nel regno delle Rane si levò.

- Chi può sottrarci al danno, -

dicean le Rane, - alla cattiva Sorte,

se de' figlioli al Sole nasceranno?

Se brucia tanto un Sole,

che non splende nemmeno ogni mattina,

figuratevi voi mezza dozzina!

L'unico bel guadagno

sarà che moriranno

le canne e i giunchi e seccherà lo stagno.

Addio, ranocchi! svaporato il mondo,

sarem ridotte dello Stige in fondo -.

 

Mi pare, a mio buon senso naturale,

che per ranocchi non parlasser male.

 

 

XIII - Il Contadino e il Serpente

 

Un Contadin, un uomo di buon cuore,

quanto poco prudente,

andando un giorno pe' suoi campi in vòlta

vide in terra un Serpente

sopra la neve steso assiderato,

che non avea più fiato.

 

Il Contadin lo prese in grembo e senza

pensar la conseguenza

d'un atto di sì stolta carità,

innanzi al fuoco adagio lo distende

e riaver lo fa.

Il gelato animale ancor non sente

il tiepore, che già l'anima snoda,

ma colla vita ritornò il serpente.

Move la testa, soffia, alza la coda,

e ingrato, senza cuore,

s'inarca e già sta per spiccare il salto

contro l'amico suo benefattore.

 

- O brutta bestia, senza gratitudine, -

gridò quel galantuomo, - aspetta me -.

E feroce di collera com'è,

dà mano ad un'accetta

e zic zac l'affetta presto presto

in tre porzion, la coda, il capo e il resto.

Guizza e cerca il Serpente

di ricucir le membra - inutilmente.

 

È bella cosa il far la carità,

ma il farla bene è una faccenda seria.

Quanto agl'ingrati sempre si vedrà

che tutti finiran nella miseria.

 

 

XIV - Il Leone malato e la Volpe

 

Ammalato, rintanato,

il gran re degli animali

comandò che a tutti i sudditi

questo editto

fosse scritto e proclamato:

che mandasse ognuno in visita

all'infermo un deputato,

promettendo salvaguardia

per l'insolita occasione

dalle zanne e dagli artigli,

in parola di Leone.

 

Mentre sfilan l'altre bestie

in solenne comitato

a far visita ufficiale

al magnifico animale,

troppo poco persuasa

una Volpe stette in casa.

E si dice che dicesse:

- Se guardate l'orme impresse

nella polvere, vedrete

che nessuno

torna indietro. Ad uno ad uno

vanno tutti nella rete.

 

Grazie tante, Maestà,

della grazia che ci fa.

Nella reggia ben si vede

come puossi porre il piede:

non così

come poi s'esca di lì.

 

 

XV - L'Uccellatore, il Falco e l'Allodola

 

Una legge universale

sopra il mondo regge, ed è:

Tu rispetta altrui, se vuoi

che rispettin gli altri te.

Se i perversi fanno il male,

ciò non scusa i falli tuoi.

 

Tratta allo specchio, una meschina Allodola

venìa dove un Villan facea zimbello

agli uccellini, allor che un Falco librasi,

sull'ali, ed ecco rapido per l'aere

precipitando piomba

su lei, che canta all'orlo della tomba.

 

La poverina avea sfuggito appena

il perfido tranello

che si sentì ghermir dal tristo uccello.

La legge universal ora vedrete!

Ché mentre a spennacchiarla ei l'unghie mena

rimase ei stesso preso entro la rete.

 

- Lasciami andare, - nella sua disdetta

disse quel tristo uccello al Contadino, -

mal non t'ho fatto, abbi pietà di me.

- E questa poveretta

che male ha fatto a te?

 

 

XVI - Il Cavallo e l'Asino

 

Il suo fardel di guai

lascia chi muore a quel che resta: ebbene

aiutarci l'un l'altro ci conviene.

