7. La speculazione: il gene mancante della vergogna
«Avete portato questo paese al peggiore panico finanziario della storia».
«Abbiamo portato questo paese, signore, alla sua posizione nel mondo grazie alla speculazione».
Questo scambio di battute, avvenuto nel 1932 tra Smith Brookhart, della commissione del Senato americano sulle banche e la valuta, e Richard Whitney, presidente della Borsa di New York, sulle responsabilità del crollo del ’29, serve a ricordarci che la speculazione è una questione che divide quanto il denaro stesso. Occupa anche un posto speciale, come vedremo, nell’eterno dibattito sul carattere morale del capitalismo.1In un senso alquanto letterale, però, Whitney aveva ragione. Dopo tutto, la conquista del West era stata stimolata dalla speculazione terriera. E questo a sua volta ci ricorda che c’è un bel po’ di ipocrisia al riguardo – quanto mai evidente nel caso del settimo presidente degli Stati Uniti d’America. Andrew Jackson, celebre generale e flagello degli speculatori, in realtà era stato anche lui uno speculatore terriero. Ma il premio per l’ipocrisia va senza dubbio a Karl Marx. Nella sua biografia dell’autore del Capitale, Francis Wheen rivela che questo accanito oppositore del capitalismo aveva confessato a un amico di aver speculato
un po’ su funds [obbligazioni statali] americani, ma specialmente su azioni inglesi, che quest’anno spuntano come funghi quaggiù (per tutte le possibili e impossibili società per azioni), vengono spinte fino a certi valori irragionevoli e poi per lo più si sgonfiano. A questo modo ho guadagnato più di quattrocento sterline, e, ora che la confusione della situazione politica offre nuovo campo d’azione, ricomincerò. Questo tipo di operazioni porta via poco tempo e si può già rischiare qualcosa per togliere denaro ai propri nemici.2
In poche parole, Marx era quello che oggi chiameremmo un «day trader». D’altronde viveva della carità altrui, soprattutto di Friedrich Engels, il capitalista cacciatore di volpi, proprietario d’azienda e coautore del Manifesto del Partito Comunista. Le ironie si sprecano.
Prima di parlare dei beni e dei mali della speculazione bisogna fare alcune distinzioni importanti, e spesso difficili. Quando, nel 1867, il primo ministro britannico William Gladstone perorò presso la regina Vittoria la nomina a pari del banchiere Lionel Rothschild, la risposta di Buckingham Palace fu di questo tenore:
La Regina non può proprio decidere di farlo. Non si tratta solo di una sensazione di cui non può liberarsi, avversa all’idea di concedere il titolo di Pari a una persona di religione ebraica; ma non riesce a immaginare che un uomo la cui enorme ricchezza deriva da contratti di Prestito con Governi Stranieri o a speculazioni di borsa andate a buon fine possa ragionevolmente reclamare il titolo di Pari.
Per quanto elevata possa essere la stima di cui gode la persona di Sir L. Rotchschild, quest’attività pare nondimeno [alla regina] una specie di gioco d’azzardo, poiché avviene su una scala gigantesca – ed è ben lungi dal legittimo commercio che Ella è lieta di onorare, in cui gli uomini hanno raggiunto posizioni di ricchezza e influenza grazie a una paziente operosità e indefettibile probità.3
A tempo debito, il regale antisemitismo si attenuò e i Rothschild entrarono nella Camera dei Lord. Oggi però molti simpatizzerebbero con la regina Vittoria e la sua predilezione per ciò che chiamava «legittimo commercio» e «paziente operosità», credendo istintivamente che trattare beni tangibili sia in qualche modo più virtuoso dell’intangibile finanza – un tema già esplorato nel capitolo 4.
Altre distinzioni sono meno facili da operare. Sir Ernest Cassel, banchiere del figlio della regina Vittoria, Edoardo VII, e per questo chiamato «Windsor Cassel», disse: «Quand’ero giovane, la gente diceva che ero un giocatore d’azzardo. Quando le mie operazioni aumentarono di dimensione, cominciarono a darmi dello speculatore. Oggi mi definiscono un banchiere. Ma per tutto il tempo ho sempre fatto la stessa cosa». Nel suo bel libro Devil Take the Hindmost. A History of Financial Speculation, Edward Chancellor scrive:
La linea di confine tra speculazione e investimento è talmente sottile che è stato detto sia che la speculazione è il nome dato a un investimento andato male sia che l’investimento è il nome dato a una speculazione riuscita. Fred Schwed, un esperto di Wall Street, ha affermato che chiarire la differenza tra investimento e speculazione sarebbe «come spiegare a un adolescente tormentato che l’Amore e la Passione sono due cose diverse. L’adolescente percepisce che sono differenti, ma non lo sembrano abbastanza da risolvergli i problemi». Schwed concludeva che i due concetti possono essere distinti sulla base che l’obiettivo principale dell’investimento è la preservazione del capitale, mentre l’obiettivo principale della speculazione è l’accrescimento della propria ricchezza. Per citare le sue parole: «La speculazione è un tentativo, probabilmente fallito, di trasformare pochi soldi in una montagna di denaro. L’investimento è il tentativo, che dovrebbe riuscire, di evitare che una montagna di denaro si riduca a pochi spiccioli».4
