I.
Gli Spartani alle Termopili

1. Vaticinio per Leonida

Abitanti di Sparta

dalle vaste contrade,

o la patria gloriosa

dai Pèrsidi verrà tutta annientata

o piangerà la morte d’un sovrano

di stirpe eraclea.

Non fermerà dei Pèrsidi la marcia

né di tori l’ardire o di leoni

in lotta contrapposti:

la potenza possiedono di Zeus,

né essi – lo proclamo –

di propria volontà arretreranno

prima che la città

vediate incenerita

o caduto piangiate un vostro re.

Tale la parola della Pizia testimoniata da Erodoto (7, 220, 4), con riferimento ai drammatici eventi del 480 a.C., alla minaccia ormai incombente della seconda guerra persiana. Sparta, di fronte all’offensiva del Gran Re Serse, potrà salvarsi dalla totale rovina soltanto con il sacrificio di uno della sua coppia di monarchi. È questi Leonida che, in accordo ai deliberati della lega panellenica, si attesta al passo delle Termopili, tra Tessaglia e Beozia, per sbarrare la strada all’armata persiana di terra, mentre la flotta capitanata da Atene converge per mare nel limitrofo golfo Maliaco per opporsi alle soverchianti navi da guerra avversarie.

La genesi della profezia è probabilmente da datarsi subito dopo le vittorie sulla flotta del Gran Re a Salamina e sulla sua armata a Platea, e tradisce il momento nel quale, da parte di Sparta, ha inizio il processo di trasformazione della disfatta delle Termopili in una grande vittoria morale.

Leonida aveva con sé trecento Spartiati, guerrieri appartenenti alla classe più alta della cittadinanza ed educati fin dall’adolescenza a divenire delle vere e proprie macchine da guerra al servizio dello Stato. Periranno tutti insieme al loro re, che, al pari di tutti i diarchi spartani, era “di stirpe eraclea”, aph’Hērakléous, secondo un albero genealogico riferito da Erodoto (7, 204), per l’estensione di un intero capitolo, al fine di esaltarne la nobiltà di nascita: “figlio di Anassandrida, figlio di Leone, figlio di Euricratide, figlio di Anassandro, figlio di Euricrate, figlio di Polidoro, figlio di Alcamene, figlio di Teleclo, figlio di Archelao, figlio di Egesila, figlio di Dorisso, figlio di Leobote, figlio di Echestrato, figlio di Egi, figlio di Euristene, figlio di Aristodemo, figlio di Cleodeo, figlio di Illo, figlio di Eracle”. Si salveranno dal massacro delle Termopili soltanto i superstiti dei quattromila opliti peloponnesiaci, unitisi agli Spartiati, e i pochi contingenti delle regioni centrali della Grecia più da presso minacciate dall’offensiva persiana. Si salveranno perché Leonida, all’approssimarsi della catastrofe, li congeda per salvare almeno le loro vite ma anche perché dubita della loro lealtà nel momento della prova suprema.

Con la memoria della morte di Leonida, facilmente post eventum vaticinata dalla Pizia, ci piace aprire questo libro perché consapevoli che nella tradizione poetica, antica e moderna, il sacrificio del re di Sparta è sentito non come disfatta ma come prima tappa della futura vittoria della grecità sul barbaro. Di fatto, il suo suicidio alle Termopili è avvertito quasi fosse una sorta di ‘sacrale’ sacrificio collettivo che al Gran Re, dalla smisurata armata, testimoni con stupore il valore dell’eroismo sfortunato e agli Elleni indichi la via dell’onore nel contrastare gli invasori Persiani, qui definiti “Pèrsidi”, Perséidēs, in quanto per la leggenda discendenti da Perseo, nato da Zeus e Danae e dalla loro ‘pioggia d’oro’.

Questi è un eroe argivo, e non possiamo escludere una sottesa allusione alla cronica rivalità esistente tra discendenti da Perseo e discendenti da Eracle, cioè tra Argivi e Spartani, dato che nel medesimo contesto Leonida è definito “sovrano di stirpe eraclea”. Allusione, al tempo della seconda guerra persiana, tanto più mordente data la posizione neutralista di Argo, che gli vale, da parte della città rivale, l’accusa di ‘medismo’, cioè di allineamento filopersiano1. Come neppure possiamo escludere che l’accenno alla forza – di fatto inefficace – di tori e di leoni alluda, se riferito a Leonida2, al leone di pietra eretto alle Termopili in suo onore o al suo stesso nome quale parlante immagine onomastica3.

2. L’armata persiana

Abbiamo detto che smisurata è l’armata di terra e di mare di Serse. Dei popoli che la compongono, dei loro equipaggiamenti, delle loro armi e del loro variopinto vestiario fornisce un dettagliato elenco Erodoto (7, 61-99), da cui dipende tutta la tradizione successiva. Ma solo la poesia, la poesia dei Persiani di Eschilo (vv. 1-58), celebrando a caldo l’epopea della vittoria, ci offre un’insostituibile suggestione della sua entità e del suo variegato corredo bellico. Eschilo scrive prima di Erodoto, solo otto anni dopo l’evento. La scena teatrale è ambientata in Persia, nel palazzo regale di Susa, presso la tomba del Gran Re Dario, e la parola del poeta mira non tanto a una vuota celebrazione degli eventi quanto a inserire la memoria della vittoria ellenica nell’accettazione di una sofferta presa di coscienza della sconfitta da parte dei barbari, gli unici protagonisti del dramma, qui “valutati nella cornice di una passata grandezza e nella realtà della loro monarchia”4. Il coro apre il dramma con la descrizione dell’invincibile armata di Serse, che però sarà vinta da pochi antagonisti stranieri, votati alla fedeltà di un ideale alieno alla mentalità persiana. Già nell’incipit (vv. 1-61. 134-139), tra luci e ombre, chi parla lascia presagire il suo futuro lamento, che sarà gemito comune volto ad accogliere lo stesso sovrano umiliato, assicurando continuità di azione nella graduale e accettata consapevolezza della sconfitta:

Per l’Ellade partiti

son gli innumeri popoli di Persia.

[ ...]

Alle spalle lasciarono Ecbàtana,

Susa, Cissa, gloriosa roccaforte...

Tutti si dileguarono

cavalcando, marciando, remando;

riuniti in terribile armata.

Partiti son Amistre, Artafrene,

Astaspe, Megabate, condottieri

delle schiere persiane,

vassalli del Gran Re

pur essendo monarchi.

Smisurata l’armata che comandano,

ed essi stessi nel tendere l’arco

nel guidare i corsieri abilissimi,

nell’aspetto terribili,

temerari e superbi

per indole guerriera.

Combattono Masistre e Artembare

sul cocchio, dardi con l’arco saetta

il valoroso Imèo,

Farandace Sostane nella mischia

guidano i cavalieri.

Altri armati provengono

dalla terra del Nilo ubertoso:

Susiscane e l’egizio Pegastàgone

ed Arsame, signore della sacra

Menfi, quindi il reggente, Ariòmardo,

della mitica Tebe.

Con essi, immensa la schiera terribile

dei remiganti del Delta palustre.

Cui seguono le genti raffinate

di Lidia, che sui popoli

dominano del vasto continente.

Le guidano Arctèo e Metrogate

del Re governatori,

con le schiere di Sardi ricca d’oro

montate sopra cocchi galoppanti:

spettacolo tremendo

di onde crinite innumeri

a quattro a sei cavalli...

Poi le genti vicine

al santuario di Tmolo minacciano

l’Ellade di aggiogare

schiava al ceppo servile:

i saettatori di Misia, con essi

Màrdone il forte Thàribi

vere incudini ai colpi di lancia.

Rifulgente per l’oro Babilonia

una schiera composita apparecchia

in fila sterminata:

fanti di mare protesi

nell’incurvare dell’arco la corda.

Tutto il popolo armato

con una corta spada

accorre dalle regioni dell’Asia

in corteo formidabile

nell’armata del Re.

Il fiore dei guerrieri

nostri di Persia se n’è dipartito...

[...]

Irrorati son i letti di lacrime,

i letti privi di sposi, con mogli

che sognano i compagni lontani

rimembrando l’addìo

di gagliardi guerrieri,

d’amatori focosi cui nel talamo

più non sono aggiogate.

Ecbàtana e Susa sono, con Babilonia e Persepoli, le capitali della monarchia achemenide. Cissa o è il distretto di Susa o la sua acropoli. Alcuni dei nomi dei condottieri persiani, lidî e misî – Amistre, Artafrene, Astaspe, Megabate, Masistre, Artembare, Imèo, Farandace, Sostane, Arctèo, Metrogate, Màrdone, Thàribi – “sono storici; altri invece li ha inventati il poeta di sana pianta”, come annota lo scoliasta bizantino (p. 749 R.)5. Il quale pure chiarisce che i nomi dei duci egiziani – Susiscane, Pegastàgone – “li ha inventati il poeta” e che alcuni sdoppiano quest’ultimo in “Pegás e Tagón”. Dei condottieri persiani alcuni, “pur essendo monarchi”, sono a loro volta definiti “vassalli del Gran Re”, basileōs hýpochoi megalou. Il quale, nel protocollo, si fregia sì del titolo di “Gran Re”, ma di un titolo che qui – ad accentuarne il prossimo annunzio della sconfitta – esplicita una lontananza siderale tra lui e gli altri sovrani terreni, proiettandolo in un empireo superumano, pari a quello di Zeus cui Eschilo (Suppl. 524) attribuisce il medesimo appellativo che lo distingue dagli altri membri del corteggio olimpico: anax anaktōn.

