Dante sedette al tavolo della cucina e guardò affascinato l’esile bionda che si muoveva con gesti fluidi ed efficienti. Non aveva avuto il coraggio di chiederle aiuto sotto la doccia, anche se non si sarebbe opposto se l’avesse raggiunto (non faceva sesso da un bel po’). L’aveva trovata in camera, in attesa che lui finisse, e le aveva poi permesso di controllare le ferite, le parti intime coperte. Sogghignante, si era chiesto se la dottoressa avesse notato il gonfiore sotto l’asciugamano, specie quando lo aveva toccato sulla coscia. Accidenti, persino il suo profumo lo eccitava. Odorava di pioggia e vaniglia, un aroma che improvvisamente lo aveva aggredito come un fottutissimo veleno, intossicandolo.
«Davvero è un dottore? Ventisette anni sono pochini per essere un medico.» Anche se fosse stata fresca di laurea, sarebbe stata comunque troppo giovane.
Di sicuro è una gran prepotente! Si era messa all’opera in cucina senza neanche chiedergli il permesso, informandolo semplicemente che avrebbe preparato qualcosa da mangiare per entrambi quando aveva scoperto che lui non aveva pranzato.
«Sono un dottore, sì. Ho cominciato il college a dodici anni e a sedici ero già specializzata in biologia e musica. A ventuno ho terminato la facoltà di Medicina e a ventiquattro ho fatto il tirocinio a Chicago in medicina interna. Ho poi esercitato, sempre a Chicago, per un anno, prima di trasferirmi qui dove mi trovo da quasi dodici mesi. Ho compiuto ventisette anni la settimana scorsa.»
«Una bambina prodigio.» Dante la guardò dare i tocchi finali a due sandwich.
Sarah Baxter si strinse nelle spalle. «Detesto quel modo di dire. Ho semplicemente fatto i miei studi a un ritmo accelerato.»
A un ritmo accelerato, certo! È uno stramaledetto genio.
Lo aveva già intuito sentendola parlare, ma in quel momento non era stato esattamente concentrato sul suo super cervello.
Gli occhi di Dante osservarono con attenzione il lato B tondeggiante e le lunghe gambe, immaginandole avvinghiate intorno ai suoi fianchi mentre lui faceva scivolare il suo sesso nel calore umido di lei. “Bella e dotata” sarebbe stata una descrizione più appropriata per definire Sarah Baxter, ma tacque. Appena qualche minuto prima aveva fatto l’errore di menzionare i suoi meravigliosi occhi, occhi dalle iridi di un’affascinante sfumatura di viola. In cambio ne aveva ricevuto una dissertazione su come in realtà fossero blu scure, aggiungendo che gli occhi viola non esistevano sulla scala Martin o-di-chi-altro, tranne nei casi di albinismo. Sarah aveva proseguito dicendo qualcosa sui colori che s’indossavano e sul fatto che una diversa gradazione di luce facesse apparire i suoi occhi di una tonalità differente. Dante non aveva ascoltato la maggior parte dei dettagli, perso com’era in quelle iridi incredibili. Di quale colore sarebbero diventate se fossero state accese dal desiderio?
Invece di scoraggiarlo, l’intelligenza di quella ragazza lo eccitava. Era infinitamente diversa da qualunque altra donna avesse mai conosciuto. Nulla sembrava sorprenderla o irritarla davvero, a eccezione dell’iniziale stupidità da lui mostrata in cantina, e così aveva smesso di provocarla (almeno per il momento) e iniziato a farle domande.
«Ha il quoziente intellettivo di un genio, dunque» buttò lì. Notò che i capelli di Sarah, ormai asciutti, erano di una tonalità di biondo più chiara rispetto a quando erano umidi. Le punte si erano arricciate.
«Centosettanta, l’ultima volta che l’ho testato. Qualche tempo fa» ammise un po’ seccata.
«Uguale a quello di Einstein» fece lui in tono casuale.
Sarah gli mise davanti un sandwich al prosciutto e gli fece cenno di mangiare. «In verità, Einstein non ha mai eseguito un test di valutazione dell’intelligenza. È stato stimato solo approssimativamente che il suo QI potesse oscillare tra i centosettanta e i centottanta. Nessuno lo sa per certo.»
«Uguale a quello di Einstein» ribadì Dante, divertito dalle informazioni che sembravano fluire senza difficoltà da quella bocca. Aveva mai condotto una conversazione normale?
