IV.
Una prima proiezione moderna
1. Cenno introduttivo
In questa e nelle successive ‘proiezioni moderne’ di cui si arricchisce il volume, il tema delle lotte persiane, delle lotte contro il bárbaros o lo straniero, chiunque esso sia, rivive nell’epopea e nella propaganda delle guerre risorgimentali d’indipendenza, in Italia e in Grecia, con prodromi nell’Europa napoleonica, fino ad arrivare, con ben altri intenti e con reversibilità di ideologia, alla mistica del colonialismo; per pervenire quindi, con purificazione di accenti, alla più celebre e motivata delle canzoni che hanno accompagnato le battaglie partigiane nella seconda guerra mondiale.
In riferimento alle Termopili, nella tradizione poetica o versificatoria della letteratura italiana, i due archetipi sono facilmente ravvisabili nel Leopardi della canzone All’Italia, che si rifà alla narrazione di Diodoro, e nel Pascoli dell’ode Ad Antonio Fratti, che segue la vulgata erodotea. Molti altri temi accessori presenti nelle due antiche pagine storiografiche rivivono poi, anche avulsi dal loro contesto, o dato quest’ultimo per sottinteso, in numerose sottolineature forniteci dalla tradizione di più popolare marca patriottica, talora derivante dagli stessi componimenti che abbiamo ricordato come modelli di riferimento. Temi che rimandano al mito dei Trecento, al motivo della ‘resurrezione’ o della ‘vita eterna’ dei caduti per la patria, all’evocazione della devastante ‘idra straniera’, al rapporto tra la vittoria e la morte simboleggiate da immagini floreali.
Ovviamente nella letteratura dei moderni, e soprattutto dei minori, nonché nelle canzoni patriottiche, il materiale è sterminato. In questa e nelle successive proiezioni moderne, ci limitiamo a un’accorta selezione documentaria in grado di evidenziare le forme e i debiti della tradizione dal ‘paradigma ellenico’ cui in questo libro facciamo riferimento.
2. “L’un sopra l’altro cade”
È la seconda parte della giovanile canzone All’Italia del Leopardi che rievoca il fatto d’arme delle Termopili con il combattimento e con il sacrificio degli Spartani di Leonida1; accadimenti eroici introdotti dal poeta tramite una comparazione tra l’età antica e la propria (vv. 61-67):
Oh venturose e care e benedette
l’antiche età, che a morte
per la patria correan le genti a squadre;
e voi sempre onorate e gloriose, o tessaliche strette,
dove la Persia e il fato assai men forte
fu di poch’alme franche e generose!
Qui il Leopardi chiama le Termopili “tessaliche strette” per chiara reminiscenza della canzone del Petrarca che le definisce “mortali strette”. Da esse dilagò l’immane armata persiana che non valse a stroncare la forza d’animo di pochi generosi votati alla morte, e quindi sprezzanti il loro stesso destino. Dunque, un primo, prepotente, accenno al tema della vittoria dei vinti dominante in tutto il componimento. È stato ampiamente notato come l’espressione “a morte / per la patria” possa rimandare al dettato oraziano del dulce et decorum est pro patria mori; ma mai è stato osservato come, ben prima che dal poeta latino, il debito sia dalla più celebre elegia di Tirteo (fr. 10 W.) inneggiante alla guerra: “bello è morire nelle prime file caduto / per l’uomo valoroso che combatte per la sua patria”. Vi fa eco l’esclamazione, dettata da giovanile entusiasmo, nella canzone del Leopardi (vv. 37-38):
[...] L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Orbene, ‘procombere’ significa ‘cadere in avanti’, ed è italianizzazione forzata del latino procumbere. Ma, anche se il verbo è di derivazione latina, il poeta si ispira a un modello decisamente greco; il suo ‘procombere’ traduce, infatti, l’espressione di Tirteo “nelle prime file caduto”, enì promáchoisi pesonta, che è quasi formulazione di proemio alla sua elegia. Nell’epica i combattenti delle prime file, i prómachoi, sono i guerrieri più valorosi, quelli schierati innanzi agli altri, quelli di fatto destinati a resistere o a morire nel primo urto contro il nemico, rapidamente e ineluttabilmente subentrando gli uni agli altri in testa alla schiera. Dunque un non trascurabile contatto tra i due autori, tra il poeta moderno che freme per le sorti dell’Italia e l’elegiaco antico che inneggia all’areté guerriera di Sparta. Ma anche un primo indizio sulla pluralità di modelli ellenici che il poeta rievoca o ricicla o riattualizza nella sua canzone, con una violenza ideologica davvero inaspettata in un componimento poetico che ha per soggetto l’Italia e non l’antica Sparta.
Il Leopardi ovviamente recepisce la memoria greca senza mediazioni di sorta, muovendo da un modello all’altro per adeguarsi alla rievocazione del fatto d’arme delle Termopili. Passa così, con identica intensità di registro evocativo, dall’ordito di Tirteo, che inneggia al valore spartano, a quello di Simonide che ne celebra la sua più alta estrinsecazione, relativa, appunto, all’eroismo degli Spartani di Leonida. Sarà lo stesso poeta, nelle ultime strofe della sua canzone, a denunziare scopertamente la dipendenza da Simonide sovrapponendo il proprio canto al suo celebre encomio per i caduti delle Termopili, già noto al lettore. La critica conosce bene l’intensità di mimesi drammatica dal modello antico, ma è sfuggito all’attenzione dei più come, ben prima della riattualizzazione del celebre encomio, il poeta sia stato tentato di imitare un altro componimento simonideo, o presunto tale, tramandato da Erodoto (7, 228): “Riferisci viandante agli Spartani / che rispettosi al monito / di leggi della patria / qui nel sonno perenne riposiamo”. L’epigramma è noto esso pure al lettore, che potrà coglierne le analogie con questo luogo della canzone leopardiana (vv. 68-73):
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
e le montagne vostre al passeggere
con indistinta voce
narrin siccome tutta quella sponda
coprîr le invitte schiere
de’ corpi che alla Grecia eran devoti.
La parola centrale qui è “passeggere”, che, in un contesto di ispirazione foscoliana, ci offre la giusta chiave di lettura per scoprire come il poeta abbia a monte un primo, e non dichiarato, debito con un epigramma che egli, con Cicerone (Tusc. 1, 101), riteneva scritto da Simonide. Anche quest’ultimo, il lirico di Ceo, ricorda un “viandante” che dovrà in eterno testimoniare a Sparta il valore degli eroici caduti: “passeggere” corrisponde a “viandante” (xeinos) con identico ruolo di preminente centralità in seno al contesto. “Narrin”, a sua volta, trova rispondenza in “riferisci” (aggélein), con un procedimento di introspettiva interiorizzazione della memoria antica che è sua diretta esplicitazione concettuale. Se, infatti, il viandante deve riferire a Sparta dell’eroismo dei Trecento, è necessario che egli ne sia direttamente edotto dalla forza comunicativa di una natura che ne è stata testimone. Medesima, peraltro, è la nota dominante della marea di corpi rimasti sul terreno: l’antico poeta lirico con il suo “nel sonno perenne riposiamo”, keímetha, li raggruppa virtualmente in un unico sepolcro; il poeta moderno con il suo “coprîr” sembra invece dissotterarli per ridistenderli morti o morenti su tutta l’immensità del territorio, quasi fossero essi stessi parte integrante del paesaggio. Inoltre, in entrambi i contesti, i caduti giacciono obbedienti alle patrie leggi, e quindi – per dirla con il poeta – “alla Grecia devoti”, cioè votati alla morte per la salvezza dell’Ellade.
Né c’è dubbio sulla derivazione perché è lo stesso Leopardi, nella dedicatoria al Monti della canzone, a ricordarci di conoscere il celebre “epitaffio” di Simonide che è “riportato da Cicerone e da altri”2. Stupisce che egli taccia di Erodoto (7, 228, 2), che è il testimone del componimento “riportato da Cicerone”, ma l’omissione non è casuale e – lo diremo – tradisce, anche ideologicamente, una precisa scelta di campo.
Gli eroi delle Termopili non sono però caduti invano, perché, a dire del poeta, è proprio il loro generoso sacrificio che determina la vittoria panellenica, e quindi la rotta e la fuga dell’armata di Serse (vv. 74-76):
Allor, vile e feroce,
Serse per l’Ellesponto si fuggìa,
fatto ludibrio agli ultimi nepoti.