Analoghi problemi di definizione si hanno nel distinguere la speculazione dal gioco d’azzardo. Se un cattivo investimento può essere una speculazione, una speculazione malfatta è spesso descritta come una scommessa. Il finanziere americano Bernard Baruch una volta venne congedato dalla presenza di John Pierpont Morgan per aver pronunciato la parola «scommessa» in relazione a una proposta di business. In seguito, Baruch ricordò che «non esiste investimento che non coinvolga un certo rischio e che non sia una specie di scommessa». La psicologia della speculazione e quella del gioco d’azzardo sono quasi indistinguibili: sono entrambe abitudini che danno dipendenza e che implicano un ricorso alla fortuna, spesso sono accompagnate da un comportamento maniacale, e il loro successo è subordinato al controllo delle emozioni.5
Forse il modo più semplice di descrivere la differenza tra speculazione e investimento è distinguere tra coloro che cercano di trarre profitto dalla variazione di prezzo degli asset, di solito in un arco di tempo relativamente breve, e coloro che desiderano assicurarsi un profitto puntando sulla redditività di un asset nel lungo periodo. I primi sono speculatori; i secondi investitori. Quanto agli asset, alcuni sono speculativi pressoché per definizione, perché non generano reddito. L’oro o altri beni ricadono in questa categoria. Le opere d’arte sono ancora più speculative, perché il loro valore dipende interamente dal gusto e la moda. (Come vedremo in uno dei prossimi capitoli, questo non ha impedito al fondo pensione delle ferrovie britanniche nazionalizzate di costruirsi un portafoglio di opere d’arte durante il grande panico inflazionistico degli anni settanta, o alle compagnie assicurative giapponesi di comprare dei van Gogh durante la bolla giapponese degli anni Ottanta). Oggi i beni entrano sempre più nei portafogli degli investitori. Alcuni strumenti finanziari sono, per così dire, a doppio uso: option, swap e derivati creditizi possono essere utilizzati sia per proteggersi che per speculare, mentre investire con denaro preso in prestito – investire sul margine – è sempre considerato speculativo. E lo stesso vale per lo short selling (vendita allo scoperto), in cui si prendono in prestito dei titoli per rivenderli nella speranza di poterli ricomprare a meno più avanti e guadagnare sulla restituzione dei titoli al prestatore.6
Queste attività hanno per loro natura un orizzonte temporale limitato, soprattutto nei casi in cui le valutazioni sugli investimenti sono scollate dai fondamentali economici sottostanti. Com’è noto, John Maynard Keynes nella sua Teoria generale spiegava come mai l’investimento a lungo termine fosse stato soppiantato dalla speculazione. Il fine dell’investimento più abile, scrisse usando un’espressione americana, era di «beat the gun», scattare prima del segnale di partenza. E lo paragonava ai concorsi dei giornali dove bisognava scegliere i sei volti più graziosi da un centinaio di fotografie, e il premio andava al concorrente la cui scelta più si avvicinava alla media delle preferenze di tutti i lettori. Per vincere, il concorrente doveva scegliere non quelli che secondo lui erano i volti più belli, ma quelli che secondo lui avevano maggiori probabilità di affascinare i suoi rivali, i quali, tutti quanti, consideravano il problema dallo stesso punto di vista:
Non si tratta di scegliere quelli che, giudicati obiettivamente, sono realmente i più graziosi, e nemmeno quelli che una genuina opinione media ritenga i più graziosi. Abbiamo raggiunto il terzo grado, nel quale la nostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l’opinione media immagina che sia fatta l’opinione media medesima. E credo che vi siano alcuni i quali praticano il quarto, il quinto grado e oltre.7
Da una prospettiva storica, il dibattito più appassionato sui pro e i contro della speculazione avvenne tra due padri fondatori degli Stati Uniti, Alexander Hamilton e Thomas Jefferson. Hamilton, il segretario del Tesoro, voleva che il governo federale avesse il potere di tassare e di creare credito per la nuova repubblica. Perciò propose di istituire una banca centrale modellata sulla Bank of England. Per Jefferson invece le banche, e soprattutto le banche centrali, rappresentavano un anatema, e le città sulla costa orientale, dove governava il denaro, erano cloache di iniquità. E lo era anche Londra, sede delle banche a cui Jefferson stesso doveva dei soldi. Come molti altri prima e dopo di lui, preferiva la produzione di cose reali – idealmente la produzione agricola – all’arricchimento dai soldi, che lui – come Aristotele – pensava fosse un’assurdità.