Prese il panino e iniziò a mangiare, sorpreso di avere fame per la prima volta da quando era stato ferito. Sfortunatamente, perse l’appetito non appena, qualche istante dopo, Sarah gli porse gli antidolorifici e un bicchiere di succo. «Non li voglio. Li ho presi da poco.» Meglio mentirle. L’ultima cosa che voleva era un’altra fottutissima predica su quelle stupide pillole.
«No, non è vero.» Sarah appoggiò le medicine e il succo accanto al piatto, prese il proprio panino e il bicchiere di latte e si sedette di fronte a lui.
Dante aggrottò la fronte nell’osservare l’espressione infelice della giovane dottoressa. No, non aveva preso le pillole, ma di solito era bravo a sparare stronzate, un talento piuttosto ben sviluppato grazie al suo lavoro. «Come fa a saperlo?»
Gli occhi di lei lo fissarono con un’intensità tale da colpirlo dritto all’anima, uno sguardo dal quale si capiva perfettamente il disappunto per quella menzogna. Sarah morse il panino e masticò pensierosa. «Prove e ragionamento, detective Sinclair. Chi meglio di lei potrebbe saperlo? Le sono state prescritte sessanta pillole, esattamente il numero che vedo nel flacone. Ho solo tirato le debite conclusioni. Non ne ha presa nemmeno una.»
Merda. Beccato! Questo fatto che sia così dannatamente intelligente non mi va proprio giù! Ha contato ogni singola pillola. Quale cavolo di medico fa una cosa del genere?
Sarah buttò giù un sorso di latte prima di continuare. «Ha il respiro corto e superficiale. Sono certa che il precedente dottore le abbia detto quanto sia importante respirare il più profondamente possibile e tossire per prevenire la polmonite che potrebbe insorgere a causa della frattura alle costole. È necessario che prenda gli antidolorifici per un po’; la aiuteranno a sopportare il dolore della tosse e a respirare a fondo. Per il resto, le ferite stanno guarendo bene.»
«Voglio sentire il dolore» ammise Dante, cauto.
«Perché?»
Lo sguardo di lui si fissò in quello di Sarah. Non lo stava giudicando né cercava di rabbonirlo come faceva lo psicologo del dipartimento. Era semplicemente… curiosa. I suoi comportamenti non avevano senso per quella mente logica.
«Patrick è morto e io sono vivo. Lui aveva una moglie e un figlio che lo adoravano.» Merda. Come avrebbe potuto spiegarle come si sentiva quando lui stesso non lo capiva? Sapeva soltanto che sarebbe dovuto toccare a lui. Che diavolo gli succedeva? Aveva dei fratelli che si preoccupavano di ciò che gli accadeva, lo sapeva perfettamente, ma non era lo stesso che avere una vita come quella che Patrick si era lasciato alle spalle, con Karen e Ben. Loro erano una famiglia. Patrick era un padre. E adesso… restavano solo un figlio orfano e una moglie vedova.
Dante non era mai stato così vicino a una donna. Certo, scopava ogni volta che ne aveva l’occasione, ma soprattutto con quelle che, come lui, volevano storie passeggere. Essere un detective della Omicidi era un lavoro che impegnava ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Lui era il suo lavoro. Mangiava, respirava e dormiva per il suo lavoro. Gli piaceva così.
«So che ha perso il suo migliore amico e partner, ma che c’entra questo col prendersi cura di se stessi? Cosa potrebbe comportare il fatto di non assumere le medicine?» Sarah pareva confusa.
«Quella pallottola sarebbe dovuta essere mia. E così non avrei lasciato un figlio senza padre e una moglie disperata. Patrick aveva una vita piena. Conoscevo i rischi di questo lavoro, quando ho iniziato, e mi stava bene che potessi morire da un giorno all’altro tentando di ripulire le strade dagli assassini.»
«Non crede che anche Patrick lo sapesse?»
“È morto facendo esattamente quello che voleva fare. Gli piaceva essere un detective, gli piaceva fare squadra con te. Non è colpa tua. Entrambi conoscevamo i rischi e io li ho accettati quando ho deciso di sposarlo.”
Il possente corpo di Dante fu scosso da un brivido nel risentire nella propria mente le parole di Karen. «Lo sapeva, certo, ma non credo che avesse mai accettato il fatto che potesse davvero toccare a lui» bofonchiò qualche istante dopo.