Ovviamente, tra l’episodio delle Termopili e la ritirata di Serse, e quindi la sua fuga in Asia, c’è la giornata luminosa di Salamina, che, con la vittoria panellenica, ma di fatto ateniese, determina la sconfitta dell’armata persiana. Ma di questa vittoria il Leopardi tace, sia per non sottrarre gloria alla schiera di Leonida, sia, soprattutto, per riaffermare, contro la tradizione erodotea, che spartana, e soltanto spartana, è la preveggenza strategica che porta alla definitiva rotta del barbaro. Di fatto, se in ottica di Sparta ha un senso affermare che lo scontro delle Termopili è tappa obbligata per giungere alla giornata di Salamina, il poeta non fa altro che esasperarne il concetto, assegnando proprio al suicidio consapevole di Leonida tutto il merito della futura vittoria sul barbaro. Il suo non è che uno sviluppo di quanto egli legge in Diodoro (11, 11, 5), la cui fonte – la narrazione di Eforo – attinge appunto a materiali filospartani: “giustamente devesi a essi la comune libertà degli Elleni, anziché agli altri che dopo vinsero le battaglie contro Serse”, cioè ē tous hýsteron en tais pros Xerxen máchais nikésontas. Il concetto è esplicito, e a questo si rifà il poeta per annullare, o cancellare, dalla memoria storica le stesse “battaglie” contro il barbaro che “dopo vinsero” gli Elleni. Egli è portavoce della tradizione di Sparta e, come fosse stato un suo antico poeta, scrive in proprio l’estremo capitolo della storia della città, trasformando i vinti in eterni vincitori.
Su di essi, per contrapposizione, incombe la figura di Serse fuggiasco che, “vile e feroce”, si ritira in Asia, riattraversando venturosamente l’Ellesponto. Nel mentre cala il sipario sul Gran Re fuggiasco, quasi con rapporto di contemporaneità, il poeta Simonide, presso le Termopili, sul colle di Antela, intona il suo canto, dettando per la posterità il suo commosso encomio per gli Spartani di Leonida caduti in battaglia (vv. 77-80):
e sul colle d’Antela, ove morendo
si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salìa,
guardando l’etra e la marina e il suolo.
Il “santo stuolo”, morendo eroicamente, si sottrae dalla morte perché acquista gloria immortale. Gli sconfitti sono in eterno vincitori in quanto, di fatto, già da vivi, vendicatori di sé stessi. Il concetto è lucidamente formulato da un altro autore, quale Giustino, che il Leopardi ben conosce. Per lui (2, 11, 16) gli Spartani delle Termopili sono consapevoli di combattere “non per la speranza di vincere, bensì per vendicare la propria morte”: non spe victoriae, sed in mortis ultionem.
Ma torniamo a Simonide, il cui encomio – che riportiamo nuovamente qui appresso – ci consente di rivedere al rallentatore singole scene, ingrandite, relative a quanto il Leopardi già ci ha narrato. Ne deriva un canto sovrapposto dei due poeti, l’antico e il moderno, sul quale è bene soffermare l’attenzione per riscoprire forme e modalità del loro incontro. Come il lettore già sa, è Diodoro (11, 11, 6) a tramandare il frammento simonideo (fr. 26 P.) che nell’originale consta di nove celeberrimi versi: “Dei caduti là presso le Termopili / luminosa la sorte / splendido il destino: / altare ne sarà sempre il sepolcro. / La memoria n’è funebre lamento / l’encomio il compianto. / L’offerta di sé stessi alla morte / non oscurerà la squallida ruggine / del tempo, domatore del ricordo. / Dell’Ellade la gloria / d’albergare prescelse nel recinto / a tanti valorosi consacrato. / Leonìda qui l’attesta / che, sovrano di Sparta, ha lasciato / per proprio ornamento / il retaggio di fama imperitura”. Tali i nostri versi, e il Leopardi, prima ancora di attingere ai superstiti materiali dell’antico poeta, imitandolo in forma manifesta, si prova “a tornare a fare la sua canzone” come egli stesso dichiara nella dedicatoria al Monti3.
Dunque il poeta moderno, con la sensibilità di un antico poeta dell’Ellade, e con lui in consonanza di spirito, si prova a rifarne il componimento, cioè a ridonarci “per ingannare il desiderio” ciò che il tempo ha rapito. Il processo della mimesi letteraria si appunta non tanto sui versi superstiti di Simonide quanto sui versi perduti: egli non imita, ma ricrea. Ne risulta un canto sovrapposto, a due voci, in cui non riusciamo più a distinguere l’autore antico dal moderno. Canto che – l’abbiamo detto – ci consente di soffermare l’attenzione su singole scene ingrandite relative ai Trecento, e al loro eroismo, mentre vanno incontro alla morte come se dovessero recarsi a una festa (vv. 84-85. 91-100):
Beatissimi voi,
ch’offriste il petto alle nemiche lance
[...].
Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
né le spose vi fôro o i figli accanto,
quando su l’aspro lito
senza baci moriste e senza pianto.
Quanti si recano alla “danza” o al “convito” curano l’avvenenza del loro aspetto fisico e, anzitutto, l’acconciatura dei capelli. È da Erodoto (7, 209, 3) che il Leopardi apprende questo particolare, di fatto accessorio, su come gli Spartani di Leonida, nell’imminenza della morte, si prendano cura del proprio aspetto, a cominciare dalla “capigliatura”, tanto che “parea” si recassero a una festa, e non consapevolmente incontro alla morte.
L’encomio riscritto dal poeta moderno prosegue poi ricordando come la lotta eroica dei Trecento comporti devastazione e morte nelle file nemiche (vv. 101-108):
Ma non senza de’ Persi orrida pena
ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
or salta a quello in tergo e sì gli scava
con le zanne la schiena,
or questo fianco addenta or quella coscia:
tal fra le perse torme infuriava
l’ira de’ greci petti e la virtute.
L’ultimo verso rimanda scopertamente all’espressione “la virtù greca e l’ira” che sigla nel Foscolo dei Sepolcri la rievocazione della battaglia di Maratona. Ma si tratta di un’assonanza meramente epidermica, priva di qualsiasi rifrangenza. Ha, invece, incidenza ideologica il fatto che il Leopardi – e lo vedremo anche in seguito – nella rievocazione dell’episodio non segua la narrazione di Erodoto bensì quella, assai meno nota, e molto più tarda, di Diodoro, che si ispira a Eforo la cui narrazione si data un secolo dopo gli eventi. Come il lettore ricorderà, secondo Erodoto (7, 213-228) gli Spartani, ben consapevoli dalla sera innanzi che sarebbero morti al sorgere del nuovo giorno, avrebbero atteso a piè fermo l’urto dei Persiani che già avevano aggirato alle spalle le loro postazioni guidati dal traditore attraverso un sentiero sconosciuto. Come pure ricorderà che, invece, secondo Diodoro (11, 9-11), gli Spartani non avrebbero atteso né il sopraggiungere dei nemici, guidati dal traditore, né il sorgere dell’alba, ma, in piena notte, avrebbero fatto incursione nel campo persiano seminando strage e terrore prima che il nuovo giorno rivelasse l’esiguità delle loro forze.
Questa, appunto, è la versione del Leopardi, il quale così seguita nella sua ri-creazione del canto di Simonide (vv. 109-118):
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
vedi intralciare ai vinti
la fuga i carri e le tende cadute,
e correr fra’ primieri
pallido e scapigliato esso tiranno;
ve’ come infusi e tinti
del barbarico sangue i greci eroi,
cagione ai Persi d’infinito affanno,
a poco a poco vinti dalle piaghe,
l’un sopra l’altro cade.
Qui la rievocazione del poeta, finora sempre modellata su materiali classici, mostra qualche crepa nella documentazione, o comunque una maggiore concessione alla rielaborazione di fantasia. Diodoro (11, 10, 3) ci riferisce che gli Spartani, nella loro folle incursione notturna, puntano direttamente alla tenda di Serse per ucciderlo, ma non lo trovano perché uscito al primo rumore dello scontro. Nessuno però ritrae Serse incalzato dai nemici, né tantomeno in fuga “fra’ primieri”. Anzi Giustino (2, 11, 19), che in forma indiretta deriva anch’egli da Eforo, testimonia proprio il contrario, cioè che il Gran Re fu tutt’altro che fuggiasco dato che nel corso dello scontro riportò ben due ferite. Nessuno, inoltre, descrive fuga di carri e rovina di cavalli e cavalieri; notizia, questa, palesemente assurda perché induce a confondere un’incursione notturna con una vera e propria battaglia campale. Si trattò invece di una fulminea sortita, nella quale gli Spartani, a piedi, in silenzio, favoriti dall’oscurità della notte, assalgono all’improvviso l’accampamento dei Persiani, che, colti di sorpresa, non hanno tempo né per schierarsi in battaglia né per predisporsi a fronteggiare l’attacco.