Quel che seccava Jefferson, tanto quanto il progetto di Hamilton della prima banca degli Stati Uniti, era la proposta di emettere un nuovo debito federale in cambio delle cambiali con cui i soldati erano stati pagati durante la Rivoluzione. Dopo la guerra, i governi statali e quello federale erano stracarichi di debiti. Alcuni Stati non erano più affidabili dal punto di vista creditizio. Hamilton voleva consolidare tutto quel debito a livello federale per rilanciare la reputazione creditizia del paese. Le riserve di Jefferson però non erano campate in aria. Gli speculatori di New York, agendo in base a informazioni privilegiate sui piani di Hamilton, avevano comprato grandi quantità di quelle cambiali a prezzi stracciati. Questo poneva a Hamilton un dilemma. I soldati dovevano essere risarciti delle loro perdite, o si doveva permettere agli speculatori di guadagnarci? Pur di stabilire l’affidabilità creditizia al nuovo paese, Hamilton decise che il governo dovesse onorare i contratti e garantire la trasferibilità dei titoli. Il biografo di Hamilton, Ron Chernow, chiarisce:
Hamilton privò i suoi oppositori della loro superiorità morale e pose le basi legali e morali della negoziazione di titoli in America: l’idea che i titoli siano liberamente trasferibili e che i compratori si assumano tutti i diritti dei guadagni e delle perdite nelle transazioni. L’idea che il governo non potesse interferire retroattivamente in una transazione finanziaria era così essenziale [...] da contare più di qualsiasi vantaggio a breve termine. Pur di affermare il concetto di «trasferimento dei titoli» Hamilton era disposto, se necessario, a premiare delle canaglie mercenarie e a penalizzare cittadini patriottici.8
Ed è proprio quel che fece. Era chiaramente ingiusto, ma fu anche un momento simbolico per i giovani Stati Uniti. Col senno di poi, è evidente che in tal modo Hamilton annunciò ai ricconi di tutto il mondo che potevano investire negli Stati Uniti sapendo che i diritti di proprietà erano solidi e i contratti di debito sacrosanti. Seguì un forte afflusso di capitali che arrecò immensi benefici all’economia in via di sviluppo. Era un altro, importante senso in cui la dichiarazione di Richard Whitney a Smith Brookhart sul valore della speculazione per gli Stati Uniti era corretta. Questa decisione controversa lasciò comunque un retrogusto amaro per lungo tempo. Come ha evidenziato lo storico Simon Schama:
Dal 1790 in poi, quando Thomas Jefferson, quel lirico della vita agreste (purché fossero gli schiavi a svolgere i lavori pesanti) tentò di convincere il presidente George Washington che il progetto di Andrew Hamilton di una banca centrale costituiva una minaccia per le libertà americane, la trappola del sospetto verso le banche, soprattutto le banche centrali, non ha quasi mai smesso di scattare.9
L’ironia in questo caso è che la comunità rurale idealizzata da Jefferson aveva tratto enormi benefici da una delle innovazioni finanziarie più controverse. I commodity futures, tanto spesso considerati altamente speculativi, hanno permesso agli agricoltori di vendere i raccolti in anticipo a prezzi che permettevano loro di garantirsi un profitto sicuro prima di sapere come sarebbe andata la produzione. Il rischio viene quindi mitigato. In effetti, gli argomenti a favore della speculazione poggiano soprattutto sul fatto che gli speculatori si assumono i rischi rifiutati dagli altri. Senza di loro, gli investitori convenzionali non sarebbero in grado di coprirsi o di vendere così in fretta, quindi fanno funzionare i mercati in modo più efficiente.
Jeff Frankel, un economista di Harvard, ha illustrato il classico dilemma morale insito nella speculazione citando la versione cinematografica di La valle dell’Eden, in cui il carismatico James Dean interpreta il personaggio di Cal.10 Come Caino nella Genesi, Cal si disputa con il fratello l’amore del padre, un patriarca moralista. Decide di scommettere sul rialzo delle azioni delle società produttrici di fagioli (cioè «va lungo», per usare il gergo borsistico), confidando in un aumento della domanda se gli Stati Uniti dovessero entrare nella prima guerra mondiale. Quando il prezzo dei fagioli va alle stelle, guadagna una fortuna e la offre a suo padre perché si rifaccia dei soldi persi in un’altra impresa. Purtroppo per Cal, il padre si sente moralmente oltraggiato perché non vuole arricchirsi sulle sfortune altrui e lo esorta a «restituire i soldi» – una proposta davvero ardua, tra parentesi, in mercati finanziari tanto grandi e diversi.
La tesi di Frankel è che un «portatore di cattive notizie» come Cal svolge un’importante funzione sociale nel sistema capitalistico, perché comunica che la maggiore domanda probabilmente farà salire presto i prezzi. Le sue decisioni mandano il segnale di prezzo che serve a far riallineare le risorse reali con il futuro equilibrio tra domanda e offerta. Senza lo speculatore, l’aumento dei prezzi sarebbe anche più accentuato perché ci sarebbe minore offerta.
Analogamente gli short seller possono avere un’importante funzione sociale. Facciamo il caso di un’azienda finanziariamente sotto stress che voglia aumentare il capitale. Molti investitori saranno disposti a comprare cambiali sulla base che si copriranno contro il rischio di detenere il debito «andando corti» sulle azioni della società. Se la società finisce nei guai, il profitto sulla transazione di short selling controbilancerà le perdite del debito. Questo parrebbe a molti moralmente accettabile. E la maggior parte dello short selling, per inciso, è costituito da operazioni di arbitraggio come questa, più che da vere e proprie scommesse sulla cattiva performance di una società. Eppure suscita critiche infervorate (e parziali). Gli stessi che sono entusiasti quando gli short seller nel mercato petrolifero fanno abbassare il prezzo del greggio, criticano chi va corto sulle azioni di una compagnia petrolifera. I presidenti e gli amministratori delegati sono tra i critici più feroci perché detestano i giudizi negativi sul proprio operato e temono che un tracollo del prezzo delle azioni possa far traballare la loro poltrona.