Massima, per tutti i condottieri, è l’insistenza sul corredo e possesso dell’arco nel loro equipaggiamento: i sovrani soggetti al Gran Re sono abilissimi “nel tendere l’arco”; Imèo “dardi con l’arco saetta”; i guerrieri di Misia sono “saettatori”; i fanti della marina si esercitano a flettere “dell’arco la corda”. La grande armata ci appare precipuamente connotata come una macchina bellica di arcieri volti a contrapporsi alle formazioni greche di opliti armati di lancia. L’opposizione tra arco e lancia è una metafora per indicare lo scontro tra Persiani ed Elleni. Nei Persiani (vv. 816-817) la stessa ombra di Dario attribuisce alla “lancia dorica” la definitiva sconfitta di Platea, e anche nel nostro contesto il definire i misî Màrdone e Thàribi “incudini ai colpi di lancia” riflette il concetto di antitesi tra l’armamento dei Greci e quello dei barbari. L’unica arma di offesa da questi ultimi ostentata, per un corpo a corpo, è “una corta spada”, che lo scolio (p. 807 R.) rassomiglia a “pugnali” italici.

Una menzione a parte meritano poi le genti guerriere venute dall’Egitto, il più antico regno del Vicino Oriente mediterraneo, e il più recente paese piegato dal Gran Re Cambise al vassallaggio persiano. Se ne ricordano torme armate venute da Menfi, definita “sacra” – hierá – perché sede del bue Api, dall’antichissima Tebe e dal delta del Nilo, i cui remiganti costituiscono un agguerrito corpo speciale di truppe anfibie, abituato a muoversi tra acque e limo stagnante.

La rassegna della grande armata si apre con il ricordo dei guerrieri accorsi dalle grandi capitali dell’impero, Ecbàtana e Susa, e si conchiude, quasi a circoscriverne e ricomporne il quadro, con la menzione di una terza città regale: Babilonia “rifulgente per l’oro”. Il colore abbagliante dell’oro, per enfatizzare la ricchezza della monarchia achemenide, domina anche nella memoria di Sardi, la “ricca d’oro”. È, questa, la capitale della Lidia, dove, già dai tempi anteriori alla conquista persiana, la connota l’attributo della dovizia aurea che si confonde con quello della mollezza orientale, della habrosynē, e quindi delle sue genti “raffinate”, habrodiáites. Esse “dominano” sulla regione “del vasto continente”, giacché la satrapia persiana signoreggia anche su tutta la Ionia, i cui abitanti sono Greci asserviti al regno dell’Asia. Di questi e di altri Greci schierati contro la patria di origine ci offre notizia Erodoto (7, 90. 93. 94), ma non Eschilo che, appunto, li ingloba in un’indeterminata etichetta geografica.

L’impero del Gran Re è un impero ecumenico, la cui missione è la conquista e il dominio universale senza il rispetto degli stessi confini geografici posti dalla divinità alla sua sovranità. Termine ricorrente nei Persiani è “giogo”, zygón, da imporre tanto ai continenti che la natura ha creato scissi tra loro quanto ai popoli che ancora, vassalli, non sottostanno alla monarchia achemenide. Ora, già in questo incipit, traspare per la prima volta l’anelito persiano di imporre un “ceppo servile” all’Ellade. Così come traspare la triste sua conseguenza: che è quella, una volta dipartitosi per la guerra il consorte, dell’abbandono nel “talamo” irrorato “di lacrime” della sposa spaiata nel giogo, monozyx.

Egli, allontanatosi in armi, appartiene sì al “fiore dei guerrieri” della Persia; “fiore”, anthos, che però ha nella sua fragilità un limite, essendo presto destinato a svanire. Eschilo non lo dice, né dice per il momento che l’esercito che “se n’è dipartito” non tornerà in patria vincitore; tuttavia, definendolo “fiore”, insinua nello stesso sia la nota del suo fulgore sia della sua transitoria durata. Svilupperà il concetto un altro poeta che scrive in età ellenistica, Licofrone, nella coreografica riproposizione della spedizione persiana contenuta nella sua Alessandra (vv. 1429-1430), in versi sui quali, in seguito, dovremo indugiare:

Ma la possente armata svanirà

in fretta, come rosa che sfiorisce

ne’ campi della Lócride.

Ma la “possente armata” prima di sfiorire si imporrà in tutta la sua imponenza di mostruoso strumento bellico. Tale era il suo numero che Erodoto (7, 56, 1) narra che impiegò, con marcia ininterrotta, sette giorni e sette notti per attraversare il Bosforo su un ponte di barche. La guidava Serse in persona, ritratto da Eschilo (vv. 74-87) come impetuoso e altero condottiero dallo sguardo obliquo e raggelante:

Impetuoso il Re dell’Asia conduce

tale gregge di popoli,

[...]

torbido dardeggiando la pupilla

dall’occhio di serpente

assetato di sangue, sfolgorante

sull’assiro suo carro di battaglia,

guida in corsa precipite

le truppe di terra, quelle di mare.

Un dio arciere, un Ares con l’arco,

le avventa contro opliti

che invocano la gloria dalla lancia.

Le due note caratterizzanti la figura di Serse sono la giovanile avventatezza coniugata al piglio bieco dell’autocrate; l’una lo rende “impetuoso”, l’altro lo correda di un occhio di serpente (drákontos) assetato di sangue, così come si conviene allo sguardo (dergma) di un tiranno. Il carro assiro sarà stato in tutto simile a quello del suo discendente Dario III, quale è ritratto nel celebre mosaico pompeiano raffigurante la battaglia di Isso, che è copia di un dipinto macedone di solo una quindicina di anni posteriore all’evento. Ma ciò, beninteso, vale per noi, non per Eschilo, il quale, nella ricorrente antitesi tra arco e lancia, munisce dell’arma del barbaro anche un persiano dio della guerra destinato ad avventare le schiere del Gran Re contro la falange oplitica greca pronta a colpire con l’asta.

3. Il ponte sul Bosforo

È già sull’altra sponda dell’opposto

continente l’armata

del Re che polverizza le città,

superato lo stretto

d’Elle Athamàntide

sopra un ponte di zattere connesse

con innumeri chiodi

con robusti cordami

di lino, valicato l’Ellesponto

sopra un giogo aggiogante

la distesa del mare.

È sempre il coro dei Persiani (vv. 65-73) che parla. La memoria rimanda al ponte di barche gettato sopra le acque del Bosforo, cioè sull’Ellesponto, qui definito “lo stretto” di Elle (la figlia di Atamante, che cadde nelle sue acque mentre in volo era trasportata dalla Beozia alla Colchide). Del ponte di barche, altrimenti evocato nel dramma (vv. 108-112) per la sua realizzazione “con congegni meccanici”, ci informa Erodoto. Da lui (7, 34-36) sappiamo che era costituito da una serie di pentecontere le quali, a intervalli, lasciavano un varco per il passaggio di imbarcazioni di minore stazza. Erano unite tra loro da cavi di lino e di papiro sorretti da argani posizionati sulle due sponde; poste le corde in tensione, “vi misero sopra fascine di legna” e terra pressata sopra le fascine, innalzando “sui due lati del ponte uno steccato perché gli animali e i cavalli non si spaventassero vedendo sotto di loro l’acqua del mare”.

In precedenza, a seguito di una tempesta che aveva distrutto il suo ponte ancora in fieri, Serse, adiratosi con l’Ellesponto, aveva ordinato di infliggere al mare per punizione “trecento colpi di frusta” e di immergere in acqua, per renderlo sottomesso, un paio di ceppi. Ciò non bastasse, lo storico (7, 35, 1) ci dice ancora che aveva sentito dire che, insieme ai fustigatori, avrebbe inviato anche dei “marchiatori” per bollarlo di infamia.

La sferza usata, in forma sacrilega contro il mare, connota lo spirito e la prassi materiale del dispotismo persiano. Per Erodoto è la medesima che usano gli addetti al taglio del canale nella Calcidica contro i propri uomini (7, 22, 1), o che in battaglia frusterà le truppe persiane per spingerle all’assalto (7, 223, 3). Per i Greci, uomini liberi, la verga è strumento da adottare solo in ambito servile, e quindi, per loro, il suo uso comporta che tutti i sudditi del Gran Re siano ipso facto etichettabili come schiavi. Utilizzarla contro il mare, che è una divinità, è un terribile atto di empietà, destinato a suscitarne una nemesi da parte degli dèi. I quali, per Erodoto (8, 109, 3), non potranno tollerare che un uomo solo, e per di più “temerario ed empio”, domini l’Asia e l’Europa, un uomo che tratta “sullo stesso piano cose sacre e profane”, un uomo che “fustigò e mise in catene anche il mare”.

Nota, questa, ben radicata nella tradizione e che, già prima di Erodoto, ci viene più volte esplicitata da Eschilo nei Persiani. La testimonianza più significativa è quella che il poeta attribuisce, post eventum, dopo la disfatta di Salamina, all’ombra del defunto Dario, padre e predecessore di Serse. Evocato dalla consorte in una reggia assordata dai lamenti e ruggente di angoscia al sopraggiungere della notizia della sconfitta patita dal figlio, l’ombra amaramente constata come sia stato proprio il sacrilegio perpetrato contro l’Ellesponto, il giogo imposto sul mare per congiungere due continenti, a provocare l’ira degli dèi che hanno annientato l’armata persiana (vv. 744-749):

Per slancio della giovane età

il figlio mio ha, folle, concepito

di soggiogare schiavo

l’Ellesponto divino,

d’incatenare le sacre correnti

che attraversano il Bosforo;

uno stretto di mare in una strada

ha mutato, con ceppi

un pontile ancorando

sulle opposte sue sponde,

la sterminata armata dei Persiani

per farvi transitare.