Siamo, con la strofe del Leopardi, dinnanzi a un grande affresco, quasi di natura pittorica – di cui riparleremo –, in cui domina la fantasia del poeta, che dopo questo momento si avvia alla conclusione della canzone, concedendosi per la prima volta alla diretta imitazione dal modello antico (vv. 121-125):
Prime divelte, in mar precipitando,
spente nell’imo strideran le stelle,
che la memoria e il vostro
amor trascorra o scemi.
La vostra tomba è un’ara.
Ovvero “ara la tomba”, bōmòs d’ho taphos, come scrive il vero Simonide, con una dipendenza che lo stesso Leopardi segnala nella dedicatoria al Monti4. Ma, a ben vedere, anche i precedenti versi leopardiani traggono ispirazione dal frammento di Simonide: “L’offerta di sé stessi alla morte / non oscurerà la squallida ruggine / del tempo, domatore del ricordo”. Identico in entrambi è il concetto che il tempo, che pur tutto travolge, quindi pandomatōr, possa generare oblio sulla memoria o sulla sepoltura dei caduti delle Termopili. In particolare l’aggettivo pandomatōr riferito al “tempo”, chronos, rende ragione della similitudine, di rara bellezza poetica, relativa alle stelle destinate a precipitare nella profondità degli abissi marini. Ciò potrà pure avvenire per opera del “tempo, domatore del ricordo”, ma un tale sovvertimento dell’ordine cosmico avverrà prima, e non dopo, che sia scemato il ricordo degli eroici caduti.
Abbiamo qui evidenziato i prestiti classici, o i materiali antichi, confluiti nella canzone All’Italia, con un’operazione che il più delle volte stupisce per la forte valenza ideologica con cui il giovane Leopardi seleziona i suoi referenti storiografici o i suoi modelli poetici. Egli si muove non solo con la sensibilità di un poeta greco, ma con l’animo e lo spirito di un antico spartano; per questo predilige alla vulgata ‘ateniese’ di Erodoto la tradizione confluita in Diodoro. Potremmo essere tentati di dire che questi è da lui preferito in quanto testimone del frammento dell’encomio di Simonide, ma sarebbe una banale semplificazione. Leopardi sceglie consapevolmente Diodoro, contro Erodoto, perché ideologicamente deve operare una scelta fra una tradizione spartana e una vulgata ateniese.
Quest’ultima celebrava sì il fatto d’arme delle Termopili, ma senza accennare al dubbio episodio dell’assalto notturno all’accampamento di Serse; senza farne né la prima tappa né la pietra miliare della vittoria greca sul barbaro, che, per Erodoto, è – e può essere solo – di marca ateniese; e senza sottacere che i Trecento, in proprio, per quanto valorosi, mai avrebbero potuto impedire alla montante marea persiana di dilagare fino ad Atene, dandola alle fiamme. Il Leopardi non soltanto è cantore dei caduti delle Termopili, ma teorizzatore del paradigma della vittoria dei vinti; per questa ragione non può riconoscersi nella vulgata erodotea, anche se è la più vicina agli avvenimenti e di fatto la più genuina. Non ha quindi alternativa nello scegliere Diodoro contro Erodoto, che di certo ha ben presente e da cui attinge più che altro materiali accessori, e mai ‘firmati’ o comunque ideologicamente qualificanti. Agli eroici caduti va il merito della “libertà degli Elleni, anziché agli altri che dopo vinsero le battaglie contro Serse”, sentenzia Diodoro, e tale frase lapidaria è il suo vangelo.
I Trecento sono caduti in nome di un codice d’onore e di un valore militare, cioè di una areté, che è la medesima esaltata da Tirteo in un carme già riecheggiato dal Leopardi. Quella areté che porta l’elegiaco antico ad ammonire che i combattenti per la patria mai devono abbandonare il proprio posto in battaglia e, a sua volta, Diodoro (11, 11, 1) a riaffermare che gli Spartani di Leonida “mai abbandonarono il posto di combattimento loro assegnato dall’Ellade”. Quella areté che porta ancora l’elegiaco antico a connotare come ‘vigliacca’ la fuga (fr. 10 W., 7) e ‘bella’ la morte e, a sua volta, nel medesimo luogo, Diodoro a proclamare che gli Spartani di Leonida “scelsero di morire da eroi, anziché di vivere da vigliacchi”.
In conclusione, nella narrazione diodorea preponderante è il motivo della vittoria dei vinti, i quali né abbandonano il proprio posto di combattimento, né scelgono di vivere con vergogna. Proprio per il loro sacrificio l’Ellade è salva già prima che altri, a Salamina e a Platea, disperdano l’armata persiana. Dunque la vittoria dei vinti! Questo il tema che affascina e conquista l’immaginario del Leopardi, che parla al poeta e lo porta, con scelta ardita, a privilegiare disinvoltamente Diodoro contro Erodoto.
Tema che spiega altresì come il componimento leopardiano si apra sulla vista di romanissimi ruderi ma trascorra poi, in forma contraddittoria, e senza soluzione di continuità, dall’exemplum latino al parádeigma ellenico, collocandosi con ciò oltre il solco della tradizione petrarchesca cui, almeno in apparenza, tenta di uniformarsi. La ragione è semplice: nessuna memoria archeologica o saga eroica di marca latina può offrire al poeta materiali di supporto per celebrare la vittoria dei vinti. Per questo, egli ricorre ai materiali dell’Ellade per tessere l’ordito della canzone All’Italia. Né, la sua, sarà avvertita dai contemporanei come operazione di retroguardia, o priva di spessore ideologico, ché la poesia e la versificazione patriottica del Risorgimento trarrà proprio da questa canzone incentivo per coniugare insieme il paradigma della areté greca con l’elogio della virtù sfortunata.
3. “E nel cader vincesti”
Carducci docet, stagliandosi sui minori con maggiore forza e più robusto empito poetico. Nel 1868, in Giambi ed Epodi, in un’ode saffica rimata scritta Nel vigesimo anniversario dell’VIII agosto MDCCCXLVIII, cioè nell’anniversario dell’insurrezione bolognese del 1848, così commemorava i giovani caduti nell’eccidio:
O forti di Bologna, a voi la fuga
de’ nemici irraggiava il guardo estinto;
e, mentre posa ed il sudor s’asciuga,
– “Abbiamo vinto” –
disse, chinato sopra il sen trafitto.
In queste parole5 rivive la lezione del Leopardi circa il sacrificio eroico dei vinti destinati in eterno a essere vincitori; come, di lì a un ventennio, sarà vincitore il più celebre tra i vinti dell’Ottocento, il Garibaldi ferito nelle foreste calabresi dal fuoco dei bersaglieri del regio esercito. Così il nostro poeta, memore del motto insurrezionale “Roma o morte”, in Levia Gravia, nelle strofe di Dopo Aspromonte:
Chi vinse te? deh, cessino
i vanti disonesti:
ti vinse amor di patria
e nel cader vincesti.
Che lo spirito leopardiano della canzone All’Italia aliti dietro i versi carducciani che abbiamo riferiti traspare con limpida evidenza; ma, se ne vogliamo conferma, torniamo all’episodio dell’insurrezione bolognese del 1848. Il poeta ne commemora l’episodio anche in Juvenilia, nei sonanti decasillabi di Sicilia e la rivoluzione scritti nel 1860:
Dove sono, o Bologna, i possenti,
i guerrier de la tua Montagnola?
Quei che incontro a’ metalli roventi
volan come fanciulle a danzar?
Qui l’influenza leopardiana non è solo di carattere concettuale, ma è precisa eco fonica e semantica dalla raffigurazione in movimento dei Trecento che “parea ch’a danza e non a morte” andassero. Né l’emulazione dalle strofe della canzone All’Italia si limita al tema della vittoria dei vinti, giacché anche la figura di Simonide, per debito della riattualizzazione operata dal Leopardi, conosce una sua fortuna nell’Ottocento dei minori. Basti citare due esempi, l’uno patriottico e l’altro anarchico.
Il pressoché ignoto versificatore Angelo Tomaselli, che pubblica nel 1887 i suoi Momenti lirici (con la seconda edizione del Carme augurale), è un patriota non privo di note di malinconica disillusione per il tramonto degli ideali mazziniani ispiratori della Repubblica Romana del 1848. Così scrive in Variazioni romantiche6:
O Goffredo Mameli! Biondo e gentil cantore
salutante agl’italici lidi la libertà,
così cadevi: e il vergine tuo verso ebbro d’amore
avea fulgori e fremiti di classica beltà.
