17

Pedinammo Kerr per tutto il giorno seguente. Andò a fare la spesa, visitò la Dancing Dolphin, ritirò un paio di stivali neri che aveva portato a riparare, pranzò con un panino in un ristorante vegetariano. Non incontrò nessuno e nessuno venne a trovarla nel suo appartamento. Una vita stranamente solitaria, e nessun indizio su quale lavoro facesse per mantenersi.

Mentre io non la perdevo d’occhio, Gus si aggirava nei dintorni, muovendosi avanti e indietro o attraversando la via. Il suo abbigliamento era più modesto, meno country club chic. Portava con sé una Luger .22. Non gli chiesi com’era riuscito a reperirla.

Non riconoscemmo nessuna faccia del video di sorveglianza. Non vedemmo nessuno con una doppia J tatuata sulle mani o una Beretta infilata in tasca.

Nel corso della giornata, Capps mi chiamò per informarmi che John Scranton era stato rilasciato. E, a ogni modo, non vedemmo in giro neanche lui.

Al tramonto ero ormai ingestibile: i miei pensieri correvano in mille direzioni differenti. Proposi di catturare Kerr e picchiarla finché non ci avesse detto tutto quello che sapeva. Gus cercò di farmi ragionare.

Mi disse di comportarmi in maniera sensata per una volta nella vita, parole sue, e di fermarmi al Ritz. Mi ricordò anche che stava facendo il suo dovere, mi copriva le spalle. E aveva una Luger.

Seppur con riluttanza, mi lasciai convincere. La sua camera si trovava al diciannovesimo piano; non era poi così lontana dalla mia. Avevo il rilevatore di movimento e una Glock, la spalla stava migliorando e nessuno cercava di uccidermi da un bel po’. Inoltre il mio giochetto con gli alberghi stava diventando prevedibile.

Quella sera, Gus e io cenammo nella mia suite. Gyros acquistato alla food court del centro commerciale ed Heineken presa dal minibar. Ad Argyle Street, Kerr stava già dormendo. O forse se ne andava in giro sfoggiando i suoi stivali neri con il tacco nuovo di pacca.

«Magari hanno deciso di tenere un basso profilo» dissi.

«Credi?»

«Non sembra che mi stiano sorvegliando.» Ignorai il sarcasmo di Gus.

«Hai ucciso uno di loro e ne hai menomato un altro.»

«Scranton non è menomato.»

«Be’, non potrà suonare il mandolino per molto tempo.»

«Forse hai ragione. Potrebbero essersi fatti diffidenti.»

«Diffidenti? Se la stanno facendo addosso dalla paura!»

«Ammesso sempre che esista un “loro”.» Feci le virgolette con le dita. «E che “loro” siano gli stessi che hanno attaccato la Bnos Aliza.»

«Giusto.»

Ci concentrammo per un po’ sulla carne speziata, la salsa tzatziki e la pita. Gus tirò fuori altre due Heineken dal frigorifero.

«Credi lo sappia, Kerr, che la sto spiando?» chiesi, dopo un lungo sorso di birra. Avrei preferito fosse più fredda.

«Penso che non sospetti nulla.»

«Potrebbero aver verificato se sono ancora ospite al Ritz. Non so, magari hanno chiamato e chiesto che la telefonata venisse inoltrata alla mia camera per lasciare un messaggio, o qualcosa del genere.»

«Qualcuno ti ha chiamata e ha riagganciato subito dopo?»

Feci segno di no con la testa. «Ma finché non sei arrivato tu sono rimasta molto poco nella suite, e mai di notte.»

«Va bene. Ammettiamo che esista un “loro”, che si trovino ancora a Chicago e che stiano progettando un altro attacco. Sanno che non hai lasciato la città, e nella peggiore delle ipotesi potrebbero restarsene rintanati finché non te ne andrai.»

«O è la migliore delle ipotesi?» Feci ballare le sopracciglia come fossi Groucho Marx.

Forse fu colpa della birra, o magari della lunga giornata inconcludente, ma quando Gus rispose le sue parole mi sembrarono attraversate da un sentimento molto vicino alla rabbia.

«Beau ha ragione, lo sai? Questo tuo modo di prendere tutto alla leggera ti farà ammazzare.»

«O diventare ricca.»

«Non è divertente.»

«Non volevo esserlo.» Sì, certo che volevo esserlo.

Seguì qualche secondo di silenzio, poi Gus ricominciò: «Non sottovalutare questa gente, Sunnie. Loro ti vogliono morta».

«Come tante altre persone.»

«Perché sei tu che fai degenerare le situazioni.»

«Che cosa dovrei fare? Starmene seduta bella comoda e aspettare che la ragazza venga uccisa? La nostra inerzia non ha provocato già abbastanza morte?»

«Non lo sapevamo.»

«Avremmo dovuto.» Tagliente. Troppe storie finivano per collassare su quello stesso punto.

«Ci sono altri che possono ritrovarla.»

