarichi.

«E se lo trovo, che faccio?» avevo chiesto.

«Non comprarlo là. Gli appaltatori vogliono solo prodotti nazionali», aveva spiegato.

Anche se mi vanto di essere un buon professionista, le sue parole mi risollevarono. Non ero preparato ad agire a Istanbul, non conoscevo la città, e fin da quando avevo messo piede fuori dall’aeroporto i militari turchi mi avevano innervosito. Guardavano con insistenza chiunque potesse sembrare curdo, o avere a che fare coi curdi. Si prospettava molto difficile trovare un buon attrezzo in Turchia.

Da dove diavolo saltano fuori i tassisti? Quello che mi portò dall’albergo al centro dei congressi era un turco con dei baffi larghi come un manubrio di bicicletta, e non appena posai il culo sul sedile protetto da un telo di plastica mi prese di mira affannandosi a catechizzarmi. Maledisse tutte le donne in minigonna che passeggiavano per strada, la pubblicità del rum Bacardi, quella delle sigarette, e alla fine, dicendomi di non offendermi, se la prese con gli stranieri che portavano soltanto abitudini perniciose.

Quando arrivammo al centro dei congressi stava mandando a quel paese Kemal Ataturk. Mentre gli pagavo la corsa, mi ripromisi di trattare più dignitosamente le professioniste dell’amore e di non chiamare mai più figlio di puttana chi non lo meritava. Figlio di Allah mi pareva un insulto molto più grave.

Strano uomo, l’incarico. Nel programma dell’incontro »Megalopoli e problemi migratori» compariva la sua foto, il suo nome, Víctor Mujica - supponendo che fosse quello vero -, un’interessante biografia che lo presentava come un pioniere delle organizzazioni non governative, e la nazionalità. Era messicano, l’incarico, nato a Guadalajara, nello stato di Jalisco, nel 1959. Quindi aveva trentasei anni, una buona età per morire.

Nel caffè del centro congressi lo ebbi a meno di due metri. Sarebbe stato un gioco da ragazzi stenderlo lì, ma non potevo né dovevo farlo. Gli appaltatori volevano che il suo ultimo respiro fosse di aria americana, una qualunque boccata d’aria di quella che va dal Río Grande fino a Capo Horn. Stava parlando con un gruppo di uomini e donne che lo guardavano con espressione di stima. Coi suoi interlocutori saltava dall’inglese al tedesco e dal francese al portoghese. Finché una donna, in inglese, gli chiese di cantare. Lui, prima si rifiutò senza convinzione, poi davanti alle sue insistenze chiuse gli occhi e snocciolò con una bella voce le parole di un corrido.

«… quando vide la mia tristezza lei voleva restare, ma era scritto che quella notte avrei perso il suo amore…»

Cantava bene il messicano – supponendo che lo fosse veramente. Aveva la sottile disinvoltura che denota chi la sa lunga, chi non ha problemi di solitudine fra le lenzuola.

«Be’, caro mio. Farai sparire dalla piazza un tipo simpatico», mi dissi, e ancora una volta mi sentii stupido perché desideravo conoscere il motivo per cui dovevo ucciderlo.

«…volevo dimenticare alla maniera del Jalisco, ma quella tequila e quei mariachis mi fecero singhiozzare…»

Finì la canzone senza aprire gli occhi, come se i versi del corrido fossero qualcosa di suo, di intimo, di irrinunciabile, e nel breve silenzio che precedette gli applausi del gruppo l’immagine della mia gran figa francese mi invase la mente. Lei era là, in Messico, e forse si stava godendo le emorragie di pianto che i mariachis provocano in piazza Garibaldi. Stronzi i mariachis e tutti quelli che portano delle ragazzine incaute a sentirli: sanno che dopo aver frignato per bene con qualche corrido non ci sono più gambe chiuse né mutande al loro posto.

«Non ti capisco. Sei venuto per vedere l’incarico, per fiutarlo, per soppesarlo, e una stupida canzone ti fa quasi piangere. Accidenti che razza di professionista», disse il tipo che indossava una giacca uguale alla mia nello specchio.

«Non mi seccare. Lo sai che faccio sempre il mio dovere.»

«Lo spero. E ora che intenzioni hai? Vuoi leggerti un bel romanzo rosa di Corín Tellado?»

«Frugherò tra le sue cose. Andrò nel suo albergo.»