I “fulgori e fremiti”, per la loro “classica beltà”, evocano il Simonide del Leopardi, così come i caduti, con Mameli, nella difesa di Roma compiono gesta non inferiori a quelle degli Spartani alle Termopili. “Vergine” è il verso del poeta perché non ancora contaminato dalla retorica dell’Italia monarchica; “ebbro d’amore” perché proviene da un sacro cantore che, come il poeta greco, inneggia al sacrificio eroico per una lotta di “libertà”.
L’altrettanto ignoto Domenico Milelli, ex seminarista e volontario garibaldino, è un irregolare, un anarchico, che paga in privazioni e persecuzioni la sua fedeltà alle idee rivoluzionarie. Pubblica, semiclandestino, nel 1873, il volumetto In giovinezza, in cui si legge un Carme comunardo dedicato a Enotrio Romano, cioè al Carducci dell’Inno a Satana, al poeta della rivolta, non ancora vate nazionale. Il carme7, per metro e per stile, imita le ‘barbare’ odi saffiche del dedicatario, e in una strofe si legge:
Le porte s’aprano; s’apran nel tempio
le porte, e cantici darà Simonide
e Alceo novissimi in metro celere
inni a’ tuoi militi.
Da’ labbri morbidi, dagli occhi glauchi
Minerva e Venere al proletario
daranno gaudii d’amore e idalie
le rose Apolline.
L’evocazione della figura di Simonide, attraverso più tramiti letterari, rimanda per la sua fortuna sempre al Leopardi. Quella di Alceo direttamente al Carducci che più volte lo raffigura con il fiasco in mano nel mentre brinda, nella sua Mitilene, alla morte violenta del tiranno. Con un brindisi che però – contrariamente a quanto ritiene il poeta e professore – è di ‘destra’ e non di ‘sinistra’, giacché Alceo nella sua isola è un esponente dell’aristocrazia che alza il calice a plaudire all’uccisione di un capopopolo rivoluzionario, che è un nemico di classe. Al “proletario”, tramite l’intervento di dèi pagani, promette poi nel proprio riscatto anche “gaudii d’amore” in ossequio a un suo personale credo che mescola insieme eros e rivendicazioni sociali.
In effetti, il richiamo al Milelli può apparire fuori luogo, ma segna pur sempre una traccia della fortuna del Leopardi, senza le cui strofe il cantore anarchico mai sarebbe approdato a Simonide, percepito, seppure in forma sottintesa, come un cantore della libertà alla stregua del ‘frainteso’ Alceo carducciano. Né devono stupire i suoi richiami alla classicità giacché fino al primo decennio del Novecento anarchici e benpensanti, socialisti e conservatori usano il medesimo linguaggio e le medesime immagini evocative. Per esemplificare, possiamo ricordare che in uno dei canti della lotta anarchica la Comune di Parigi del 1871 – da sempre simbolo ed emblema di ogni internazionalismo proletario – viene sorprendentemente evocata insieme alla memoria dell’immortale eroe delle Termopili; così nelle strofe di Dimmi bel giovane8:
Io pugno intrepido
per la Comune
come Leonida
saprò morir.
4. “L’aurora... o la morte?”
Il lettore ricorderà come Erodoto (7, 175-224) narri che i Focidesi, incaricati da Leonida della difesa dei sentieri montani dell’Eta, non abbiano fatto buona guardia. Soltanto troppo tardi si sarebbero accorti dal “calpestio delle foglie” di essere stati accerchiati alle spalle dai Persiani guidati da Efialte, il traditore a conoscenza di una via sconosciuta. Leonida, al mattino seguente, resosi conto di essere stato preso tra due fuochi, avrebbe congedato gli alleati, rimanendo da solo con i trecento Spartani, e in aggiunta pochi Tespiesi, a difendere il passo testimoniando con l’eroico sacrificio la fedeltà agli ideali di dedizione alla patria. Il vate acarnano Megistia su invito di Leonida avrebbe potuto “la morte schivare”, ma non volle abbandonare “i guerrieri di Sparta”. Egli che, dopo avere osservato le vittime, aveva decretato come “con l’alba sarebbe giunta per essi la morte”, hama ēoî sphi thánaton.
Orbene, se Leopardi fa propria la narrazione di Diodoro, Pascoli in Odi e Inni, nel componimento Ad Antonio Fratti, riattualizza la vulgata erodotea del fatto d’arme delle Termopili. La sua rievocazione ha per sfondo dichiarato la Romagna, che è la terra dove, nel 1897, a fine secolo, Ricciotti Garibaldi, il figlio dell’eroe, organizza le colonne di volontari italiani che andranno in Grecia per coronare l’aurora di un nuovo Risorgimento. Di qui partono, per combattere sotto le sue bandiere, giovani di nuova fede socialista, o ex giovani di vecchia militanza repubblicana, militanti nei partiti della sinistra, e per lo più già allievi in Bologna del professore e senatore – oltreché poeta – Giosuè Carducci, ormai però da loro contestato per la senescente involuzione monarchica.
Tra questi, tra gli ex giovani, v’è Antonio Fratti, veterano garibaldino e deputato repubblicano al parlamento per il collegio di Ravenna. Egli muore a Domokòs, un villaggio della Tessaglia limitrofo alla località delle Termopili, e la sua morte per mano dei Turchi e il sito dello scontro, dove rimane sul terreno, suggeriscono alla fantasia del Pascoli il parallelo evocativo con il sacrificio dei Trecento di Leonida (vv. 1-20):
Era sui culmini, o forte,
era l’aurora sul monte,
quando, quel giorno, la fronte
volgesti alla luce lontana?
era, tra i cantici della diana,
l’aurora... o la morte?
Chi discendeva a quell’ora
per le boscaglie di querci
col calpestio d’un esercito
grande sopra aride frondi?
chi salutarono i rombi profondi?
la morte... o l’aurora?
Ché tu sapevi dal vate Acarnane,
la sorte qual era.
[...]
Disse: – Adornatevi, eroi;
cingete ai capelli le bende!
ché con l’aurora tra voi
la morte domani discende –.
Il “calpestio” è quello dell’avanguardia persiana del Gran Re che aggira il passo delle Termopili, ma i “rombi profondi”, riuditi a Domokòs, sono quelli del cannone turco. La memoria storica intrecciata agli accadimenti del presente è – l’abbiamo detto – suggerita da Erodoto: suo è il racconto dell’eroismo di Megistia, del vate che rifiutò di abbandonare Leonida e i “condottieri” di Sparta; suo è il ricordo del vaticinio di quest’ultimo con la sovrapposizione martellante, e quasi ossessiva, dell’aurora e della morte. Il paradigma storico-mitico rimanda di nuovo all’epopea delle guerre persiane, e non senza originalità di scelta tematica. La morte del romagnolo Fratti ispira sì al poeta il paragone con quella dell’oplita spartano di Leonida, ma in una cornice tumultuosamente intrisa di abbaglianti rifrangenze risorgimentali; dominata da un’esasperata equiparazione di Turchi e Persiani, da una turbinosa commistione di memorie elleniche e ideologie garibaldine, da un’assillante sovrapposizione di giubbe rosse e clamidi purpuree (vv. 41-46):
Oh! non da Sparta la possa,
né tu la voglia pugnace,
né l’ubbidire che tace
tra sé venerando il destino.
né tu da Sparta l’avesti, o latino,
la clamide rossa.
Il Fratti rinnova il mito dei Trecento, ma egli non viene da Sparta, bensì da Ravenna sacra alle ultime memorie dell’impero di Roma (cioè, dalla città “ch’ospite accolse i penati e l’imperio / di Roma morente”); e non veste la “clamide rossa”, la stolè phoinikís, bensì la giubba garibaldina. Egli, nel proprio “ubbidire che tace”, è certo sollecito al “monito / di leggi della patria” come l’oplita del celebre epitaffio attribuito a Simonide9, ma ancora prima è obbediente al richiamo insurrezionale della sua Romagna, cioè della terra che, nel 1849, casolare per casolare, e villaggio per villaggio, protesse Garibaldi in fuga dalla pineta di Ravenna, giacché “se uno squillo si senta / passar su Romagna la forte, / tutti d’un cuore s’avventano / tumultuando alla morte”.
