5. Sofisti, economisti e calcolatori

Una caratteristica evidente dell’approccio angloamericano al capitalismo nei venticinque anni antecedenti la grande crisi finanziaria era la fede in quella che Ronald Reagan chiamava «la magia del mercato». Il mercato, aveva dichiarato il presidente americano in un suo discorso alla radio nel 1984, avrebbe creato opportunità di crescita e progresso, senza il peso morto dell’interferenza dello Stato. La sua fiducia nella capacità di un mercato senza vincoli di portare vantaggi economici e sociali era supportata dai migliori sforzi degli economisti della University of Chicago. Questi alti sacerdoti del capitalismo hanno avuto una potente influenza sul comportamento della comunità finanziaria. Tra i frutti principali del loro lavoro c’era la cosiddetta «teoria dei mercati efficienti», introdotta da Eugene Fama negli anni sessanta e settanta. Esistono versioni differenti di questa teoria, ma secondo quella più nota il prezzo di un asset finanziario è sempre corretto, perché la competizione tra gli attori del mercato, che cercano il profitto, fa sì che qualunque divergenza tra prezzo e valore sia eliminata in fretta. Nei mercati finanziari, i prezzi dovrebbero quindi riflettere accuratamente tutte le informazioni disponibili. In base alla teoria dei mercati efficienti, il livello di un mercato azionario rappresenta quindi una buona previsione del valore attuale dei futuri utili di tutte le società che vi sono quotate. Questa teoria sottintende l’idea che i mercati finanziari si correggano da soli.

Data l’irrequietezza dei mercati azionari, sembrerebbe una tesi controintuitiva. È anche in contrasto con gli estremi boom e crac che si verificano nel mercato immobiliare e che così spesso sono alla base delle crisi finanziarie. La ricorrente perdita di memoria collettiva dimostrata dai banchieri nel concedere prestiti immobiliari non sembra il risultato di decisioni ben ponderate, da Homo œconomicus. E come si può conciliare la teoria dei mercati efficienti con le grandi aberrazioni finanziarie, come la bolla dei Mari del Sud di cui scrisse Alexander Pope:

Alla fine la corruzione, come un’inondazione

(Tanto a lungo contrastata da vigili ministri)

Sommergerà tutto; e l’avidità, insinuandosi piano,

Si espanderà come un’ignobile nebbia, e offuscherà il sole.

Statisti e patrioti venderanno azioni,

Nobili vedove e maggiordomi si divideranno la cassa;

I giudici giocheranno in borsa, e i vescovi trufferanno la città,

Potenti duchi imbroglieranno le carte per mezza corona:

Vedrete la Bretagna sprofondare in un sordido lucro [...]

«Tutto questo è folle», esclama l’uomo serio e saggio:

ma chi, amico mio, ragiona quando è in preda al furore?

La passione dominante, qualunque essa sia,

la passione dominante vince sempre sulla ragione.1

Per tutta la storia ci sono stati periodi in cui i prezzi degli asset si sono discostati di molto dai fondamentali economici, spinti da quella che Jonathan Switf, nella sua ballata The Bubble, chiamava «la pazzia delle folle». Questi episodi, che spaziavano dalla mania dei tulipani olandesi nel Seicento alla Bolla del Mississippi nella Francia del Settecento, vennero descritti brillantemente in La pazzia delle folle, ovvero le grandi illusioni collettive del giornalista ottocentesco Charles Mackay, su cui torneremo fra poco.2

Se vi sembra un dibattito puramente accademico, sappiate che non lo è. Infatti gran parte dell’instabilità che oggi affligge l’economia mondiale è un diretto riflesso della direzione aberrante imboccata dall’economia accademica negli ultimi sessant’anni circa. Pensate, prima di tutto, alla profonda influenza che la teoria dei mercati efficienti ha avuto sul pensiero dei banchieri centrali, che sempre più sono reclutati tra i ranghi dell’accademia invece che tra i professionisti del mercato. Prima degli anni ottanta, i banchieri centrali erano estremamente attenti a mantenere la stabilità finanziaria. William McChesney Martin, presidente della Federal Reserve dal 1951 al 1970, riassunse notoriamente tale attenzione quando disse che il compito della FED era di «portar via la ciotola del punch quando la festa comincia a scaldarsi» – vale a dire, inasprire le politiche, magari alzando i tassi di interesse o ponendo un freno al credito bancario. L’attenzione alla stabilità finanziaria cadde vittima della moda accademica negli ottanta e novanta, quando l’ascesa degli economisti professionisti nella confraternita dei banchieri centrali portò sempre di più a privilegiare il contenimento dell’inflazione come unico obiettivo della politica monetaria. Secondo quella nuova opinione dominante, se il livello dei prezzi al consumo o dei prodotti veniva mantenuto stabile, era improbabile che si verificassero crisi finanziarie, e quindi non c’era bisogno di intervenire per scongiurare eventuali bolle. E comunque, chi erano i banchieri centrali per anticipare le mosse dei mercati efficienti? Come Alan Greenspan, un altro presidente della FED, avrebbe spiegato al Congresso degli Stati Uniti quando la bolla delle dot.com di fine anni novanta si avvicinava al suo apice: «In genere le bolle sono riconoscibili solo a posteriori. Individuare una bolla in anticipo significa presumere che centinaia di migliaia di investitori informati abbiano sbagliato tutti. Di solito scommettere contro i mercati è, come minimo, rischioso».3

La cosa notevole, circa questa dichiarazione, è che cinque anni prima, nel 1994, Greenspan e la Federal Reserve si erano accorti del pericolo di una bolla nei prezzi degli asset, ed erano riusciti a scongiurarla alzando i tassi di interesse. E nel 1995 Greenspan aveva chiaramente capito che il boom della tecnologia si stava trasformando in una bolla, tanto che nel maggio di quell’anno disse al principale organismo di policymaking della FED, il Federal Open Market Committee: «Per quanto mi riguarda, mi preoccupa di più la bolla dei prezzi delle azioni che non i prezzi dei prodotti». Nel contempo, temeva che se la FED avesse sgonfiato la bolla avrebbe anche «sfasciato l’economia». A una riunione del FOMC (Federal Open Market Committee) del settembre 1996, disse: «A questo punto, riconosco che esiste un problema di bolla del mercato azionario. [...] Abbiamo la possibilità di suscitare forti preoccupazioni aumentando i requisiti di margine. Vi garantisco che se volete liberarvi di questa bolla speculativa, qualunque cosa sia, questa è un’ottima soluzione».