«Ah, sì? Allora perché non lo stanno facendo?»

«Potrebbe essere morta» disse Gus in tono pacato.

«O potrebbe essere viva, ed essere picchiata ogni giorno con un tubo di gomma.»

Gli occhi di Gus si piantarono nei miei, scuri e pieni di frustrazione. Non distolsi lo sguardo. Fu lui il primo a farlo, abbassando il mento e portandosi il dito destro alla tempia. Quel piccolo gesto così familiare mi colpì dritto al cuore.

Senza dire nulla raccolse l’incarto della sua cena, l’appallottolò e lo gettò nel cestino. Feci la stessa cosa. Lui sollevò la sua bottiglia ormai vuota. Io annuii e lui tirò fuori altre due Heineken.

«Dopo queste c’è rimasta solo della Bud» mi informò.

«Come ho detto a Opaline, è un lavoro difficile.»

Gus si stiracchiò sul divano e incrociò le caviglie. Quando riprese a parlare, sembrò non fossimo mai scivolati nella nostra solita polemica.

«Questo è il loro territorio. Potrebbero essere disposti ad aspettare un bel po’ per la tua partenza.»

«Potrebbero. O potrebbero mandarmi una scatola con dentro un orecchio di Stella.» L’immagine mi chiuse lo stomaco a doppia mandata. A ogni modo, era chiaro che al momento non stavamo andando da nessuna parte.

«Io dico di spaventare un po’ Kerr» propose Gus.

«Mi piace l’idea.» Dicevo sul serio. Finalmente un po’ di azione. «La prendiamo di sorpresa, lasciamo che si dia alla fuga e la seguiamo.»

«Magari potrebbe condurci da “loro”» continuò Gus.

«Magari.»

O magari ci avrebbe portati al corpo crivellato di Stella.

Durante la notte, un nuovo fronte si spiegò su di noi. Il giorno arrivò limpido e pieno di sole. Erano previste temperature superiori ai dieci gradi.

Indossai i jeans e un paio di stivali, infilai la giacca con cui ero partita da Charleston e portai con me la Glock. Occhiali da sole, niente parrucca. Pronta alla battaglia, scesi al secondo piano da Starbucks.

Gus era già seduto a un tavolino, intento a bere un latte macchiato e mangiare un muffin che sembrava fatto di paglia pressata. Presi un caffè e mi sedetti accanto a lui. Ripassammo il piano, poi prendemmo la linea rossa in direzione nord e scendemmo ad Argyle.

Mi appostai nel solito cortile, da sola. Kerr uscì di casa all’una meno venti, portando in spalla una borsa capiente. S’incamminò verso Clark Avenue. Io attraversai la strada e m’intrufolai nel suo appartamento.

Questa volta cambiai approccio. Per quanto metodica, disseminai per casa qualche indizio del mio passaggio. L’angolo di un tappeto leggermente piegato. Un cassetto chiuso male. Segni della visita di un intruso, prudente ma maldestro.

Notai che il laptop non era più sulla scrivania. Forse lo aveva portato con sé? Non persi tempo a farmi troppe domande. In sei minuti ero entrata e uscita.

I trascorsi nell’esercito mi avevano preparata a dovere sul fronte appostamenti, pedinamenti e raccolta informazioni. Il mio primo insegnante di ricognizione era stato il sergente Edwin P. Maddux. Un piccolo stronzo sadico che ci rinfacciava di continuo i nostri errori e ci ricopriva d’insulti. Ma era davvero una spia formidabile. Si diceva potesse materializzartisi in culo senza che tu te ne rendessi conto. Non ho mai saputo per cosa stesse la lettera P del suo nome. Forse Pezzodimerda. Pensando a lui, mi chiesi quali delle mie mosse avrebbe profondamente disprezzato.

Kerr ritornò alle due e un quarto. Mi ero posizionata dall’altra parte della strada, in parte nascosta da un albero ma dentro il suo campo visivo. Gus la seguiva a distanza, da qualche parte.

Appena la nostra vittima si avvicinò all’edificio, distolsi lo sguardo e cominciai a frugare nella borsa: volevo che mi notasse, ma non potevo esagerare. In ogni caso, se si accorse della mia presenza non lo diede a vedere.

Appena entrò nel palazzo mi spostai dall’albero al cortile, ma dietro la fontana anziché sulla mia solita panchina. Presi in considerazione anche il vecchio stratagemma del giornale, ma pensai fosse decisamente forzato.

Mi chiesi se la mia finta irruzione avrebbe funzionato, se Kerr fosse abbastanza sveglia da cogliere tutti gli indizi che avevo lasciato. E, in quel caso, si sarebbe lasciata spaventare?

Non dovetti aspettare a lungo per una risposta. Pochi minuti più tardi vidi una tenda spostarsi all’ultimo piano. Un vero e proprio cliché hollywoodiano.