Tale controversia risale almeno all’inizio del XVII secolo, quando la Compagnia Olandese delle Indie Orientali presentò un reclamo contro la Borsa di Amsterdam per i grandi profitti fatti dagli short seller nel 1609. Questo portò a imporre l’anno seguente dei regolamenti sullo short selling – una reazione che si sarebbe ripetuta spesso dopo i crac dei mercati, compreso il crollo di Wall Street del 1929, quando l’urgente bisogno di trovare dei capri espiatori scatenò una caccia alle streghe contro gli short seller.11 Il classico effetto di questi regolamenti è che la liquidità del mercato – la capacità di negoziare grandi quantità di titoli senza causare volatilità – si riduce, e di conseguenza la raccolta di capitali diventa più difficile. In tempi più recenti Kenneth Lay, presidente della Enron, la multinazionale che operava in campo energetico e fallita nel 2001, ha attribuito il tracollo del gruppo a perfidi short seller, mentre Dick Fuld della Lehman Brothers ha dichiarato: «Se trovo uno short seller, gli strappo il cuore e glielo mangio sotto gli occhi mentre è ancora vivo». Eppure erano proprio gli short seller ad aver ragione. Avevano individuato i punti deboli della Enron e della Lehman, e il ribasso del prezzo delle loro azioni era un corretto riflesso della realtà economica via via che questi gruppi estremamente mal gestiti si avvicinavano al fallimento. Questo punto fondamentale, tra parentesi, è stato ben compreso dai grandi romanzieri. Il drammatico epilogo di Il denaro di Zola, scritto alla fine dell’Ottocento, descrive un’operazione di short selling in cui un brillante finanziere capisce che la banca di un rivale è fraudolenta, e ne provoca il fallimento. Sebbene Zola intendesse denunciare il malcostume e la corruzione del secondo impero francese, evidenziando i tremendi effetti della speculazione sulla gente comune, mostrò anche che lo short selling poteva mettere a nudo delle scomode verità.
Milton Friedman, economista e grande propagandista del capitalismo di libero mercato, sosteneva che in genere la speculazione avrebbe un’influenza stabilizzante sui mercati. E tra gli economisti è diffusa l’idea che una speculazione stabilizzatrice possa smorzare la volatilità dei mercati, perché gli speculatori sono pronti a pensare controcorrente. Friedman però si spinse oltre. A suo parere, chi ritiene che la speculazione sia destabilizzante non si rende conto che è come dire che gli speculatori perdono soldi, dato che la speculazione può essere generalmente destabilizzante solo se gli speculatori di media vendono quando i prezzi sono bassi e comprano quando sono alti. In altre parole, possono solo destabilizzare il mercato se, di media, non pensano mai controcorrente. Quest’idea però si reggeva su basi meno solide. Lo storico dell’economia Charles Kindleberger ha obiettato che, in una bolla, gli speculatori non sono tutti uguali. C’è sempre un gruppetto di insider fissi che comprano azioni, o promuovono società, quando i prezzi sono bassi, e le vendono quando sono alti, affrettando il tracollo. Un gruppo molto più ampio di ingenui outsider – i leggendari camerieri e lustrascarpe del crollo del ’29, per esempio – comprano in ritardo, perdono soldi e tornano a servire e a lustrare scarpe dopo che il mercato è crollato.
Dickens lo capì meglio di molti economisti sostenitori del libero mercato – raccontando in Nicholas Nickleby, già citato nel capitolo 5, il lancio della «Compagnia Metropolitana per la confezione e pronta consegna a domicilio di focaccine e frittelle calde perfezionate», con quel suo nome portentoso.12 I promotori, tra cui Ralph, lo zio di Nicholas Nickleby, uno dei tanti orchi prestasoldi della letteratura dickensiana, stavano lanciando una società che non svolgeva alcuna attività e che con ogni probabilità non avrebbe mai ottenuto dal Parlamento la concessione da cui dipendevano i futuri guadagni. Questo comportamento truffaldino è un fenomeno tipico delle bolle. In base ai dati sulla seconda metà del XX secolo, gli economisti hanno stabilito che le società arrivate sul mercato azionario senza aver prima dato dei profitti, di media vanno peggio del previsto e hanno un più alto tasso di fallimenti delle altre. La natura «intrallazzante» di queste truffe è esemplificata da un promotore e collega di Ralph Nickleby, il signor Bonney, descritto come un uomo sempre trafelato:
«Mio caro Nickleby,» disse [il signor Bonney] togliendosi il cappello che era bianco e talmente pieno di carte che a stento riusciva a infilarselo. «Non vi è un minuto da perdere! Ho la carrozza alla porta. Presiederà Sir Matthew Pupker e interverranno addirittura tre membri del Parlamento. Due li ho fatti alzare io dal letto; il terzo, che ha passato la notte da Crockford, è corso a casa per cambiarsi la camicia e a bere una bottiglia o due di acqua minerale, ma farà certo in tempo a venire fra noi per parlare ai convenuti; è un po’ agitato dopo la notte in bianco, ma non importa: parla ancora più energicamente quando è così.
«Pare che la cosa prometta piuttosto bene» disse il signor Ralph Nickleby, il cui atteggiamento calmo contrastava non poco con la vivacità dell’altro uomo d’affari.
«Piuttosto bene!» ripeté il signor Bonney. «Ma è l’idea più bella che sia mai stata varata. E che formula! “Compagnia Metropolitana per la confezione e pronta consegna a domicilio di focaccine e frittelle calde perfezionate. Capitale, cinque milioni di sterline suddiviso in cinquecentomila azioni da dieci sterline l’una”. Credete a me, basterà la dicitura a far salire in dieci giorni il prezzo delle azioni.»