Più avanti, quell’anno, tenne un discorso in cui usò la famosa espressione «euforia irrazionale» per descrivere il comportamento degli investitori nel mercato azionario. Da allora in poi, però, dedicò parecchio tempo a giustificare il livello sempre più alto del mercato attribuendolo a un miracolo di produttività. E lo fece nonostante il considerevole scetticismo dei dirigenti anziani della FED. Quando il mercato raggiunse il suo momento più burrascoso, Michael Prell, un economista della FED, disse al FOMC che le offerte pubbliche iniziali delle azioni delle dot.com ricordavano l’atmosfera della bolla dei Mari del Sud. Ma il presidente non apprezzò l’accostamento, ed estromise dalle deliberazioni del FOMC i membri che erano preoccupati dalla bolla. Per tutto il suo mandato, Greenspan esercitò uno stretto controllo sul comitato.4

Mentre la saga delle dot.com andava fuori controllo, Greenspan, che era diventato estremamente influente, continuò a sostenere che siccome per le banche centrali era impossibile individuare e sgonfiare le bolle, dovevano limitarsi a dare una ripulita dopo lo scoppio. Data la portata della crisi finanziaria che seguì la bolla creditizia e immobiliare del primo decennio del Duemila, il fallimento della Lehman Brothers nel 2008 e l’enormità del conseguente caos in termini di perdita di posti di lavoro e produzione, il costo di questo approccio sembra essere stato incredibilmente alto. Sebbene si sia detto scioccato e abbia riferito al Congresso americano di essere giunto a dubitare dei modelli di comportamento razionale in cui tanto credeva, Greenspan deve ancora porgere le sue scuse per gli errori della politica della FED. Invece, si dà al revisionismo. In uno straordinario voltafaccia, ha dichiarato sulla «Harvard Business Review»: «È possibile individuare una bolla. Sono evidenti sotto ogni profilo». Però ha aggiunto che in una società democratica sarebbe impossibile soffocare una bolla, perché comporterebbe una riduzione dell’indipendenza della FED.5 Quanto ai teorici dei mercati efficienti come Eugene Fama, neppure loro si sono pentiti. Come si giustificano?

Tanto per cominciare, consideriamo tutto questo dalla prospettiva della storia finanziaria. In un saggio accademico, l’economista Peter Garber ha esaminato tre grandi bolle nel dettaglio: la tulipomania in Olanda, quando i prezzi dei bulbi di tulipano schizzarono alle stelle e poi precipitarono; la bolla del Mississippi in Francia, un sistema ideato dall’avventuriero scozzese John Law che sfruttava il monopolio del commercio francese con le colonie e che si concluse in una frenesia speculativa alimentata dall’emissione di cartamoneta; e la bolla dei Mari del Sud in Inghilterra, in cui la speculazione dipese dai modesti diritti commerciali della Compagnia dei Mari del Sud con le Indie Orientali e con il Sudamerica, oltre all’acquisto, da parte della compagnia, del debito nazionale in cambio di un pagamento annuale dal Tesoro.6

Nel caso della tulipomania secentesca, Garber sostiene che Charles Mackay aveva omesso di dire quale sarebbe dovuto essere il prezzo fondamentale dei tulipani, spiegando che esiste un modello standard di pricing delle nuove varietà di fiori che sopravvive ancora oggi. Quando viene selezionata una varietà particolarmente pregiata, il suo bulbo originale viene venduto a caro prezzo. Via via che i bulbi si diffondono, il prezzo della varietà cala rapidamente. Dopo meno di trent’anni, i bulbi vengono venduti al loro prezzo di produzione. Le loro valutazioni «gonfiate», scrive Garber, erano quindi perfettamente razionali, e il crollo dei prezzi rifletteva solo il fatto che una volta selezionati sono facili da propagare. Quindi la maggiore offerta era responsabile del calo dei prezzi.

Quanto alle due grandi bolle del Settecento, Garber sostiene che erano ben lontane da un’aberrazione irrazionale, perché l’aumento dei prezzi degli asset si basava sulla percezione che questi schemi dessero grandi rendimenti. I compratori delle azioni scoprirono troppo tardi che l’economia di quegli schemi era difettosa. Oppure, gli investitori si erano accorti dei difetti, ma di fronte a ripetute ondate di acquisti delle azioni a un prezzo sempre più alto, avevano cercato di approfittarne saltando sul carro. Per quanto riguarda l’atmosfera di frenesia descritta da Mackay, attorno a tutta quest’attività speculativa, per Garber non era molto diversa dal comportamento degli odierni operatori nella corbeille della borsa dei derivati di Chicago.

Alcune di queste critiche a Charles Mackay sono ben fatte e l’articolo di Garber è una lettura interessante. Se però il modello di pricing dei bulbi che descrive è chiaramente sensato, Garber non spiega adeguatamente perché i prezzi di normali tulipani da giardino avessero avuto un rialzo vertiginoso e un calo rovinoso. Quanto ai boom e ai crac del XVIII secolo, secondo Garber non sono considerabili delle bolle visto che la gente percepiva una maggiore probabilità di alti rendimenti, che fosse per via di buone notizie economiche, una nuova teoria sugli accresciuti risultati (payoff) o una frode compiuta da insider bravi a rifilare bugie sull’imminente ricchezza. Questo però è un gioco di prestigio linguistico: si definisce la bolla in modo tale da escludere qualsiasi possibilità di bolle perché chiunque partecipi a un boom speculativo è inevitabilmente spinto dall’avidità e dall’ottimismo nei confronti dei futuri profitti. Non affronta come si deve la nozione classica di bolla, secondo cui si ha una bolla quando i prezzi degli asset si discostano dai fondamentali economici sottostanti.

Secondo una ricerca svolta dall’economista britannico Richard Dale, molti osservatori dell’epoca non si accorsero che la Compagnia dei Mari del Sud, il cui business principale era quello molto semplice di possedere l’equivalente di una rendita, era profondamente sopravvalutata.7 Il più incredibile fu un membro del Parlamento, Archibald Hutcheson, che usò tecniche di valutazione consolidate, compresi i calcoli del valore attuale netto e il rapporto prezzo-rendimento, per dimostrare che le valutazioni assolute della compagnia si erano discostate dai criteri di valutazione accettati tanto da equivalere all’irrazionalità. Previde il crollo:

Se è vero, come credo che sia, che non c’è alcuna reale giustificazione per l’attuale prezzo elevato delle azioni dei Mari del Sud, e ancora meno per il rialzo atteso; e che la frenesia che oggi impera non può durare a lungo in un clima così freddo, e in un popolo finora giustamente famoso per la sua saggezza e prudenza; io dico, se questo fosse il caso, non è forse dovere del Senato britannico prendere tutte le necessarie precauzioni volte a impedire la rovina di molte migliaia di famiglie [...]8

Guarda caso, molti parlamentari erano stati comprati con azioni della Compagnia dai suoi amministratori, e non desideravano affatto mettere fine all’euforia del mercato.