«La gente gestisce i lavori rischiosi in tanti modi diversi. Sono sicura che ne avesse la consapevolezza ma che preferisse non soffermarsi troppo» fu la replica più che ragionevole di Sarah. «A giudicare dal numero di messaggi telefonici ricevuti da persone preoccupate per lei, mi sento di affermare che a piangerla sarebbero stati in molti. Prenda quelle pillole, detective Sinclair. Si consideri fortunato ad avere così tanta gente in ansia per la sua sorte» concluse. Lo fissò intensamente, poi si alzò per posare il piatto vuoto nel lavandino.
Travolto da un improvviso impeto di frustrazione, Dante fece volare una mano sul tavolo nel tentativo di spazzar via le pillole. Il palmo mancò gli antidolorifici e colpì invece il bicchiere di succo che fu catapultato in direzione di Sarah per poi frantumarsi accanto all’acquaio, alla sinistra di dove si trovava la donna. In reazione all’inconsueto rumore, lei mosse un passo indietro e così facendo posò un piede scalzo su un frammento appuntito di vetro.
«Ahi!» Confusa, arretrò ferendosi anche l’altro piede. E questa volta fu meno cauta con le parole. «Merda!» Immobile, valutò la situazione, gli occhi fissi sul pavimento. Poi si spostò con attenzione dalla zona delle schegge e afferrò una manata di tovaglioli di carta. Si sedette e lanciò a Dante uno sguardo d’accusa. «Voleva colpirmi? Se è così, la sua mira fa pena.»
Inorridito, Dante guardò il piccolo lago di sangue e le impronte rosse lasciate da Sarah sul pavimento. Si alzò il più rapidamente possibile, fece il giro del tavolo e s’inginocchiò davanti a lei, dimentico del dolore che lo tormentava. Avrebbe potuto replicare di essere un tiratore esperto, uno dei migliori del dipartimento, e che quando mirava a qualcosa non la mancava mai. «Cazzo! Non volevo colpirla. È stato un incidente.»
La osservò estrarre alcuni pezzetti di vetro dal piede destro, quello messo peggio, appoggiarli con cautela su un tovagliolo di carta sistemato sul tavolo e cercare di tamponare il sangue.
«Che posso fare? La porto in ospedale?»
«No» esclamò lei con eccessivo trasporto. «Sono un medico. È una ferita superficiale. Posso prendermene cura io stessa.» Puntò il dito in direzione della porta della cucina. «Ho bisogno di un po’ di quelle bende che ho usato per medicarle il braccio e la gamba.»
Nonostante le ferite, Dante si mosse come se fosse inseguito da un petardo. Si sentiva impotente e anche parecchio in colpa. Tornò poco dopo con le bende e s’inginocchiò di nuovo di fronte a lei, adesso tutta presa a esaminare il piede sinistro.
«Un taglio superficiale» mormorò. I riccioli biondi le coprirono il viso quando abbassò la testa per controllare più da vicino. Rapida, appoggiò uno spesso tampone di garza sulla ferita e passò di nuovo al destro.
Dante trattenne il fiato nel vedere il sangue sgorgare. Merda! Era un idiota bastardo. Le sue azioni avventate erano state la causa della ferita di Sarah. «Probabilmente ci vorrà qualche punto.» Non era un medico, ma era stato addestrato a eseguire manovre di pronto soccorso in caso di emergenza.
«Dev’essere pulita a fondo» rispose Sarah senza guardarlo. «Ci penso io.» E avvolse una benda intorno al piede dopo aver applicato sulla ferita numerosi strati di garza.
Dante sgranò gli occhi quando la vide alzarsi e cominciare a pulire il sangue dal pavimento e raccogliere con cautela i pezzi di vetro più grossi. «Lasci stare!» ordinò con voce bassa e imperiosa. Quindi si alzò a sua volta, le cinse la vita con un braccio e la sollevò. Mugolò di dolore quando il corpo di lei gli urtò il petto. Senza fiato, la depose lontano dai cocci senza mai sciogliere la stretta. «Mi dispiace. Non intendevo farle del male. Volevo solo sbarazzarmi di quelle pillole. Ho colpito il bicchiere per sbaglio. Non era mia intenzione romperlo.» Stava blaterando come un idiota, ma chissà perché per lui era importante che Sarah capisse che il suo non era stato un gesto intenzionale.