«E quando saranno salite di prezzo...» osservò con un sorriso il signor Ralph Nickleby.
«Allora lo sanno tutti e lo sapete benissimo anche voi ciò che va fatto e come ci si deve ritirare senza chiasso al momento giusto!» concluse il signor Bonney, battendo amichevolmente la mano sulla spalla dell’altro finanziere.13
Anche molti dei più grandi speculatori la pensano come Kindleberger, perché sanno per esperienza che i prezzi possono non essere allineati con i fondamentali per lunghi periodi. Secondo George Soros, il gestore di hedge fund e filantropo che nel 1992 guadagnò miliardi scommettendo contro la sterlina, che uscì dal Sistema Monetario Europeo, la convinzione che i mercati si correggano da soli è una forma di fondamentalismo economico – un punto già esaminato nel capitolo 5. A suo parere, una caratteristica innata del capitalismo è che i mercati sono per loro natura instabili. Soros ha guadagnato delle fortune analizzando e approfittando proprio di queste aberrazioni del mercato. Dal punto di vista economico, allora, esiste una buona speculazione e una cattiva speculazione. Quella buona, basata su scrupolose analisi dei fondamentali economici, fa funzionare in modo più efficiente i mercati. Quella cattiva deriva dall’effetto «gregge», dove gli speculatori seguono semplicemente un trend. In questo modo possono contribuire a una bolla in cui i prezzi scindono una società quotata dalla realtà economica. Quando la bolla scoppia, può accelerare una grave recessione o persino un crollo.
Se è difficile argomentare a favore dei benefici economici e sociali della speculazione, lo si deve in parte al fatto che, come in La valle dell’Eden, gli speculatori come gli short seller traggono profitti dalle disgrazie altrui: il tracollo del mercato immobiliare, una scarsità di cereali o il declino di una compagnia. Una conseguenza è che diventano degli ottimi capri espiatori. Fred Schwed, l’ex trader di Wall Street citato prima, l’ha capito benissimo:
Una parte lesa non può mettere le mani su una brutta inflazione creditizia o sulla legge della gravitazione. Allora dà molta più soddisfazione convocare a Washington Mr J.P. Morgan, la perfetta incarnazione della Ricchezza, e fargli porre, da uomini molto meno benestanti, un mucchio di domande a cui lui non può rispondere in modo soddisfacente.
Comunque sia, Mr Morgan e i grandi banchieri non sono dei capri espiatori perfetti: in fin dei conti, bisogna fare un certo sforzo mentale per collegare le loro attività incaute o presumibilmente criminali alla brutta situazione in cui ci troviamo. Forse hanno scialacquato il credito nazionale (lo sanno tutti cos’è, anche se non sanno spiegarlo bene) o forse hanno fatto qualcos’altro di persino peggiore e più difficile da capire.
La nostra brutta situazione, invece, è chiara come il sole. Andiamo «lunghi» su diverse centinaia di azioni della Radio, e il margine sta scomparendo. All’inizio ci era arrivata una soffiata da nostro cognato, che l’aveva avuta da un Pezzo Molto Grosso che aveva conosciuto a un picnic sulla spiaggia. Quel Pezzo Grosso, non era neppure lontanamente grosso quanto Mr Morgan, né aveva mai conosciuto lui o altri «baroni ladroni».
Che dire invece degli short seller? Fuochino. Nell’esatto momento in cui stavamo comprando quell’azione, pieni di speranza e ottimismo verso un futuro più roseo, quei tipi, uomini senza pietà, la stavano vendendo, e la vendevano senza neppure averla!14
Schwed, che riteneva che l’influenza degli short seller sui mercati contasse «poco più di una goccia nel mare e poco meno di un fico secco», scriveva alla fine degli anni trenta, ma la sua ironia non sarebbe stata fuori luogo nel secondo dopoguerra. Quando la Gran Bretagna fu obbligata a svalutare, nel 1967, il primo ministro laburista Harold Wilson incolpò gli «gnomi di Zurigo» dell’attacco alla sterlina. Più di recente, nel 2011, quando i prezzi dei beni alimentari stavano andando alle stelle, il presidente francese Sarkozy dichiarò che la speculazione sui prodotti agricoli non era niente di più che estorsione e saccheggio. Ed è vero che l’aumento dei prezzi dei beni alimentari nel mondo fu un grave problema che innescò diffuse rivolte nei paesi in via di sviluppo. Contribuì anche a dar vita alla Primavera Araba. Tuttavia, le ricerche condotte dal Fondo Monetario Internazionale, dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, la Federal Reserve e altre serie istituzioni, in questo caso non hanno confermato l’eventuale rapporto di causalità tra la speculazione sui mercati e i prezzi dei beni. La politica monetaria espansiva, la crescente domanda di beni alimentari in mercati emergenti come la Cina e l’India, l’instabilità nei paesi produttori di petrolio in Medio Oriente, le condizioni climatiche estreme e i sussidi ai produttori di etanolo, possono avere influenzato i prezzi più della speculazione, malgrado le rimostranze del presidente Sarkozy. Detto questo, sempre più prove indicano che la speculazione finanziaria sta causando un’estrema volatilità dei prezzi, dato che le banche d’investimento e i fondi pensione trattano i beni come una classe specifica di asset che in teoria dovrebbe offrire i benefici della diversificazione. Questa volatilità può anche essere esacerbata dalle attività di trader «ad alta frequenza» che usano algoritmi computerizzati per analizzare i dati del mercato e negoziare freneticamente nell’arco di millisecondi o persino microsecondi. Anche lo short selling dei bancari è discutibile, quando la fiducia è fragile, perché un titolo in picchiata può scatenare l’assalto ai depositi di una banca solvente e causarne il crollo.