Dale mostra anche che le nuove azioni emesse dalla Compagnia dei Mari del Sud verso la fine del boom erano assurdamente sopravvalutate rispetto al capitale azionario esistente e anche rispetto agli acconti su altre nuove azioni. Il fatto è che la follia era nell’aria, insieme a una combinazione di opportunismo e fraudolenza. Questo risulta chiaro dalla bolla speculativa più estrema narrata da Charles Mackay, peraltro forse apocrifa – «la più assurda e insensata di tutte, e che mostrò, più completamente di ogni altra, l’assoluta follia della gente, fu una che cominciò da un ignoto avventuriero, intitolata, “Una società per diffondere un’iniziativa di grande vantaggio, ma nessuno sa quale”». Il punto è sottolineato dalla brillante citazione di Daniel Defoe con cui Mackay inizia il suo libro:

Certi si uniscono in società clandestine:

Emettono nuovi titoli per commerciare oltreconfine;

Con aria fritta e nomi vuoti raggirano la città,

Prima raccolgono nuovi crediti, e poi li riducono;

Suddividono in azioni il vuoto nulla:

E fanno litigare malamente la folla.9

La grande assente, nel lavoro dei teorici dei mercati efficienti, è la finanza comportamentale, che usa la psicologia e la sociologia per analizzare il comportamento nei mercati finanziari. Nel loro esame delle bolle, economisti come Robert Shiller e Richard Thaler ipotizzano una teoria del feedback. Quando i prezzi salgono in fretta, i profitti ottenuti dagli investitori attirano l’attenzione del pubblico, promuovendo un entusiastico passaparola e incoraggiando le attese di ulteriori rialzi. I commentatori alimentano il boom con razionalizzazioni, come l’idea che l’economia sia entrata in una nuova era di rendimenti sempre più alti. Se il feedback non viene interrotto, il risultato è una bolla. Trovo convincente la definizione di bolla speculativa data da Shiller: «una situazione in cui la notizia di un incremento di prezzo stimola l’entusiasmo degli investitori, che si diffonde per contagio psicologico di persona in persona, ingigantendo storie capaci di giustificare l’incremento di prezzo». Questo attira «un ventaglio sempre più ampio di investitori che, pur nutrendo dubbi sul valore reale dell’investimento, ne sono ugualmente attratti in parte per invidia del successo altrui e in parte per il brivido dell’azzardo».10

Questa definizione, prosegue Shiller, suggerisce anche perché sia così difficile per gli esperti guadagnare scommettendo contro le bolle: «il contagio psicologico favorisce un atteggiamento mentale che giustifica gli incrementi di prezzo, tanto che partecipare alla bolla può quasi essere definito un atto razionale». Questo per controbattere la tesi dei teorici dei mercati efficienti secondo cui le bolle sono impossibili, perché gli investitori si accorgerebbero di qualunque anomalia e ci scommetterebbero subito contro, riportando i prezzi a livelli «efficienti». Shiller ha anche svolto un lavoro statistico dettagliato sui prezzi e i dividendi delle azioni a partire dal 1871, scoprendo che la volatilità dei prezzi relativamente alla performance societaria esistente è molto più alta di quanto non possa giustificare la teoria dei mercati efficienti.11

Charles Mackay è in sintonia con questi concetti di finanza comportamentale, malgrado una certa inclinazione a esagerare. Scrivendo della tulipomania dice:

Molte persone si arricchirono di colpo. Un’esca dorata sventolava tentatrice davanti alla gente e, una dopo l’altra, le persone correvano ai mercati di tulipani, come mosche al miele. Tutti pensavano che la passione per i tulipani sarebbe durata per sempre: da ogni parte del mondo la ricchezza sarebbe affluita in Olanda e i compratori avrebbero pagato qualsiasi prezzo venisse chiesto. Le ricchezze di tutta Europa si sarebbero concentrate sulle rive dello Zuiderzee e la povertà sarebbe stata bandita dalla benedetta terra d’Olanda. Nobili, cittadini, contadini, artigiani, marinai, domestici, cameriere, perfino spazzacamini e vecchie lavandaie sguazzavano nei tulipani. Gente di ogni ceto convertiva le sue proprietà in denaro liquido e lo investiva nei fiori. Terre e case venivano offerte a prezzi disastrosamente bassi o date in pagamento per affari conclusi al mercato dei tulipani. [...] Alla fine, tuttavia, i più prudenti si resero conto che questa follia non poteva durare in eterno. I ricchi non compravano più i tulipani per metterli nei loro giardini, ma per rivenderli con un guadagno del 100 per cento. Si capiva che alla fine qualcuno avrebbe perso spaventosamente. Man mano che questa convinzione si diffuse, il prezzo scese e non risalì più.12

Notate il tipico fenomeno da bolla, per cui la gente non comprava più per ragioni economiche di lungo periodo, ma solo per rivendere con un profitto nel breve periodo. Questo fenomeno di feedback, che è stato colto meglio dai romanzieri e dai poeti che da molti economisti di Chicago, riguardò anche la bolla dei Mari del Sud, come abbiamo visto nella citazione di Alexander Pope a inizio capitolo. Tra parentesi, Pope stesso cedette al richiamo irresistibile della bolla dei Mari del Sud. E come lui Isaac Newton, il più grande genio dell’epoca. Newton, che dirigeva la Zecca Reale e aveva fatto adottare all’Inghilterra il sistema aureo quando non era impegnato a scoprire le leggi fisiche dell’universo, non era certo un principiante della finanza. Dopo aver ottenuto un profitto iniziale del 100 per cento dalle sue 7000 sterline investite in azioni della Compagnia dei Mari del Sud, fu così sfortunato da tornare a investire quando il mercato era quasi all’apice, e perse 20000 sterline, l’equivalente di 2,5 milioni di dollari odierni. Un Newton dolente colse la logica della finanza comportamentale quando disse: «Posso calcolare il moto dei corpi celesti, ma non la pazzia della gente».

Come spiega Robert Shiller, la notizia dei profitti altrui induce nella gente un senso di futilità nel continuare a fare il proprio lavoro quotidiano relativamente insoddisfacente, nonché un crescente senso di invidia. Per molti, incluso Pope, il mercato azionario sembrava essere la risposta ai loro problemi finanziari immediati. Dickens capì tutto questo molto bene. All’inizio di Nicholas Nickleby, che Dickens scrisse avendo in mente la frenesia finanziaria del 1825-26, l’autore descrive egregiamente la sensazione che la gente comune potesse essere spazzata via dalla marea speculativa:

Quanto a Nicholas egli visse scapolo nella tenuta di famiglia fino al momento in cui si stancò di vivere solo, e allora prese in moglie la figlia d’un gentiluomo suo vicino, che gli portò in dote la somma di mille sterline. La brava donna gli diede due figli, un figlio e una figlia, e quando il figlio ebbe circa diciannove anni e la ragazza per quanto ci risulta circa quattordici (ma non lo diciamo con certezza, perché nel nostro paese prima della nuova legge l’età delle donne non compariva in alcun atto ufficiale), il signor Nickleby cominciò a guardarsi intorno in cerca di qualche mezzo con cui rabberciare il suo capitale che era stato disgraziatamente non poco intaccato dalle spese di casa e da quelle sostenute per l’istruzione dei figli.

