IV
Quarto giorno
L’uomo che prima o poi avrei dovuto uccidere mi aveva salvato la pelle e mi guidava, tenendomi per mano, nei meandri del gran bazar di Istanbul.
Si vedeva che era pratico di quel territorio perché nessun tipo baffuto tentava di vendergli un tappeto.
«Vi ho detto mille volte che il contatto del bazar non era più buono», mormorò mentre raggiungevamo l’uscita.
«Già», mi limitai a dire.
«Ti hanno innervosito i gringo in albergo?» chiese tirando fuori di tasca un telefono cellulare.
«Già», ripetei.
«Sei un perfetto idiota. Quelli volevano solo essere sicuri di ricevere la loro fetta, nient’altro. Comunque ora andiamo a prendere la grana», disse, e con un gesto mi ordinò di allontanarmi di qualche passo mentre componeva un numero.
«Già», tornai a ripetere.
Sussurrò un paio di parole inintelligibili, poi tirandomi per un braccio mi trascinò con sé in un caffè pieno zeppo di tipi baffuti che giocavano a back gammon. Là ordinò due caffè turchi.
«Preferirei un gin», dichiarai cambiando la linea tematica che avevo seguito durante la fuga.
«Nomina un solo liquore e lasci le palle sul bancone. Perché non mi hai cercato al centro dei congressi? Sono stato abbastanza chiaro quando ho dato le istruzioni», spiegò mescolando il caffè.
«C’erano altri gringo lì e mi sono innervosito», dissi in tono di scusa.
Allora l’incarico mi guardò fisso negli occhi. In qualche modo le mie parole gli avevano appena rivelato che non ero chi si aspettava. L’osservai anch’io. Era un tipo dal fisico robusto, coi muscoli allenati dalla continua pratica sportiva. Si capiva che era un uomo deciso, abituato a imporsi con la sua schiacciante sicurezza, e mi fece ridere vederlo con la fronte aggrottata, mentre pensava in fretta e furia, tentando di riprendersi dalla sorpresa.
«Chi diavolo sei?» chiese portando la mano alla cintura per ricordarmi che aveva una trentotto col silenziatore.
«Sono l’angelo sterminatore. Ho l’ordine di ucciderti, ma non qui. Non so ancora dove ti ammazzerò, lo vedremo quando arriverà il momento.»
In quel preciso istante si sentì il clacson di un’auto. L’incarico si alzò dalla sedia, e con la mano alla cintura iniziò a camminare all’indietro, senza voltarmi le spalle. Aveva perso tutta la sua sicurezza, gli tremava il mento e cercava disperatamente di dire qualcosa, ma le parole non gli venivano alle labbra.
Avevo appena finito di bere quello spaventoso caffè quando risuonò l’ululato di varie sirene della polizia.
«Che succede?» chiesi al cameriere mentre pagavo la consumazione.
«La solita storia. I terroristi curdi hanno ammazzato due commercianti nel bazar.»
Uscii per strada e ancora una volta mi persi camminando senza meta.
Che diavolo mi stava succedendo? Per la prima volta nella mia lunga e impeccabile carriera professionale avevo messo sull’avviso la mia futura vittima, forse gli uomini della D.E.A. erano sulle mie tracce, e la metà dei commercianti dei tremila negozi del gran bazar in quel momento probabilmente stavano dando la mia descrizione alla polizia o all’esercito turco. Maledizione, mi ero messo alle calcagna tutta quanta la N.A.T.O.
Alle cinque del pomeriggio faceva un caldo infernale a Istanbul, e decisi di cercare la benevola frescura di un edificio maestoso. Era la moschea di Ortaköy e dai suoi giardini scorsi la lingua di cemento del ponte sul Bosforo che unisce l’Europa e l’Asia senza troppe storie.
Quando mi affacciai a una fontana vidi il tipo con indosso una giacca uguale alla mia. Anche il suo volto rispecchiava la mia stessa preoccupazione.
«Hai battuto il record mondiale di stronzate», esordì a mo’ di saluto.
«Lo so. Aiutami a pensare.»
«Non hai molto tempo. Acchiappa un taxi e digli di accompagnarti all’aeroporto. L’incarico probabilmente sta facendo la stessa cosa, se non è già volato chissà dove. E poi non sarebbe male che tu chiamassi Parigi.
Può darsi che l’uomo degli incarichi ti abbia lasciato un messaggio nella segreteria telefonica.»
Seguii i consigli del mio doppio. All’aeroporto comprai un biglietto per Francoforte. Era il primo volo in partenza e decollava dopo due ore. Nel bar internazionale, al sicuro dalle ire dei barbuti ragazzi islamici, mi scolai tre gin e poi chiamai subito Parigi, l’appartamento dei contatti. Non c’era alcun messaggio nella segreteria. Riappesi e stavo per passare nella sala d’imbarco quando uno strano impulso mi fece comporre l’altro numero di Parigi, il numero di quella che fino a poco tempo prima avevo chiamato casa, come un cretino con tanto di previdenza sociale in regola.
C’erano vari messaggi, tutti di amici della mia gran figa francese, che manifestavano una generale preoccupazione per il suo mancato rientro dal Messico. E ce n’era uno con la sua voce, che suonava come se parlasse con un pugnale a pochi centimetri dalla gola.