Un’altra ragione per cui la speculazione ha sempre suscitato reazioni contrastanti è che le borse merci e le borse valori dove c’è stata tanta speculazione erano fino a poco tempo fa luoghi alquanto sgradevoli, e anche gli speculatori erano persone alquanto sgradevoli. Un’idea di come fosse la vita del mercato nei primi tempi delle borse valori può essere desunto dal titolo di un saggio scritto da Daniel Defoe nel 1719 e citato nel capitolo 5:
L’anatomia di Exchange Alley, o Un sistema di compravendita di titoli: a dimostrazione che questo commercio scandaloso, com’è oggi condotto, è furfantesco nella sua pratica privata e un alto tradimento in quella pubblica ... a cui sono da aggiungere alcuni caratteri delle persone più eminenti coinvolte oggi, e per alcuni anni passati, nello svolgere questo commercio pernicioso – scritto da un operatore di borsa.
In realtà Defoe stesso era un operatore di borsa e uno dei più importanti speculatori del suo tempo. All’epoca, l’insider dealing era dilagante nella City. Gli speculatori cercavano di monopolizzare un titolo per creare una scarsità artificiale ed erano usi ad altre forme di manipolazione del mercato, di short selling e, con l’aiuto di giornalisti corrotti, di diffusione di voci false. Fu solo nel XX secolo che queste pratiche vennero vigorosamente, ma certo non totalmente, frenate dalla regolamentazione. Molta della regolamentazione venne introdotta in seguito al crollo del ’29. E vale la pena notare, en passant, che Richard Whitney, il grande paladino della speculazione, alla fine andò in galera per appropriazione indebita.
Quanto al capitalismo, la speculazione ha mosso qualche passo verso una certa rispettabilità. Questo progresso, com’era prevedibile, interessò per primi gli Stati Uniti, patria di Bernard Baruch, la perfetta incarnazione dello speculatore rispettabile che a cavallo del Novecento guadagnò una fortuna nel mercato dello zucchero. Nel 1917, davanti alla Commissione per il Regolamento della Camera dei Rappresentanti statunitense, Baruch spiegò cosa pensasse della speculazione e dello short selling, dicendo che «per approfittare dei vantaggi di un libero mercato, bisogna avere sia compratori che venditori, rialzisti e ribassisti. Un mercato senza ribassisti sarebbe come una nazione senza una stampa libera. Non ci sarebbe nessuno che critichi e freni il falso ottimismo che porta sempre al disastro».15
Il fatto che Baruch fosse un noto speculatore non gli impedì di diventare un consulente del presidente Woodrow Wilson per la difesa durante la prima guerra mondiale. Diede anche un importante contributo all’incremento della produzione industriale in tempo di guerra. Poi diventò un consulente del presidente Franklin Delano Roosevelt, e dopo il 1945 raccomandò il contenimento e l’eliminazione delle armi nucleari. Eppure la fama di Baruch è ascrivibile molto più alla reputazione che si era guadagnato per aver previsto il crac del ’29 che per i suoi servigi alla nazione. È paradossale. James Grant, storico e commentatore finanziario, ha dimostrato tramite una ricerca meticolosa che Baruch perse un mare di denaro nel crollo di Wall Street, anche se riuscì a conservare un’enorme fortuna. In quanto saggio versatile e cortigiano politico, era inevitabilmente esposto all’accusa di essere influente più per la sua ricchezza che per la sua saggezza. Questo sospetto è evidente nella famosa battuta di Dorothy Parker, citata da Grant, in cui la scrittrice disse che due cose la confondevano: il meccanismo della cerniera lampo e l’esatta funzione di Bernard Baruch.
Altri speculatori si ritrovarono una rispettabilità piovuta dal cielo, soprattutto Joseph Kennedy, il padre di Jack, Robert e Edward, che fece una fortuna con lo short selling durante il crollo del ’29. Fu il primo presidente della Commissione per i Titoli e la Borsa (SEC), che era stata incaricata di ripulire il mercato azionario americano dopo la scoperta di una serie di macchinazioni manipolatorie e fraudolente affiorate nel crac. Kennedy passò abilmente dall’altra parte della barricata proprio quando il dibattito Hamilton-Jefferson sulla moralità della speculazione si era riacceso, anche per via dei tanti fallimenti bancari e per il clima di forte avversione a Wall Street. Oggi gli speculatori il più delle volte operano sotto forma di gestori di hedge fund. Per esempio, dal crollo del valore degli ABS (titoli garantiti da attività) e dal conseguente crollo delle azioni ordinarie, nel 2007-2009 belve degli hedge fund come John Paulson hanno tratto enormi profitti.
