V
Quinto giorno
Alle otto di sera del giorno successivo, obbedendo agli ordini dell’uomo degli incarichi, avevo il culo comodamente piazzato davanti al volante di una Mercedes Benz, nel parcheggio di un rent a car dell’aeroporto Charles de Gaulle. Il Concorde sarebbe atterrato nel giro di pochi minuti e fra i passeggeri del volo New York-Parigi ci sarebbe stato quell’individuo di cui non conoscevo che la voce.
«Temo che i tuoi brutti scherzi a Istanbul abbiano creato del casino», disse il tipo che mi guardava dallo specchietto retrovisore.
«Me ne assumo ogni responsabilità. Ho fatto quello che dovevo e non mi chiedere le ragioni.»
«So perché ti sei comportato così. Quella ragazzetta ti ha messo al tappeto e sei completamente fuori di testa. Non hai paura di incontrare l’uomo degli incarichi? Sai bene che nella tua professione non ci sono licenziamenti, ma certificati di morte.»
«Se viene c’è un motivo. Non l’ho mai deluso.»
«Mai?» chiese pieno di sarcasmo.
Spostai lo specchietto con una manata perché non continuasse a parlare, ma mi resi conto che aveva ragione. Cosa diavolo mi stava succedendo?
Quella mattina, dopo essere arrivato da Francoforte, mi ero diretto all’appartamento dei contatti per aspettare la chiamata dell’uomo degli incarichi. Era stato puntuale. Aveva telefonato dall’aeroporto Kennedy e mi aveva dato le istruzioni che stavo seguendo in quel momento. Poi avevo deciso di fare una passeggiata, camminando in fretta per schiarirmi le idee, ma una forza irresistibile mi aveva condotto all’appartamento che fino a poche settimane prima dividevo con la mia gran figa francese.
Tutto quello che c’era dentro mi era sembrato lontano ed estraneo.
Televisore, mobili, videoregistratore, impianto stereo, lampade, letto matrimoniale, dischi, libri e ancora libri, quadri, mobile bar, abiti sistemati ordinatamente negli armadi, niente era mio né aveva a che vedere con me.
Decisi di infilare un paio di vestiti e qualche camicia in una valigia per andarmene da lì definitivamente. Mentre lo facevo, i suoi occhi mi osservavano da tutti gli angoli, moltiplicati nelle dozzine di fotografie che le avevo scattato in vari posti dove eravamo stati felici, e che io stesso avevo appeso ai muri. Poi aveva squillato il telefono, tre volte, facendo partire la segreteria telefonica. Era lei. La sua voce suonava molto stanca e lontana. Aveva parlato d’amore, di uno sbaglio terribile, di vergogna, e di un ritorno non appena fosse uscita da un pasticcio che solo lei poteva risolvere. Aveva insistito sulle parole d’amore, aveva ricordato giorni felici, si era maledetta, e io avevo preso a pugni il muro fino a farmi sanguinare le nocche per non cedere alla tentazione di sollevare la cornetta.
«Mi hai deluso, bambina. E io non ammetto questo genere di delusioni», avevo mormorato chiudendo la porta. La sua voce aveva continuato ad aleggiare nella solitudine di quell’appartamento a cui non avrei più fatto ritorno.
Un ciccione che portava una valigetta e un impermeabile ripiegato sul braccio si avvicinò all’auto. Io aprii la portiera del sedile accanto al mio.
«Accidenti. Finalmente ci conosciamo. Questo incontro non sarebbe mai dovuto avvenire, comunque eccoci qua», dichiarò la voce che conoscevo così bene.
«Dimmi tu dove devo portarti», risposi.
«Andiamo a fare una passeggiata. A camminare lungo la Senna, se non ti dispiace», suggerì lui.
La serata era fresca, tranquilla, e dopo aver lasciato l’auto passeggiammo per una mezz’ora nelle vicinanze del Trocadero. L’uomo degli incarichi fumava una sigaretta dietro l’altra, la sua tosse era incallita, e ogni volta che accennavo minimamente a parlare, mi bloccava con un cenno della mano seguito da un «Ancora no, ragazzo, sto pensando». Alla fine mi indicò una panchina e ci sedemmo.