«Potresti fare delle speculazioni!» disse la signora Nickleby.

«Spe...cu...la...re, mia cara?» mormorò il signor Nickleby, alquanto perplesso.

«Perché no?» ribatté la signora.

«Perché, mia cara,» disse il signor Nickleby, che parlava sempre lentamente «se perdessimo il capitale non avremmo più nulla per vivere, mia cara».

«Sciocchezze!» fu il commento della signora Nickleby.

«Non sono per nulla sicuro che si tratti di sciocchezze, mia cara» tornò a obiettare il signor Nickleby.

«Pensa a Nicholas» seguitò a dire la signora «che è già un giovanotto... sarebbe tempo che incominciasse a occuparsi del suo avvenire; e anche Kate, povera bambina, senza un soldo! Pensa a tuo fratello: sarebbe forse quello che è se non avesse speculato?»

«Questo è verissimo» convenne il signor Nickleby. «Bene, mia cara. Sì! Farò delle speculazioni, mia cara».

Speculare vuol dire gettarsi in un gioco rischioso: in partenza i giocatori vedono poco o punto le loro carte: potranno esservi guadagni, o vi possono essere delle perdite. La fortuna fu avversa al signor Nickleby. Un colpo di follia ebbe la meglio, un’impresa andò in fumo, quattro agenti di borsa acquistarono ville nei dintorni di Firenze, quattrocento ignoti andarono in rovina, e tra questi anche il signor Nickleby.13

Questo passaggio, scritto da un autore che amava le digressioni, rivela una concisione e un’arguzia che avrebbero fatto onore a Voltaire, oltre a mostrare una chiara comprensione della psicologia delle bolle. Tra le altre cose, la storia illustra l’implicita convinzione, tanto diffusa tra coloro che si lasciano sedurre dalle bolle speculative, che la speculazione deve per forza dare un profitto malgrado il rischio, mentre le perdite sono semplicemente inconcepibili.

Oggi, i mercati sono dominati dai gestori di fondi professionisti. Come possiamo spiegare la presenza continuativa di bolle se sono i professionisti e non i singoli risparmiatori inesperti a determinare il livello del mercato? In realtà, perché i prezzi si discostino dai fondamentali, non c’è bisogno che la gente diventi irrazionale. E negli ultimi decenni le bolle hanno mostrato di essere più razionali che in periodi passati. Alla base di questa tendenza c’è il fatto che esistono solo due strategie di investimento. Una è il fundamental investing, dove le decisioni si fondano sui rendimenti e i dividendi attesi. L’altra è il momentum investing, che si riduce a seguire la tendenza – saltare sul carro – e in questo caso l’investitore considera solo le oscillazioni di prezzo nel breve periodo senza tener conto del valore.

Il momentum investing ormai domina i mercati azionari e, a dire il vero, anche quelli valutari, dei derivati e altri ancora. Secondo gli economisti di Chicago, questo comportamento gregario in teoria non dovrebbe poter capitare, perché gli investitori attenti al rendimento sfrutterebbero immediatamente le anomalie di valutazione delle società quotate in borsa che l’approccio gregario genera. Invece capita. Una delle ragioni è che i prezzi delle azioni non sono stabiliti dagli investitori privati – la «famiglia rappresentativa», nel gergo economico – ma da manager di fondi a cui risparmiatori e fiduciari dei fondi pensione hanno delegato la responsabilità di gestire il loro denaro. Questi gestori, o agenti, possono avere un obiettivo molto diverso da quello di risparmiatori e fiduciari, o mandanti. Hanno anche più informazioni, e migliori, sulle società e sui mercati. Quindi c’è, come dicono gli economisti, sia un problema mandante-agente che un problema di asimmetria informativa. E questo porta a conflitti di interesse.

La bolla della new economy della seconda metà degli anni novanta è un buon esempio di come funziona tale conflitto. All’inizio, le azioni delle dot.com salirono perché si pensava che la tecnologia avesse cambiato il modo in cui funzionava l’economia, tanto che le aspettative sui profitti futuri crebbero vertiginosamente mentre i metodi tradizionali di valutazione delle società emittenti venivano abbandonati. Una conseguenza fu che i fondi gestiti in stile «value», più difensivo, andarono peggio del mercato. In queste circostanze, è difficile per i risparmiatori e i fiduciari dei fondi pensione capire se il gestore è incompetente o se invece il tempo gli darà ragione. Nel periodo delle dot.com, mentre i rendimenti continuavano a essere al di sotto delle aspettative, gli investitori persero fiducia nella capacità dei gestori che operavano in base ai fondamentali dell’economia. E così affidarono i loro soldi a gestori apparentemente di maggior successo che avevano un approccio più aggressivo all’investimento, il cosiddetto stile «growth». Questo passaggio fece salire ulteriormente le azioni delle dot.com. Una spinta arrivò anche dai gestori value che si sentirono tenuti a passare al growth investing per evitare di essere licenziati dai fiduciari dei fondi pensione. I gestori value che restarono fedeli alla loro linea spesso pagarono cara la loro scelta, come capitò a Tony Dye, un gestore di fondi della grande banca svizzera UBS, il quale intuì in anticipo che il fenomeno delle dot.com era una bolla, ed evitò i titoli tecnologici. Mentre il mercato continuava a salire, e i risultati di Dye continuavano a essere molto sotto le aspettative, fu abbandonato da un numero crescente di clienti. L’UBS, contrariata dal possibile calo di profitti del settore di gestione fondi, lo licenziò proprio quando la bolla stava per esplodere. Più o meno lo stesso capitò a Jeffrey Vinik, il gestore più importante del fondo Fidelity Magellan negli Stati Uniti. Vink ridusse drasticamente la quantità di titoli tecnologici presenti nel fondo nel 1996, un po’ troppo presto per salvaguardare il suo posto di lavoro, dato che la bolla sarebbe scoppiata solo quattro anni dopo. Fiutando l’aria che tirava mentre il fondo Magellan continuava a rendere al di sotto delle aspettative, diede le dimissioni prima di essere licenziato.

Questo ci dice, tra le altre cose, che la ricerca razionale del profitto da parte degli agenti e degli investitori che li assumono, porta a un mispricing del mercato azionario e alla volatilità. I gestori dei fondi cercano inevitabilmente di ridurre il più possibile il rischio per i loro affari e la loro carriera non lasciandosi staccare dalla concorrenza, il che in pratica significa restare attaccati a un benchmark basato su un indice del mercato azionario. La necessità di ridurre questo rischio spinge i gestori verso il momentum investing. Questa interpretazione dell’attività del mercato è stata tradotta in un nuovo modello economico di comportamento finanziario da Paul Woolley e Dimitri Vayanos del Centre for the Study of Capital Market Dysfunctionality della London School of Economics – un nome che avrà fatto venire un colpo ai fondamentalisti del mercato della Chicago University.14 Woolley e Vayanos sostengono che una volta che il momentum investing si radica nei mercati, gli agenti reagiscono adottando strategie che probabilmente rafforzeranno i trend e contribuiranno alle bolle. Il modello non invalida la finanza comportamentale, piuttosto ne costituisce un importante complemento. E pone una serie di sfide alla teoria dei mercati efficienti.