Dire però che la speculazione abbia finalmente raggiunto la rispettabilità sarebbe esagerato. Nella cultura occidentale, la tradizione cristiana fa sì che molte persone si sentano ancora a disagio a guadagnare dalle disgrazie altrui e a far soldi dai soldi – cosa che invece non impensierisce i cinesi, tanto per dire, che sono più a loro agio con la speculazione. Esistono comunque certe categorie di persone che sembrano avere maggiore capacità di vincere le inibizioni rispetto ad altre. È chiaro che i mediatori di borsa si preoccupano della cosa meno di altri. Questo vale però anche per molti economisti, forse perché la loro disciplina li incoraggia a pensare in modo del tutto obiettivo al comportamento del mercato.
Nel Regno Unito, alcuni dei maggiori speculatori sono stati degli economisti. David Ricardo, famoso per aver teorizzato la legge del vantaggio comparato, una delle idee più influenti della scienza economica, guadagnò (come Nathan Rothschild) scommettendo contro la vittoria francese a Waterloo. Accumulò una considerevole fortuna nella sua attività di borsa, cosa che gli permise di andare presto in pensione per dedicarsi alla scrittura ed entrare in Parlamento. Anche Keynes era un grande speculatore, malgrado le sue riserve sulla speculazione e più in generale sul capitalismo. Rischiò la bancarotta quando, dopo la prima guerra mondiale, scoprì che giocare nel mercato valutario basandosi su giudizi economici a lungo termine era la ricetta perfetta per il disastro. Perse tutto e contrasse un debito di quasi cinquemila sterline con il suo broker, Buckmaster & Moore. Per sua fortuna, sir Ernest Cassel, un amico di famiglia, andò in suo soccorso e gli prestò il denaro per continuare a giocare in borsa e recuperare la sua posizione. Il grande economista però riperse quasi tutti i suoi soldi nel 1929. Nel 1936, aveva riportato il suo patrimonio a più di cinquecentomila sterline, l’equivalente di 25 milioni di dollari del 2008, ma poi subì un’altra batosta nel 1937-38.
Keynes era pronto a lanciarsi in operazioni da far drizzare i capelli in testa. Nel 1936, per esempio, in seguito a una speculazione sui mercati delle merci, gli venne chiesto di prendere in consegna la fornitura mensile di frumento dall’Argentina, mentre il mercato stava precipitando. Lui voleva stivarlo nella Cappella del King’s College, che peraltro costituiva uno dei massimi esempi di architettura tardo gotica d’Inghilterra. Quando scoprì che era troppo piccola per contenere tutto il grano, si mise a sindacare sulla qualità del cereale. Una volta che il grano fu ripulito, il prezzo del cereale era ormai risalito sufficientemente, e Keynes chiuse la transazione senza perdite né scomodi stoccaggi. Alla fine, ne uscì vincitore: quando morì, nel 1946, possedeva un patrimonio di oltre 12 milioni di sterline attuali.
Sebbene avesse scritto nella Teoria generale che l’investimento basato su aspettative a lungo termine è così difficile da risultare poco praticabile, è bene ricordare che Keynes investì anche con eccezionale successo su lunghi periodi di tempo. Dal 1924 fino alla sua morte, si occupò della gestione di un fondo del King’s College chiamato il Forziere. Qui combinò insieme la sua conoscenza della psicologia dei mercati e dei fondamentali economici, analizzando i conti delle società quotate su base giornaliera per gran parte della sua vita. Robert Skidelsky, autore della pregevole biografia di Keynes da cui deriva in larga parte quest’informazione, afferma che tra il 1920 e il 1936 il capitale del Forziere aumentò di sette volte tanto, un risultato davvero notevole in quegli anni, quando il mercato era depresso. La performance del fondo superò anche gli indici di borsa del periodo.
Altri sono spinti alla speculazione dalla disperazione. Claude-Henri de Rouvroy, conte di Saint-Simon, il riformatore sociale ed economista le cui idee anticiparono quelle di Keynes, venne rovinato dalla Rivoluzione francese e cercò di tamponare le perdite speculando sui biens nationaux, le terre confiscate dalla Rivoluzione al re e alla Chiesa. Fece una fortuna, che perse prontamente, e decise quindi di dedicarsi a cause più degne per cui è oggi famoso. Questa storia è l’ennesima conferma di quanto possa essere pericolosa la speculazione. Anche gli operatori di borsa più esperti possono sbagliarsi. Jesse Livermore, uno degli speculatori più famosi di tutti i tempi, guadagnò una fortuna di 3 milioni di dollari e poi una di 100 milioni di dollari grazie allo short selling nei due crac del 1907 e del 1929. Però aveva anche un talento per perdere soldi, e sperperò quelle somme omettendo di seguire le sue stesse regole per giocare in borsa. La sua più grande disgrazia era di soffrire di un disturbo maniaco depressivo. Quando la sua fortuna si esaurì, nel 1940, si sparò nel bagno del Sherry Netherland Hotel di New York.
La disperazione può anche avere un ruolo nell’attività speculativa dei rogue traders (trader disonesti), che ricadono in una categoria tutta loro. La caratteristica principale del rogue trading è che si verifica in un grande ente dove i controlli interni sono carenti. I rogue trader giocano con il denaro altrui e nella maggior parte dei casi non traggono profitti personali. Questo perché la loro attività speculativa il più delle volte è un tentativo di rimediare a errori e perdite fatte per conto del datore di lavoro. E così si lanciano in scommesse sempre più grandi e rischiose, una prassi che a volte è chiamata gambling for redention (si scommettere per recuperare).