 

Un Asino fea scorta ad un Cavallo,

ch'era alquanto egoista di natura,

e mentre l'un crepava sotto il peso

del suo grosso fardello,

non avea l'altro che la bardatura.

 

- Aiutami, fratello, -

disse l'Asino, - o qui casco disteso

prima ancora di giungere alla mèta.

La preghiera non è troppo indiscreta,

perché metà per uno

non fa mal a nessuno -.

Il Cavallo, del cul fatta trombetta,

che non vuole a rispondere si affretta.

 

E l'Asino morì, povera bestia!

Il Superbo comprese il suo gran torto,

quand'ebbe la molestia

di portare egli solo, insieme al carico,

la pelle anche del morto.

 

 

XVII - Il Cane, la sua Preda e l'Ombra

 

Ognun quaggiù s'inganna,

e in ogni tempo è il numero infinito

di chi corre e s'affanna

e crede l'ombre di toccar col dito.

 

Per questi vale di quel Can la favola,

che della preda nel ruscel l'imagine

vista riflessa, il pezzo abbandonò

ch'aveva in bocca, e in l'acqua si tuffò.

Ma invece di pigliarne

doppia porzione, quasi vi restò,

e perdette coll'ombra anche la carne.

 

 

XVIII - Il Barocciaio

 

Al Fetonte d'un gran carro di fieno

un dì cadde il baroccio in una forra.

Intorno non v'è gente che il soccorra

e il luogo è un non ameno

deserto in mezzo ad una prateria

nella bassa provincia di Pavia.

Si dice che il destino

in quelle parti manda

chi non ha sul suo libro prediletto.

Ti scampi Iddio da quella brutta landa!

 

Tornando ancora al mio Fetonte, io dico,

che caduto in quel fango che l'impegola,

grida, bestemmia, batte senza regola,

or fa forza alle rote ed ora al carro,

e fatto quasi ossesso,

picchia i muli, la terra e fin se stesso

quel carrettier bizzarro.

 

Finalmente egli invoca il dio famoso,

noto al mondo per tante ardue fatiche

eseguite nel tempo favoloso.

- Ercole, - grida, - aiutami, se puoi,

trammi da questo fondo,

se è ver che in braccio hai sollevato il mondo -.

 

Intanto voce fu per lui udita,

che da una folta nuvola diceva:

- Ercole vuol che l'uomo che l'invita

muova le braccia anch'esso per il primo.

Guarda dunque ove prima sia l'intoppo,

togli i ciottoli e il fango che v'è troppo

presso le ruote, e da' forza alla leva.

Animo, spiana qua, togli di là,

aiutati che il Ciel ti aiuterà.

 

- Hai tu fatto? - Ecco fatto, Ercole santo.

- Or sono a te, prendi la frusta in mano.

- Ecco la frusta, oh vedi, caso strano!

Che è ciò? il mio carro, o Dio, corre da sé...

Deo gratias! Grazie a te.

 

- Se il tuo baroccio va, -

rispose ancor la voce dalla nuvola, -

la forza è nel proverbio:

aiutati che il Ciel t'aiuterà.

 

 

XIX - Il Ciarlatano

 

Sempre il mondo fu pien di vendifrottole,

che van spacciando le più strane iperboli.

L'uno sul palco bravar osa il diavolo,

e l'un ti stampa sopra un cartellone

ch'egli ti dà dei punti a Cicerone.

Un di costor solea dare ad intendere

di possedere l'arte assai difficile

di render dotti i più massicci zotici.

- O contadino o tanghero ignorante,

in breve tempo io ve lo cambio in Dante.

 

- Signori sì, - dicea, - datemi un asino,

un asino ferrato ed io più classico

vel do di quanti sono all'Accademia -.

Udito questo, un re di buon umore

mandò a cercar del grande professore.

 

E gli disse: - Dottore eccellentissimo,

ho nelle stalle un asinel d'Arcadia,

che voglio addottrinar nella retorica.