Un mortale mio figlio

che delirava d’essere potente

più degli immortali!

Un mortale, thnētós, si è proposto di rendere “schiavo”, doulos, “l’Ellesponto divino”, Helléspontos hirós, di “incatenare le sacre correnti” del Bosforo, Bósporos rhoos theoû, e per questa sua empietà ha pagato il fio. Di fatto, nelle parole di Dario, non gli Elleni vincono sui Persiani, ma vince Dike su Hybris, cioè la giustizia sulla tracotante superbia di Serse che non si pone freno nel rispettare il limite umano. Con Dike, inoltre, vincono il mare e la terra, cioè Poseidone e Gea, incolleriti per il giogo imposto alle acque e – lo diremo – per il canale contro natura scavato nella Calcidica. Loro strumento sono gli antagonisti greci, gli Elleni vincitori, che non hanno un padrone, ma “si gloriano di non essere schiavi di nessuno, di nessuno sudditi”, come insegnano ancora i Persiani (vv. 241-242). Con essi combatte un demone benevolo, eudáimōn, con Serse il suo contrario: un kakodáimōn che lo spinge alla perdizione. Quanti, tra i Greci, si apprestano a resistergli combatteranno, nella contingenza del momento, per non divenire schiavi, materialmente schiavi; ma, dopo la vittoria, la loro guerra molto presto – già con Eschilo ed Erodoto – si trasfigurerà nella lotta sostenuta per affermare, contro il barbaro che l’ignora, il principio della libertà.

Dario è l’opposto di Serse. Se questi è l’empio, è il perdente perché ha offeso la divinità, il padre, nei Persiani, si autorappresenta come fortunato e invitto, come il re che mai ha inflitto al suo popolo calamità o annientamento di eserciti perché pio interprete della volontà divina. Connotazione che annulla la memoria di Maratona e della prima guerra persiana, a tal punto soppressa nel dramma che il poeta né ricorda il naufragio della flotta di Mardonio presso l’Athos, che incentiva Serse a scavare il canale nella Calcidica, né rammenta che lo stesso Dario, prima del figlio, aveva costruito un ponte di barche sul Bosforo. Lo sappiamo da Erodoto (4, 88, 1-2) che della costruzione ci riferisce la dedica commemorativa dettata dal suo artefice, Màndrocle di Samo:

Con viadotto di barche del pescoso

Bosforo soggiogate ambo le sponde

ad Hera dedicò

Màndrocle per ricordo

del transito sul mare,

cinto sé di corona

i Samî coronati dalla fama

per avere compiuto

il ponte loro ordinato da Dario.

L’epigramma – come informa lo storico – correda un dipinto fatto eseguire dallo stesso Màndrocle e da lui dedicato – primizia dei doni ricevuti da Dario – a Hera nel celebre tempio della dea che sorgeva a Samo. Raffigurava “la costruzione del ponte sul Bosforo”, nonché “il re Dario seduto in trono e il suo esercito che vi transitava”. Erodoto molto probabilmente avrà potuto ammirare di persona il quadro nell’Heraion di Samo, tempio così ricco di dipinti votivi da venire trasformato, molti secoli dopo, in una vera e propria pinacoteca come testimonia Strabone (14, 1, 14).

Certo, Dario non aveva percosso o incatenato le sacre correnti dell’Ellesponto, ma era pur sempre stato un atto di hybris, e quindi di tracotante empietà, l’aver realizzato un viadotto tra le sponde di due continenti che le divinità avevano voluto tra loro separate. Né esse se ne dimenticheranno nella giornata di Maratona, causa e preludio dell’invasione di Serse. La contraddizione è palese; ma la scena drammatica richiedeva al tragediografo, nelle parole di un’ombra regale evocata dalla tomba, di differenziare al massimo le connotazioni di indole tra il padre e il figlio, e con queste le responsabilità delle loro azioni militari. Ragione che, di fatto, l’induce a sorvolare e tacere sulla prima guerra persiana e quindi sui precedenti della spedizione di Serse. Solo una volta (vv. 473-475) in tutto il dramma l’ombra di Dario menziona Maratona, quasi però fosse stata una catastrofe che in forma salutare avrebbe dovuto frenare l’irruenza sconsiderata del proprio successore:

Mio figlio meditò

per la splendente Atene

una vendetta che gli fu crudele;

non si accontentò

di quanti tra i barbari

provocò Maratona la rovina.

4. Il taglio del promontorio nella Calcidica

Eschilo non accenna al taglio del canale scavato da Serse nella Calcidica, ma lo fa Licofrone, il poeta ellenistico che, nella criptica pagina dell’Alessandra, ci fornisce in pochi versi, raggianti e concitati, la più esauriente tradizione di marca poetica che abbraccia, in un unico quadro, la memoria degli eventi della seconda guerra persiana; accomunando nel ricordo entrambe le battaglie combattute contro il barbaro nel 480 a.C., alle Termopili e a Salamina. È Cassandra, la protagonista troiana del poemetto, che ricorda, nella sua inascoltata profezia, le molte guerre che si sono succedute tra l’Europa e l’Asia, iniziatesi già prima della guerra di Troia ed enumerate già da Erodoto (7, 20, 2) con riferimento proprio all’invasione di Serse. Per il poeta dell’Alessandra – ma Erodoto non poteva prevederlo – la serie di guerre ininterrotte avrà fine solo con il grande Alessandro, che comporrà la contesa avendo in sé sia sangue greco sia, da parte di madre, eredità di sangue troiano, essendo egli un “leone” che insieme discende “qual fiamma divampante” dalla stirpe “di Dàrdano e d’Achille”.

Grosso modo un millennio prima, alla remotissima sua antenata Cassandra il poeta (vv. 1412-1416) fa enumerare la lunga serie di conflitti che hanno insanguinato le due sponde dell’Egeo, opponendo reciprocamente Oriente e Occidente, e avendo per ultimo protagonista inviato dall’Asia, Serse, il dinasta di una schiatta discendente da Perseo:

Ancora per fiera rappresaglia

spedisce un Gigante – Serse – nato

dal seme di Perséo

che un dì transiterà

sull’altro continente

marciando sopra il mare

la terra dalle navi remigando.

Il Gran Re, nell’iperbole di Licofrone, marcia sopra il mare e naviga sulla terra. Egli, infatti, non solo ha fatto costruire il ponte sul Bosforo su cui transita la sua armata, ma ha anche fatto tagliare la penisola del monte Athos nella Calcidica lungo un istmo prossimo alla costa, con l’obiettivo di realizzare un canale navigabile che avrebbe evitato alla propria flotta la rischiosa circumnavigazione del promontorio già responsabile del naufragio delle navi di Mardonio, avvenuto dieci anni prima, al tempo della prima spedizione persiana.

Il poeta, in relazione a questo episodio, ci dice che le imbarcazioni sospinte dai remi, pēdoîs, navigano per terra, cioè ghē de nausthlōthésetai. Da Erodoto (7, 22-23) sappiamo che – essendo la flotta della prima spedizione persiana di Dario incorsa in un naufragio presso il monte Athos, in un luogo in cui venti e scogli cospirano contro la navigazione – Serse già da tempo aveva ordinato di scavare un canale lungo l’istmo posto tra l’altura scoscesa del rilievo e la pianura costiera. Qui “uomini dell’esercito di varia provenienza, dandosi i turni” avevano intaccato il suolo “sotto i colpi delle fruste”. Sicché la flotta di Serse – continua Erodoto (7, 122) – “percorso il canale aperto nell’Athos” poté navigare in tutta sicurezza “dritta verso il golfo di Terme”, dove, un domani, sarebbe sorta la città di Tessalonica.

Al sacrilegio di aver imposto “un giogo sul mare”, per riprendere l’immagine eschilea dei Persiani, si aggiungeva ora un secondo sacrilegio: quello di disgiungere, creando un’isola, una terra che Zeus aveva creato per essere congiunta al continente. Era, infatti, un atto di hybris contro la natura quello di provocare un’alterazione degli equilibri territoriali voluti dagli dèi. Lo ricorda lo stesso Erodoto (1, 174, 5) in altro contesto, rammentandoci come gli Cnidî dovettero desistere dal proposito di scavare un canale sul promontorio su cui sorgeva la loro città, sì da renderla un’isola immune da pretese di inglobamento nella compagine dell’impero persiano. Così, infatti, li avrebbe ammoniti un responso delfico:

Non l’istmo manomettere con scavi

e neppure munirlo di difese

giacché Zeus, volendo porvi un’isola,

egli colà l’avrebbe suscitata.

Il volere di Zeus è dunque quello che né si congiungano con pontili le opposte sponde di un mare, né che dai continenti si disgiungano i promontori scavando canali lungo gli istmi costieri. L’empietà di Serse rimane emblematica in tutta la tradizione. Egli anela a “lasciare la memoria di qualcosa di sovrumano”, come annota l’oratoria civile e patriottica di Isocrate (Paneg. 89) in un luogo certo presente a Licofrone dato che il retore prosegue informandoci che il Gran Re “non conobbe ostacoli prima di avere inventato e realizzato a forza ciò che ora tutti conoscono: il navigare con l’esercito la terra e il marciare sul mare”.

5. L’offensiva travolgente

Straniera un’armata di nemici

con l’acqua di fiumane prosciugate

l’assillo della sete placherà;

con alberi da bacche

la fame sazierà

svestendoli del tutto di corteccia

con duplice spessore;

dal sole dardeggiante sulle teste

riparo troverà

in nuvola di dardi sibilanti

che imbruna come nebbia

cimmeria l’orizzonte,

la luce affievolendo ed il tepore.