Ma l’inno al Fratti, insieme alla nota per l’esaltazione della patria ravennate, e alla rifrangenza speculare con l’epopea delle guerre persiane, testimonia ancora una connotazione di patetica nostalgia per la grande stagione garibaldina; quasi a volerla estraniare dalla dimensione avvilente del presente, quasi a volerla proiettare in una dimensione mitica che la disgiunga il più possibile dall’Italia umbertina delle ripetute disfatte coloniali e delle reiterate frustrazioni internazionali. Se rosse sono le clamidi purpuree degli opliti spartani, più rosse ancora sono le giubbe garibaldine dei volontari accorsi, con l’eroe dei due mondi, all’epica difesa di Roma nella primavera del 1848, prima che egli, infrantasi la grande illusione, si vedesse costretto a riparare fuggiasco verso l’estremo rifugio ravennate (vv. 53-60):
Ma più vivaci, strie lunghe di fuoco,
gittò le sue turbe
fulvo un eroe, perseguendo nel fioco
crepuscolo l’Urbe...
Ciò fu nei tempi che ai monti
stridevano ancor le Chimere,
quando nei foschi tramonti
Centauri calavano a bere...
Con il Fratti muore a Domokòs, muore alle Termopili, anche l’ultimo sogno di eroismo del Risorgimento di marca garibaldina. Ma in Italia è già morto da tempo immemorabile. La cornice mitica di centauri e di chimere proietta l’ombra dell’eroe e del guerrigliero non solo in una remotissima storia del passato, ma addirittura in una protostoria leggendaria: perché l’epopea risorgimentale sia eroicizzata al di là della dimensione avvilente del tempo presente, perché sia sentita come espressione di una stagione di gloria morta per sempre.
Oramai, nella crisi di fine secolo, e nelle angosce che ne conseguono, non resta che aspettare l’arrivo dei nuovi barbari, ovvero – e non senza apprensione – dell’eroe deputato ad arginarli.
I primi sono quelli che Costantino Kavafis, nel 1903, ai primordi del nuovo secolo, e sempre ricorrendo al paradigma delle guerre persiane, raffigura nei barbari che un Efialte qualsiasi condurrà a dilagare oltre le Termopili, difese da uno stuolo di onesti, “giusti e retti in tutte le azioni”, e per questo destinati a soccombere. Votati a una morte che però prevedono perché consapevoli “che alla fine apparirà un Efialte / e i Medi passeranno”, k’oi Mēdoi epi télous tha diaboune, secondo i versi di Termopili, una lirica ribadita nel suo contenuto dalla non meno nota Aspettando i barbari, che invece è ambientata a Roma nell’estremo suo tramonto.
Il secondo, l’antagonista dei barbari, è quello teorizzato dal D’Annunzio del libro di Elettra come “eroe che verrà” o “eroe necessario”; per il poeta una reincarnazione di Garibaldi, che, di fatto, a forza di nazionalistici auspici, risorgerà: non però dalla Liguria, ma dalla Romagna, non però indossando una ‘clamide’ rossa, ma una camicia nera. Ma se D’Annunzio resta nel vago, e non possiamo imputargli di aver divinato la storia futura, è Pascoli che ci aiuta a delimitare nel presente lo spazio di azione dell’eroe destinato a risorgere. Il poeta sul crinale del secolo auspica che il nuovo Garibaldi riviva non soltanto in funzione di un confuso programma di riscatto politico e morale, ma per capovolgere le sorti dell’Italia in relazione alle deluse aspirazioni coloniali e alle frustrate rivendicazioni nazionali sulle terre irredente.
La prima nota come sempre è celata in un ovattato contesto di sollecitazioni umanitarie; la seconda è scoperta e palese, e il Pascoli, tramite un artificio di poeta, riesce a proiettare il mito garibaldino nell’Africa, nelle province irredente, in Istria e, non a caso, in Grecia, sulla cui menzione è bene soffermarci perché interessa da vicino il nostro assunto. In Manlio, un componimento di Odi e Inni, scritto nel gennaio del 1900 per commemorare un figlio di Garibaldi scomparso ancora giovane, egli si figura che il padre, ignaro delle cause accidentali della sua morte, si interroghi nella tomba e si domandi su quale campo dell’onore questi sia perito e di quali eventi sia stato testimone e protagonista.
Nella rievocazione di una molteplicità di accadimenti, egli immagina che Manlio, indossando nuovamente la camicia rossa, possa anche essere deceduto in Tessaglia o nell’Egeo per combattere contro i Turchi e vendicare la sconfitta greco-garibaldina del 1897, tanto – come diremo – nell’isola di Creta quanto sul continente, a Domokòs, nel sito delle Termopili (vv. 16-19):
O sotto gli olivi di Creta,
cercando le mandre disperse?...
Tra il mare e gli sproni dell’Eta,
nell’ombra dei dardi di Serse?...
Con questa strofe che rimanda, non senza compiacimento, alla memoria dell’inno Ad Antonio Fratti si ritorna all’allusione criptica sotto il consueto velame pascoliano della mimesi storica. Ed è sempre Erodoto (7, 226) a suggerire al poeta lo scenario per la trasfigurazione tra il passato e il presente, scandita dal ricordo degli Spartani alle Termopili (presso gli “sproni dell’Eta”) e dei dardi di Serse che, in quell’occasione, avrebbero dovuto ottenebrare il sole. Il lettore si ricorderà senz’altro del lacedemone Dienece che, alla vanteria del barbaro di possedere tante frecce da oscurare la luce del sole, avrebbe risposto che “dal momento che i Persiani oscuravano il sole, la battaglia si sarebbe svolta all’ombra”.
Dunque ancora una volta grecità e ideologia garibaldina! Abbiamo già detto che buona parte dei volontari che vanno a morire in Grecia erano ex allievi romagnoli del Carducci. Ora basti aggiungere che egli, in pieno parlamento italiano, nell’aprile del 1897, aveva ricordato le parole che Euripide (Iph. Au. 1400-1401) pone a suggello delle labbra di Ifigenia prossima all’altare sacrificale: “Agli Elleni conviene imperare sui barbari, e non ai barbari, o madre, sugli Elleni”. La citazione (che si conclude con le parole “quelli sono schiavi, noi uomini liberi”) si legge al termine di un intervento in senato10 volto non solo a giustificare l’avventura dei volontari italiani combattenti sul suolo di Grecia ma, addirittura a perorare, contro i Turchi, un intervento diretto della nazione, per il poeta colpevolmente allineata alla politica del non intervento voluta dalle grandi potenze.
Il poeta, professore e senatore, plaude all’impresa contro i Turchi purché essa si tramuti in guerra europea in nome della grecità e in nome della civiltà, quasi fossero due riferimenti sinonimici. Gli Elleni – cui si uniranno i volontari italiani nelle acque infide dell’Egeo e sulle catene, ancora più insidiose, dell’Epiro e della Macedonia – sono prefigurazione dei popoli civili, i bárbaroi di Euripide delle razze inferiori: il paradigma storico, che sprona all’azione, è sempre quello delle guerre persiane, che il Carducci evoca più volte tanto nel suo discorso quanto nella trasfigurazione mitica del conflitto contro il barbaro che Euripide giustifica nella sentenza di Ifigenia.
5. “Eran trecento”
La citazione con cui apriamo il paragrafo ci rimanda all’America Latina e al Rio della Plata. Il suo autore è un guerrigliero che, per profonda convinzione ideologica, è combattente in nome della libertà:
[...] Oh! dell’Italia
diran, se degni furon figli i forti
che Libertade proppugnâr sui lidi
sorridenti del Plata. Ove s’inoltri
del Salto alle spumanti cataratte
udrà de’ suoi tai fatti, che le gesta
uguaglian dei trecento di Leonìda.
Così Giuseppe Garibaldi negli endecasillabi foscoliani, e un po’ zoppi, del suo Poema autobiografico (2, 47-53)11, rievocando la “pugna omerica”12 della legione italiana nell’azione del Salto che prelude alla rivoluzione di Montevideo del maggio del 1846. La spedizione, e la successiva resistenza di un manipolo di uomini, fu tanto eroica da meritarsi, nella rammemorazione postuma del condottiero, il paragone con i Trecento di Leonida. La memoria dei quali è suggellata, nell’Italia risorgimentale, e con afflato collettivo, dalla versificazione della Spigolatrice di Sapri di Luigi Mercantini13, poeta e patriota marchigiano le cui strofe, spesso musicate, accompagnano l’intera epopea dei moti d’indipendenza dell’Ottocento glorificando l’eroismo dei tanti martiri caduti per la causa nazionale. Tra questi spicca la figura, indubbiamente di rilievo, del partenopeo Carlo Pisacane, socialista ante litteram nonostante l’estrazione aristocratica e seguace di Giuseppe Mazzini, con cui, dopo la militanza nella Repubblica Romana del 1848, progetta, nel 1857, una spedizione insurrezionale nel Meridione d’Italia che potesse scongiurare la soluzione monarchica della questione italiana. Fu un disastro ed egli e i suoi caddero a Sapri sotto il piombo della truppa borbonica e i forconi contadini di un proletariato servile incapace di intenderne il messaggio. La Spigolatrice del Mercantini ne rievoca, appunto, l’impresa sfortunata:
Eran trecento, e non voller fuggire;
parean tremila e vollero morire;
ma vollero morir col ferro in mano,
e avanti a lor correa sangue il piano:
fin che pugnar vid’io per lor pregai;
ma un tratto venni men, né più guardai;
io non vedeva più fra mezzo a loro
quegli occhi azzurri e quei capelli d’oro.