Un’altra ragione per cui i prezzi possono divergere a lungo dai fondamentali è che l’arbitraggio, con cui gli investitori comprano e vendono simultaneamente strumenti finanziari simili o uguali che hanno temporaneamente un prezzo anomalo, riportando quindi il prezzo in linea, è di rado privo di rischi. Questo è stato ampiamente dimostrato dal semifallimento, nel 1998, di Long-Term Capital Management, un hedge fund diretto da John Meriwether, ex trader di Salomon Brothers, che contava tra le sue fila due illustri accademici della finanza, Robert Merton e Myron Scholes. LTCM usava dei complessi modelli matematici per sfruttare minime divergenze nel prezzo di bond diversi. Si scommetteva sull’idea che i valori avrebbero inevitabilmente finito per convergere, comprando i titoli sotto la pari e vendendo quelli sopra la pari nella speranza di fare un piccolo margine sulla compravendita quando si verificava la convergenza. Siccome i margini erano limitati, l’hedge fund contraeva grossi prestiti per operare scambi su vasta scala e incrementare il rendimento. Così facendo, ignorava la massima attribuita a John Maynard Keynes secondo cui i mercati possono restare irrazionali molto più a lungo di quanto io possa restare solvente.

LTCM fu preso alla sprovvista quando, nel 1998, la Russia non pagò i suoi bond, causando flussi di capitale dettati dal panico che impedirono la convergenza dei prezzi dei bond su cui il fondo aveva sperato di guadagnare. Il fondo aveva anche puntato sull’arbitraggio di azioni quotate in più di una borsa, come la Royal Dutch Shell e la UK-based Shell, dove le azioni olandesi erano scambiate sopra la pari rispetto a quelle inglesi. Nella turbolenza dei mercati del 1998, il prezzo peggiorò in modo anomalo e LTCM fu costretto a liberarsi delle azioni in un momento particolarmente sfavorevole, perché era sotto pressione a causa di altre negoziazioni che esigevano enormi prestiti. Secondo Roger Lowenstein, nel suo rapporto finale sull’ascesa e la caduta di LTCM, il patrimonio dell’hedge fund, o il capitale netto dei suoi proprietari, era crollato da 2,3 miliardi di dollari a 400 milioni in meno di un mese.15 Il messaggio è che nell’arbitraggio il rischio è talmente grande che, a meno che i trader non possano contare su un patrimonio illimitato per scommettere sulla convergenza dei prezzi, dovranno stare attenti a sfruttare un’apparente opportunità. Il mispricing, insomma, non stimolerà un volume sufficiente di scommesse sulla convergenza da portare a una rapida fine dell’anomalia di prezzo e i valori continueranno a discostarsi dai fondamentali per un po’ di tempo.

Detto questo, alcune bolle recenti hanno indubbiamente incorporato degli elementi irrazionali, soprattutto nel caso del Giappone. La grande bolla giapponese degli anni ottanta mise in ridicolo importanti banchieri, non ultima la Industrial Bank of Japan, che all’epoca era la più rispettata delle istituzioni finanziarie giapponesi. Quando la bolla stava ormai per scoppiare, i suoi più alti dirigenti si facevano consigliare sul mercato azionario da – niente meno! – un rospo di porcellana di proprietà di una ristoratrice di Osaka, Onoe Nui. Madame Nui cadeva in trance per interpretare i suggerimenti del rospo, dopodiché i banchieri tornavano a Tokyo sui «treni proiettile» e operavano secondo il consiglio del rospo, che quindi faceva muovere il mercato.

Il finale fu catastrofico per tutti, come ha raccontato con splendida ironia Alex Kerr, scrittore a lungo residente in Giappone:

Quando, verso la fine del 1987, le limousine nere cominciarono a fare la fila ogni pomeriggio davanti a casa di Madame Onoe Nui, a Osaka, i vicini non ci diedero peso. Le auto scaricavano uomini in abito blu e ventiquattrore che scomparivano all’interno, a volte per non riemergere fino alle due o le tre del mattino. Madame Nui gestiva un ristorante di successo, e sembrava che avesse prolungato la sua attività gastronomica fino alle prime luci dell’alba. Solo in seguito i vicini scoprirono che i suoi visitatori non andavano da lei per il buon cibo. Gli uomini in abito blu andavano a rendere omaggio a un misterioso abitante di casa Nui, una figura che, si sarebbe poi saputo, era il personaggio più importante del mercato azionario giapponese dell’epoca. Costui era il rospo di ceramica di Madame Nui.

I rospi, com’è noto, sono creature magiche che, come le volpi e i cani-procione, sono capaci di fare incantesimi, soprattutto sul denaro. Alla gente piace tenere in giardino, come portafortuna, dei cani-procione di ceramica con una bottiglie di sakè in una zampa e blocchi di ricevute nell’altra. I rospi, seppure meno popolari, sono più misteriosi, perché possono trasformarsi in principesse demoniache, e conoscono l’antica stregoneria cinese e indiana.

La Industrial Bank of Japan (IBJ), la JP Morgan giapponese, era una vera estimatrice del rospo di Madame Nui. Capi dipartimento del quartier generale della IBJ prendevano il treno proiettile da Tokyo a Osaka pur di partecipare alla cerimonia settimanale presieduta dal rospo. Quando arrivavano a casa di Madame Nui, i banchieri di IBJ si univano ai broker più importanti della Yamaichi Securities e altre società d’investimento per una veglia di mezzanotte. Prima accarezzavano la testa del rospo. Poi recitavano delle preghiere davanti a una serie di statue buddiste nel giardino di Madame Nui. Alla fine la signora si sedeva davanti al rospo, entrava in trance e proferiva l’oracolo – quali azioni comprare e quali vendere. I mercati finanziari di Tokyo tremavano al suo verdetto. Al suo apice, nel 1990, il rospo controllava più di 10 miliardi di dollari in strumenti finanziari, rendendo la sua proprietaria l’investitrice di borsa più grande del mondo.

Madame Nui era anche la più grande debitrice di banca del mondo. «Dalla bocca del rospo», proclamava, «viene il denaro», e pare avesse usato anche della bella stregoneria cinese e indiana, dato che aveva trasformato una piccola serie di prestiti iniziali contratti nel 1986 in un grande impero finanziario. Nel 1991, oltre alla IBJ, che prestò alla Nui 240 miliardi di yen per comprare bond della IBJ, altre ventinove banche e istituzioni finanziarie le avevano concesso dei prestiti per un totale di più di 2,8 trilioni di yen, pari a 22 miliardi di dollari dell’epoca.

