i giovani soldati, e ad una morte

 

non men fatal per quanto inclita e bella.

Ma inutilmente io so che ti rimbrotto,

né spero di trar mai frutto veruno

dalle mie ciarle. È sempre il più restìo

a morir chi alla Morte più somiglia.

 

 

II - Il Ciabattino e il Banchiere

 

Da mane a sera allegro un Ciabattino

cantarellava, ch'era un gusto matto

a vederlo, a sentir. Un canarino

non canta meglio, e il core soddisfatto,

era il re de' sapienti il Ciabattino.

 

Il suo vicin di contro, un epulone

grande Banchiere ed imbottito d'oro,

di cantar non avea mai la ragione,

e poco anche dormiva sul mattino,

quando già canticchiava il Ciabattino.

 

Il nabab non facea che deplorare

e querelarsi in collera col fato,

che il sonno non è fatto di tal stoffa

che si possa comprare sul mercato,

come si compra il bere ed il mangiare.

 

Al suo palagio un dì, fatto venire

l'aggiustascarpe: - O mio compar Crispino, -

gli domandò, - non mi sapreste dire

quanto voi guadagnate in capo all'anno?

- In capo all'anno? - disse il Ciabattino.

 

- Affededdina! - aggiunse indi ridendo, -

non son contar su questo calendario;

io cucio i giorni miei per ordinario

uno per uno, un pane e un bicchierino

quando ce n'è, - rispose il Ciabattino.

 

- Ebben, ditemi almen quanto per dì

tirate dal lavor. - Cara Eccellenza,

or meno, or più, ed or così così,

tanto si vive e si vivrebbe meglio

se non ci fosse qualche intermittenza.

 

Ma il male è delle feste che son troppe,

in cui tu devi andar disoccupato,

l'una fa buio all'altra; e un altro guaio

in quanto ai santi, egli è che il sor curato

ne trova sempre un nuovo sul solaio -.

 

Rise il Banchier della bontà dell'uomo,

e credendo di metterlo sul trono:

- Prendete, - disse, - cento scudi, e ai vostri

bisogni provvedete, io ve li dono,

custoditeli bene, o galantuomo -.

 

Cento scudi! credette il Ciabattino

di possedere una montagna d'oro.

Torna a casa e in un angolo del muro

seppellì la sua pace col tesoro.

Da quel dì più non canta il Ciabattino.

 

Da quel dì che nasconde in casa il seme

di tutti i mali, o dolci sonni, addio!

Sempre in agguato, sempre i ladri ei teme

la notte, il dì. Se un topo udir gli pare,

è il suo tesor che viene a rosicchiare.

 

Ritorna alfine da sua Signoria,

che un dì solea svegliar presso al mattino,

e: - I cento scudi le restituisco,

lei mi torni il mio sonno e l'allegria, -

dice, e s'inchina il nostro Ciabattino.

 

 

III - Il Leone, il Lupo e la Volpe

 

Fatto vecchio, decrepito ed asmatico,

gottoso ed arrembato,

un Leone cercava il gran rimedio

di migliorare il suo malfermo stato.

 

È fare un torto ai grandi il dire o il credere

che v'abbia cosa a lor forse impossibile;

ed anche questa volta al primo annunzio,

da tutti i quattro punti dello Stato

ecco arrivare i medici,

empirici, specifici,

flebotomi, anatomici,

a consultarsi intorno all'ammalato.

 

I cortigiani vanno tutti in visita,

tranne la Volpe, che si tenne comoda

nella sua tana. Intanto al capezzale

del grande Infermo, il Lupo, un degli assidui

al corteggiar, si giova del momento

per dirne tutto il male

che può inventare un Lupo di talento.

 

Avria voluto il re che la meschina

nella sua tana fosse affumicata,

ma la volle sentir, e una mattina

la Volpe già avvisata

presentasi, s'inchina,

e: - Sire, - dice, - è ingiusto il sostenere

che per disprezzo abbia tardato un dì

a fare il mio dovere.

 

Se non venni cogli altri al primo omaggio,

egli è che ho fatto un pio pellegrinaggio

per implorar da Quei che sol la dà

ogni salute a Vostra Maestà.

 

Strada facendo, a molti dotti medici

ho parlato di voi, del gran languore

che mai non cessa, e m'hanno detto i pratici

che viene da mancanza di calore,

effetto dell'età.

 

Ma si potrìa provare un buon rimedio,

squartando un Lupo vivo - il vero io narro, -

e poi la pelle ancor fumante, subito

mettersi indosso a guisa di tabarro -.

 

Piacque il consiglio al re,

che il conte Lupo tosto uccider fe',

a colazione prima lo mangiò

e nella pelle poi s'imbacuccò.

 

Signori cortigiani, io dico a voi

che in danno altrui di migliorar la sorte

cercate, seminando ed odii e guai:

dai pari vostri il mal si rende poi

a quattro doppi. In Corte

non si perdona mai.

 

 

IV - La virtù delle Favole

(Al signor De Barillon, ambasciatore)

 

E può dunque alle mie povere fiabe

abbassarsi d'un alto ambasciatore

lo sguardo ed il favor? e tanto ardito

sarò di dedicar queste sottili

e care inezie a un Uom affaccendato

in tutt'altre faccende, a cui non piace

il perder tempo alle buffe contese

di cani e gatti e donnole e leoni,

che invan talvolta assumono l'aspetto

di grandi eroi?... no, no, più che di questo,

leggiate o men, a voi, Signore, importa

d'impedir che d'armati si riversi

sulla patria un torrente e che la pace

tra il re di Francia e l'Albïon vicina

mai non si franga. Un tal pensier mi cruccia

e invoco pace al gran Luigi, pace

a quest'Ercole invitto, affaticato

contro l'Idra che sempre rinnovella,

perché le tagli la sua spada il capo.

 

Se vostr'arte potrà colla parola

molcere i cuori e distornare il colpo,

a voi consacrerò de' miei montoni

(non picciol sacrificio a un abitante

dei gioghi di Parnasso) un'ecatombe.

Vogliate intanto accogliere con pio

sguardo l'omaggio de' miei versi e il voto

che a voi, Signor, dall'animo sollevo.

Alla vostra modestia ogni altro elogio,

che fin l'invidia vi tributa, è vano

incenso, il so, né verbo io più ci metto.

 

Fuvvi in Atene (popolo vanesio

quant'altri mai) valente un oratore,

che vedendo il paese in grandi ambasce,

alla Tribuna un dì, forte dell'arte

che tiranneggia l'animo del volgo,

disse cose stupende e generose

sul comune pericolo. La gente,

distratta il lasciò dir fin che gli piacque:

cercava l'Orator con nuove e calde

immagini attizzar l'alme più spente,

anche i morti evocò, gridò, tuonò,

nessun si scosse e fur parole al vento.

 

Il popol, animal dal capo aereo,

invecchiato oramai da quarant'anni

in cotesti mezzucci di ringhiera,

di qua, di là guardava, alla baracca

de' burattini, e l'Orator... si sfiati.