«Ne sono certa» bofonchiò lei, anche se poco convinta, divincolandosi dalla stretta.
Dante la seguì in soggiorno.
Lei afferrò la borsa e si infilò i sandali lasciati accanto all’ingresso. Aprì la porta e lo guardò. «Ha perso il suo compagno di squadra e me ne dispiace. Pensi però a Patrick, detective Sinclair, e si chieda se avrebbe voluto che agisse in questo modo contro se stesso. Se fosse stato lei a morire, avrebbe approvato un simile comportamento da parte sua? Mi lasci dire che, ora come ora, non sta affatto aiutando il suo amico.»
«Non era mia intenzione ferirla» mugugnò Dante, ancora preoccupato dal sangue che aveva visto sgorgare dal piede.
Sarah gli lanciò un’occhiata caparbia. «Se le dispiace davvero, prenda quelle dannate pillole.» Poi, senza aggiungere altro, uscì e si chiuse la porta alle spalle.
Incredulo che se ne fosse andata camminando sui piedi feriti, spalancò il portone giusto in tempo per vederla montare in macchina e imboccare il vialetto.
«Che donna testarda!» bofonchiò irritato, sentendosi ancora in colpa.
Patrick avrebbe approvato quel comportamento da idiota? Certo che no! Il partner gli avrebbe rotto le scatole ripetendogli che doveva dominarsi, che doveva smetterla con quelle stronzate autodistruttive. Nei primi periodi della loro collaborazione lo aveva spesso rimproverato di agire troppo d’impulso, e lui aveva presto imparato a esercitare un maggiore autocontrollo. Col passare degli anni, era riuscito a dominare la rabbia, consapevole che anche la più piccola stupidaggine avrebbe potuto vanificare un’indagine.
Ritornato in cucina, iniziò pian piano a pulire il pavimento, scosso dalla vista del sangue che macchiava le piastrelle. Quando terminò, stava ansimando.
“Ha il respiro corto e superficiale.”
Infastidito che le parole di Sarah Baxter continuassero a perseguitarlo, inspirò a fondo e tossì per poi aggrapparsi a un angolo della credenza per non cadere quando una fitta acuta gli squarciò il petto conducendolo a un passo dallo svenimento. Dire che vide le stelle non avrebbe reso l’idea.
Sono un coglione. Se davvero volevo torturarmi, bastava un colpo di tosse!
Si sarebbe potuto risparmiare lo sforzo di andare in cantina e sollevare pesi. Un colpo di tosse o un respiro profondo sarebbero stati sufficienti a farlo soffrire. Il dolore era lo stesso, se non addirittura peggiore. A cosa diavolo stava pensando quando lo aveva fatto?
La verità era una sola: aveva smesso di pensare. Si muoveva solo per reazione. Forse aveva sperato che il male lo annichilisse, che lo aiutasse a non riflettere, a non rivivere ogni istante della morte di Patrick.
“Crede che Patrick avrebbe voluto che agisse in questa maniera?”
Perseguitato dalle parole pronunciate da Sarah prima di andarsene, prese una birra dal frigorifero, la stappò e sedette al tavolo della cucina. Lui e Patrick erano stati inseparabili per cinque anni. Quando lavoravano a un caso particolarmente difficile capitava che trascorressero insieme dalle dodici alle quindici ore. Non erano molte le cose che lui non sapeva del compagno. Avevano trascorso gran parte del loro tempo a insultarsi, ma sapeva esattamente come avrebbe reagito l’amico di fronte a un simile comportamento da parte sua.
«Mi avresti preso a calci in culo, caro il mio Patrick» disse con voce pacata prima di bere un sorso di birra.
Posò la bottiglia sul tavolo e si passò le mani sulla faccia, attento a non urtare la ferita in via di guarigione sulla guancia. Se si comportava così non era per Patrick ma per se stesso. L’amico avrebbe voluto che si prendesse cura della sua famiglia, si assicurasse che Ben e Karen stessero bene. Aveva provveduto affinché non avessero mai più problemi economici, ma non era stato capace di telefonare alla moglie o al figlio da quando erano andati a trovarlo in ospedale. Bastava che li vedesse per ricordarsi di Patrick, del fatto che lui era vivo mentre l’amico se n’era andato per sempre. Karen e Ben avevano una famiglia numerosa in California, ma non importava. La moglie e il figlio erano le persone più importanti nella vita di Patrick, e lui avrebbe voluto che il compagno se la cavasse bene sia da un punto di vista emotivo sia fisico.