Onoe Nui stava cavalcando il successo della famosa bolla, quando, alla fine degli anni ottanta, gli investitori giapponesi spinsero i prezzi delle azioni e gli immobiliari incredibilmente in alto. Nel 1989, la capitalizzazione della Borsa di Tokyo era leggermente al di sopra di quella della Borsa di New York; gli esperti immobiliari pensavano che i terreni del Palazzo Imperiale di Tokyo valessero più di tutta la California; l’inverno di quell’anno, l’indice Nikkei della Borsa di Tokyo salì a 39000 punti, dopo quasi un decennio di continua ascesa. A quel punto, il rapporto medio prezzo/rendimento per azione (che negli Stati Uniti, nel Regno Unito e a Hong Kong era tra venti e trenta) in Giappone arrivò a ottanta. Eppure i broker prevedevano che il mercato azionario sarebbe presto salito a 60000 o addirittura 80000 punti. L’euforia era nell’aria. Il sistema finanziario giapponese – che si basa sulla valutazione degli asset invece che sui flussi di cassa, com’è la norma nel resto del mondo – aveva trionfato.

Quando arrivò il crac, fu una mazzata. Nei primi giorni del gennaio 1990, il mercato azionario cominciò a scendere, e nei due anni seguenti perse il 60 per cento del suo valore. Dieci anni dopo, il Nikkei non aveva ancora recuperato, e si aggirava tra i 14000 e i 24000 punti. Quando il mercato azionario crollò, così fecero i prezzi delle proprietà immobiliari, che dopo il 1991 diminuirono di anno in anno e sono oggi a circa un quinto del valore dell’epoca pre bolla, o più bassi.

Sparirono anche molti altri tipi di asset speculativi. L’iscrizione ai golf club, che arrivò a costare anche un milione di dollari o più, oggi è acquistabile al 10 per cento, o meno, del prezzo che aveva durante la bolla, e la bancarotta incombe su molti costruttori di golf club, che devono restituire decine di miliardi di dollari avuti in acconto dai membri.

Malgrado i migliori sforzi dei banchieri di Madame Nui e del rospo, il suo impero andò a rotoli. Nell’agosto del 1991 la polizia la arrestò, e gli investigatori scoprirono che aveva ottenuto i primi prestiti sulla base di falsi certificati di deposito preparati dai suoi amici banchieri. La bancarotta di Madame Nui costò ai suoi creditori quasi 270 miliardi di yen, le dimissioni del presidente della Industrial Bank of Japan e il fallimento di due banche. La «Signora della bolla», come la soprannominò la stampa, fu condannata a diversi anni di prigione, insieme ai suoi protettori banchieri.16

Quando i mercati raggiungono vette stupefacenti con l’aiuto di un rospo, e lo scoppio di una bolla immobiliare scatena la peggior recessione della storia, com’è successo nel 2008, potrebbe sembrare che la teoria dei mercati efficienti abbia un problema – nel senso che afferma, come il dottor Pangloss nel Candide di Voltaire, che tutto è bene nel migliore dei mondi possibili. In un’intervista con John Cassidy apparsa sul «New Yorker», Eugene Fama, principale artefice della teoria, lo nega recisamente.17 Dichiara persino che la crisi finanziaria non fu la causa della recessione, e arriva a dire di non avere idea di quale fu la causa reale. È un problema di macroeconomia e dato che Fama sostiene di non essere un macroeconomista, l’ammissione non lo disturba. Si limita a notare che l’economia non è riuscita a spiegare le fluttuazioni dell’attività economica.

Quanto alle bolle, per Fama è un termine privo di significato. Come un Alan Greenspan in modalità revisionista, sostiene che la maggior parte sono bolle solo col senno di poi:

A posteriori, trovi sempre qualcuno che diceva già prima che i prezzi erano troppo alti. La gente dice sempre che i prezzi sono troppo alti. E quando i fatti le danno ragione, la mettiamo su un piedistallo. Se invece i fatti le danno torto, la ignoriamo. Di solito, metà delle volte hanno ragione e metà hanno torto.

Nel contempo, la regina Elisabetta II chiedeva alla London School of Economics perché nessuno avesse previsto la crisi. In realtà, molti l’avevano prevista. Tra gli economisti più importanti, Robert Shiller e Raghuram Rajan, ex capo economista al Fondo Monetario Internazionale e in seguito governatore della Banca Centrale Indiana, avevano dato l’allarme, così come Nouriel Roubini della Stern School of Business della New York University. E diversi gestori di fondi sono riusciti più volte a fiutare le bolle. Tanto per fare un esempio, Jeremy Grantham di GMO, un gruppo di gestione fondi americano, ha un impeccabile curriculum al riguardo e sostiene che, in realtà, le bolle sono facili da individuare. Il più acuto commentatore di Wall Street, Michael Lewis, ha scritto un best-seller sui gestori di fondi che avevano previsto la crisi finanziaria e ci avevano guadagnato su delle fortune. Persino io e alcuni miei colleghi del «Financial Times» non avevamo faticato a identificare la bolla giapponese e quella delle dot.com. Avevo persino previsto in discreta misura la grande crisi finanziaria, anche se devo ammettere di non averne individuato tutte le sue molteplici cause.18 Per riuscirci, in un momento in cui la struttura del sistema finanziario stava cambiando con tale rapidità, ci sarebbe voluta una prescienza sovrumana.

La ragione per cui così tante persone previdero queste bolle è che, in base alle misure più convenzionali del mercato osservate nell’arco di decenni, i mercati erano irrimediabilmente sopravvalutati. Nel mondo di Fama, quando i mercati sono alti, le attese degli investitori sui rendimenti dovrebbero essere basse, mentre dovrebbero essere alte quando i mercati sono bassi. Eppure gli studiosi Robin Greenwood e Andrei Shleifer della Harvard University hanno dimostrato che quando i mercati sono vicini al loro massimo, gli investitori sono più ottimisti perché, nel formare le loro aspettative, tendono a proiettare i recenti rialzi dei prezzi sul futuro. In poche parole, si aspettano i massimi rendimenti futuri quando i mercati sono prossimi al picco del ciclo. E quando i mercati sono bassi, sono pessimisti per lo stesso motivo. Gli economisti di Harvard sono giunti a questa conclusione sulla base di numerosi sondaggi sulle opinioni degli investitori, insieme ai dati economici e del mercato pertinenti.19 Questo è coerente con quel che ho osservato ripetutamente nei mercati in rialzo e in ribasso dagli anni sessanta in poi. E circa la tesi di Fama, che chi fiuta una bolla ha torto nella metà dei casi, vorrei far notare che persone come Jeremy Grantham hanno avuto costantemente ragione sulle grandi bolle finanziarie. Il problema è che le grandi bolle sono individuate più prontamente da chi ha lavorato per decenni nei mercati che non dagli accademici, o dai banchieri centrali che sono ostaggio della miopia indotta da Chicago.