 

Allor pensa costui cambiar registro

e disse: - Udite, amici, un fatterello

udite. Un giorno andavano per via

con Cerere una Rondine e un'Anguilla,

quando giunsero a un fiume. Entra l'Anguilla

nell'acqua e passa; vola poi la Rondine

sull'acqua e passa... - E Cerere? - d'un fiato

gridò tutta la piazza. - Ah mammalucchi! -

rispose l'Orator, - e tanto a cuore

vi sta questa scipita favoletta?

 

E non vi punge, o scempi, l'ignominia

che Filippo il Macedone coll'armi

porta alla patria vostra? - A queste voci

finalmente si aprirono gli orecchi

della gente, e poté con piccol gioco

trarre a sé l'Orator gli animi tutti.

 

Tutti siamo anche noi popol d'Atene,

ed io stesso, che predico, pel primo.

Se tu mi vieni a raccontar l'istoria

dell'Augellin bel verde, oh ch'io divento

matto dal gusto. Il mondo forse è vecchio,

ma si diverte ancora e bamboleggia

alle belle storielle d'una volta.

 

 

V - L'Uomo e la Pulce

 

Spesso il buon Dio con voti stanchiamo e con preghiere

noiose ed anche indegne d'un uomo d'intelletto,

come se Dio dovesse su noi sempre tenere

lo sguardo, e fosse in Cielo degli uomini il valletto.

Passò quel tempo, Enea, che usavano le mani

menar gli Dèi per conto dei Greci e dei Troiani.

 

Una pulce morsicò

sulla gamba un bighellone

e scappò.

 

- Corri, Alcide, corri e libera

da quest'Idra, - egli gridò, -

da quest'Idra l'universo,

mostro orribile e perverso

della tiepida stagione.

Anche tu,

padre Giove, e che ci fai

fra le nuvole lassù? -

 

Dagli Dèi la mazza e il fulmine

supplicava per cagione

d'una Pulce il bighellone.

 

 

VI - La Donna e il Segreto

 

È difficile a chi porta le gonne

il custodire un gran segreto in petto;

quantunque sotto un simile rispetto,

ci sian uomini peggio delle donne.

 

Un marito per mettere alla prova

la sua donna, una notte a dire uscì:

- Nel ventre par che tutto mi si muova,

provo un dolor che non provai fin qui.

 

Ho fatto un ovo. - Un ovo, o Dio bambino!

- Ecco, vedilo qui tiepido ancora,

guardati ben dal dirlo. Ogni vicino

mi chiamerebbe gallinetta allora -.

 

La donna, nuova al caso, con spavento,

per tutti i santi di tacer giurò.

Ma non durò poi molto il giuramento,

ché appena in Oriente il sol spuntò,

 

scesa dal letto va da una comare

e: - Amica, - dice, - amica, un caso novo,

ma zitta, non mi fate bastonare,

sapete? mio marito ha fatto un ovo.

 

- Un ovo? - Signorsì, tre volte tanto

i soliti, ma zitto in carità.

- Gesummaria! - Tacete. - Dal mio canto

non fiato, ve lo giuro, andate là -.

 

Quando partì la femmina dell'ovo,

l'amica che a cantar nel ventre sente

il gran segreto, al solito ritrovo

cammina a sparpagliarlo fra la gente.

 

Ma in vece d'uno, nel contar la storia,

disse che l'uomo n'avea fatti tre,

e un'altra ancor più corta di memoria,

in gran segreto quattro gliene dié.

 

Il segreto era quello del magnano,

tutti parlavan dell'avvenimento,

e l'ovo crebbe sì di mano in mano,

che in capo al dì n'aveva fatti cento.

 

 

VII - Il Cane che porta il pranzo al suo Padrone

 

Mal resiste il cuore al dardo

d'un bel guardo, ed alla vista

d'un sacchetto di denaro

troppo raro

è trovare chi resista.

 

Soleva un Can portare in una cesta

al collo il pranzo del suo buon Padrone.

Per quanto temperante a suo dispetto

ei sapesse resistere al boccone,

non era un santo padre, poveretto,

e nel suo pelo, dite, o gente onesta,

se non vi tenterebbe un buon pranzetto...

Strano davvero che s'insegni ai cani,

ciò che non sanno fare i cristiani.

 

Andando questo Cane un dì col pranzo,

s'incontra in un mastino prepotente

che pretende la sua razion di manzo.

Ma fece i conti senza l'oste. Il cesto

colloca in terra il nostro Cane onesto

e si prepara ad una lotta ardente.

 

Ne nasce un gran fracasso, e chiama il chiasso

molti altri cani che andavano a spasso.

Erano cani vagabondi, avvezzi

ad ogni calcio, ad ogni ladreria.

Il nostro Can, vedendo ch'eran pronti

a sbranarlo quei mostri in cento pezzi,

e che il manzo era fritto in fin dei conti,

da saggio disse a quella comitiva:

 

- Amici, andiamo adagio; un po' per uno,

dice il proverbio, fa male a nessuno -.

 

E presa la sua parte, lasciò il cesto

agli altri cani che addentâr il resto.

In quattro colpi fu tabula rasa.

Chi stette peggio fu il Padron di casa.

 

O città grandi, o piccole città,

che mettete il denaro della gente

in mani, Dio lo sa,

quanto leste a giocar d'agilità:

censori, appaltatori e fornitori,

comincia il più valente,

e ruban tutti di dentro e di fuori.

Se alcun men disonesto e men briccone

vuol salvarsi e minaccia di parlare,

gli mostran ch'è un minchione.

Al consiglio anche lui quindi si arrende,

acqua in bocca, rubare fa rubare,

e più degli altri prende.

 

 

VIII - Il Buffone e i Pesci

 

Per quanto il mondo se li tenga in prezzo

per me i buffoni è razza che disprezzo;

difficil arte è di far rider bene,

ma chi continuo la facezia scocca

è gente sciocca e agli sciocchi conviene.

 

In casa si pranzava d'un banchiere

e c'era anche un Buffone di mestiere,

che, visti certi Pesci un po' lontani,

e non osando stendere le mani,

sapete ciò ch'ei fa?

Accosta un piccol piatto di sardelle,

e grandi cose a loro susurrò,

poi l'orecchio al piattello avvicinò,

per ascoltar non so quali novelle.

A questa novità

la gente allor restò,

e dimandò:

- Che dice ora, che fa? -.

 

Rispose: - Ho chiesto a questi Pesciolini

notizie d'un compar ito ai confini

ultimi d'India il Gange ad esplorare,

e che vuolsi finito in fondo al mare.

Ma i Pesciolini dicono che nati

non erano in quel tempo, ond'io, se posso,

prego qualcun dei signori invitati

a favorirmi un pesce un po' più grosso -.

 

A questa allegra spiritosità

rise tutta la bella società;

al Buffon fu servito uno storione

salato, e così vecchio che la storia

certamente sapea tutta a memoria,

di quanti in trecent'anni ad uno ad uno

eran scesi nel regno di Nettuno.

 

 

IX - Il Topo e l'Ostrica

 

Un Topo contadin grillincervello,

della sua vita malcontento e sazio,

lasciò cavoli e rape, ed un più bello

luogo cercando e più libero spazio,

non era ancor dal buco ito due miglia,

che va di meraviglia in meraviglia.

 

Di qua l'Alpi e di là v'è l'Appennino,

ogni mucchio di terra è una montagna,

e dopo un altro giorno di cammino,

arriva dove in mare il sol si bagna.