Così ancora la testimonianza dell’Alessandra di Licofrone (vv. 1422-1428). Il quadro poetico è di rara efficacia espressiva. La memoria ‘spartana’ della resistenza alle Termopili è presupposta nell’offensiva terrestre di Serse, nella marcia della sua smisurata armata e – come diremo – dall’episodio delle frecce che oscurano il sole. La narrazione, quasi per singole imagines, ci fornisce della seconda guerra persiana un affresco più completo di quello offertoci dalla grandiosa sequenza drammatica dei Persiani di Eschilo, proiettata univocamente sulla giornata ‘ateniese’ di Salamina.

Il poeta, dopo aver ricordato le sacrileghe realizzazioni ingegneristiche compiute dal Gran Re per facilitare la marcia via terra dell’esercito e la navigazione per mare della flotta, insiste sull’immane entità dell’armata che non trova né acqua sufficiente per dissetarsi né cibi in grado di saziarla. Il motivo della sete, al cui appagamento non bastano le acque dei fiumi, che presto si disseccano, è un’urgenza topica e ricorrente che si accompagna a tutta la lunga marcia dell’esercito, dall’Asia all’Europa. Non poche sono le segnalazioni in Erodoto, l’ultima (1, 196) quasi a ridosso del ridotto delle Termopili: “Dei fiumi di Tessaglia il solo Onocono non bastò a dissetare l’esercito con le sue acque; mentre dei fiumi che scorrono in Acaia quello che per portata è il più grande, l’Epidano, fu sufficiente a malapena”. Dunque uno dei corsi d’acqua tessali fu prosciugato, e in Acaia Ftiotide solo un fiume fu in grado di dissetare tale marea di armati, e non senza difficoltà. Si tratta di un’iperbole retorica, ma estremamente efficace per terrorizzare il lettore ricordandogli l’entità sbalorditiva dell’esercito persiano di terra, che per lo storico (7, 60) sarebbe ammontato alla cifra inammissibile di un milione e settecentomila uomini, con tutta probabilità – mutando le migliaia in centinaia – da ridimensionare numericamente in centosettantamila. La medesima, o analoga, iperbole usa il poeta per descrivere la fame: dovette l’armata persiana, tanto era numerosa, ricorrere per saziarsi alle bacche degli alberi – querce selvatiche, drŷs agriai – e alla loro duplice corteccia.

Erodoto (7, 118) ci ricorda che per apparecchiare un debito banchetto al Gran Re con la sua corte, e offrire ospitalità all’esercito, molti abitanti facoltosi delle periferie settentrionali della grecità spesero fino all’incredibile somma di quattrocento talenti di argento, riducendosi “così male da essere costretti ad abbandonare le proprie case”. Ma di questo secondo particolare, cioè della fame che spingeva l’armata a svestire gli alberi della loro corteccia, nulla ci dice. Ciò nonostante Licofrone deriva pur sempre da lui; non quando quest’utlimo ci parla dell’offensiva delle milizie di Serse, bensì quando ci dice della loro triste ritirata proprio attraverso le medesime regioni (8, 115, 2). Tale era la loro fame che “mangiavano l’erba che nasceva dalla terra, e tagliavano le cortecce e strappavano le foglie degli alberi, divorandole”.

Sotto ogni aspetto del tutto sproporzionato è l’esercito dei barbari. Non soltanto perché non riesce a placare la fame e la sete delle infinite bocche da soddisfare nelle loro esigenze primarie, quali l’acqua e il nutrimento, ma anche perché spropositato, di conseguenza, è il suo armamento. Di fatto, nell’insieme, una macchina da guerra le cui centinaia di migliaia di frecce sono in grado di oscurare il sole dentro una “nuvola di dardi sibilanti” fino ad annerire “come nebbia” caliginosa, o “cimmeria”, l’intero orizzonte sottraendo alla terra luce e tepore: skià kalypsei perran, amblynōn selas. Ancora una volta archi destinati a opporsi a lance, anzi a troppo poche lance! Nella sua narrazione Licofrone attinge qui materia da Erodoto (7, 226). Il quale riferisce che essendosi vantati i barbari di poter oscurare il sole con la moltitudine delle loro frecce, lo spartano e spartiata Dienece, saputolo, esclamò “per nulla atterrito” che era per lui e per i suoi compagni una buona novella poiché, “dal momento che i Persiani oscuravano il sole, la battaglia si sarebbe svolta all’ombra”.

Che aggiungere ancora? Se non che, se il Serse di Licofrone è un “gigante”, la sua armata non è meno terrifica di lui. L’uno congiunge continenti e recide penisole, marciando sul mare e remando sulla terra; l’altra, l’armata, è un qualcosa di inumano, è un mostro ferino con infinite bocche che prosciugano fiumi e infinite braccia che sradicano alberi. Tutti peccano contro la natura: il “gigante” separando o aggregando ciò che il dio ha creato unito o disgiunto, il mostro dalle insaziabili fauci depredando l’ambiente dell’acqua e del suo manto arboreo. Né è minore crimine contro la natura quello che perseguono sia comandanti sia comandati venendo a oscurare con nugoli di frecce i raggi del sole in aperta violazione dell’ordine cosmico. Di fatto un’orda selvaggia, usa dalla frusta a essere selvaggiamente compressa nei suoi ranghi, che tutto travolge e sovverte: uomini, abitazioni, culture, foreste, corsi d’acqua e, infine, la stessa luce del sole. Volendo azzardare, potremmo dire che siamo al cospetto di un affresco narrativo che, in un folgorante baleno, suscita immagini visive non dissimili da quelle che hanno emozionato lo spettatore del film 300 di Zack Snyder.

A ben rifletterci, è questa, nell’alveo delle letterature occidentali, la prima e più antica rappresentazione della ‘belluinità’ dell’orda straniera e del barbaro duce che ne guida l’aggressione entro i confini di una patria che non è la sua. Un’immagine che in Italia trascorre, immutata nel tempo, da Annibale ad Alarico, dai lanzichenecchi del sacco di Roma agli eserciti imperiali della guerra dei Trent’anni, fino a giungere, con nuove rifrangenze di internazionalità, alle cartoline di guerra e di propaganda degli eserciti della prima guerra mondiale6. Figurazione, questa dell’aggressore e della sua orda, che però acquisisce per via una propria connotante iconografia, che è quella del serpente dalle mille spire con le quali innanzi a sé tutto sgretola e frantuma. Non più l’idra di Lerna, ma l’idra straniera.

Iconografia, almeno in nuce, già presupponibile per Serse, se coniugassimo tra loro, in un’unica caratterizzazione, le notazioni somatiche offerteci dai Persiani con quelle ricavate dall’Alessandra. Ne risulterebbe, infatti, che il “gigante” di Licofrone avrebbe, teste Eschilo, un “occhio di serpente”. Ciò non equivale certo a evocare anche per l’armata di Serse l’immagine dell’idra, ma, su questa strada, è una buona approssimazione.

6. La morte eroica

Quando Dienece si rallegra di poter combattere all’ombra, l’armata persiana è già presso le Termopili, cioè presso il passo, con relative acque termali, attraversato dalla grande via che conduceva dalla Tessaglia alla Grecia centrale; là dove, presso il villaggio di Antela, tra le pendici del monte Eta e il golfo Maliaco, era una strettoia difesa da un muro eretto dai Focidesi per proteggersi dalle incursioni dei Tessali. Qui i Greci, guidati da Leonida, tentarono di arginare l’offensiva di Serse proponendosi di difendere il passaggio fino all’arrivo di rinforzi. Il loro piano strategico prevedeva la difesa parallela delle Termopili per terra, e per mare – sull’allineamento di uno stesso fronte – del limitrofo stretto che separa l’Eubea dalla terraferma con la flotta schierata all’Artemisio. La quale doveva assicurare alle truppe, spartane e alleate, di Leonida una copertura dall’eventualità di uno sbarco persiano alle spalle. Ma i rinforzi per terra non giunsero, e quella che doveva essere un’avanguardia dovette da sola sobbarcarsi l’onere di resistere alla marcia devastante del Gran Re.

Leonida, fidando nella posizione, pensava di poter resistere a oltranza nonostante Serse disponesse di un’armata numericamente tanto preponderante. E in effetti, le offensive frontali dei Persiani durante i primi giorni del combattimento furono respinte con grande meraviglia di Serse, soprattutto quando apprese dalle sue spie che gli Spartani – lungi dal manifestare apprensione per la loro sorte – si abbellivano la persona. Essi, infatti, come egli scopre da chi bene conosceva i loro usi, nell’imminenza di uno scontro “si adornano il corpo”. Ma, purtroppo, i Focidesi, incaricati da Leonida della difesa dei sentieri montani dell’Eta, non fecero buona guardia; solo troppo tardi si accorsero dal “calpestio delle foglie” di essere stati accerchiati alle spalle dai barbari guidati da Efialte, il traditore di turno a conoscenza di una via sconosciuta. Quando Leonida, al mattino seguente, si accorse di essere preso tra due fuochi, constatando lo sbandamento degli alleati, finì per congedarne la gran parte, rimanendo da solo con i trecento Spartani e pochi Tespiesi a difendere il passo e testimoniando con la morte la fedeltà agli ideali di dedizione alla patria.