In tempi ormai passati c’era un pizzico di onore tra i trader disonesti. Quando la Lazard Brothers, il braccio londinese dell’impero bancario Lazard, fu messa in ginocchio nel 1931 da un rogue trader della sua sede di Bruxelles, il colpevole confessò e si tirò un colpo. Nick Leeson, un trader che nella sala contrattazioni di Singapore ha fornito un perfetto esempio del comportamento delirante citato prima da Edward Chancellor, fece fallire la Barings, un’altra grande banca d’investimento britannica. Ma lui e altri recenti rogue trader come Jérȏme Kerviel della Société Générale sembrano non avere il gene della vergogna. Oggi capita spesso che i rogue trader europei scontino brevi condanne in carcere prima di entrare nel circuito delle conferenze e raccontare al mondo che il danno arrecato era soprattutto colpa dei loro stupidi e arroganti capi. I loro omologhi negli Stati Uniti vengono condannati a pene molto più severe, e quando escono tendono a mostrare maggiore umiltà o una ritrovata fede religiosa.16
Oggi, molta della speculazione finanziaria in atto è stata istituzionalizzata nel sistema bancario. Dai primi anni ottanta, le grandi banche si sono trasformate da enti che accettano depositi e concedono prestiti, in conglomerate che svolgono sostanzialmente operazioni di trading. Queste megabanche hanno cominciato a vendere agli investitori la maggioranza dei prestiti concessi sotto forma di pacchetti e ad avere grandi dipartimenti di proprietary trading, cioè di negoziazione di titoli in conto proprio. Secondo le stime di Andrew Haldane della Bank of England, nel caso delle principali banche globali la percentuale di asset presente nei loro portafogli finanziari è raddoppiata tra il 2000 e il 2007, passando dal 20 al 40 per cento. In particolare, l’aumento delle negoziazioni di strumenti derivati e prodotti strutturati come le collateralised debt obligations e i credit default swaps è stato spettacolare. Nella prima decade del nuovo millennio, molte di queste contrattazioni in quelle che l’investitore Warren Buffett chiama «armi finanziarie di distruzione di massa» hanno avuto luogo non nelle borse organizzate, ma in opachi mercati non regolamentati dove le transazioni avvengono per via telematica o telefonica tra singole banche e compagnie. Alla fine del 2008, il valore lordo di mercato di questi strumenti derivati non regolamentati ha superato i 32 trilioni di dollari, secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali. Il risultato è che le banche più grandi del mondo assomigliano ormai più a degli hedge fund che a delle banche tradizionali, tranne che supportano quest’attività con molto meno capitale, il che sottolinea la natura speculativa dell’intera operazione. George Soros, un vero gestore di hedge fund, ha messo in dubbio l’utilità sociale di molta di quest’attività frenetica in stile hedge fund, come del resto ha fatto anche Adair Turner, l’aristocratico inglese che presiedeva la Financial Services Authority britannica dopo la crisi finanziaria.
Quando tutto questo trading è andato a rotoli, mentre il mondo finanziario si disintegrava nel 2007-2009 e le maggiori banche dovevano essere salvate dai contribuenti, l’avversione jeffersoniana alla finanza ovviamente riprese slancio e portò al più grande sforzo di ri-regolamentazione dagli anni trenta, uno sforzo che comprendeva vari tentativi di impedire il proprietary trading delle banche. Quella tra politici e banche è però una lotta impari, perché il Grande Denaro negli Stati Uniti paga il finanziamento elettorale dei politici. La Dodd-Frank Act era appena entrata in vigore, che un esercito di politici, le tasche imbottite di soldi ricevuti da Wall Street, si diedero un gran daffare per smantellarla.
Naturalmente, c’è sempre una minoranza che crede, come il mediatore di borsa ottocentesco citato nella storia del broker londinese Cazenove scritta da David Kynaston, che «una borsa valori che consente solo attività d’investimento sarebbe utile e popolare quanto un bar che può vendere solo bibite analcoliche». Ma la stragrande maggioranza condivide l’idea di Henry Ford, non troppo lontana da quella della regina Vittoria, che la «speculazione è solo una parola che nasconde il guadagno tratto dalla manipolazione dei prezzi, invece che dalla fornitura di beni e servizi».
Ma forse il vero problema della speculazione, come della gran parte dei meccanismi del capitalismo, è la sua intrinseca tendenza all’eccesso. Nel grande dibattito sulla speculazione, Keynes è più vicino a Hamilton che a Jefferson. Capiva però anche i limiti dell’argomentazione di Hamilton, come si evince da una delle sue frasi più famose:
Gli speculatori possono non causare alcun male, come bolle d’aria in un flusso continuo di intraprendenza; ma la situazione è seria quando l’intraprendenza diviene la bolla d’aria in un vortice di speculazione. Quando lo sviluppo del capitale di un paese diventa un sottoprodotto delle attività di una casa da gioco, è probabile che vi sia qualcosa che non va bene.17
Si tratta, alla fine, di una questione d’equilibrio. Se la speculazione diventa eccessiva, i costi economici, come abbiamo imparato nel 2007-2009, possono essere terrificanti. La conseguenza è che vivremo con un debito che è aumentato enormemente, e così i nostri figli. Alla luce di questa realtà, un altro aforisma di Jefferson ha oggi una profonda eco: «Ogni banca d’America costituisce un’enorme tassa sul popolo per il profitto di pochi».