Qui vedendo dell'Ostriche, credette

sulle prime che fossero barchette.

 

- O che bel mondo! - esclama, - o babbo mio,

che non uscisti mai dalla tua tana!

Il mare ed il deserto ho visto anch'io

cogli occhi, e non per giuoco di morgana,

che fa veder le cose entro uno specchio

siccome ho letto sopra un libro vecchio -.

 

Il Topo, rosicchiando in libreria,

se non era un grandissimo sapiente,

qualche nozione di geografia

gli si era pure appiccicata al dente:

vide dunque quell'Ostriche e credette

sulle prime che fossero barchette.

 

Fra le quali, o lettor, ve n'era alcuna

che al dolce soffio respirando, apriva

le labbra, bella e bianca e grassa e d'una

così ghiotta e mirabile attrattiva,

che il Topo disse: - Se non mangio questa,

che cosa di mangiare più mi resta? -.

 

E subito si fece un grosso conto,

e quando il nicchio un poco si avvicina,

il Topo allunga lo zampino pronto,

ma sul più bello l'Ostrica barbina

il guscio abbassa e pria ch'ei tragga il collo

come dentro a una trappola serrollo.

 

Dimostra questa istoria in primo loco,

che chi non ha del mondo conoscenza

va facilmente in estasi per poco,

e facilmente crede all'apparenza;

poi si rivolge a quei matricolati

che credon di suonare, e son suonati.

 

 

X - L'Orso e il Giardiniere

 

Un Orsacchiotto assai mal pettinato,

selvatico cresceva in fondo a un bosco,

solo, nascosto, sempre torvo e fosco,

in collera col fato.

 

Novel Bellerofonte, l'umor nero

s'univa a una tremenda ipocondria,

perché solo la buona compagnia

tien ilare il pensiero.

 

Un bel parlar non vale un bel tacere,

sta scritto, ma bisogna discrezione,

ed in quel bosco un uomo, un can barbone

non si facea vedere.

 

Per quant'Orso, e per quanto Orso testardo,

passava giorni orribilmente bui.

Non lontan s'annoiava in un con lui

un vecchierel gagliardo,

 

che amava un suo giardin, i fiori, il sole,

prete di Flora e prete di Pomona,

ma non vedea passare una persona

da far quattro parole.

 

Le piante e i fior non parlano al di fuori

di questo libro che per voi trascrivo.

Desiderando un dì vedere un vivo

lasciò le piante e i fiori.

 

E sul mattin, battendo la campagna,

andava in cerca d'una comitiva,

quando incontrò quell'Orso che veniva

torvo dalla montagna.

 

L'Orso teneva in mezzo del cammino:

che far? come scappar? e da qual parte?

Il vecchierel si ricordò dell'arte

che piace ad Arlecchino,

 

e fingendo un coraggio di leone:

- Buon passeggio, - gli dice. - Schiavo tuo, -

l'Orso risponde in tono tutto suo, -

vedo che stai benone.

 

- Sì, grazie a Dio, signor commendatore,

se vuol accomodarsi in casa mia,

ho latte, cacio, noci, ed offriria

di più con tutto il cuore...

 

Capisco, non è roba forse adatta

a lor signori, tuttavia se vuole... -

L'Orso accetta, si siede e in due parole

è l'amicizia fatta.

 

Sono i sciocchi che ciarlano, ma l'Orso

è saggio prudentissimo. Non teme

il vecchierello di mangiar insieme,

di far qualche discorso,

 

senza togliere il tempo alle faccende.

L'Orso in compenso, forte cacciatore,

uccide lepri, e docil servitore

caccia dal volto, prende

 

sopra il vecchio che dorme quell'alato

parassita, che noi mosca diciamo,

tenendo nelle zampe un grosso ramo,

fedel come un soldato.

 

Un dì che il vecchio in l'ora consueta

dormiva, ecco una mosca più stizzosa

che sul naso più volte gli si posa,

e l'Orso s'inquïeta.

 

Poi perde la pazienza, ed un mattone

afferrato, s'appressa, il pugno chiuso,

dov'è la mosca, e plaf proprio sul muso

la schiaccia del padrone.

 

Così l'Orso mostrò che un cacciatore

non è sempre il miglior ragionatore,

e che peggiore d'un leal nemico

è un ignorante amico.

 

XI - I due Amici

 

Due buoni Amici c'erano al Chilì

simbol dell'amicizia più cortese.

I buoni amici sono in quel paese

come quelli del nostro o giù di lì.

 

Una notte, traendo essi profitto

dell'assenza del sol, dormivan sodo.

Allor che trabuffato

un s'alza e corre dritto

a risvegliar l'amico addormentato.

 

Dormivan tutti in quella casa. Al chiasso

balzano i servi e corrono coi lumi,

anche il padron discende

e accorre coi denari e colla spada.

 

- Che c'è? quale fracasso?

Sei tu, fratello, che ti pigli spasso,

invece di dormir come costumi?

Che cosa capitò?

Hai tu perduto al gioco il tuo denaro?

La borsa ecco ti do.

T'han fatto qualche ingiuria sulla strada?

Andiam, ecco la spada.

Vuoi tu dormire in buona compagnia?

Questa mia schiava, pigliati, o mio caro.

 

- No, - disse il buon amico, - alcun bisogno

non ho di tutto ciò,

ma solo vengo, perché ho fatto un sogno

che assai mi spaventò.

Tu m'eri apparso colla faccia scura

e corsi a te pensando a una sciagura -.

 

Sai dirmi qual dei due, lettor discreto,

amasse l'altro d'un amor più bello?

È l'amico un dolcissimo fratello

che vi cerca nel core il duol segreto.

 

Senza farvi arrossire ode il bisogno

che vi tormenta. Il susurrar del vento,

un'ombra è segno, o un fuggitivo sogno,

per chi vuol bene, di sinistro evento.

 

 

XII - Il Porco, la Capra e il Montone

 

Una Capra, un Monton e un Porco grasso,

sopra un sol carro andavano alla fiera,

e, se la storia è vera,

non andavano, sembra, per ispasso,

né sembra che il padrone anche volesse

condurli al teatrin dei burattini,

ma venderli e pigliare dei quattrini.

 

Il sor Porcello non faceva intanto

che gridar sulla strada, ed eran strilli

da rendere balordo

un uomo sordo.

- O che ti pelan vivo? -

dissero i suoi compagni più tranquilli.

- E c'è bisogno di strillar sì tanto?

 

- Zitto là, - poi soggiunse il cavallante, -

tu ne stordisci, stattene quieto,

hai l'esempio di questi a te davante

che insegnarti dovrebber la maniera

di viver bene e d'essere discreto.

 

Non vedi questo povero Montone

che non apre la bocca? questi è un saggio.

- Saggio non è, - rispose don Porcello, -

ma ditelo un minchione,

che se non ha di piangere il coraggio,

è perché di conoscer non gli è dato

ciò che l'aspetta appena sul mercato.

 

S'ei lo sapesse, strillerìa, scommetto,

con quanto gli è rimasto fiato in gola,

e con lui griderebbe in do di petto

anche l'altra che ha persa la parola.