Abbiamo qui sintetizzato eventi, e all’occorrenza particolari, riferiti da Erodoto (7, 175-224), il quale così termina il suo racconto:

Serse al sorgere del sole [...] mosse all’attacco. Così aveva suggerito Efialte; la discesa dal monte è infatti più breve e lo spazio da percorrere molto minore rispetto all’aggiramento e alla salita. Allora i barbari di Serse avanzarono, e Leonida e i suoi, sapendo di fare una sortita contro la morte, avanzarono ormai verso la parte più larga della gola molto più che per l’innanzi. Nei giorni precedenti, infatti, il muro di difesa era presidiato, ed essi avevano combattuto facendo piccole sortite nella sua parte più ristretta. Ora, scontrandosi fuori dalla strettoia, causavano la morte di una grande moltitudine di barbari, che i rispettivi capi, percuotendoli con le fruste, spingevano sempre innanzi. Molti precipitavano in mare e perivano, ma ancora molti di più si calpestavano vivi gli uni con gli altri, e non ci si preoccupava di chi cadesse. Poiché sapevano che li aspettava la morte da parte dei nemici che aggiravano il monte, gli Elleni, di fronte ai barbari, facevano mostra di tutto il loro valore come forsennati e con assoluto disprezzo della vita.

Ormai alla più parte di loro si erano frantumate le lance, e con le spade facevano scempio dei Persiani. Nella mischia cadde allora pure Leonida, egli che si era mostrato guerriero valorosissimo.

Tutti gli Spartani muoiono “sapendo di fare una sortita contro la morte”, hōs tēn epì thanatōi éxodon poieúmenoi. Ciò li porta a un’inversione di tattica; prima, come ci informa Erodoto (7, 211), da grandi professionisti della guerra, articolavano lo scontro in movimenti simili a quelli delle onde, con ritirate tattiche e improvvise avanzate che provocavano perdite gravi alle forze nemiche e assai limitate a sé stessi. La ristrettezza del passo delle Termopili li costringeva inoltre al turno continuo delle squadre preposte alla difesa, consentendo loro un debito ristoro. La loro superiorità sul barbaro non risiede solo nel maggior allenamento al combattimento, ma è anche superiorità di indole morale giacché nessuno li spinge “con le fruste” al cimento.

Quando Erodoto scrive siamo una cinquantina d’anni dopo l’evento, in un’età in cui l’impresa alle Termopili e la leggenda che vi era stata costruita attorno avevano a tal punto permeato l’immaginario dei Greci che, già nella pagina di uno storico di sentimenti ateniesi, si incomincia a intravedere un’elaborazione ideologica di matrice spartana dell’evento quale proromperà nella propaganda di epoca successiva. È la memoria – variamente mitizzata – delle Termopili che già presiede alla costruzione dell’etica di Sparta e alla definizione del suo concetto di virtù guerriera, di areté. Di fatto, la condotta di Leonida è da Erodoto percepita come una caratteristica connaturata alla mentalità dello spartiata, ingenerando automaticamente una riflessione sul presente, che è quello della guerra del Peloponneso con l’incredibile resa a Sfacteria – e non con la morte – di un contingente di discendenti di Leonida7.

Di conseguenza l’episodio, così come ce lo racconta lo storico, acquista coloriture mitiche. Da un lato è ricco di riferimenti a modelli omerici con prestiti dal linguaggio epico: dall’esaltazione del disprezzo della vita alla furia eroica dell’oplita, dalla lotta tra Spartani e Persiani sul cadavere di Leonida alla difesa estrema dei pochi superstiti utilizzando, prima di soccombere, armi da taglio, mani e denti. D’altro lato presenta Serse con un che di mostruoso e incivile che secoli dopo ispirerà a Licofrone la raffigurazione dell’orda terrifica che il lettore già conosce; egli, infatti, si infuria a tal punto per la resistenza di Leonida da infliggere al suo cadavere un trattamento disumano, crocifiggendolo con la testa mozzata. Un comportamento che anche Erodoto (7, 238), che raccoglie la notizia, annota come innaturale per l’etica persiana.

Là dove caddero i Trecento, sul colle di Antela, fu eretto un polyándrion, cioè un ossario comune, ancora descrittoci da Strabone (9, 4, 2. 16) con riferimento alla sua età. Vi mancavano però le reliquie di Leonida, recuperate “quaranta anni” dopo la sua morte e trasferite a Sparta come oggetto di venerazione. Lo dice Pausania (3, 14, 1), informandoci anche che quivi fu eretta “una stele con i nomi e i patronimici di quelli che sostennero lo scontro con i Persiani alle Termopili”. Ma, per il nostro assunto, più utile ricordare che presso il polyándrion – teste Strabone – si potevano ammirare cinque stele commemorative dei caduti. Di tre stele ci conserva il testo Erodoto (7, 228), trascrivendo componimenti epigrammatici commemorativi dettati a caldo e sicuramente i più arcaici della serie.

Il primo, dettato dagli Anfizioni, cioè dai partecipanti alla sacra lega delfica, è un epitaffio per i caduti peloponnesiaci che, esaltando la sproporzione numerica delle forze belligeranti, eleva in un unico distico tale imperitura lode:

Contro trecentomila combatterono,

caddero quattromila

opliti accorsi dal Peloponneso.

Soltanto le genti del Peloponneso hanno l’onore dell’epitaffio: il silenzio sulle etnìe della Grecia settentrionale si deve al fatto che molte di loro sono incluse nella lista che Erodoto (7, 132, 1) ci fornisce delle popolazioni che avevano preferito fare atto di sudditanza alla dinastia persiana; tra queste, quelle di Tebe i cui abitanti “tra i primi avevano medizzato e dato terra e acqua al Gran Re”. La distinzione tra le due azioni non è oziosa: la prima implica il collaborazionismo e quindi il tradimento, la seconda – l’offerta della terra e dell’acqua – il semplice e formale riconoscimento dell’altrui sovranità8.

Il secondo, sempre voluto dagli Anfizioni, è un epitaffio per i caduti spartani che non suona retorico per la sua rara e contratta bellezza poetica:

Riferisci viandante agli Spartani

che rispettosi al monito

di leggi della patria

qui nel sonno perenne riposiamo.

Gli Spartani non potevano che andare incontro alla morte perché obbedienti al precetto “di leggi della patria”, cioè di loro leggi, tois keinōn rhémasi peithómenoi. Ovvero ossequienti sanctis patriae legibus, come recita la superba traduzione latina di Cicerone (Tusc. 1, 101) che ne attribuisce il testo a Simonide, il grande poeta lirico di Ceo. Ma c’è da dubitarne: il distico conosce infatti altre dirette citazioni in autori greci, nessuno dei quali ne rivendica mai la paternità al nostro compositore di carmi corali, al quale – invece – Erodoto riporta esplicitamente, nel medesimo paragrafo, la stesura di un altro carme funerario.

Questi due epitaffi – come abbiamo detto – furono commissionati e fatti incidere dagli Anfizioni, e quindi per sicuro interessamento delfico. L’afflato è panellenico, ma non possiamo sottacere che Delfi e la sua classe sacerdotale avevano interesse a far dimenticare un comportamento certo ambiguo ed equivoco, se non addirittura medizzante, nel corso della seconda guerra persiana, che lasciò illesa la sede del santuario di Apollo9. La cui anfizionia, o lega sacra pilaico-delfica, aveva per epicentro alle sue origini remote il sacro recinto di Demetra alle Termopili, presso il colle di Antela, località dell’ultima resistenza e della morte degli opliti spartani. Il fatto, anche se casuale, poteva aver rappresentato un ulteriore incentivo all’erezione delle due stele, con i relativi epitaffi, per volontà del dio di Delfi.

Il terzo, infine, cui già abbiamo accennato, “fatto eseguire da Simonide figlio di Leoprepe per amicizia”, è un epitaffio che ricorda il volontario sacrificio di Megistia, il vate acarnano al seguito di Leonida:

Celebra il monumento

il vate Megistìa

dai Persi trucidato, dilagati

oltre le rive del fiume Sperchèo.

Per sé per gli Elleni divinò

imminente la fine,

ma, pur potendo la morte schivare,

dai condottieri qui giunti da Sparta

separarsi non volle.

Per l’intelligenza del carme, composto da un doppio distico, è necessario rifarsi alla testimonianza di Erodoto (7, 219, 1) che specifica che “ai Greci, che erano alle Termopili, per primo il vate Megistia, dopo avere osservato le vittime, decretò come con l’alba sarebbe giunta per essi la morte”. Dunque, come per Achille, “con l’aurora la morte”, hama ēoî sphi thánaton. Egli avrebbe potuto “la morte schivare”, giacché era fra quelli che Leonida stesso aveva congedato perché si salvassero, ma i “condottieri qui giunti da Sparta” non volle – cioè non sopportò – abbandonare: ouk etlē Spartēs hēghemonas prolipeîn. Rispedì, invece, in patria “il suo unico figlio” che con lui partecipava alla spedizione spartana. Così la stirpe non sarebbe venuta meno, ed era una stirpe illustre che discendeva dal leggendario Melampo, cui si attribuiva il dono di comprendere il linguaggio degli animali e di possedere virtù iatriche e doti profetiche. Quindi, non certo un vate qualsiasi, Megistia, ma un divinatore di Acarnania famoso in tutto il mondo greco e per giunta amico di intellettuali illustri come, appunto, il poeta Simonide che cura l’erezione della stele funeraria e ne detta l’epitaffio – l’unico di cui la paternità simonidea è generalmente accolta, giacché alla critica è parso davvero difficile che il vecchio poeta, commissionario della stele in memoria di un amico, vi abbia fatto incidere distici altrui.