Eran trecento, eran giovani e forti, e sono morti!
Così nell’ultima strofe (vv. 42-50): Pisacane guidando un manipolo di trecento eroi muore a Sapri esattamente come Leonida alle Termopili; anzi come un Leonida che, nell’agiografico santino risorgimentale, assume le stesse fattezze di Garibaldi (“Con gli occhi azzurri e coi capelli d’oro / un giovin camminava innanzi a loro”). Di un guerrigliero raffigurato come il Nizzardo della vigilia, con gli occhi azzurri e con i capelli biondi, tratti fisionomici estranei sia a Leonida sia – a quanto ci è dato sapere dai ritratti – a Pisacane. La gentile contadinella, la spigolatrice, come in una stampa popolare, arricchisce di un velo romantico la scena, quasi preludendo alla mondina di Bella ciao. La scena è qui languidamente declinata; ma anche la spigolatrice, come la mondina, o comunque la donna del partigiano, ha nelle narici l’odore acre del fumo e della polvere da sparo (vv. 33-41):
Quel giorno mi scordai di spigolare,
e dietro a loro mi misi ad andare.
Due volte si scontrar con li gendarmi,
e l’una e l’altra li spogliar dell’armi;
ma quando fur della Certosa ai muri,
s’udirono a suonar trombe e tamburi;
e tra ‘l fumo e gli spari e le scintille
piombaro loro addosso più di mille.
Dunque anch’essi “l’un sopra l’altro” caddero trucidati proprio come i Trecento loro predecessori delle Termopili, i quali neppure ricevettero, nel sito della strage, il conforto femminile di un sorriso o di un pianto. Il nesso tra la mondina del partigiano e la spigolatrice dei “trecento” di Pisacane è felicissimo nesso d’artista, e ci è suggerito dalla fantasia del cantautore Luigi Tenco, morto suicida nel corso del Festival di Sanremo del 1967. Una delle sue ‘canzoni di guerra’ selezionate in quell’occasione era Ciao amore ciao, di cui offriamo qualche stralcio:
Li vidi passare
vicino al mio campo
ero un ragazzino
stavo lì a giocare
Erano trecento
erano giovani e forti
andavano al fronte
col sole negli occhi.
E cantavano cantavano
tutti in coro
ciao amore ciao amore
ciao amore ciao
[...].
Avrei dato la vita
per essere con loro
dicevano domani
domani torneremo
[...].
Ma una sera ad un tratto
chiusi gli occhi e capii
e quella notte in sogno
io li vidi tornare.
Qui il ricordo è quello della guerra partigiana, combattuta con tutta probabilità sull’Appennino tra Piemonte e Liguria; domina la scena un ricordo infantile di trecento combattenti che vanno al fronte “col sole negli occhi”. L’evidenza del loro numero evoca d’incanto i Trecento di Leonida, seppure richiamati di proposito (“erano trecento / erano giovani e forti”) attraverso il filtro musicale della versificazione del Mercantini. Né manca loro, come ai caduti delle Termopili, e come ai patrioti periti nelle lotte risorgimentali, il conforto della speranza – come diremo – di vedere scoperchiate le loro tombe; qui adombrato nel “sogno” che li vede “tornare”. Mentre l’ossessivo “ciao amore ciao” pervade tutto il componimento con scoperta allusione alla già ricordata e più nota canzone partigiana.
Dai caduti di Sapri ai partigiani morti per la libertà, il paradigma è sempre lo stesso. Il medesimo che rimanda ai Trecento delle Termopili, e che cento anni prima detta al Carducci di Juvenilia il sonetto in Santa Croce per commemorare i giovani caduti a Curtatone e Montanara; morti, come i Trecento, per consentire, nel maggio del 1848, ai loro fratelli in armi un’altra vittoria, anche se un po’ meno epocale: non quella delle Termopili con Leonida, ma quella di Goito combattuta sotto le insegne sabaude di re Carlo Alberto. Tale la prima quartina, fin troppo classicheggiante e fin troppo di maniera (vv. 1-4):
Non carmi, non ghirlande e non concento
di salmi all’ombre de’guerrier si doni:
Grecia nell’aspro dì de le tenzoni
diede inferie di sangue a’ suoi trecento.
Solo il sangue deve essere protagonista al funerale dei trecento volontari, solo il sangue e la gioventù recisa a testimoniare il loro sacrificio patriottico, cioè le vere inferiae o solemnia mortis; non componimenti di maniera o corone di fiori o salmi. Il poeta, troppo condizionato da forme arcaiche, tenta invano di dare voce a un nuovo sentire; ma incisivo, comunque, è il paradigma che ne presiede la comparazione tra antichi e moderni.
Abbiamo spinto il lettore a indugiare sul tema dei Trecento in riferimento alla sfortunata impresa di Sapri; e quindi dai moti d’indipendenza a deviare l’attenzione sulla lotta partigiana per riportarla, infine, a memorie patriottiche ottocentesche. Ora, con un’ultima virata, vorremmo proiettarlo, nel 1916, sul teatro della grande guerra e della marcia italiana su Gorizia, preceduta da tante epiche imprese tra le quali, nel Trentino, la strenua resistenza a Passo Buole, che la stampa nazionale designò come “Termopili d’Italia”. L’espressione è ripresa dallo sfortunato e giovane poeta toscano Vittorio Locchi nella Sagra di Santa Gorizia, un poemetto che descrive il fango delle trincee, la pioggia battente, la vita grama del fante, sempre esposto al fuoco nemico e a tutte le privazioni mentre attende il giorno della marcia su Gorizia. Semplice ne è il linguaggio ed epica e popolaresca la forma. Non accenna direttamente ai Trecento, ma, appunto, alle Termopili che ne sono imprescindibile corollario (lassa 9):
Tornava Pasqua di Rose,
con sole rovente d’estate,
annunziando la resistenza
contro l’incendiario,
contro il devastatore,
contro l’infuriato
nemico, che, non potendo vincere,
desolava la terra,
che non voleva arrendersi.
O Passo di Buole,
termopile vittoriosa.
La resistenza al Passo Buole, esposto a sette giorni di bombardamento alla fine di maggio, nella settimana della Pentecoste (della “Pasqua di Rose”), impedì alle truppe austriache l’accerchiamento del fronte italiano. L’eco più immediato di questa nuova “termopile” è suggerito, anche per la più corretta grafia, dal Carducci di Ça ira, in Rime Nuove, con l’espressione “Termopile di Francia”, da cui derivano anche altri echi letterari; il verso è quello dannunziano delle Laudi. Ma originale è la parola del Locchi il quale, per rievocare la marcia su Gorizia, sceglie – seppure su commissione – una propria via, che potremmo definire una terza via: né quella disfattista e anarchica della canzone O Gorizia tu sia maledetta, che costò la fucilazione immediata a non pochi fanti, né quella del D’Annunzio di vuota e autoreferenziale esaltazione bellica.
6. “Si scopron le tombe”
Il lettore ricorderà l’epigramma antico (Anth. Pal. 7, 251) che, commemorando i caduti delle Termopili, afferma che la virtù, l’areté, potrà evocarli fuori dal regno dei defunti: “ma, seppur morti, non sono essi morti / ché la Virtù svegliandoli / con onore li suscita / dalle case dell’Ade”. È il tema, notissimo, della resurrezione degli eroi che anima l’Inno di Garibaldi (vv. 1-10):
Si scopron le tombe, si levano i morti;
i martiri nostri son tutti risorti:
le spade nel pugno, gli allori alle chiome,
la fiamma ed il nome d’Italia sul cor.
[...]
Va fuora d’Italia, va fuora ch’è l’ora,
Va fuora d’Italia, va fuora, o stranier!
