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La mattina dopo alle otto meno un quarto il mio compagno di squadra e io ci incontrammo nel cucinino della Omicidi davanti alla macchina per il caffè. Conklin aveva ancora i segni del cuscino per aver dormito a pancia in giù e io dovevo avere la faccia di chi non ha chiuso occhio. Perché così era stato.
Per tutta la notte, quando Julie non piangeva, Martha aveva cercato di spingermi giù dal letto.
Per non parlare dei sogni terribili che avevo fatto, in cui Maya Pérez mi implorava di non lasciarla morire. Avevo sufficienti nozioni di interpretazione dei sogni da capire che Maya ero io, in quegli incubi, e che avevo paura di morire, o che succedesse qualcosa a mia figlia.
Conklin e io zuccherammo il caffè e tornammo ai rispettivi computer. Io presi l’elenco dei dipendenti del dipartimento dalla A alla M e lui dalla N alla Z e ci mettemmo a cercare tutti quelli che potevano avere un «sassolino nella scarpa»: poliziotti scontenti che erano stati degradati o relegati in un angolo o silurati, cui poteva venir voglia di rischiare l’ergastolo in un carcere federale senza condizionale pur di intascare un malloppo facile.
Ne trovammo parecchi, ma nessuno che si chiamasse Juan. Tutti, dal primo all’ultimo, avevano armi e una giacca a vento blu con la scritta bianca SFPD sul davanti e sulla schiena.
Alle otto e mezzo Brady ci convocò nel suo ufficio.
Bastò un’occhiata per capire che ci aspettava la solita solfa. Come tutti gli altri giorni di quella settimana, Brady era di pessimo umore.
Fui tentata di chiedergli: «Cos’altro vuoi?» ma mi trattenni.
«Scusate se vi ho rotto le scatole» esordì.
Cosa? Ripeti, per piacere...
«Jacobi pensa che ci sia del marcio nel distaccamento. Quello che vi dico deve restare fra noi tre, chiaro?»
«Chiaro» rispose Conklin. «Parla pure liberamente.»
Brady spiegò: «In quest’ultimo anno, sono stati ammazzati cinque o sei grossi trafficanti in fumerie di crack e centri di spaccio in tutta la città. Ogni volta soldi e droga sono spariti nel nulla. Gira voce, nell’ambiente dei tossici, che gli autori dei colpi fossero poliziotti».
Non mi stupivo che Brady fosse incavolato. C’era del marcio in polizia, e noi eravamo gli ultimi a venirlo a sapere.
Dissi: «Secondo te i poliziotti che se la prendono con gli spacciatori sono gli stessi che stiamo cercando per le rapine alle agenzie di prestiti?»
«Forse sì, forse no. Non abbiamo filmati degli omicidi degli spacciatori, naturalmente, e nessuno fa nomi. Quello che vi volevo dire è soltanto di tenere presente che girano queste voci.»
Quando tornai alla scrivania, sulla mia sedia c’era un messaggio scritto a mano su un foglio del mio blocco personale, quello con l’intestazione LINDSAY BOXER.
Era scritto in stampatello e diceva: STA’ ATTENTA, IMBECILLE. RICORDATI CHI SONO I TUOI AMICI. SONO VESTITI DI BLU.
Mi guardai intorno nell’open space.
Il turno di notte stava per smontare e cominciavano ad arrivare i colleghi del mattino. Vidi quasi una ventina di poliziotti con cui lavoravo da anni. Andavo d’accordo con tutti e alcuni erano fra i miei amici più cari, ma uno di loro mi stava dicendo che non dovevo superare la sottile linea blu.
Nemmeno se si trattava di arrestare colleghi che in realtà erano assassini.
D’altronde, lo spirito di corpo è quasi un riflesso condizionato per chi lavora in polizia. Non potei fare a meno di chiedermi, però, se il biglietto me l’avesse lasciato uno degli sbirri mascherati. Possibile che uno o più di loro facesse parte della mia stessa squadra? Oppure l’aveva scritto qualcuno che aveva semplicemente visto il file che avevo lasciato aperto in bella vista sul mio computer?
Mostrai il biglietto a Conklin, che mi rivolse un’occhiata interrogativa. Alzai le spalle e me lo misi nella borsa.
Mi sarei guardata le spalle, certo, ma ero scossa. E alla prima occasione dovevo parlarne con Brady.