«Sono io, rispondimi per favore. Ho bisogno di parlare con te. Non so cosa mi stia succedendo, ma ho bisogno di te e al tempo stesso non posso partire senza prima rivederlo. Non odiarmi. Sei così buono e generoso.
Tornerò non appena ho parlato con lui. Ti amo, ma non so cosa mi stia succedendo…»
Riappesi senza finire di ascoltare il messaggio. Mi ero cacciato in troppi pasticci per mettermi a dare consigli di cuore.
Il volo Istanbul-Francoforte durava cinque ore e io ne dormii quattro con l’aiuto di varie bottigliette di gin che una hostess mi servì con esemplare generosità.
Prima di portare a termine un incarico cerco di dormire molto e il modo migliore per farlo è evitare i sogni, quei territori in cui veniamo portati senza che ci sia chiesto se vogliamo andarvi. Un collega irlandese mi aveva insegnato il trucco per eluderli. Consiste nel pensare a un ampio panno verde che pian piano copre tutto ciò che abbiamo visto prima di chiudere gli occhi. Yoga dell’assassino, lo chiamava l’irlandese, e aveva sempre funzionato, ma sull’aereo la dannata immagine della mia gran figa francese bucò la stoffa verde e spuntò fuori, fresca ed eccitante, come se emergesse da una laguna.
E mi portò per mano, in una giornata d’autunno, nei giardini del Luxembourg, mi sbucciò le caldarroste comprate all’uscita Gobelins della metropolitana, mi accarezzò il petto con movimenti involontari dopo la faticaccia che richiedono gli orgasmi simultanei, mi fece bere piccoli sorsi di Sancerre freddo nella sua bocca calda, scrisse frasi d’amore con la lingua sullo specchio, mi imprigionò le mani con le gambe mentre le spalmavo addosso della crema su una spiaggia di Porto Rico, mi ordinò con urgenza del sesso su un tavolo da black jack in un casinò di Orlando, mi lesse versi di Prévert, di Dylan Thomas e di altri tizi che mi lasciarono del tutto indifferente mi sussurrò canzoni di Brel e io giurai che capivo le parole. Non fu facile svegliarsi senza aggrapparsi al suo dannato nome.
Il tassista che mi portò in centro dall’aeroporto era turco, ma la sua nazionalità non lo escludeva dalla tribù universale degli importuni.
«Che impressione ha avuto di Istanbul? Bella città! Non è vero?» mi sparò addosso senza misericordia.
«Come fa a sapere che vengo da lì?»
«Perché è l’ultimo volo internazionale intervallato. Sa di cosa parlo? A Francoforte atterra un aereo ogni tre minuti, ma i voli provenienti dalla Turchia arrivano sulla pista ad alta sicurezza. È per via dei curdi, sa? Sono un mucchio di terroristi e i tedeschi prendono le loro precauzioni.»
«Sono stato malissimo a Istanbul.»
«Ci credo. Succede ai turisti che non si lasciano consigliare. A Istanbul non becca una donna neppure se è Alain Delon, ma ci sono le svedesi e le tedesche, bianche come il latte, sulle spiagge di Edirne. Fanno tutte il bagno nude e se ne stanno lì a bruciare sulla spiaggia. Se invece il signore è più esigente, le strade di Galata sono piene di efebi da sogno. È come Cadaqués, ma il marco tedesco apre qualsiasi cuore o culetto.»
«Grazie per le informazioni, ma volevo scoparmi una donna pelosa. E poi il chador mi eccita da morire», assicurai a quel lontano figlio di Allah.
Nell’hotel Frankfurter Hof mi dettero una stanza grande come un campo da calcio. Ordinai che mi portassero in camera una bottiglia di gin e chiamai l’uomo degli incarichi.
«Devo parlarti, e subito», spiegai.
«D’accordo. Ovunque tu sia, cerca un telefono pubblico e chiamami fra mezz’ora a un cellulare del quale subito dopo ti dimenticherai per sempre», disse dettandomi il numero.
Lasciai passare il tempo nell’atrio dell’albergo. Il posto era pieno di belle ragazze. Era come una dimostrazione esagerata della bellezza che è capace di offrire il genere femminile. Vari cartellini d’identificazione appuntati su altrettante scollature mi rivelarono che a Francoforte aveva luogo l’annuale fiera della moda. Era come vedere la mia gran figa francese moltiplicata in un labirinto di specchi. Ma la bellezza è effimera, come è noto, e mi diressi verso una cabina per parlare con l’uomo degli incarichi.
«Adoro la capacità di sintesi», dichiarò.
«L’ho visto. Per poco non faccio fuori un agente della D.E.A., e dopo lui mi ha salvato la pelle eliminando due tizi. Chi è l’appaltatore?»
«La D.E.A.? Merda, non sintetizzare così tanto. Ne sei sicuro?»
«Non ho mai visto una tessera meglio riuscita.»
«Credo che la tua grana verrà raddoppiata. Ti chiamo a Parigi domani a mezzogiorno. Vedi tu come arrivare in tempo», concluse lui e riappese.
Quando uscii dalla cabina mi abbordò una tipa magra con gli occhi verdi.
«Quella camicia è di Kendo», assicurò in francese.
Non volli mettermi a discuterne la paternità, in fondo è possibilissimo che le Galeries Lafayette vendano camice firmate.
«Tu hai occhio, bambina. Andiamo a studiare le asole», risposi cingendola alla vita. Quegli occhi verdi nascondevano il balsamo per eludere i sogni.