Ma l'uno e l'altra crede

che lana e latte a vendere al mercato

vada il padrone e sono in buona fede.

 

Può darsi che ciascun non abbia torto,

ma in quanto a me, che valgo in quanto morto,

non ho motivo alcuno di sperare.

Lasciatemi gridare e la mia casa

e la mia bella patria salutare -.

 

Sor Porcello parlò come un giornale,

ma nulla gli giovò, ché nulla vale

contro il destin che non si cangia mai,

il far lamenti e guai.

 

Da ciò potrà vedere l'uom prudente

che chi men sa, ben spesso è il più sapiente.

 

 

XIII - Tirsi e Amaranto

(Alla signorina De Sillery)

 

Se il Boccaccio mi tolse un giorno al dolce

Esopo mio, novella ecco mi toglie

ad entrambi una Musa assai gentile,

che alla fonte natia mi riconduce.

Come dire di no, quando divina

è la musa e di tal beltà vestita,

che sui cuori sovrana alza lo scettro?

Or sappia il mondo che a cantar mi tragge

ancora messer Lupo e monna Volpe

l'unica Sillery, vaga donzella,

a cui tutti si prostrano devoti.

Chi dice Sillery nulla gli resta

d'aggiungere di poi che non sia vano.

Essa si duol che a lei sfugga il segreto

spirto de' miei Racconti (a dolce sguardo

è ben che ignudo il ver non apparisca)

onde ancor canterò, ma sol per essa,

ciò che davanti a lei senza commento

possa tornar più volte e senza offesa.

 

Vengano prima i miei pastori e poi

ben io saprò sulla modesta lira

di capri e lupi concertar le voci.

 

Tirsi diceva ad Amaranto un giorno:

- Conosco un mal, mia cara, un mal sì dolce,

che vince ogni altro ben sopra la terra

ne' suoi misteriosi incanti. Or vieni,

se di Tirsi non hai dubbio e paura,

e lascia che conoscere ti faccia

questo mal, questo bene. E non son io

il più fedele e il più sincero amico

di quanti hanno per te malato il cuore? -.

 

Disse Amaranto: - E qual nome gli fanno

a questo mal che dici?

- Amor.

- Amore?

È un bel nome davver. E a quali segni

presentirlo potrei, qual è il tormento?

 

- Son pene al cui confronto anche i più grandi

passatempi dei re, stupidi giochi

diventan. Tu vaneggi in una blanda

estasi in mezzo ai boschi. Il ruscelletto

luccica sempre in una vaga imagine

tremolante che a te non rassomiglia

e t'insegue dovunque ove tu fugga;

per ogni cosa è cieca la pupilla

fuor di quella parvenza. Il nome, il nome

d'un pastorel, la voce sua, l'idea,

d'una fiamma improvvisa il volto accende.

 

Sospiri, se di lui pensi, e non sai

perché sospiri, ma per lui sospiri,

incontrarlo vorresti e in un lo temi.

 

- E questo mal? - allor disse Amaranto; -

o mio buon Tirsi, è un pezzo ch'io lo provo -.

 

Tirsi sperò d'essere giunto in porto,

e corse a lei, che subito soggiunse:

- Io lo conosco, è il mal che sento in core

per Clidamante-.

Ahi disgraziato Tirsi!

ché di vergogna non moristi e d'ira?

Molti son come lui semplici e stolti,

che, giocando alla sorte, ahi! troppo tardi

s'avvedono di fare il giuoco altrui.

 

 

XIV - Esequie alla Leonessa

 

Il giorno che morì la principessa,

o Leonessa, accorsero i dolenti

a far al re quei mesti complimenti,

che sono sul dolor buonamisura

nei giorni di sciagura.

 

Fissato il luogo e il dì, volle il Leone

che i suoi ministri attenti

sorvegliasser la lunga processione.

Grande il concorso fu. Dentro la grotta

che serve al re Leon di cattedrale,

ogni animale, ognun a modo suo

piange d'intorno al re.

E questi, è natural, piange per tre.

 

È la Corte una casa così fatta

dove la gente è trista, è buona, è matta,

a seconda che il re vuole o non vuole.

Gente camaleontica che fa

la scimmia ad una grande Maestà,

mille corpi e una man che fa, che detta,

come se l'uom (lo dicono i filosofi)

non fosse che una vera macchinetta.

 

Tornando a noi, dirò che a quel gran duolo

il Cervo solo non pigliò gran parte.

La morta, a nominarla come viva,

la moglie ed un figliuolo

avevagli strozzato, e se nutriva

ruggine in petto il Cervo derelitto,

era nel suo diritto.

 

Ma non mancò chi corse poi dal principe

a dir che il Cervo s'era fatto gioco

perfin del funerale.

La collera d'un principe è fatale,

e molto più d'un re come il Leone,

lo ha detto Salomone;

ma quel Cervo leggeva così poco...

 

- Brutta bestia dei boschi, - disse il re, -

ed osi sghignazzare innanzi a me,

mentre si piange e mentre siamo in chiesa?

Non io l'insulto tuo vendicherò,

ma dai lupi sbranare ti farò

a placar l'ombra pia da un vile offesa.

 

- Prego, ascoltate, o Sire, -

il Cervo prese mestamente a dire, -

passato è il tempo ormai

di piangere e far guai,

ché la regal Consorte

cinta di fior, dal regno della Morte

or or mi apparve e bella,

in sua gentil favella e dolce riso:

“Io son beata”, disse, “e vo tra i santi

a discorrere santa in paradiso.

Dunque i sospiri cessino ed i pianti.

Mi conforta il dolore universale

e il pianto del mio re,

ma dico a te che a un'anima beata

è festa il funerale” -.

Udito ciò, la Corte ad una voce

- Miracolo! - gridava. - Apoteòsi! -

E il Cervo invece di essere squartato

di cavalier si meritò la croce.

 

Se voi lodate ed incensate i grandi,

se prima vi parevan schizzinosi,

diventan tosto morbidi e graziosi:

per quanto grosse le sballate loro

digeriran le vostre bombe d'oro.

 

 

XV - Il Topo e l'Elefante

 

La vanità, ch'è tutto un mal francese,

fa ch'ogni sciocco e stupido borghese,

un grand'uomo si creda in quel paese.

 

Vani son gli Spagnoli e tuttavia,

per quanto grande il lor difetto sia,

è più che scipitezza una pazzia.

 

L'esempio che vi conto vi dimostra

la boria nostra, la qual su per giù

non vale men di un'altra e non di più.

 

Un Topolin piccino

vide un grosso Elefante gigantesco,

e rise di quel grande baldacchino

pesante ed arabesco,

con tre piani di sopra e una sultana

seduta in mezzo di beltà sovrana,

con cani e gatti e pappagalli suoi,

e con tutta una casa che in viaggio

andava ad un lontan pellegrinaggio.

 

Rideva il Topolin perché la gente

stesse a guardar quel coso stravagante,

più che animale, macchina ambulante.

 

- Bel merito, - dicea, - d'esser sì grosso,

come se il bello fosse in un colosso...

O gente sciocca, ov'è la meraviglia

che ai ragazzetti fa levar le ciglia?

Così piccino come son, un grano

non valgo men di questo pastricciano -.