«Dimmi, hai qualche lamentela sui tuoi datori di lavoro?» attaccò.
«No. Nessuna, e lo sai.»
«Perfetto. Sei un uomo ricco. Non mi interessa cosa hai fatto della grana che hai guadagnato, ma è un bel mucchio. Ti trovi nella situazione ideale per ritirarti.»
«Andiamo al sodo.»
«Non hai commesso troppi errori, li hai commessi tutti. Suppongo che sia la stanchezza, lo stress come dicono adesso. È il segnale d’allarme che consiglia di ritirarsi.»
«Devo pensare che avete firmato la mia sentenza?»
«Non essere melodrammatico. È vero che il tuo comportamento ci ha creato dei problemi, ma abbiamo sempre avuto fiducia in te. Non sei un sicario che si cancella con un tratto di penna. Sei un professionista rispettato e vogliamo che ti ritiri in modo dignitoso.»
«D’accordo. Cosa devo fare?»
«Devi andare fino in fondo, ma da solo. Questa è la prima e anche l’ultima volta che ci vediamo. Il telefono dei contatti non esiste più, e io non ti richiamerò, puoi contarci. Devi andare fino in fondo e nei termini stabiliti. Riscuoterai tariffa doppia, ma insisto, vogliamo che tu faccia tutto da solo e presto.»
«Va bene. Accetto. Senza fiutamutande, senza appoggio, solo. Accetto.»
«Qualche domanda prima di salutarci?»
«Perché devo ucciderlo?»
«Vuoi davvero saperlo?»
«È il mio ultimo lavoro. Prendila come la curiosità di un pensionato.»
«Perché no. Bene. Víctor Mujica sta giocando un brutto tiro a tutti quanti. È un tipo abile, sagace, sfuggente, e soprattutto mondo da qualsiasi peccato. È uno che in vita sua non è mai nemmeno passato col rosso, eppure tiene in scacco varie organizzazioni di trafficanti di droga negli Stati Uniti. Ha ordito un gigantesco intrigo che gli permette di rifornirsi nei mercati asiatici e ha fatto crollare i prezzi. Questo non piace per nulla né ai colombiani né ai ragazzi di Miami, ma non lo hanno potuto toccare perché si è cercato la migliore delle protezioni.»
«La D.E.A.»
«Esatto. Unge quelli della D.E.A., che si prendono cura di lui come fosse un bebè. E la cosa più curiosa è che la sua merce, pur essendo a buon mercato, è di ottima qualità. Quel tipo è una specie di filantropo delle droghe, ed è per questa ragione che dobbiamo eliminarlo. Capito?»
«Di quanto tempo dispongo?»
«Molto poco. Hai una prenotazione sul Concorde di domani, e a New York ti aspetta un biglietto della TWA per Città del Messico. La sorpresa che ha avuto a Istanbul gli ha fatto saltare i piani e ha deciso di tornare.
Devi muoverti prima che reagisca.»
«Chi erano i morti del bazar?»
«Novellini. Gorilla al servizio della D.E.A. a Istanbul. Ti hanno preso per un sicario mandato dai colombiani. Mujica ti ha salvato perché credeva fossi il suo corriere, l’uomo che trasportava il denaro per pagare una spedizione di eroina, e ha pensato che tu fossi caduto in mano ai sicari.
Una bella confusione. Be’, ora sai tutta la storia. Addio, killer, e buona fortuna.»
Lo vidi allontanarsi con passi stanchi verso la fermata dei taxi, là salì su uno di essi e la città lo ingoiò per sempre.
Rimasi a lungo seduto, pensando che stavo per affrontare il mio ultimo lavoro. Che diavolo, era arrivata anche per me l’ora di ritirarmi, ma non sarei mai diventato uno di quei pensionati che ammazzano la noia nei parchi nutrendo sogni sconfitti e quei detestabili topi con le ali che altri chiamano piccioni. Avevo un conto corrente piuttosto sostanzioso in una banca di Grand Cayman, e avevo sempre pensato di ritirarmi dal lavoro a cinquant’anni. Tutti hanno qualche progetto per quel giorno. Il mio era molto semplice: una casa davanti al mare in Bretagna, accanto alla mia gran figa francese che mi avrebbe letto poesie incomprensibili mentre io le spiegavo testi di boleri. Merda. La pensione mi coglieva solo come un naufrago. Merda. Dovevo fare qualcosa per evitarlo.