C’è comunque un problema per coloro che individuano una bolla, ossia l’impossibilità di prevedere quando scoppierà. Per questo i gestori prescienti dei fondi sono sempre a rischio di vendere troppo presto nel periodo di euforia, mentre i giornalisti vengono accusati di urlare al lupo e sono costantemente contattati, come mi è capitato durante la bolla delle dot.com, da investitori e trader che li rimproverano di «non avere fede» – un’espressione che svela il gioco dei mercati efficienti, dato che la fede pertiene al regno della religione, non dell’economia.

Tuttavia è bene non esagerare le debolezze dell’ipotesi dei mercati efficienti. L’intuizione originale di Fama possiede un’importante verità, che si manifesta nell’incapacità della maggior parte dei gestori di fondi di ottenere risultati molto più alti del mercato senza l’aiuto di informazioni riservate. In questo senso, molto letterale, il famoso adagio di Margaret Thatcher – non si può andare in controtendenza rispetto al mercato – è quanto mai corretto. I prezzi delle azioni tendono a incorporare tutte le informazioni note, quindi è straordinariamente difficile per i singoli gestori di fondi sovraperformare nel lungo periodo. E se la diagnosi di Paul Woolley, della bolla indotta razionalmente, pare plausibile, è difficile sapere quanto, in periodi più stabili, il momentum trading faccia discostare dai fondamentali la valutazione delle società quotate.

E dal punto di vista politico è importante riconoscere che l’alternativa attivista alla recente negligenza delle banche centrali nei confronti della stabilità finanziaria è problematica. Anche se si identifica una bolla, non è facile stabilire il momento in cui farla sgonfiare, perché si rischia un rallentamento della crescita o persino la recessione; la cosa migliore sarebbe sgonfiarla all’inizio, quando però è più difficile essere sicuri che la bolla sia reale. Un’attesa eccessiva e un forte rialzo dei tassi di interesse possono non servire a nulla durante un’epica euforia del mercato. In entrambi i casi, sgonfiare la bolla è un rischio per la carriera di un banchiere centrale, perché la logica di incorrere in una modesta recessione oggi per evitarne una peggiore domani non è apprezzata dai politici. Loro si limiteranno a notare la concomitante perdita di produzione e di posti di lavoro e chiederanno la testa del banchiere centrale. È senza dubbio questa la ragione per cui Alan Greenspan temeva così tanto di distruggere l’economia americana con un intervento preventivo contro la bolla della new economy.

Il dilemma del banchiere centrale venne riassunto con la solita perspicacia da J.K. Galbraith, le cui idee politiche ed economiche erano lontane anni luce da quelle di Alan Greenspan, nel suo libro Il grande crollo:

L’azione diretta ad arginare un boom deve essere sempre soppesata contro la possibilità che essa causi disoccupazione in un momento politicamente inopportuno. I boom, si noti bene, vengono arrestati soltanto dopo che hanno preso l’avvio. E, dopo che hanno preso l’avvio, l’azione è sempre destinata ad apparire, come agli spaventati membri del Consiglio dei Governatori della Riserva federale nel febbraio del 1929, come una decisione di morte immediata anziché a scadenza. Come si è visto, la morte immediata ha lo svantaggio non solo di essere immediata, ma altresì di individuare l’esecutore.20

Jeremy Grantham ha spesso rimarcato che il mondo reale dei mercati è un caos. È una verità che gli economisti teorici e gli accademici fondamentalisti del mercato faticano a cogliere. Il motivo è che gli economisti moderni si sono rinchiusi dentro una torre d’avorio intellettuale. I loro modelli matematici sono puntellati da liste straordinariamente lunghe di presupposti eroicamente irrealistici, alcuni dei quali sfiorano l’assurdo. Per esempio, persino dopo la crisi finanziaria, la maggior parte dei modelli non includeva il debito e i prezzi degli asset. Il sistema finanziario è semplicemente escluso dai loro calcoli. Prendendo in considerazione un periodo molto più lungo, l’economia ha incorporato una concezione straordinariamente rozza della natura umana, con la sua idea di un individuo autonomo, perfettamente razionale e in grado di massimizzare l’utilità. Più di recente, il tentativo inaugurato dall’economista americano Paul Samuelson negli anni quaranta, di emulare la certezza delle scienze fisiche, portò gli economisti a eliminare del tutto la natura umana dalla costruzione dei loro modelli. Adoperano anche un concetto semplificatore chiamato «l’agente rappresentativo» che di fatto presuppone che tutti, nell’economia, siano uguali. Un altro punto debole consiste nella tendenza degli economisti, quando elaborano i loro modelli, a minimizzare l’importanza del contesto istituzionale delle economie. Il risultato, come ha osservato lo stimato economista britannico John Kay, è che i loro modelli assomigliano in tutto e per tutto ai mondi artificiali dei giochi elettronici.

Robert Lucas, decano della moderna macroeconomia, ha difeso gli economisti mainstream, che non avevano previsto la crisi, sostenendo che la teoria economica prevede che questi eventi non siano prevedibili. Questa subdola apologia non discolpa granché la teoria economica e ci sono ragioni più salienti, su cui torneremo tra poco, che spiegano perché la grande maggioranza dei professionisti mainstream dell’economia non sia riuscita a comprendere il meccanismo che ha messo a rischio l’economia globale. Queste persone chiamavano il periodo antecedente la crisi la «Grande Moderazione», perché contraddistinto da una crescita prolungata e bassa inflazione. Nello stesso tempo, Lucas ha ammesso che sono state scoperte «eccezioni e anomalie» alla teoria dei mercati efficienti, «ma ai fini delle analisi e previsioni macroeconomiche sono troppo piccole per contare».21

Il verdetto di John Kay al riguardo è feroce:

Questo significa non cogliere il punto: il giocatore di biliardo esperto gioca una partita quasi perfetta, ma sono le imperfezioni di gioco tra esperti a determinare il risultato. C’è un senso – banale – in cui le deviazioni dai mercati efficienti sono troppo piccole per contare – e un senso più importante in cui queste deviazioni sono ciò che conta di più. L’idea che la maggior parte delle opportunità di profitto nel business o nei mercati mobiliari ormai siano state sfruttate, è legittima. Ma è la ricerca delle opportunità di profitto ancora da cogliere che fa andare avanti il business, la convinzione che sopravvivano delle opportunità di profitto ancora da sfruttare tramite l’arbitraggio, che spiega perché ci sia una tale negoziazione di titoli. Lungi dall’essere «troppo piccole per contare», queste deviazioni dai presupposti dei mercati efficienti, pur non essendo necessariamente grandi, costituiscono la dinamica dell’economia capitalista. [...] L’assurda convinzione che le deviazioni dall’efficienza dei mercati non solo siano state irrilevanti per la recente crisi ma che non potessero mai essere rilevanti, è il prodotto di un ambiente in cui la deduzione ha scacciato l’induzione e l’ideologia ha spodestato l’osservazione. L’idea che i modelli non siano solo degli strumenti utili ma che siano anche capaci di fornire delle descrizioni complete e universali del mondo ha accecato i suoi sostenitori e ha impedito loro di vedere delle realtà che avevano davanti agli occhi. Questa cecità è stata uno dei fattori della nostra crisi attuale, e condiziona le nostre reazioni tuttora inefficaci.22