Siamo, con questi tre epitaffi, su una lunghezza d’onda per la quale l’elogio dei caduti è ancora scisso dal tema della celebrazione della vittoria sul barbaro. Il testo dei singoli componimenti è più sofferto e meno enfatico di tanti messaggi successivi, palesando una differenziazione di stilemi espressivi anche dallo stesso coevo encomio di Simonide, di cui avremo occasione di riparlare. Chi muore non muore ancora per un ideale panellenico di libertà, come sarà nell’oratoria e nella tradizione patriottarda di età successive, ma per schivare in proprio e per l’Ellade “il giorno della schiavitù”, Hellada mē pasan doúlion ēmar ideîn, come recita l’epigramma, inciso su marmo, per commemorare i morti di Maratona (GHI2 26), discordemente datato o, a caldo, nel 490 a.C. o, come i nostri testi, immediatamente dopo il 480 a.C.10. Quando, dopo la vittoria sul barbaro a Platea, avviene la monumentalizzazione del sito delle Termopili, dovuta – l’abbiamo detto – a un diretto interessamento della classe sacerdotale di Delfi e alla sua rinata collaborazione con Sparta. Occasione nella quale l’oracolo di Apollo, stando a Plutarco (Aristid. 20, 4), avrebbe comandato alla grecità di innalzare un altare a Zeus Eleuthérios, cioè al padre degli dèi d’ora in poi garante della libertà collettiva, cioè della eleuthería. Parola che in un’accezione corale e collettiva – se non frutto di anticipazione anacronistica – si affaccerebbe ora, per la prima volta, nel lessico celebrativo delle guerre persiane.

Strabone (9, 16) – come abbiamo detto – ricorda cinque stele commemorative dei caduti. Alle tre citate da Erodoto, egli ne aggiunge una dei Locresi Opunzi inciso “sulla prima delle cinque stele alle Termopili”; una quinta sarebbe poi da attribuire ai Tespiesi con un testo redatto dall’altrimenti ignoto Filiade di Megara (p. 78 P.). Ma in entrambi i casi si tratta di tributi onorari apposti in età successiva; in particolare per la stele dei Locresi, i quali offrirono terra e acqua al Gran Re e il cui nome non figura nella colonna serpentina, cioè nel monumento commemorativo eretto a Sparta “con i nomi e i patronimici di quelli che sostennero lo scontro con i Persiani”. Anche il fatto che Erodoto non menzioni le due stele denunzia una loro probabile genesi tardiva. Le tre che riporta sono comunque senza dubbio le più arcaiche, espressione di un’etica aristocratica di Sparta per la quale “la morte è fuggire, non morire”, ou to thaneîn allà phygeîn thánatos, come recita un epigramma (Anth. Pal. 7, 431) che commemora suoi caduti in uno dei ricorrenti conflitti con Argo.

7. La bella morte

Erodoto aveva celebrato il sacrificio di Leonida ricordando che il suo scarso seguito di opliti, preso tra due fuochi, si attesta dinnanzi al passo delle Termopili non più con l’intenzione di difenderlo, bensì con l’unico intento di resistere a oltranza e di non cedere terreno. Vendono così a carissimo prezzo la propria pelle provocando una strage di nemici, consapevoli “di fare una sortita contro la morte”. Il concetto viene ripreso e ingigantito dalla vulgata successiva e soprattutto dalla leggenda celebrativa spartana che ci presenta gli Spartani di Leonida che, sopraggiunta l’ora estrema, non si limitano a difendere la loro posizione fino all’ultimo uomo, senza mai arretrare, ma fanno addirittura una disperata e inaspettata incursione nel campo nemico, seminando una tumultuosa strage e puntando direttamente verso l’acquartieramento del Gran Re con l’intento di trucidarlo. Ne fa fede Diodoro (11, 9, 4. 10), che dipende da Eforo nel suo dettato compilativo:

Quando, ristoratisi in gran fretta, tutti furono pronti, [Leonida] comandò ai propri uomini di gettarsi all’assalto degli accampamenti nemici, trucidando tutti coloro che avessero trovato per via e puntando senza esitazione alla tenda del Re.

[...] I barbari si precipitarono con grande tumulto e in disordine fuori delle tende, colti di sorpresa da un’azione che rifuggiva da qualsiasi logica [...]. Per cui molti tra loro furono trucidati dagli uomini di Leonida, ma molto più numerosi furono coloro che per errore furono uccisi per mano dei loro stessi compagni, non riconosciuti e scambiati per nemici. [...] Naturalmente, se il Re fosse rimasto nella sua tenda, anche egli facilmente sarebbe stato vittima dei Greci e le ostilità avrebbero avuto subito fine. Ma Serse, in seguito all’improvviso tumulto, era fuggito, e i Greci, fatta irruzione nella tenda, fecero strage completa di quanti sorpresero all’interno. Sopraggiunta la notte, percorsero in lungo e in largo l’intero accampamento, cercando Serse come era nei loro voti; ma quando, sul fare del giorno, i Persiani si resero conto della situazione e videro l’esiguità numerica dei Greci, li fronteggiarono con sprezzante sufficienza, seppure non osando affrontarli in uno scontro frontale. Temevano, infatti, il loro valore e li circondarono lateralmente e da tergo; poi da ogni direzione li attaccarono con le lance e con i dardi, uccidendoli tutti. Così miseramente morirono gli opliti di Leonida che erano a guardia del passo delle Termopili.

Dominano la scena, con i loro colori, prima il crepuscolo il cui ultimo bagliore svanisce dietro le forre montane dell’Eta; poi la notte che tutto avvolge – anzi travolge – nella cappa dell’oscurità; infine l’alba che, rosea, sorge dal mare, per i Greci bella e funerea messaggera di morte. L’aveva preannunciato Megistia, e ora la sua parola profetica si compie immutata, ma su un altro teatro operativo. Non quello della resistenza fino all’ultimo uomo, ma quello, con identico esito, dell’assalto inaspettato contro il nemico. Eroi i morti di Erodoto, ma ancora più eroi, anzi supereroi, quelli di Eforo che, nella narrazione di Diodoro, hanno l’ardire estremo di lanciarsi all’attacco dello stesso accampamento nemico per uccidere il dinasta a capo della selvaggia orda degli invasori, ponendo fine al conflitto. Cosa che sarebbe avvenuta “se il Re fosse rimasto nella sua tenda”, ei men oun ho basileùs émeinen epì tēs basilikês skēnês. Ma egli “era fuggito”, e la sua sparizione è premonizione di ciò che accadrà, cioè della sua fuga precipitosa dopo la disfatta di Salamina che gli varrà la consacrazione a ‘re codardo’.

Il precipitoso ritorno in patria del re persiano, provocato dalla vittoria ateniese a Salamina, viene dunque anticipato alle Termopili da una fuga, non meno indecorosa, dalla propria tenda per sottrarsi allo scontro con le armi spartane. Chiaramente Eforo, cui attinge Diodoro, si fa portavoce di una tradizione di marca spartana che mira alla ‘santificazione’ di Leonida e a rivendicare, in funzione della futura vittoria ateniese, tutto il peso da attribuire alla strenua resistenza opposta alle Termopili dalle truppe poste sotto il suo comando. Leggenda eroicizzante che viene elaborata nel crescente clima di ostilità tra Atene e Sparta e che possiamo datare quaranta anni dopo le Termopili, tessarákonta étesin hýsteron, quando – come ci informa Pausania (3, 14, 1) – nell’agorà di Sparta si potevano ammirare “il monumento di Pausania, che ebbe il comando a Platea, e un altro di Leonida”, presso cui ogni anno gli Spartani “pronunziano discorsi in loro memoria e organizzano una gara”.

Il nostro autore precisa inoltre che “le ossa di Leonida” furono recuperate da Pausania, il re di Sparta, “quaranta anni dopo la battaglia” e che, a lato del suo monumento, fu eretta la stele, già ricordata, “con incisi i nomi e i patronimici di quanti sostennero lo scontro con i Persiani alle Termopili”. Il vincitore di Platea e lo sconfitto delle Termopili sono posti sullo stesso piano e, nella tappa conclusiva dell’elaborazione del mito di Leonida, sono entrambi vincitori, anzi la vittoria del primo non si sarebbe mai realizzata senza il sacrificio del secondo. Né è un caso che la tradizione alla quale attinge Pausania, il periegeta, falsi deliberatamente la cronologia dell’omonimo Pausania, il re di Sparta, affermando che egli sarebbe stato ancora vivo nell’anno in cui avvenne la traslazione del corpo di Leonida a Sparta, di cui sarebbe stato l’artefice11.

Ed è, questa, la medesima tradizione che porta Pausania (8, 52, 2) ad affermare che, “dopo Milziade, Leonida figlio di Anassandrida e Temistocle, figlio di Neocle, scacciarono Serse dalla Grecia”, apōsanto ek tēs Hellados Xerxēn. Il più incidente divulgatore del messaggio spartano è sempre Eforo, a noi giunto attraverso la rielaborazione di Diodoro, il quale (11, 11, 5) afferma che si deve a Leonida e ai suoi Trecento il merito “della comune libertà degli Elleni”, tēs koinês tōn Hellēnōn eleutherías, anziché agli altri “che successivamente vinsero le battaglie contro Serse”. Gli “altri” sono anzitutto gli Ateniesi, i quali devono prendere consapevolezza che il merito della cacciata di Serse non vada ascritto al solo Temistocle vincitore a Salamina, ma debba essere equamente ripartito tra questi e Leonida, giacché proprio quest’ultimo ha gettato la prima pietra per il trionfo della “comune libertà”, in una guerra che verrà etichettata appunto come lotta per la libertà, per la eleuthería, in tutta la posteriore tradizione patriottica. Domina, sia ad Atene sia a Sparta, il tema della celebrazione della vittoria sul barbaro, e Sparta crea in forma martellante, e in funzione della propria propaganda, una sorta di mitizzazione della figura di Leonida insieme a un ringiovanimento della sua immagine. Aveva egli, infatti, una sessantina d’anni al momento della morte, un’età troppo avanzata per apparire come un nuovo Achille. Beninteso, ciò nulla toglie al suo gesto eroico, al “valore” sfortunato che “lo fanno a tutti superiore”, come sentenzia l’oratore ateniese Licurgo (Leocr. 108) in un pubblico dibattito in cui, imprecando contro Alessandro, ricicla logore espressioni di nostalgici ideali panellenici.