Io, che ero ancora dietro la fontana, con il viso abbassato, uscii dal mio nascondiglio, mi voltai verso il palazzo e fissai a viso scoperto la finestra all’ultimo piano. Il dio Apollo stava trainando il suo carro con grande entusiasmo: era impossibile che non si accorgesse di una stangona dai capelli rossi con una cicatrice che le segnava il volto. E che non mi riconoscesse.

Pensai che Kerr aveva i suoi buoni motivi per essere preoccupata. Poi pensai che forse si chiamava Latourneau. Di certo, almeno uno dei due passaporti non era autentico; probabilmente era stato rubato e falsificato. Una simile contraffazione poteva costarle fino a quindici anni di carcere, e una multa di duecentocinquantamila dollari. Se poi l’accusa avesse voluto andarci giù pesante, si potevano prendere in considerazione innumerevoli altre leggi contro la falsificazione e il furto d’identità.

In realtà, però, non m’importava dei passaporti. Non volevo lei, volevo i bastardi che avevano fatto saltare in aria una scuola e strappato una ragazzina alla sua vita. Forse per ucciderla. Forse per tenerla prigioniera e sfruttarla ai loro fini. Kerr era la mia esca, loro le mie prede.

La tenda tornò al suo posto. Aspettai.

Sapevo che Miss Cappellino stava soppesando le sue opzioni. E non erano molte. Tenere duro. Radunare le truppe. Scappare.

Durante le due ore successive mi spostai in continuazione dal cortile all’albero. Lei spiava ogni mio spostamento. Immaginai che, tra una sbirciatina e l’altra, stesse facendo telefonate, mandando e-mail, inviando sfilze interminabili di messaggi.

Forse, però, non c’era nessun altro là fuori. Forse, come aveva detto Gus, se la stavano facendo addosso dalla paura. Forse Scranton e il tizio all’obitorio erano tutta la potenza di fuoco che avevano a disposizione. Forse stavano dando a Kerr il benservito. Forse lei aveva organizzato un incontro da un’altra parte. Forse stavano già gettando il corpo di Stella nel lago Michigan. In ogni caso, qualunque fosse la spiegazione, nessuno si presentò.

Kerr avrebbe dovuto stare ferma lì, consumandosi nell’attesa dei rinforzi o preparandosi a resistere. Scelse la terza opzione.

Alle 16:25 uscì dalla porta del palazzo. Indossava un paio di pantaloni neri, una giacca leggera dello stesso colore, il cappellino dei Sox e gli occhiali da sole. La borsa in spalla e una valigia a fiori alla mano destra.

Ero accanto all’albero. Lei mi passò davanti dirigendosi a ovest, e fece molta attenzione a non incrociare il mio sguardo. Cominciai a seguirla, abbastanza lontana da sembrare credibile ma abbastanza vicina perché fosse consapevole della mia presenza.

Pensai al mio caro sergente Maddux. Chissà cos’altro lo avrebbe fatto inorridire.

Nei successivi quaranta minuti la pedinai mentre attraversava quella zona di Chicago. Risalì Clark Street dirigendosi a nord, imboccò Foster Avenue, poi svoltò sulla Broadway camminando verso sud. Da lì, una sequela di deviazioni inutili e stradine secondarie. Mi assicurai che per tutto il tragitto potesse vedermi alle sue spalle.

Giunta all’incrocio tra North Marine Drive e West Gunnison Street entrò al Chicago Lakeshore Hospital. La tallonai anche nell’ingresso affollato, fino a un’uscita laterale. Ovunque andasse, io ero alle sue spalle.

Durante la nostra traversata intravidi Gus soltanto una volta, appoggiato a una fermata dell’autobus di fronte all’ospedale. Ero soddisfatta del look che aveva scelto: pantaloni cargo marroni, giacca a vento nera. Niente che suggerisse la presenza della Luger. Un dettaglio che non contribuì a calmare i miei nervi.

Kerr si diresse su Lawrence Avenue e proseguì fino all’incrocio con Ravenswood Avenue, poi si diresse alla più vicina fermata della linea marrone. Mi attardai un attimo, per continuare la messinscena, poi la seguii nella metro.

Sulla piattaforma c’era una dozzina di persone, ciascuna intenta a combattere la noia dell’attesa. Qualcuno leggeva; altri indossavano le cuffie, immersi in personali concerti da camera. La maggior parte, però, parlava al cellulare o lo fissava digitando. Un vecchio signore portava a gran voce la parola di Cristo. Oppure parlava direttamente con lui.

Mi posizionai sulla banchina all’estremità più lontana da Kerr, tenendo la testa voltata dall’altra parte. Due minuti dopo, il treno arrivò sferragliando.

Il mio bersaglio salì a bordo e si fermò appena dentro. Feci lo stesso, ma entrando nella carrozza successiva. Quando le porte stavano per chiudersi Kerr saltò fuori, e io la guardai andare via.

Mentre il treno si metteva in movimento, intravidi per un istante la sua valigia a fiori. Gus le stava dietro, un sorrisetto stampato sulle labbra.