Il fatto che gli economisti abbiano cercato di far attribuire alla loro disciplina lo status di scienza fisica li ha anche incoraggiati a svuotarla di ogni contenuto morale. Come ha commentato di recente Michael Sandel, filosofo di Harvard:

Negli ultimi trenta o quarant’anni, nelle nostre società la vita pubblica è stata animata dalla fede che i meccanismi dei mercati potessero rispondere a ogni domanda e risolvere qualsiasi problema. Quest’epoca di fede incontestata nei mercati ha coinciso con un periodo in cui la vita politica ha perso il senso della moralità e del fine pubblico. Sembra che ragionare ispirandosi al mercato ci permetta di allocare acriticamente beni e redditi; invece in molti casi noi dobbiamo dare dei giudizi morali. Il nuovo pensiero economico di cui oggi abbiamo bisogno ha molte affinità con il vecchio pensiero economico. Gli economisti classici, a cominciare da Adam Smith, non vedevano l’economia come una scienza dal valore neutro e neppure come una disciplina autonoma. Tutti loro capivano che la scienza economica era un sottocampo dell’economia politica e della morale.23

Altrettanto problematico è il modo in cui la scienza economica è diventata astorica. Solo che la storia è fondamentale per capire il funzionamento dei mercati e l’economia in generale. Questo vale soprattutto per la crisi finanziaria e la conseguente Grande Recessione. Molti hanno avuto la tentazione di attribuire la crisi a quel che lo scrittore Nassim Nicholas Taleb chiama i «cigni neri», eventi di grande impatto e difficili da prevedere, che non rientrano nell’ambito delle normali aspettative. Chiunque, però, sapesse qualcosa della crisi finanziaria del 1907, che ispirò la creazione della Federal Reserve, e di quella del 1929, che portò alla Depressione degli anni trenta, poteva accorgersi dei rischi della bolla immobiliare che ha preceduto l’ultima crisi. Le crisi finanziarie sono eventi normali, ricorrenti fin dall’invenzione della moderna attività bancaria. E Nassim Nicholas Taleb è stato lui stesso immensamente preveggente riguardo alla crisi. Quei cigni neri, se mi passate la battuta, erano una bufala. Nel caso delle crisi finanziarie, il problema della previsione, come abbiamo visto prima, riguarda i tempi e la dimensione piuttosto che la probabilità che accadano.

Una giustificazione logica della crisi va cercata nell’opera dell’economista Hyman Minsky, che aveva un acuto senso della storia. Minsky riconobbe che l’economia moderna è fondamentalmente instabile e che una delle lezioni della storia è che ci sono sempre state delle grandi discontinuità nell’andamento dell’economia e della politica economica. Negli anni ottanta, sostenne nel suo libro Governare la crisi. L’equilibrio in una economia instabile che lunghi periodi di instabilità e prosperità generano compiacimento e incoraggiano l’assunzione di rischi, che è esattamente quel che capitò nella cosiddetta Grande Moderazione.24 La moderazione, in realtà, non era per nulla moderata.

Più precisamente, Minsky spiegò che individui, società e banche contraggono troppi debiti e forzano i loro bilanci; e anche che i regolatori si lasciano cullare da un falso senso di sicurezza, ingannati dalla convinzione che l’economia stia funzionando in modo diverso dal passato – quell’allettante convinzione che «questa volta è diverso». L’accumularsi di rischi nel sistema, sostenne Minsky, finisce per portare a una crisi finanziaria e a salvataggi moralmente azzardati, che possono essere talmente dispendiosi da mettere in questione la solvibilità dei governi. In sintesi, quest’economista, purtroppo fuori moda nel primo decennio del nuovo millennio, spiegò accuratamente la genesi della bolla del credito e la crisi che ne consegue.

L’economista astorico, tutto preso a costruire modelli su folli presupposti, è diventato per i policymaker un sostegno molto meno pratico in confronto a pensatori come John Maynard Keynes, che metteva in guardia dal rischio di sacrificare il realismo alla matematica. L’approccio degli economisti della sua generazione, ricco di discernimento storico, era utilmente empirico. Nel contempo, un altro aspetto del lavoro degli economisti – prevedere – è spesso di una precisione assurdamente eccessiva e privo di utilità. Denis Healey, politico laburista e Cancelliere dello Scacchiere negli anni settanta, raccontò nelle sue memorie le difficoltà che questo poneva al policy-making:

L’economia ha acquisito una rispettabilità fasulla grazie all’uso dei numeri, che a tanti paiono [...] molto più significativi dei meri aggettivi e avverbi, perché sembrano essere precisi e non ambigui. Purtroppo, presto ho scoperto che i numeri più importanti erano quasi sempre sbagliati. Questo valeva non solo per le previsioni economiche, che di solito ammetterebbero un range considerevole di errore; il che spiega perché l’economista spesso venga dipinto come un uomo che, quando gli chiedi un numero di telefono, ti dà una stima. Valeva anche per le statistiche su ciò che stava accadendo all’epoca nell’economia. Valeva persino per ciò che era successo nei dodici mesi precedenti. In qualità di Segretario della Difesa avevo scoperto che era possibile ottenere delle cifre piuttosto accurate sulle forze armate russe, o sulla gittata e la testata di un missile sovietico, nonostante il Cremlino si sforzasse in tutti i modi di tenerle segrete. In qualità di Cancelliere scoprii invece che era impossibile ottenere le cifre della nostra produzione nazionale dell’anno precedente, o delle nostre importazioni ed esportazioni; eppure tutti quei dati sembravano essere facilmente disponibili.25

L’utilità degli economisti moderni è quindi seriamente in discussione. È difficile non dare ragione a John Kay, quando afferma che gli economisti non riescono a occuparsi dei problemi che devono affrontare le famiglie e le imprese reali. La loro capacità di previsione non fa una bella pubblicità alla professione di economista. E la loro costruzione di modelli affonda le sue radici in una forma di ragionamento deduttivo che ricorda la Scolastica medievale. I presupposti che ne sono alla base appartengono al mondo dell’immaginazione. Eppure questi modelli economici fantasiosi sono al centro dell’analisi macroeconomica usata nei ministeri delle finanze e nelle banche centrali, che hanno risposto con lentezza ai difetti messi a nudo dalla crisi finanziaria. Il rischio, in tutta questa faccenda, è che gli economisti finiscano per screditare il funzionamento del mercato agli occhi della gente. Per risolvere il problema, la corrente fondamentalista del capitalismo, così strettamente connessa alla Chicago University, deve assolutamente entrare in maggior contatto con il mondo reale. È una curiosa ironia che così tanti economisti, che credono appassionatamente nel processo di mercato, siano tanto miopi nella loro comprensione dei mercati.