«Quello non è compito tuo. Ma il fatto è che vuoi sapere perché devi eliminarlo. Io lo so.»

«E me lo dirai?»

«Certo. Perché per questo ti daranno un assegno con sei zeri sulla destra esente tasse. Tutto qui, coglione.»

Un biglietto da cinquanta dollari spazzò via le reticenze del tipo baffuto che stava alle informazioni. L’incarico alloggiava all’hotel Richmond. Non era male il posto. L’atrio dell’edificio trasudava nostalgia dell’impero ottomano e l’addetto alla reception era come piacciono a me: discreto a parole, ma loquace a gesti.

«Qualche ora fa ho lasciato dei documenti per il signor Mujica. Si tratta di una cosa molto importante e voglio sapere se li ha ricevuti.»

Senza dire nulla l’uomo si voltò, e con gesti da prestigiatore mi indicò la casella vuota corrispondente alla stanza quattrocentocinque.

«I documenti sono stati debitamente consegnati al signor Mujica», disse con servile orgoglio a cinque stelle.

Arrivo, ammazzo e me ne vado. Ecco cosa ho fatto negli ultimi quindici anni, e in questa professione si imparano cose senza nemmeno rendersene conto. Una di queste è fiutare in tempo la lieve puzza di qualcosa che non va.

Quello che non andava nel corridoio centrale del Richmond era il ciccione mezzo calvo che leggeva il «New York Times» con la schiena appoggiata al muro, davanti agli ascensori. Un paio di metri più in là aveva a disposizione tutta una serie di soffici divani, ma il ciccione leggeva in piedi.

Entrai nell’ascensore e premetti il pulsante col numero sette. Nella solitudine del corridoio fumai una sigaretta con tutta calma, e poi scesi lentamente le scale. Al quarto piano potei constatare che quell’abitudine di leggere il «New York Times» in piedi davanti agli ascensori era contagiosa. Al secondo lettore mancava solo un cappello texano per tradire la sua nazionalità.

Quando mi vide spuntare nel corridoio si concentrò nella lettura. Mi maledissi per aver commesso quell’errore da principiante: senza dubbio il ciccione di sotto aveva una ricetrasmittente, mi aveva descritto, e lui vedendomi comparire dalla porta che conduceva sulle scale aveva avuto conferma dei sospetti. Diavolo, dovevo agire in fretta e lo feci.

Arrivai davanti agli ascensori, tesi una mano per premere il pulsante della chiamata e, senza toccare il cerchio di plastica rossa, mi girai ripiegando al tempo stesso la gamba sinistra per poi allungarla di scatto verso il lettore impenitente.

Il calcio lo prese in pieno nei testicoli, e senza dargli il tempo di riprendersi gli mollai due colpi sopra le orecchie. L’auricolare fracassato gli penetrò profondamente nella carne. Il tipo nascondeva un bel microfono dietro il risvolto della giacca, portava una calibro trentotto a canna mozza e, sorpresa, aveva una tessera di riconoscimento molto ben plastificata di agente della Drug Enforcement Administration.

Un paio di minuti dopo un’uscita di emergenza mi risputava per strada.

Mi misi a camminare. Avevo bisogno di riflettere, e in fretta. La D.E.A. pedinava il mio incarico. Istanbul Connection? I messicani stavano iniziando a fumare tappeti? Quanti altri uomini aveva la D.E.A. a Istanbul?

Dovevo trovare alla svelta un bagno per parlare con l’abitante degli specchi che mi conosce così bene.

La stanchezza nelle gambe mi fece capire che camminavo da varie ore in una qualche direzione, ma senza un itinerario ben definito, o forse sì, ne avevo uno, casuale, che sebbene non mi portasse da nessuna parte mi allontanava sempre più dalle mie abitudini professionali.

Mi ero immischiato in quello che non mi riguardava, mi preoccupavano le ragioni per cui dovevo eliminare un uomo, avevo appena picchiato un agente della D.E.A., e come se tutto questo non bastasse, l’immagine della mia gran figa francese mi compariva a dolorosi intervalli nella memoria come uno spot pubblicitario di qualcosa che non avrei mai potuto comprare.

Quando mi ritrovai in un mare di tappeti, arazzi, narghilè, spaventose litografie di paesaggi, ritratti di Khomeini e altre cianfrusaglie orientali, capii che senza volere ero arrivato nel gran bazar. La mescolanza di incensi e patchouli rendeva irrespirabile l’aria. I venditori assediavano i turisti e questi si dedicavano a tastare tappeti con assoluta svogliatezza.