Il grande archetipo dal quale, per più rami, deriva la leggenda e la mitizzazione della figura di Leonida riconduce nuovamente a Simonide, ma ad un Simonide non ripiegato su sé stesso a piangere l’amico Megistia, o forse ad ammonire che la terra che un domani verrà calpestata dal viandante è stata luogo di un sacrificio di guerrieri votati alla morte per non disattendere alle leggi della patria; bensì al vate, celebre per la sua fama di cantore, che su committenza spartana commemora un re di Sparta e trecento suoi figli immolatisi alle Termopili. Né è un caso che testimone dei versi simonidei (fr. 26 P.) sia proprio Diodoro (11, 11, 6) al termine della rievocazione della morte di Leonida e del suo assalto disperato al campo persiano:

Dei caduti là presso le Termopili

luminosa la sorte

splendido il destino:

altare ne sarà sempre il sepolcro.

La memoria n’è funebre lamento

l’encomio il compianto.

L’offerta di sé stessi alla morte

non oscurerà la squallida ruggine

del tempo, domatore del ricordo.

Dell’Ellade la gloria

d’albergare prescelse nel recinto

a tanti valorosi consacrato.

Leonìda qui l’attesta

che, sovrano di Sparta, ha lasciato

per proprio ornamento

il retaggio di fama imperitura.

Mentre Pindaro tace in circospetta attesa degli accadimenti, mentre la classe dei sacerdoti di Delfi, allineata sulle stesse posizioni, elabora oracoli cautamente sibillini e molto nebulosi, Simonide non ha dubbi in merito alla scelta di campo: il suo canto invita alla lotta di resistenza, il suo spirito e il suo encomio sono per i caduti spartani alle Termopili. Nella sua nuda semplicità, resa ancora più scabra dall’essere la parola del poeta giuntaci in una scheggia frammentaria, l’encomio sarà modello per tutta la lunga serie di analoghi e successivi componimenti poetici; nonché per la prosa degli Epitaffi, da Tucidide a Lisia, da Demostene a Iperide, giacché la commemorazione simonidea vale per tutti coloro che, in ogni tempo, abbiano meritato di essere elevati al rango di eroi. Il linguaggio del cantore è sacrale, volutamente non ricercato, e per tale ragione facilmente percepibile, nell’afflato a più voci, da ogni categoria sociale di spettatori. Soltanto chi questo non intende può rigettare – come pure è stato fatto – l’autenticità del carme.

Bōmòs d’ho taphos, cioè “altare” dei prodi “ne sarà sempre il sepolcro”. Altare tanto in senso generale di ara collettiva della virtù spartana, quanto in senso figurato, sul loro esempio, di qualsiasi eroica virtù guerriera, quanto – ancora – in senso concreto di tumulo sacro sul quale venivano officiate cerimonie e offerti sacrifici. Nel nostro caso accompagnate dal canto del poeta in una polifonia di voci prorompenti sul luogo stesso della battaglia, là dove un leone scolpito nella pietra segnalava ai viandanti il sepolcro di Leonida e un essenziale segnacolo collettivo il polyándrion degli eroici caduti. Sempre che, invece, il canto di Simonide, commissionato da Sparta, non fosse stato eseguito per una pubblica cerimonia commemorativa celebratasi nella città.

Abbiamo detto che negli epitaffi riferiti da Erodoto siamo in una prospettiva per la quale l’elogio dei caduti è ancora scisso dal tema della celebrazione della vittoria sul barbaro, che, invece, pare fare la sua prima comparsa nell’encomio di Simonide, forse di stesura più recente rispetto ai distici dettati per i caduti di Sparta e per l’amico e suo ospite Megistia. Simonide, di contro a Pindaro, non ha – l’abbiamo detto – né esitazioni né dubbi di scelta di campo, e sicuramente celebra ancora in prospettiva panellenica le battaglie contro il barbaro combattute a Maratona, all’Artemisio, a Salamina e a Platea12.

Tale è la sua fama, come cantore delle lotte contro l’armata e la flotta di Serse, che la tradizione gli attribuisce tutta una serie di epigrammi celebrativi, difficilmente autentici, composti con consimili stilemi per celebrare l’epopea delle guerre persiane. Una sorta di letteratura ad imitationem Simonidis!13 Due di questi componimenti, non certo coevi, e forse anche attardati, riconducono sicuramente al tema dell’encomio per i caduti alle Termopili, giacché celebrano il motivo dell’eroismo sfortunato da attribuire a guerrieri rapiti “dall’oscura nuvola” della morte, ovvero per sempre destinati a rimanere “disseminati in terra”.

Il primo epigramma (Anth. Pal. 7, 251) propone il tema della resurrezione degli eroi caduti combattendo per la patria; il loro spirito è vivo ed è evocato sulla terra a edificazione morale dei viventi dall’Areté, che è personificazione divina del valore guerriero:

Cingendo di gloria la patria

di inesausta gloria

furono cinti dall’oscura nuvola

della gelida morte,

ma, seppur morti, non sono essi morti

ché la Virtù svegliandoli

con onore li suscita

dalle case dell’Ade.

La gloria è inestinguibile, come il fuoco che non si spenge mai. Alla luce della “inesausta gloria”, o ásbestos kleos, l’autore dell’epigramma, che si compiace nel proporre similitudini contrapposte, assimila la morte a un kyáneon nephos, cioè a una “oscura nuvola” che avvolge gli eroi caduti. Luce e oscurità sono gli orizzonti sensoriali della vita e della morte. Ma, come la luminosità della gloria trascorre nel buio delle tenebre, così, al contrario, nel mondo delle tenebre i martiri eroi “seppur morti, non sono essi morti” perché la virtù guerriera ne evoca di continuo la memoria e l’esempio sul teatro degli umani eventi.

Il secondo epigramma (Anth. Pal. 7, 253), proponendo un analogo messaggio celebrativo, concentra l’attenzione sulla morte del guerriero, cioè sulla bella morte, che deve coronare la sua dedizione alla patria:

Se con la morte si perviene al vertice

della virtù guerriera,

tal ci assegnò destino la Fortuna

ché quivi soccombemmo nello sforzo

d’apporre la corona

di libertà dell’Ellade sul capo.

Ora sparsi per terra riposiamo

rallegrati da lodi

che non invecchieranno.

I caduti hanno agito in nome del bene comune; artefice divina della loro morte è la Fortuna, cioè Tyche, qui divinizzata, che sovrasta il destino dei guerrieri coronata di virtù civiche. Le lodi, come la pietra che ne immortala la memoria, costituiscono una euloghía aghérantos, cioè un elogio che mai invecchierà: le parole celebrative perché, di bocca in bocca, saranno sempre rinnovate dalle generazioni venture, il supporto lapideo perché immutabile e indistruttibile nel tempo.

L’attacco ipotetico dell’epigramma, dalle scoperte venature oratorie, rimanda al pieno IV secolo, così come l’accenno esplicito e prorompente a una lotta combattuta per la libertà dell’Ellade, cioè per l’ideale dell’eleuthería. Il cui concetto è elaborato ed esaltato da Pericle in nome di un’espansione egemonica della sua Atene, e quindi teorizzato dai sofisti in un clima di iniziale declino politico, per poi conoscere una rivitalizzazione nella stagione di crisi delle poleis, quando – a seguito della pace di Antalcida – l’eleuthería viene gradatamente a perdere la sua carica, anche aggressiva, e si declassa al valore di autonomía, ovvero di libertà autogestita soltanto nell’ambito ristretto e circoscritto delle singole città. Né è da escludere che il nostro epigramma sia giunto fino a noi proprio perché riattualizzatosi a commemorare guerrieri caduti a Cheronea, o nel corso della guerra lamiaca, hypèr tēs koinès tōn Hellenōn eleutherías, cioè per difendere, dalle mire di un nuovo barbaro, l’autonomia cittadina o federativa minacciata dalle armi macedoni. Né ha significato obiettare che il famoso decreto di Temistocle, tràdito dalla stele di Trezene (SEG 22, 274), enfatizzi la lotta contro i Persiani di Serse come lotta per la libertà, giacché si tratta di un falso epigrafico confezionato ad Atene in ambienti antimacedoni14. Con buona pace di una minoritaria frangia di studiosi di cultura anglosassone che continua con pervicacia a non arrendersi all’evidenza15.

L’epigramma riattualizza la memoria di giovani combattenti che, opponendosi al barbaro, sono morti nel tentativo eroico di apporre – letteralmente – “la libertà sul capo dell’Ellade”, Helladi gar speúdontes eleutheríēn peritheînai. Dunque una figura simbolica, la Libertà, che deve cingere con una corona un’altra immagine allegorica, l’Ellade! Orbene, subito appresso alla vittoria di Filippo di Macedonia a Cheronea, nel 337-336, il decreto ateniese di Eucrate, con misure estreme contro i sovvertimenti istituzionali, è inciso su una stele marmorea adorna di un rilievo che rappresenta la figura simbolica della Democrazia nell’atto di cingere con una corona la figura allegorica del Popolo di Atene16. La corona, nella stele, è senz’altro una corona vegetale, ma non ci è consentito decifrare se di fronde o di fiori, o frammista di fronde e di fiori secondo un modulo iconografico attestatoci nella stessa età17. Ciò potrebbe indurci a pensare che pure la corona dell’epigramma, quella concepita dal poeta per cingere il capo dell’allegoria della Libertà, potesse essere stata immaginata come floreale, o parzialmente floreale.