Karen e Ben non mi biasimano. Sono venuti a trovarmi in ospedale per dimostrarmelo. L’idiota sono io. Mi sono allontanato da loro per colpa del rimorso che provo. Io. Io. Io. Ruota tutto intorno a me, non intorno a loro.
Si alzò e, con una smorfia, allungò una mano per prendere gli antidolorifici rimasti sul tavolo.
«La festa dell’autocommiserazione è finita, Sinclair» sussurrò in tono di disgusto, usando le stesse parole che Patrick gli diceva quando lui aveva bisogno di un bel calcio in culo.
Si era comportato come un idiota sin dall’istante in cui si era svegliato dopo l’operazione e si era reso conto della morte dell’amico. Nei confronti dei fratelli aveva mantenuto un atteggiamento distaccato, anche se, uno dopo l’altro, erano tutti accorsi al suo capezzale. Evan era addirittura arrivato dall’altro capo del mondo! E cosa aveva fatto lui? Non si era neanche preso la briga di sentire Karen e Ben da quando era stato dimesso.
Aveva addirittura ferito Sarah Baxter, una donna venuta fino a casa sua per aiutarlo, per fare il suo stramaledetto lavoro.
Tutto questo perché sono in lutto per la mia perdita.
Sarah aveva ragione. Il suo comportamento non aiutava l’amico morto.
Era arrivato il momento di alzare la testa. Ecco cosa avrebbe voluto Patrick.
Si era sentito annichilito dopo aver ricevuto la notizia della morte del migliore amico, aveva seppellito il dolore che provava nella parte più profonda di sé, aveva cercato il dolore fisico perché gli causava meno pena del rimorso di sapere che lui era ancora vivo mentre Patrick non c’era più. Forse si trovava ancora in una fase di negazione. Gli bastò confrontarsi faccia a faccia con il proprio lutto per sentire urlare dentro di sé il dolore fisico delle ferite, senza nemmeno cercare di risvegliarlo.
Afferrò la birra dal tavolo, si avvicinò zoppicando all’acquaio e vuotò la bottiglia. Basta con questa merda fino a quando non sarò guarito. Aprì un pensile, prese un bicchiere e lo riempì d’acqua.
Cristo! Persino sollevare il braccio lo faceva soffrire. Sembrava che le ferite bruciassero da dentro e il dolore al petto e alle costole era ancora peggiore.
“Se davvero le dispiace, prenda quelle maledette pillole.”
Le labbra di Dante accennarono un sorriso. Sarah Baxter era probabilmente la donna più diretta e particolare che avesse mai conosciuto, ma apprezzava quelle qualità. Era un mistero, pensò il poliziotto che era in lui scattando sull’attenti… insieme a un’altra parte della sua anatomia che sembrava non riuscire a controllare ogni volta che la guardava.
Accidenti! Si sentì mortificato per averle fatto male. Era un poliziotto e il suo primo istinto era di proteggere gli altri. L’agente che era in lui detestava l’idea di aver fallito con Sarah. Il fatto che si fosse ferita per colpa sua lo faceva imbestialire ancora di più con se stesso.
Era anche vero, impossibile negarlo, che avrebbe voluto scoparsela e che quella bramosia gli era esplosa dentro nell’istante in cui l’aveva vista. Una simile reazione doveva pur significare qualcosa, considerato che non era esattamente nella forma fisica anche solo per pensare a portarsi a letto una donna. Eppure ci stava pensando eccome! C’era qualcosa in Sarah Baxter che lo affascinava non soltanto dal punto di vista fisico. La sua mente elaborava ogni informazione in cerca di una risposta logica, eppure, al tempo stesso, irradiava innocenza e compassione, una combinazione particolarissima e intrigante.
Dante rovesciò la testa all’indietro, prese quelle “dannate pillole” e le buttò giù con tutta l’acqua contenuta nel bicchiere, che poi posò nel lavandino.
Quando uscì dalla cucina aveva una missione.
Tra le tante telefonate che fece, la prima (e la più lunga) fu per Karen e Ben.