 

E stava per aggiungere di più

il Topo vanerello.

Quand'ecco sul più bello

un gatto salta giù

e fric... in un istante

mostrò che un Topo è men che un Elefante.

 

 

XVI - L'Oroscopo

 

Il tuo destin per quella stessa via

per cui lo fuggi a te corre d'incontro.

 

Un padre di sì caldo e intenso affetto

amava un suo figliuol unico in terra,

che sulla sorte sua quanti indovini

e sonnambuli vanno per la via,

facea cantar.

Uno di questi un giorno

annuncia che doveva il giovinetto

fino ai vent'anni andar molto guardingo

dall'incontrar leoni, oltre il qual tempo

potrebbe di sua vita andar sicuro.

Il buon padre, per far che mai pericolo

di tal sorta facesse al suo diletto

eterno danno, in un palagio il figlio

tosto rinchiuse e proibì che il piede

ei mettesse di fuori. A far men tristo

di quel lucente carcere il soggiorno,

entro il palazzo era un giardin e molti

vi accorrevan fanciulli, e in giochi e in salti

e in spassi ed in chiassosa compagnia

allegramente egli vivea rinchiuso.

 

Sol la caccia gli fu con odio e tetro

color descritta, come cosa indegna

d'uomo gentil. Che importa? Ha mai parola

trasformato dell'indole il metallo?

Onde avvenne che il giovine alle sagge

avvertenze sentia balzar nel petto

un desiderio di battaglia, e sempre

voglioso, irrequieto, e in preda a un caldo

sogno, volea discendere nei campi

a combatter le fiere. E più fremea

quanto sentia più stringer le catene;

ma l'Oroscopo a lui stava davanti

colle fiere parole.

Era il palagio

di belle statue adorno e di pitture,

che ritraevan cacciatori e cacce,

ed animali e alpestri paesaggi,

onde più s'accendea l'anima al mesto

giovincello. Dipinto era un leone

fra l'altre belve, a cui rivolto un giorno:

 

- O mostro, - disse, - o mio fatal nemico

per cui viver mi tocca oscuro e vile

in queste mura... - E sì dicendo, acceso

d'ira improvvisa, sul leon dipinto

si scaglia, e sfonda la dipinta tela...

Ahimè! nel muro era un acuto chiodo

dal dipinto velato, e tal fu il colpo

che a mezzo il petto il garzoncel trafisse,

ch'ei cadde in terra del suo sangue intriso.

Invan fu chiesto ad Esculapio il balsamo

che le ferite tenero rinchiude,

il caro capo abbandonò per sempre,

e morì per le stesse arti trafitto,

che salvarlo dovean dal suo destino.

 

 

XVII - L'Asino e il Cane

 

L'Asinello, che in fondo è un animale

di buon cuore, una volta s'impuntò

e contro ad ogni legge naturale

a un amico un servigio rifiutò.

 

Il caso avvenne un dì che a capo basso,

senza pensare a nulla, in compagnia

del Cane e del padrone se ne gìa

per la sua nota strada passo passo.

 

Un certo istante, giunto ad un pratello,

si ferma tutto a un tratto l'Asinello,

e mentre il suo padron dorme e riposa,

di quell'erba ei mangiò fresca e gustosa.

 

Non c'eran cardi, ma ne fece senza,

non sempre si può aver ciò che si vuole,

e per quanto gli piacciano, pazienza,

non ogni giorno in ciel risplende il sole.

 

Il Cane, che moria di fame intanto,

disse al compagno suo: - Caro Modesto,

fammi un piacer, abbassati quel tanto

che possa anch'io pescar in fondo al cesto.

 

E possa in fondo al cesto anch'io pescare

il mio piccol boccon pel desinare -.

Ma fece il sordo quella bestia sciocca,

senza cessare di menar la bocca.

 

Torna il Cane a pregar: - E forse credi

che ti scappi quest'erba sotto i piedi? -.

E l'Asin duro: - Aspetta, o buon Barbone,

che si svegli fra poco il tuo padrone -.

 

In questa esce da un bosco e mostra il dente

il Lupo, un altro che non ha pranzato.

- Aiuto! - grida l'Asin spaventato,

ma questa volta è il Can che non ci sente.

 

- Non gridar, - gli risponde, - non far caso,

il tuo padron si sveglia presto presto,

che se il Lupo ti morde, e tu, Modesto,

dàgli un calcio frattanto sopra il naso.

 

T'han ferrato per questo e ti spaventa?

Un colpo buono in terra lo stramazza -.

Ma in queste ciarle il Lupo i fianchi addenta

dell'Asin e coi morsi me l'ammazza.

 

È saggio avviso e scaltro

che l'uno aiuti l'altro.

 

 

XVIII - Il Bascià e il Mercante

 

Col segreto favor d'un gran Bascià,

in orïente un greco Mercatante

faceva affari d'oro, e poi che costa

cara d'un alto protettor la grazia,

pagava il protettor non da mercante

ma da bascià... Ma paga e paga e paga,

a lungo andar questo pagar rincrebbe

al nostro greco, e sen dolea, dicendo

di non poterne più, quando tre turchi

s'offriron di concedergli favore

a meno prezzo, in tre, che non spendesse

prima per uno. Il greco accetta.

Intanto

si conobbe la cosa e ognuno dicea

che avrìa dovuto il gran Bascià vendetta

trarne, mandando i suoi vassalli in cielo

a portare un messaggio a Maometto.

 

- Se tu nol fai, - dicea qualcun de' suoi, -

ti preverranno per paura i tristi,

e per quanto tu chiuda anche i cancelli

del tuo palagio, con sottil veleno

a protegger ti mandano in turbante

i falsi mercatanti in paradiso -.

 

Ma il Turco a questo dir, novo Alessandro,

non diede retta e con sereno spirto

trova un bel giorno il suo Mercante in casa,

siede alla mensa ed in diversi e schietti

discorsi entrando, gli mostrò che nulla

diffidenza era in lui. Quindi gli disse:

 

- Amico, io so che tu mi lasci e alcuni

voglion ch'io tragga orribili paure,

ma tu sei troppo galantuomo, amico,

e la faccia non hai d'uom che il suo tempo

passi a mescer veleni, ond'io men rido

delle chiacchiere altrui. Pace! e se brami

sul conto di codesti a te novelli

amici udir quel ch'io ne penso, ascolta

senz'andar per noiose querimonie

una fiaba che a lor calza a pennello.

 

C'era una volta un Cane ed un Pastore,

e c'era anche un armento.

Dicea la gente: “A che ti serve un cane

sì grosso, che per solito alimento

ti mangia ad ogni pasto un grosso pane?

Sarai più saggio

se lo vendi al signore del villaggio.

 

Un paio o tre

di piccoli mastini costan meno

a un uomo come te,

e fan la guardia più che non la faccia

da sola questa grossa bestiaccia”.

Il buon Pastor credé,

e tre mezzani

mastini prese e risparmiò dei pani.

Ma se il grosso mangiava almen per tre,

era tre volte a mordere più forte,

quando per sorte

con general spavento

venìano i lupi a minacciar l'armento,

mentre quell'altre bestie assai men care

erano tre a scappare.

 

- Se tu sei saggio, fidati di me, -

soggiunse il buon Bascià, -

o proverai di questa favoletta

la triste verità -.