8. Il primo scontro sul mare

Il primo contatto ravvicinato, con relativo scontro, tra la flotta ateniese e alleata comandata da Temistocle e quella del Gran Re avviene nelle acque del promontorio dell’Artemisio in Eubea ed è un confronto navale sincronico al combattimento delle Termopili, poste in un’area costiera strettamente limitrofa. Erodoto (8, 9-21) ci parla di una serie di scontri dagli esiti incerti, condizionati dalla furia del vento e del mare, ma la tradizione successiva è concorde nell’ascriverne la vittoria alla flotta ellenica. In realtà, fu un nulla di fatto per entrambe le flotte contendenti, che presto si sarebbero giocate il tutto per tutto nelle acque di Salamina.

Sappiamo che Simonide ed Eschilo, che di persona partecipò ai conflitti contro il barbaro, ne celebrarono l’azione in componimenti perduti: il primo in una lirica, presumibilmente corale, il cui titolo – trasmesso dalla Suda (s.v. Simōnidēs) – è Sulla battaglia dell’Artemisio; il secondo nella tragedia Orizia, di cui è superstite un unico frammento diretto sul quale è bene soffermarci. La protagonista del dramma, Orizia, Oreithyía, figlia del re ateniese Eretteo, rapita da Boreas e trasportata in Tracia, qui ne diviene la consorte. Ma chi è il marito? Quale la connessione con l’Artemisio? È presto detto. Il coniuge, come indica il nome, è il temuto vento del settentrione, che per la tradizione, soffiando con entrambe le guance, avrebbe provocato la tempesta che, presso l’Eubea, scompagina la flotta persiana, provocando il naufragio di alcune sue imbarcazioni. Ragione per la quale, ad Atene, dopo la vittoria sui Persiani, viene consacrato in ringraziamento un tempio a Boreas presso l’Ilisso – occasione in cui sia Simonide sia Eschilo avrebbero composto i loro rispettivi componimenti secondo le conclusioni della critica.

Orbene, il superstite frammento dell’Orizia eschilea (fr. 492b M.), se collocato nella giusta prospettiva, può conservarci un’ombra di memoria di eventi realmente accaduti nella cornice degli scontri dell’Artemisio:

Spengano lo splendore della fiamma

che s’alza impetuosa.

Se pur uno vedrò

alimentare il fuoco,

penetrando con un soffio (gelato

qual torrente invernale),

ne ridurrò in cenere la nave

la coperta incendiandone.

Ma ancora devo sperdere nel vento

il sibilo terrifico.

Incerto è il soggetto di “spengano”, ma probabilmente è da ricercarsi in coloro che dalle fiamme traggono danno. L’io parlante parrebbe Boreas. L’espressione “la coperta incendiandone”, letteralmente “incendierò la coperta”, steghēn pyrōsō, trae supporto dal significato di steghē, ovvero ‘piano di copertura’, quindi ‘tetto di una casa’ o ‘coperta di una nave’. Accezione, questa seconda, che ci offre la giusta chiave di lettura rimandandoci a una realtà marinara. Un ‘qualcuno’, poco gradito a Boreas e facilmente identificabile con un manipolo di arcieri persiani, tenta con proiettili incendiari di dar fuoco alla flotta greca, protetta dal dio che, con un freddo soffio del vento di settentrione, convertirà le fiamme offensive del legno assalitore in fiamme, viceversa, auto-distruttrici.

Due sono gli elementi, frammisti tra loro, che connotano il frammento: il fuoco e il vento. Orbene, i medesimi elementi si rincorrono nella narrazione dell’episodio dell’Artemisio. Erodoto (8, 19, 2) racconta che Temistocle, prima di abbandonare le coste dell’Eubea, invitò i vari comandanti “a ordinare ai propri soldati di accendere fuochi” di bivacco, sicché i Persiani potessero credere che i Greci, che ripiegavano, lì sarebbero rimasti accampati tutta la notte. Racconta inoltre (8, 12-13) che una parte della flotta persiana fu investita da “una pioggia dirotta” mentre “correnti impetuose” la spingevano verso il mare aperto, e un’altra parte venne colpita da una violenta tempesta che la portava “a sbattere contro gli scogli”. E tutto ciò – commenta lo storico – “era opera del dio affinché la flotta persiana fosse pareggiata alla greca e non fosse di molto superiore”.

Il dio, ovviamente, è Boreas! Nulla però nel ‘fuoco’ e nel ‘vento’ di Erodoto è funzionale all’esegesi del frammento eschileo, il cui contenuto potrebbe raffrontarsi, seppure non senza dubbi, con una notizia di Plutarco (Them. 6) che, parlando della spiaggia prossima all’Artemisio, ci dice che qui con la sabbia si mescola “una cenere scura che esce di sotto, apparentemente prodotta da fuoco”. Cenere che segnalerebbe “il punto dove si crede siano state bruciate le navi naufragate con i caduti” nella battaglia combattuta contro i Persiani. Se la diceria popolare fosse attendibile, il riscontro con il frammento eschileo, per quanto esile, sarebbe offerto dalla memoria di imbarcazioni naufragate, anche se solo successivamente investite dal fuoco.

Oltre Simonide ed Eschilo, anche Pindaro, solitamente prudente nel celebrare le guerre persiane per il suo comportamento fin troppo attendista all’epoca dei fatti, ricorda gli scontri dell’Artemisio come la prima tappa della vittoria navale ateniese sulla flotta del barbaro, quasi preannunziassero il domani e preludessero alla giornata radiosa di Salamina. La sua testimonianza è in un frammento (fr. 77 S.-M.) tràdito da Plutarco (Them. 8, 2):

D’Atene i figli posero il radioso

qui fondamento della libertà.

La menzione della guerra contro il barbaro come lotta per la “libertà”, per la eleuthería, tradisce una genesi celebrativa elaborata post eventum. In questo caso dopo Salamina, quando la vittoria navale sulla flotta del Gran Re viene dipinta, in ambito temistocleo, come vittoria di esclusiva marca ateniese: in definitiva, e in forma inclusiva e avvolgente, come miracolo compiuto dai figli d’Atene, dai paîdes Athēnaiōn. Espressione, questa, che ricorre in uno dei cippi in marmo bianco che in cerchio fanno da corona al tempio di Artemide, eretto per celebrare la vittoria greca negli scontri dell’Artemisio. Il testo dell’iscrizione, composta di due distici, è forse da attribuire a Simonide (fr. 109 D.2 = 164 E.), cui l’avrebbe commissionato lo stesso Temistocle18. Testimone, di seguito al frammento di Pindaro, è sempre Plutarco (Them. 8, 5):

Stirpi di variegate moltitudini

qui convenute dalla terra d’Asia

d’Atene i figli vinsero sul mare;

annientati i Persiani consacrarono

i cippi alla deità

salvifica d’Artemide.

L’epigramma, con tutta probabilità, rientra in un programma ateniese volto alla celebrazione delle vittorie conseguite combattendo contro l’armata del Gran Re, ed è comunque composto dopo Salamina, cioè “annientati i Persiani”, epeì stratòs óleto Mēdōn. Nelle “stirpi di variegate moltitudini” venute dall’Asia – un unicum nei distici su marmo – pare quasi di cogliere l’eco dell’elenco multietnico di tutte le genti convenute a formare l’esercito di Serse, come tramandatoci in apertura dei Persiani eschilei. L’epiclesi di Artemide, come precisa Plutarco, è quella di Prosēōia, cioè di una dea ‘che guarda a Oriente’, e quindi che protegge dal pericolo che proviene dall’opposta sponda dell’Egeo. Come ben si addice alla sua localizzazione geografica, sulla costa settentrionale dell’Eubea, che l’ha destinata a essere teatro dei primi scontri con la flotta persiana.

1 Vannicelli 2017, p. 172.

2 Sottolinea sempre Vannicelli 2017 una certa ambiguità del testo.

3 Sul problema vedi Ritti 1973-1974, pp. 642 sgg.

4 Belloni 1988, p. xiii.

5 Vedi Ramelli 2009, p. 749.

6 Un’immagine di propaganda – come meglio chiariremo in seguito – in Gentile 2014, p. 113.

7 Così Lombardo 2005, pp. 173 sgg.

8 Cawkwell 2005, p. 52.

9 Vedi Scott 2015, pp. 104 sgg.

10 Status quaestionis in Meiggs, Lewis 1969, pp. 54 sgg.

11 Riferimenti in Prandi 1990, p. 61.

12 Documentazione in Culasso Gastaldi 1986, pp. 31 sgg. Ma vedi ora soprattutto Bravi 2006, p. 68.

13 Di cui documenta sempre Bravi 2006, passim.

14 Vedi Braccesi 1968, passim e soprattutto Sordi 1971, pp. 215 sgg.

15 Status quaestionis in Meiggs, Lewis 1969, pp. 54 sgg.

16 Riproduzione, con riferimenti alle edizioni, in Guarducci 1987, p. 132, fig. 46.

17 Vedi, exempli gratia, con riferimento cronologico ai secc. IV/III, la corona aurea di Armento (Potenza), oggi a Monaco di Baviera, o quella di Montefortino di Arcevia (Ancona), nonché la corona di rose – sempre aurea – conservata al Museo Nazionale di Taranto. Vedi CatMostra 1984, pp. 100 sgg. e 97 (n. 32 e 28) per i manufatti di Armento e Taranto; nonché CatMostra 1999, p. 678 (n. 614) per il rinvenimento di Montefortino. L’uso ‘privato’ di corone di fiori è già attestato da Saffo, fr. 81 V.

18 Riferimenti in Piccirilli 1983, p. 241.