L’autore è sempre il Mercantini, il versificatore della Spigolatrice di Sapri, e il titolo originale del componimento è Canzone italiana. Fu presto musicata da Alessio Olivieri, e tutt’oggi fa parte degli inni militari dell’esercito italiano. Anche in questo caso, come per l’anonimo autore dell’epigramma greco, i morti “seppur morti” sono destinati a una forma di resurrezione. Qui essi sono i martiri delle lotte contro lo straniero – anch’esso un barbaro, o per analogia un bárbaros – che sorgono dall’avello con la spada nel pugno perché, contrariamente agli èmuli greci, la loro lotta non è ancora finita, giacché l’inno del Mercantini è scritto nel 1858, nell’anno prima della seconda guerra d’indipendenza. La loro vittoria, tanto nel passato quanto nel futuro, è lasciata presagire dagli “allori alle chiome”, siano essi stati da vivi reali vincitori o la loro morte abbia anticipato e consentito, come per i Trecento, il trionfo di altri.
Chiaramente con l’Inno di Garibaldi non siamo dinnanzi ad alcuna derivazione da modelli classici, ma soltanto a inconsapevoli riattualizzazioni di motivi consimili, rivissuti – a distanza di millenni – in un’analoga chiave emotiva. Ma diversificato ne è il corredo di varianti. Ci limitiamo a due esempi, entrambi posteriori alle strofe del Mercantini: quello di morti, più o meno anonimi, che risorgono per indicare ai vivi la via da seguire nelle imprese future, e quello di morti, ben etichettabili, che, con il loro duce, tornano in vita per adempiere fino in fondo ai propri voti.
Il primo caso ci è prospettato dal Carducci di Piemonte, in Rime e Ritmi, con un secolare ossame di scheletri che riprendono forma al duplice grido di “Italia, Italia” proferito dall’Alfieri e corrisposto dalle “urne d’Aquà e Ravenna”, cioè dalle tombe di Petrarca e di Dante. Schiera di trapassati che grottescamente si rincorre per tutta la penisola, di fatto desertificata e ridotta a cimitero (vv. 58-65):
– Italia, Italia – rispondean l’urne
d’Arquà e Ravenna:
e sotto il volo schricchiolaron l’ossa
sé ricercanti lungo il cimitero
de la fatal penisola a vestirsi
d’ira e di ferro.
– Italia, Italia! – e il popolo de’ morti
surse cantando a chiedere la guerra.
Il secondo caso, non meno raccapricciante, ci è offerto dal carducciano Severino Ferrari che, in un sonetto dal titolo Vecchia e nuova epopea, scritto “per i garibaldini reduci da Domokòs”, resuscita perfino Garibaldi, i suoi militi in camicia rossa, e – non bastasse – pure i loro decrepiti cavalli; in un quadro nel quale la chioma sempre bionda dell’eroe, scossosi dal freddo della morte, suscita amorosi ritorni di fiamma nella deità della vittoria (vv. 5-9):
“Corsero e han vinto!”. Oh sui vecchi cavalli
io vo’ vedere la spettral coorte
dietro al suo duce antico che, la Morte
scossa, innamorava con i gialli
crini di sole la gran dea Vittoria!
L’inno dei garibaldini cantava “si scopron le tombe, si levano i morti”, ed era giusto che, al fine, risorgesse anche il loro duce14.
7. “Era la violenta idra straniera”
Terrificante e travolgente è la smisurata armata di Serse che si avvia a scontrarsi con Leonida alle Termopili. Stando all’Alessandra di Licofrone (vv. 1422-1428) – il lettore lo ricorderà –, avrebbe placato “l’assillo della sete” con “l’acqua di fiumane prosciugate” e avrebbe saziato “la fame” con “alberi da bacche”, dopo averne divelto la corteccia dal “duplice spessore”. Orbene, il quadro è quello dell’orda straniera in tutto simile a un’idra dalle molte teste, che risorge dal proprio sangue, quale, nella tradizione, sarà prescelta per connotare la furia distruttrice e demoniaca di qualsiasi invasore.
Tale, in Licofrone, e in relazione a Serse, l’archetipo o il modello primigenio da attribuire alla rappresentazione di qualsiasi predatore, che con orde ferine discenda da settentrione verso il Mediterraneo. Lo sa bene il Pascoli che riattualizza l’immagine di Serse in quella di Annibale che dalle Alpi dilaga verso le fertili pianure d’Italia. Il debito probabilmente è dovuto a inconsapevole riproposizione di modelli stereotipi, anche se nella pagina del poeta, ultimo degli umanisti, non è neppure da escludere una derivazione diretta15, o per sovrapposta memoria, delle Puniche di Silio Italico (4, 189-195). Nel 1911, nell’anno della guerra di Libia, nel tardo Inno a Torino il Pascoli così dipinge la forza d’urto e l’inarrestabile sete di distruzione della schiera punica (lassa 4):
Alle sue spalle, un fragor grande, crolli,
fuga, tumulto, e scrosci di foreste
schiantate e grosso crepitar di fiamme.
Era un serpente enorme che con torve
spire seguiva, e i culti campi larga-
mente prostrava e sradicava i boschi
e con la coda distruggea le intere
città; che tutto con la bocca ardente
dava alle fiamme, insieme, ed alla morte.
Era la violenta idra straniera,
la sventura d’Italia, che d’allora
avrebbe osato rompere i confini
sacri, in eterno, e sulla devastata
terra l’immane corpo arrotolare
e covar sopra ceneri di messi
e sopra roghi di città distrutte.
L’idra è qui esplicitamente evocata nello sfondo sonoro di fragori che, provocati dagli alberi divelti, sono i medesimi che suscita la terrificante marcia di Serse: ciò che atterrisce entrambe le volte sono proprio i rumori. Il Pascoli che così scrive è lo stesso dell’orazione La grande proletaria si è mossa; è il Pascoli che, in nome di un vago socialismo umanitario, arriva a giustificare l’avventura coloniale, proponendosi per vanità come vate nazionale. Ma quanta distanza rispetto al D’Annunzio della ‘quarta sponda’ e ai dannunziani artefici della propaganda ufficiale con occhio rivolto soltanto alla vittoria offensiva degli Scipioni. L’Inno a Torino riattualizza sì la figura di Annibale, dalle Alpi aggressore della penisola; ma non per rievocare la mitopea delle vittorie latine, bensì i lutti allora sofferti dall’Italia, i cui figli diseredati devono al presente trarne giustificazione per l’impresa ‘umanitaria’ in terra di Libia. Ragione per cui rievoca le molte sofferenze patite da Roma per la guerra aggressiva di Annibale, le lacrime dei popoli d’Italia dinnanzi alle devastazioni provocate dalla sua orda barbarica, la cui offensiva presenta come ancora invendicata, attribuendo ad Annibale, che punta alle fertili distese della pianura padana, connotati barbarici e demoniaci. Egli è il prototipo di qualsiasi conquistatore assetato di sangue, di strage e di morte. La sua armata – come quella di Serse – è personificazione mostruosa della “violenta idra straniera”, che, nelle immani spire serpentiformi, ogni cosa travolge al proprio passaggio, abbattendo città, radendo boschi e seminando deserto su pascoli e colture. Né il Pascoli è certo digiuno da rappresentazioni di tale intensità se nei Poemi conviviali, nella chiusa superba di Gog e Magog (lassa 19), arriva a ricordarci che “l’Orda” orientale delle plebi affamate e sottoculturalizzate, violando i propri confini, “sboccò” nell’Occidente “bramendo, e il mondo le fu pane”.
Entrambi i dettati pascoliani – tanto quello relativo ad Annibale quanto quello pertinente l’orda di Gog e Magog – traggono remota origine, o comunque alimento, dalla figura mostruosa dell’idra, cui, con riferimento alle guerre persiane, possiamo assimilare la descrizione, offertaci da Licofrone, della marcia devastante di Serse. Ma l’immagine dell’idra, al di là della rappresentazione allegorica di un esercito invasore, può avere anche altre, più circoscritte, accezioni: può, in senso figurato, impersonare il ruolo dell’annientatrice di principi etici del consorzio umano; oppure, in senso stretto, contraddistinguere uno schieramento nemico che, dato per vinto su un campo di battaglia, risorge inaspettatamente su un altro.
È di nuovo Giuseppe Garibaldi nel Poema autobiografico (1, 70-76)16 che, nel primo caso, ci soccorre con un esempio:
[...] e l’anima
immacolata la final battaglia
sospira, ove decisa sia la sorte
dell’Italia e di tutti, ove una volta
sulla liberticida Idra travolta
piombi sicura scimitarra e il mondo
del pestifero suo morbo sia terso.