 

La qual dimostra ancora

come convenga ai piccoli paesi

appoggiarsi a un monarca di gran prezzo,

che non ai cento re d'un soldo al pezzo.

 

 

XIX - I vantaggi del Sapere

 

Un uomo ricco, un asinaccio ritto,

soleva dire a un suo vicin stracciato

(e stracciato vuol dire letterato)

che il ricco sol di vivere ha diritto.

 

- Al ricco deve fare di cappello, -

ei ripeteva, - ogni fedel corbello,

non sol, ma è giusto che gli faccia onore

il dotto, il pensatore e il professore.

 

Costor con tutto il leggere che fanno

non hanno spesso pane da mangiare,

e portan certe vesti così rare

che fan sempre parer d'estate l'anno.

 

Stanno in alto in stanzucce accanto al tetto

coll'ombra sua ciascuno per valletto.

Povera gente e poveri gli stati,

che fanno i conti addosso ai disperati!

 

Utile invece è chi vi spende e spande

del suo liberamente, in lusso, in feste,

che mantien l'artigian e che lo veste

col suo denar e colle imprese in grande.

 

È il ricco che le lettere sostenta

e paga chi coi libri lo tormenta

e con omaggi e dediche sì strane,

che son meno noiose le campane -.

 

Così dicea quel grosso babbuasso.

Ben si sentì il poeta sulle prime

gran voglia di risponder per le rime,

ma la giustizia viene di suo passo.

 

Venne, dico, la guerra, e la vendetta

fu più crudele d'ogni satiretta.

A ferro e a fuoco è messa la città,

l'uno scappa di qua, l'altro di là.

 

Sol disprezzo il babbeo millantatore

nell'esilio trovò, mentre il poeta

ricevette accoglienza onesta e lieta.

State zitti, il saper ha il suo valore.

 

 

XX - Giove e i Fulmini

 

Giove un dì dall'alto scanno,

i peccati rimirando,

che dagli uomini si fanno,

- Fino a quando, - prese a dire, -

questa razza soffrirò?

D'altra gente riempire

men noiosa il mondo io vo' -.

 

E a Mercurio: - Va', precipitati

all'inferno,

e la più feroce tirane

delle Furie e fa' che tutta

questa gente sia distrutta

in eterno -.

Ma il comando non finì

che il buon padre si pentì.

 

Prenci e re, mi raccomando,

voi che siete Numi in terra,

del furore tra il baleno

e il discender delle botte

deh! lasciate in mezzo almeno

l'intervallo d'una notte.

 

Va quel dio che ha l'ali ai piedi

e la lingua lusinghiera,

e discende ove Tisìfone

con Megera,

con Aletto

fanno il ghetto.

 

Sorge Aletto, e con perverso

giuramento, si propone

di tirare l'universo

nella casa di Plutone.

 

Padre Giove, il giuramento

della Furia cancellò

e nel buio la ricaccia.

Quindi fa l'esperimento

di scagliare una saetta

per minaccia

dell'olimpica vendetta.

 

Dalla man di un Dio sì buono,

padre giusto dei viventi,

con frastuono

passa il fulmine

sopra il capo delle genti,

e va a rompersi lontano

sopra l'erta

d'una rupe alta e deserta.

Un buon babbo pesta piano.

 

Sulla via dell'indulgenza

prese l'uomo confidenza

e fe' peggio ancor di prima.

Il padrone delle nuvole

altre lima

più terribili saette,

ma gli dèi lo persuadono

l'ira sua pigliando a gabbo,

di star pago al suo mestiero

di buon babbo.

 

Venne innanzi allor Vulcano

e a far fulmini dié mano

di diversa qualità.

I migliori, intendo quei

che non dànno mai perdono,

dal lor trono

ce li scagliano gli dèi:

quei che fanno inutil prove

e si pèrdono qua e là

sono i fulmini di Giove.

 

 

XXI - Il Falcone e il Cappone

 

Amici andiamo adagio

a credere alla voce del malvagio,

ma facciam come l'Asin di Giampietro

che più lo spingi e più si tira indietro.

 

Un grasso cittadin di Monticello,

che faceva il mestiere di Cappone,

al tribunal un dì venne citato

del suo padrone.

- Qui, qui, qui, qui... - gridavagli la gente,

spingendolo bel bello,

ma il brianzol, maestro in furberia,

scappava via

e lasciava gridare inutilmente.

 

- Servo vostro! - dicea, - non mi si piglia

in queste grosse trappole, no, no -.

Nessun si meraviglia

se non hanno i capponi confidenza

cogli uomini. È l'istinto, ben si sa,

ed è l'esperienza

che diffidar li fa.

Il nostro brianzol indovinò

che doveva al diman esser la gloria

del banchetto e davver ne facea senza.

 

Mentr'ei fuggia, sentì che da un palchetto

gli diceva un Falcone ammaestrato:

- O sciocco, ed hai sì corto l'intelletto,

che non intendi che si perde il fiato

a chiamarti? E v'è gente più citrulla

di questa razza d'uccellacci stupidi

che non capisce nulla?

Io sì, riguarda qui,

cacciar, volar io so,

partir, tornare, io sì,

e dovunque si vuol rapido vo.

Il tuo padron ascolta

che ti attende sull'uscio, anima stolta.

 

- Attenda fin ch'ei vuol, - disse il Cappone, -

conosco già la bella novità

che da contar egli ha.

Da lui poco lontano

caro quell'uomo col coltello in mano!

A questo dolce e amabile zimbello

vola, mio dotto uccello,

se ti piace. Per me scappo e ti chiedo,

in carità, non ridere

se alle voci gentili ancor non credo

che mi faranno stridere.

Se vedessi anche tu cotti allo spiedo

tanti falconi

quant'io vedo capponi o appesi al muro,

non rideresti, amico, di sicuro.

 

 

XXII - Il Gatto e il Topo

 

Un certo Gatto gran rubaformaggio

e un Topo rodicorda assai stimato,

un'orrida Civetta

e la dal lungo corpo Donnoletta,

nel buco spesso usavan d'un selvaggio

abete rosicchiato.

quattro bestie di cui l'una non era

per nulla all'altra eguale,

ma in quanto a far il male

anime triste tutte a una maniera.

 

E tanto vanno e vengono che un giorno

l'uomo tese una rete tutt'intorno,

e adesso sentirete:

esce il Gatto al mattin, siccome suole,

pria del levar del sole

a caccia, ma non vede ahimè! la rete...

Vi resta e non gli resta

che di gridar, se vuol salvar la testa.

 

Accorre il Topo e il suo mortal nemico

preso nel laccio vede,

e s'ei fu lieto ognuno me lo crede.

Il Gatto piagnoloso: - O amico, amico, -

dicea frattanto, - è noto

quanto tu fosti verso noi devoto,

aiutami a scappar da questi nodi

in cui venni a cader, tu che lo puoi.

Ed è giustizia, se ricordi i modi

che sempre usai fra cento pari tuoi

verso di te, che caro ognor mi sei

come quest'occhi miei.

 

Non me ne pento io già, fratello mio,

ma ognor ringrazio il ciel nell'orazioni.