Due tipi baffuti mi si avvicinarono sorridendo, uno di loro teneva fra le braccia un arazzo arrotolato e l’altro mi salutò con un cenno della testa.

«Noi abbiamo tutto ciò che il signore sta cercando, non c’è dubbio. Se ci concede l’onore di accettare un tè in nostra compagnia, potremmo discuterne il prezzo», dichiarò con gesti da Alì Babà.

«Mi dispiace. Non ho intenzione di comprare nulla», replicai.

«La prego di dare un’occhiata, solo una, all’incomparabile qualità dei nostri tessuti», suggerì lui, mentre faceva un cenno al suo accompagnatore.

L’altro uomo sollevò l’arazzo arrotolato fin quasi a sfiorarmi il naso. In mezzo spuntavano le due canne di un fucile. Stavolta fui io a chinare umilmente la testa, accettando l’invito a bere un tè nel gran bazar di Istanbul.

I due mi condussero nel retrobottega di un negozio. Là, quello con il fucile mi indicò un cuscino, mentre l’altro parlava con qualcuno a un cellulare.

Quando ebbe finito la telefonata, l’uomo riprese il suo tono cerimonioso.

«Non sappiamo né chi è lei, né quale sia il suo gioco, ma suppongo che ben presto ci parlerà dell’argomento. Devo anche dirle che non è bello ciò che ha fatto all’amico in albergo. Il poveretto ha un orecchio ridotto come una polpetta, e inoltre ha danneggiato beni dell’erario degli Stati Uniti d’America. Tutto ciò è molto riprovevole.»

«Mi dispiace, ma è stato lui ad aggredirmi e io ho dovuto difendermi.

Ho pensato che si trattasse di un rapinatore», mi scusai.

«Non si verificano molte rapine nei corridoi del quarto piano dell’hotel Richmond. Non mi piace il suo racconto. Conosce la storia della principessa Shahrazad? I racconti devono essere buoni e convincenti.

Hassan, il nostro amico ha bisogno di un po’ d’ispirazione», ordinò all accompagnatore.

Hassan sapeva dove colpire. Mi mollò una botta col calcio del fucile alla spalla sinistra che mi fece aprire le dita della mano. Al dolore del colpo seguirono gli spaventosi crampi dei muscoli che tentavano di difendersi nel miglior modo possibile.

«E ora che ha modo di migliorare la trama, iniziamo con una breve biografia dell’autore. Chi è lei?» chiese il tipo cerimonioso.

Volevo ribattere «E voi chi siete?», ma non ero in grado di imporre condizioni al dialogo. Il secondo colpo alla spalla sinistra mi fece pensare che il braccio sarebbe caduto, che sarebbe scivolato giù dalla manica della giacca come un rettile morto. Hassan non amava le pause troppo lunghe nei racconti.

«Sono un turista che passava di là per caso. Ho l’abitudine di fare jogging nei corridoi degli alberghi.»

Calcolai bene l’istante in cui Hassan mi avrebbe mollato il terzo colpo.

Mi chinai verso sinistra e il calcio del fucile si limitò a sfiorarmi il braccio dolorante mentre lo afferravo con la mano destra e lo tiravo verso il basso.

Hassan perse l’equilibrio, incespicò coi piedi nell’orlo della djellaba, e mentre cadeva in avanti riuscii a strappargli il fucile. Non sapevo se era carico e non avevo il tempo di verificarlo. Il problema era andarmene da lì e ancora una volta dovevo riflettere in fretta.

«Si calmi. Non può uscire dal bazar con un fucile in mano. Le presento le mie scuse per le cattive maniere di Hassan e le propongo un colloquio cortese», disse il tipo cerimonioso.

Ma quelle furono le sue ultime parole, perché all’improvviso la sua testa sussultò come se avesse ricevuto una botta, e lui stramazzò bocconi su un mucchio di tappeti. Mi voltai. Allora vidi l’incarico, con in mano una trentotto col silenziatore avvolta in un giornale, che faceva saltare le cervella all’impaziente Hassan, il quale cadde vicinissimo al suo compare.

«Seguimi, coglione», ordinò l’incarico, e io gli obbedii ricordando che quando avevo visto per la prima volta il suo volto in una fotografia, avevo sentito che le nostre strade, bene o male, dovevano incontrarsi.