Salii sulla Mercedes e iniziai a girare per i viali che convergono all’Arco di Trionfo. Le più belle puttane di Parigi si offrono lì come frutti maturi.
C’erano nere, bianche, altre troppo bianche, mulatte, vietnamiti, cinesi, travestiti dalle spalle atletiche, ragazze che sembravano studentesse di qualche scuola per segretarie. Dopo un’ora che giravo vidi quella che stavo cercando: bassina, con fianchi sodi, capelli castani, tettine dure, bocca piccola e rossa.
«Sali», le ordinai.
«Trecento franchi l’ora», disse lei accomodandosi.
«Aggiungi uno zero e ci amiamo per tutta la notte.»
«Sei uno sceicco, un sultano, mi scoperai nel tuo palazzo?»
«Che ne dici di farlo all’hotel Lutetia?»
«Secondo me, sei il re Salomone e io la tua regina di Saba.»
«D’accordo. E sono pronto a soddisfare tutti i desideri della mia regina.»
L’addetto alla reception dell’hotel Lutetia guardò con diffidenza la minigonna davvero minima della mia accompagnatrice. Mentre compilava il foglio d’ingresso cercò parole eleganti per formulare una domanda velenosa.
«Il signore e la signora si registrano assieme?»
«Il signore le ha appena comunicato le sue generalità e la signorina è molto stanca. C’è qualche regolamento che impedisce a un padre e a una figlia di alloggiare assieme in questo albergo?»
«Assolutamente no, signore, non volevo essere importuno.»
«Ma ha pensato che mia figlia fosse una puttana.»
«Per favore! Non oserei mai pensare una cosa del genere.»
«Paparino, nella boutique c’è una camicetta che mi piace», intervenne la responsabile della mia recente paternità.
La mia accompagnatrice aveva ventitré anni, attestati da una carta d’identità in cui appariva magra e con l’espressione cupa delle ragazze cresciute nella banlieue parigina. Una cura di coccole di un paio di mesi avrebbe potuto fare di lei una gran figa. Mostrava del talento in quel campo. Quando mi domandò se potevamo chiedere dei panini in camera e io ordinai un’aragosta in salsa rosa, si sedette sulle mie ginocchia e mordicchiandomi le orecchie mi sussurrò di non dimenticare lo champagne.
Dopo dieci minuti si era impadronita della stanza e contemplava felice il suo corpo nudo riflesso in tutti gli specchi. Il cameriere che portava l’ordinazione bussò con discrezione alla porta, e lei raccolse tutti i suoi vestiti prima di scomparire in bagno. Aveva classe la ragazza. Mi auguro che qualche tipo ne faccia una gran figa.
«Non hai mangiato nulla. Non hai fame?» chiese con la sua piccola bocca rossa.
«No. E comunque l’aragosta si mangia con appetito, non con fame.»
«Certo. I poveri hanno fame e i ricchi hanno appetito.»
«Di quale banlieue sei?»
«Di Creteil. Lo champagne si beve con sete?»
Come amante era pessima. Muoveva a stento i fianchi e senza altro scopo che mettere fretta al cliente, ma mentiva bene simulando orgasmi con gridolini sensuali.
«Di cosa ti occupi?» chiese accarezzandomi la peluria sul petto.
«Ammazzo uomini. Sono un assassino. Un killer.»
«Come Leon? Hai visto il film?»
«Sì. Come Leon. Ma non sono un cretino.»
Si addormentò abbracciata al mio petto, e allora le parlai chiamandola col nome della mia donna. Le dissi che la perdonavo, che dopo aver portato a termine il mio ultimo incarico l’avrei cercata in Messico e saremmo tornati assieme per vivere vicino al mare e lontano dalla morte.