I versi sono scritti nel romitaggio di Caprera, dopo il 1860. La “final battaglia”, sospirata con amarezza dal condottiero, è quella per la presa di Roma. La classe che attenta all’unità, che accorda protezione al papa e ai preti, è in tutto simile a un’idra liberticida, immensa e ramificata, e forse più perniciosa di quella da lui incontrata sui campi di battaglia. Sulla quale deve calare senza appello la mannaia del carnefice.
Diramata nel paesaggio e risorgente dal proprio sangue è, invece, l’idra che si materializza quale personificazione di un esercito in armi; come quello austriaco che ci descrive, in terzine dantesche, nel 1863, l’ignoto poeta e patriota toscano Emilio Frullani nel suo poemetto Raniero17:
Ma risurse a Magenta e dal raccolto
fior della federata oste respinto
fra rinnovate stragi andò travolto.
Indi, com’Idra, del suo sangue tinto
dai colli rispuntò di Solferino,
audace sì che parve dire: Ho vinto.
Il soggetto è l’esercito austriaco, e l’azione ricordata si colloca nel corso della seconda guerra d’indipendenza tra il combattimento di Magenta e quello, decisivo, di Solferino, dove, a dispetto della resurrezione dell’idra straniera, e a dispetto di tanto sconsiderati auspici, le truppe franco-piemontesi ottennero una decisiva vittoria. L’io narrante nel suo racconto, ricco di altre gesta patriottiche, ha per interlocutrice una suora che l’assiste in punto di morte.
8. “È questo il fiore del partigiano”
“Tal ci assegnò destino la Fortuna / ché quivi soccombemmo nello sforzo / d’apporre la corona / di libertà dell’Ellade sul capo”. Le parole sono pertinenti un epigramma (Anth. Pal. 7, 253) già noto al lettore, che ci rimanda al pieno IV secolo a.C., quando è riproposto, nella forma e nel contenuto, per commemorare guerrieri caduti per la libertà combattendo, a Cheronea, o nella guerra lamiaca, contro un nuovo barbaro, che è il macedone. Non a caso, allora, il decreto ateniese di Eucrate, con misure estreme contro sovvertimenti istituzionali, è inciso su una stele ornata di un rilievo che rappresenta la figura simbolica della Democrazia nell’atto di incoronare l’immagine allegorica del popolo di Atene18. L’abbiamo detto, come pure abbiamo ricordato che nel nostro epigramma è descritta un’immagine pressoché analoga: quella di giovani che, nella lotta contro il barbaro, sono deceduti nello sforzo di apporre – letteralmente – “la libertà sul capo dell’Ellade”, Helladi gar speúdontes eleutheríēn peritheînai. Anche qui ritroviamo il motivo di una figura simbolica, la Libertà, che deve cingere di corona, arborea o floreale, un’altra figura allegorica, l’Ellade.
Orbene, se la corona dell’epigramma fosse floreale, o parzialmente floreale, triplice sarebbe il messaggio dell’antico epitaffio, esprimibile in tre parole: fiore, morte e libertà. La morte è in nome della lotta di libertà, il fiore per l’anelito di coronarne la conquista. Parole chiave – fiore, morte e libertà – né vuote né effimere giacché, a distanza di millenni, risuonano ancora con un profondo impatto nelle canzoni di popolo che sacralizzano il sacrificio del sangue donato per la patria. L’insegnano le strofe, già richiamate all’attenzione, di Bella ciao:
[...]
stamattina mi sono alzato
e ho trovato l’invasor.
[...]
E se io muoio da partigiano
tu mi devi seppellir.
[...]
E seppellire lassù in montagna
sotto l’ombra di un bel fior.
[...]
È questo il fiore del partigiano
o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao.
È questo il fiore del partigiano
morto per la libertà.
La lotta anche in questo caso è contro un “invasor”; non più il persiano, né il macedone, né il cartaginese, né l’austriaco da ricacciare oltre il Brennero, ma, dopo l’8 settembre del 1943, il tedesco del Terzo Reich. Tutti i caduti per la libertà, però, e in tutte le età della storia, evocano di per sé l’immagine dei fiori, sia per la giovane età sia per la natura di steli stroncati dalla falce della storia, succinsi aratro come ci insegnano i poeti della classicità. La libertà è un bene sempre da riconquistare in una lotta che non ha mai termine, e per questo la “sua ghirlanda” è macchiata del sangue da cui nascono le rose. Così, con un’espressione felice, il Carducci di Giambi ed Epodi nell’ode già ricordata che commemora l’insurrezione bolognese del 1848:
in mezzo al sangue della sua ghirlanda
crescon le rose.
Ne fa sua la lezione il carducciano Gian Pietro Lucini, rivoluzionario e anarchico, con altro sentire e con stilemi che già preludono al Novecento. Nel 1898 in La Commune19 riprende il tema del fiore e del sangue con note che, quasi in scabra forma metafisica, paiono anticipare il motivo di Bella ciao:
Parigi in fiamme cadde: e Satory s’inzuppa
del nostro umore e attende che la pioggia vermiglia
produca un altro fiore che non debba appassire.
Sartory è la località nei pressi di Versailles che fu teatro di esecuzioni in massa dei comunardi, del cui sangue si imbeve la terra inzuppata da una “pioggia vermiglia” che alimenterà un “fiore” destinato, come quello del partigiano, a non appassire. Ancora una volta il trinomio: fiore, morte e libertà! Altri fiori, rossi come “macchie di sangue”, si stagliano poi nella poesia del Lucini, con venature dai colori futuristi, in un lugubre balletto di due cadaveri, l’assassinato Umberto I e il suicidato Gaetano Bresci, suo assassino:
Dei rossi fiori sopra la rossa aurora;
macchie di sangue, le nuvole del cielo:
macchie di sangue, garofani rossi,
tra l’erba grassa.
In questo caso: fiore, morte e lotta anarchica. Il componimento20, che si intitola Per una fantasima, sopra due cadaveri, è scritto nel 1901 ed edito in Revolverate del 1909. Di lì a soli sei anni, mentre nell’immaginario collettivo si stagliano caduche le foglie ungarettiane, anche la grande guerra conosce i suoi fiori che sono le rifrangenze luminose dei bengala premonitori dei colpi del fuoco nemico:
si sentiva nella notte
misteriosa e implacabile
il ta-pum del Cecchino,
il tamburo del Mauser,
lo strepito delle granate,
e nel buio fiorivano
i gigli bianchi dei bengala.
Così Locchi nella Sagra di Santa Gorizia (lassa 3), in un’immagine non priva di originalità, che presuppone le trincee illuminate a giorno dove il fante deve marcire e morire per la libertà delle terre irredente. Mentre altri ‘gigli’, di redenzione, affollano l’immaginario di un secondo poeta-soldato, Clemente Rebora. Il quale in Frammenti Lirici (1, 17-18), con simbologia arborea e floreale, si immerge per sopravvivere nell’elaborazione di un rinnovato trinomio, scandito dai concetti di eternità, di storia e di patria:
[...] a me fusto è l’eterno,
fronda la storia e patria il fiore.
1 Vedi, con ampia documentazione, Braccesi 1995, pp. 13-46.
2 Nella lettera dedicatoria della canzone al Monti. Vedi Flora 1937, p. 148.
3 Ivi, p. 148.
4 Ivi, p. 149.
5 Su cui ora vedi Lavezzi 2011, pp. 69 sgg.
6 I versi sono ora riferiti da Alfonzetti 2011, p. 114.
7 Antologizzato da Masini 1978, pp. 135 sgg.
8 Riferimenti in Pivato 2002, p. 60.
9 Il chiarimento è di Treves 1980, p. 519.
10 Carducci 1887, p. 117.
11 Il luogo è ora antologizzato da Capozza 2002, p. 191.
12 Così nelle Memorie del condottiero, cap. 37, ivi, p. 11.
13 Vedi ora Sirtori 2011, pp. 152 sgg.
14 Un’introduzione al tema in Banti 2011, passim.
15 Licofrone è un poeta di difficile decriptazione, ma è degli inizi del secolo l’edizione con commento di Ciaceri 1901 che avvicina la pagina del poeta al pubblico dotto italiano. Vi attinge sicuramente il D’Annunzio di Maia e di Elettra, vedi Braccesi 1994, pp. 187 sgg.
16 Il luogo è ora antologizzato da Capozza 2002, p. 191.
17 Il luogo è citato da Forner 2011, p. 166.
18 Ogni riferimento – cui già abbiamo accennato – in Guarducci 1987, p. 132, fig. 46.
19 Il componimento è riedito da Masini 1978, pp. 403 sgg.
20 Anch’esso è antologizzato da Masini 1978, pp. 407 sgg.