E appunto stamattina

nel fosco uscìa per far le devozioni,

che ogni buon gatto fa quando è cresciuto

nel santo amor di Dio,

e il maledetto fil non ho veduto!

Nelle tue mani io metto la mia vita,

sciogli i nodi e procurami un'uscita.

- Qual compenso mi dài? - l' altro gli chiese.

- Prometto teco eterna l'alleanza,

e nelle zampe mie pronte difese

contro i nemici in ogni circostanza.

Sarò la tua vendetta

contro la Donnoletta e la Civetta

che voglion la tua morte...

 

- Basta così, - rispose

il Topo, - credo poco a queste cose.

Sarìa tre volte matto

quel topo che affidasse la sua sorte

all'onestà del gatto -.

 

E ciò detto partì. Presso la tana,

guardando alla lontana,

vede in agguato la sinistra Donnola.

Va sulla pianta e mentre ancor si arrampica

sul tronco in alto la Civetta vede...

Or come fare? scivola

di quell'abete al piede

e in mezzo a tre pericoli

sceglie il minore. Rosicchiando un nodo

e un altro della rete e un terzo e il resto,

all'impostore procurava il modo

di scappar dalla morte allegro e lesto,

ma guai se in quel momento

non giungeva opportun l'uom della rete

che li facea scappare come il vento.

 

Non molto tempo dopo

il Gatto trova il Topo,

che stava a una distanza rispettosa.

- Fratel, o vieni, abbracciami, -

con una voce tenera e amorosa

gli disse, - e non guardare un alleato

con quel far diffidente e disgustato.

A te, dopo il buon Dio,

devo la vita, lo conosco anch'io -.

 

Rispose il Topo: - Grazie, n'ho piacere,

ma non è scritto sopra alcun trattato

che un gatto abbia il dovere

d'esser per gratitudine obbligato.

Del carattere tuo chi mi assicura?

Un gatto è sempre gatto per natura.

 

 

XXIII - Il Torrente e il Fiume

 

Un torrentaccio rapido e sonante,

precipitando al basso,

empìa del suo fracasso

le rive e la campagna circostante.

 

Fuggìan le genti dalla furibonda

velocità dell'onda,

quand'ecco un tal che dai ladri fuggiva

fermossi sulla riva.

 

Come passar? esita un po', ma visto

che i ladri corron sempre per di qua,

tentò, passò... Per il rumor che fa

il torrentaccio non è poi sì tristo.

 

Anzi è sì buono, che il furor dell'onda

i ladri non fermò.

L'altro a correre ancor, fin che alla sponda

d'un bel fiume arrivò.

 

Questo era proprio un fiume maestoso,

sereno come un bel sogno d'estate,

non rupi a picco, ingrate,

ma un passo limpidissimo, sabbioso.

 

Col suo cavallo il buon viaggiatore

fugge i ladri, ma il guado è traditore:

beve il cavallo, beve il cavaliere,

e in fondo a Stige vanno entrambi a bere.

 

E vanno entrambi a bere in Acheronte

e in acque più lontane.

Fin che abbaia giammai ti morde il cane,

è l'acqua cheta che corrode il ponte.

 

 

XXIV - L'Educazione

 

Cesare e Leccardon, cani fratelli,

da una razza venivano di cani

famosi, arditi, valorosi e belli.

 

Ma caduti per caso nelle mani

di due padroni, l'uno alla foresta

passava i giorni in esercizi sani,

 

l'altro, che invece tutto il giorno resta

in cucina a mangiar, si sconcia tanto,

che quasi stenta a sollevar la testa.

 

Leccardone il chiamavano pertanto

(e il nome fu da un guattero trovato),

che sul nome degli avi prese il vanto.

 

L'altro cane fu Cesare chiamato,

e fu davver coi cervi e coi cinghiali

per entro ai boschi un Cesare dannato.

 

Per mantener nei figli pregi eguali,

il padrone gli scelse anche una sposa

che per bellezza non avea rivali.

 

Leccardon si contenta d'ogni cosa

che passa per la strada, e ne deriva

una razza di cani vergognosa,

 

che le fatiche volentieri schiva,

e si consuma a far girar gli spiedi,

razza villana, che non par che viva.

 

Non sempre i figli san posar i piedi

sopra l'orme dei padri, ma si oppone

pigrizia, casi e tempi... onde tu vedi

 

Cesare che diventa Leccardone.

 

 

XXV - I due Cani e l'Asino morto

 

I vizi son fra lor buoni fratelli,

e quando uno si siede

nel nostro cor, si vede

che siedono anche quelli

che van con lor per via,

a meno che la trista compagnia

per ira non si pigli pei capelli.

 

Non così le virtù. Raro si mira

dei grandi affetti in un sol uom lo zelo

temperato con nobile armonia.

L'uno è valente, sì, ma pronto all'ira,

l'altro è saggio, ma l'anima è di gelo.

Fin tra le bestie spesso

vedi accader lo stesso.

Il più fido animal che mai ci sia,

il cane io dico, mostrasi talvolta

anch'esso bestia stolta

 

e piena d'un'ingorda ghiottornia.

 

Due Cani in lontananza un giorno videro

in mezzo al fiume galleggiare un Asino,

che, sospinto dal vento, se ne giva

discostandosi sempre dalla riva.

 

- Amico, - disse l'un, - che l'occhio hai limpido

e più acuto del mio, guarda sul liquido

specchio dell'onda. È un bove od un cavallo? -

E l'altro: - È un buon boccone senza fallo.

 

Ma pigliarlo, barbin, questo è il difficile!

Lunga è la tratta e incontro il vento soffia.

Non ti senti riarso e sitibondo?

Proviamo a ber quest'acqua fino in fondo,

 

finché in secco vedremo della bestia

(superba provvigion) il corpo ghiotto -.

Bevono i Cani e bevi e bevi... bevvero

tanto che punf... scoppiarono di botto.

 

Tal è l'uomo. Se in lui fissa è l'idea,

non c'è cosa impossibile e fallace.

Castelli in aria crea,

e per amor di vane ombre e di gloria

in desideri perde la sua pace.

 

- Oh potessi riempire di ducati

questi miei scrigni! O s'io sapessi almeno

la chimica, la storia,

la medicina, l'arabo, l'armeno!

O arrotondar potessi questi Stati! -

 

Questo è bevere il mar. Ai sovrumani

concetti d'uno spirto vanerello

non bastan quattro corpi ed otto mani.

Se non si resta a mezzo sul più bello,

a compier ciò che logico non è

non bastan quattro vite di Noè.

 

 

XXVI - Democrito e gli Abderiti

 

Sempre in uggia mi fu l'ingiusto e scempio

e temerario giudicar del volgo,

che sol da sé piglia misura e legge

e le cose di false ombre confonde.

Ben ne fece a' suoi dì l'esperimento

d'Epicuro il maestro, a cui non valse

l'alto saper. Pei piccoli saccenti

della città, Democrito non parve

che un pazzerello... O dèi, quando s'è visto

alcun profeta in mezzo a' suoi? Ma pazzi

eran questi Abderiti il dì che un messo

mandarono ad Ippocrate, chiedendo

con lettere a quel medico divino,

che venisse a guarir del dotto amico

il malato cervel. - Vieni e vedrai -

dicean gli stolti - vaneggiar la mente

di sì grand'uomo dalla nebbia involta

dei libri, che saria certo men danno

s'ei non sapesse decifrar dei libri

manco i cartoni. Udrai com'egli sogna

di un infinito numero di mondi,

ch'ei forse vede d'altri pazzerelli

come lui popolati. E ancor discorre

d'atomi erranti, poveri fantasmi

del suo cervel che danza, e senza il piede

metter fuori dell'uscio, egli pretende

i cieli misurar, descriver fondo

a tutto l'universo e non conosce

il poveretto il mal che lo consuma.

Una volta ei sapea nelle contese

conciliar le discordie, oggi in se stesso

rinchiuso parla sempre ruminando.

Vieni, o divino medico, o non resta

altra speranza -.

 

Ippocrate alla gente

non crede troppo, ma a trovar si avvia

l'illustre infermo. Ora vedrete quali

incontri giochi spesso la fortuna!

Voglio dire che Ippocrate sorprese

il dotto pazzerel curvo ed intento

all'ombra fresca e d'un ruscello in riva

a ricercar per entro ai laberinti

d'un cervello ove sede abbia ragione,

e dove amor, negli uomini e nei bruti.

 

Molti grossi volumi accatastati

erano in terra, e in suo pensier rapito,

Democrito non vide il suo diletto

amico che venìa. Brevi i saluti

furono e i complimenti, e si capisce,

ché il perder tempo a chi più sa più spiace.

Messi in disparte i frivoli argomenti,

cominciaron i due grandi maestri

a cercar le cagioni alte del Bene,

sull'uom sillogizzando e sullo spirito,

parlando cose che il tacere è bello,

sì com'era il parlar colà dov'era.

 

Giudice cieco qui ti mostra il fatto

il volgare giudizio. E scarsa io presto

fede a quella sentenza che proclama

voce di Dio del popolo la voce.

 

 

XXVII - Il Cacciatore e il Lupo

 

Sacra fame dell'oro, avido mostro,

che il ben di Dio con torvi occhi divori,

fino a quando dovrò co' miei flagelli,

trista avarizia, a te levar le berze?

Sordo sempre sarà l'uomo al consiglio

del saggio e non dirà: Questo mi basta

pel mio bisogno, allegri ora viviamo?

Amico, guarda come il tempo vola,

godi, o più tardi intonerò, ma indarno,

quest'inno mio che val tutto un poema.

 

- Goder? Io voglio ben. - Quando? - Dimani.

- Ah poveretto! e se ti coglie in via

coll'irte unghie la morte? Or dunque godi

e leggi, amico, quello che racconta

del Cacciator la favola e del Lupo -.

 

Aveva un Cacciator stesa coll'arco

una damma, quand'ecco un capriolo

viene a passar. In compagnia sull'erba

coll'altra bestia cadde moribondo.

Bella preda, per Giove, un capriolo

e una damma, da pagar non uno,

ma dieci cacciatori! Il caso volle

ch'uscisse anche un cinghial grosso e superbo,

contro il quale inviò sì ben lo strale

il Cacciator, che quasi terzo all'Orco

lo sospinse. Tre volte alla feroce

belva cercò di rompere la Parca

colle forbici il fil, quando trafitto

il feroce animal sul suol piombò.

C'era d'andar contenti almen tre volte,

a creder mio, del triplice bottino;

ma tutto è poco a riempir la pancia

dell'uom ghiottone, e così volle il cielo

castigare costui. Mentr'ei s'appresta

a finire la belva sanguinante,

vista lontano svolazzar sull'erba

una bella pernice, a lei la punta

volse dell'arme, allor che strette in fascio

il mal morto cinghial l'ultime forze,

affronta il Cacciator, lo morde e lacera,

e vendicato muor su morto corpo.

 

Questa per voi ghiottoni. Udite or voi,

lerci avari, la vostra.

 

Un certo Lupo

venne a passar, e visto il miserando

spettacolo di morte: - O benedetta

la Fortuna, - esclamò, - degna che un Lupo

le innalzi un tempio. Quattro morti a un colpo!

S'è visto mai di più? ma non bisogna

abusarne, ché rara è la fortuna

(dicon sempre gli avari) e faccio il conto

d'averne almeno per un mese.

 

O belli,

ed uno, e due, tre morti, quattro morti,

son quattro settimane ben provviste,

s'io so contar. Comincerò dimani,

o meglio fra due giorni, e intanto all'arco

rosicchierò la corda. Ell'è di nervo

schietto, s'io posso giudicar col naso -.

Così dicendo, l'unghie ecco distende

all'arco, che scattò, lo stral partì,

e cadde il Lupo con quell'osso in gola.

 

- Godetevi la vita e non vi tocchi

per gola ed avarizia un'egual sorte, -

disse il Lupo e fe' chiòsa alla morale.

 

 

LIBRO NONO

 

 

I - Il Depositario infedele

 

Vostra mercè, della Memoria o figlie,

delle bestie cantai l'umili imprese,

né potean procurarmi una più grande

fortuna di più grandi eroi le gesta.

Colle stesse parole onde gli dèi

parlan nel ciel, il Lupo entro il mio libro

sermoneggia col Can che gli risponde.

Nascon diversi eroi. L'uno è solenne

e l'altro è pazzo: ma tra saggi e pazzi

è Follia che trionfa. Ancor io metto

sulla scena e ne traggo un denso coro,

fior di bricconi, ingannatori astuti

e prepotenti e ingrati bighelloni,

sciocchi e striscioni e, se volessi, a mille

i bugiardi di cui trabocca il mondo.

 

- Ogni uom puzza d'ipocrita! - Un sapiente

l'ha detto. - E ver? - S'egli parlar intese

della feccia del popolo, potrei

crederlo un poco e allor saria minore

e sopportabil danno; ma che tutti

grandi e piccini sian bugiardi, a stento

l'inghiotto. O forse è un bugiardone Esopo,

è Omero un bugiardon? Nel dolce inganno

de' sogni loro non risponde il bello

stile dell'arte onde s'infiora il vero?

E l'uno e l'altro su tal libro il falso

non hanno scritto, che dovrebbe eterno

durare e ancor di più, se non assurdo

è il dirlo? A tutti non è dato il dono

di sì belle bugie, ma posson tutti

frodar coll'arte di quel tal... Sapete

la bella istoria? - Orben, statemi attenti:

 

Pria di partir pe' suoi lunghi viaggi,

un Mercante di Persia a un suo vicino

un cento confidò libbre di ferro.

Partì, tornò, poi del suo ferro chiese

al compare.

- Che ferro? - egli rispose.

- Ahimè! fratello, per un forellino

del granaio (e ne ho fatta aspra rampogna

a' miei servi) sen venne un picciol topo,

che rosicchiò tutto il tuo ferro... tutto -.

 

A questo gran miracolo il Mercante

resta di sasso, tuttavia procura

di credere e sen va. Tre giorni dopo

ei fa rapire al suo vicino il figlio.

Lo nasconde ed il padre a un gran banchetto

invita; ma costui piange e lo prega

di piangere con lui, dicendo: - Amico,

d'un caro figlio iva superbo e tutto

il mio cor era in lui; mi fu rapito,