- Benissimo, - risposegli il giullare, -

Vostra Altezza non ha che a comandare -.

 

Il re gli fa pagare uno stipendio,

a patto che in dieci anni su una cattedra

ei mettesse la bestia atta a discutere.

Che se mancasse all'obbligo annunciato,

sarebbe in luogo pubblico impiccato.

 

E sarebbe impiccato in luogo pubblico

spacciatamente e senza cerimonie

con appesa alla schiena la retorica,

ch'ei va vendendo come roba onesta,

e con orecchie d'asin sulla testa.

 

Un cortigian, ridendo: - In man del giudice, -

gli disse, - ti vedremo a tempo debito.

E dev'esser stupendo lo spettacolo

d'un uom sì dotto e di cotanto peso

che danza al vento ad una corda appeso.

 

Quando sarai nell'oratorio, un tenero

discorso in bello stil cerca di stendere

coll'arte bella delle tue metafore,

classico testo che potrà servire

ai falsi Ciceroni in avvenire.

 

- Dieci anni? eh, eh!... prima che scada il termine,

saremo morti il re, l'asino od io, -

rispose il ciarlatano e con giudizio. -

Per quanto non ci manchi il ben di Dio,

e si mangi e si beva di gran gusto,

su tre, in dieci anni, morir uno è giusto.

 

 

XX - La Discordia

 

La dea Discordia si tirò lo sdegno

dei Numi tutti per cagion di un pomo.

Discacciata dal ciel, scese nel regno

dell'animal che prende il nome d'Uomo,

dove fu tosto a braccia aperte accolta

in un con suo fratel Che-sì-che-no,

e con suo padre Roba-data-e-tolta.

 

Scelse il nostro emisfer per sua dimora,

ché l'altro, giù, agli antipodi,

è così rozzo ancora,

che la gente vi nasce e si marita

senza imbrogli di preti e di notari,

che son della Discordia i segretari.

 

La Fama messaggiera a lei si presta

per mandarla ove il caso la richiede,

e la Discordia lesta,

destando incendio dove son scintille,

va per città, per ville,

ed alla Pace rapida precede.

 

Alfin la Fama, che si sente stanca

di cercar questa pazza irrequïeta,

che va di qua e di là senza una mèta,

per poterla trovare all'occorrenza

le consigliò di eleggere

in qualche luogo stabil residenza,

dove potrebbe sulla tarda notte

mandarla ad alloggiare

chi volesse un momento respirare.

 

In casa d'Imeneo,

vale a dire di gente maritata

(non v'eran chiostri femminili allora),

fu Discordia per sorte ricovrata,

e vi rimane ancora.

 

 

XXI - La Vedovella

 

Non si perde un marito senza pianto

e senza grande schianto di sospiri.

Ma dopo alcuni giri

di sol, col tempo la tristezza vola

e ancor la vedovella si consola.

Dopo un anno la vedova di ieri

non ha di triste che i vestiti neri,

e se prima facea fuggir la gente

col volto sconsolato,

dopo attira più d'uno innamorato.

 

Il morto giace e il vivo si dà pace,

e per quanto si dica che vi sia

dolor senza conforto,

la credo una bugia.

Aver di ciò potrai prova sincera

in questa favoletta che par vera.

 

A giovin sposa e bella

rapito era il marito dalla morte.

Accanto al letto la fedel consorte,

sentendosi mancare ogni coraggio,

gridava: - Aspetta che ti seguo anch'io...

Con te voglio morir, tesoro mio... -.

Ma il marito fe' solo il gran vïaggio.

 

Il padre, uomo prudente,

lasciò del pianto scorrere il torrente,

poi disse: - O figlia, il pianto ora che giova?

Che importa al morto se tu affoghi il lume

de' begli occhi di pianto in un gran fiume,

mentre vi son dei vivi a questo mondo,

che potrebbero ancor, non dico subito,

ma in tempo più giocondo

cambiar la sorte? Anzi conosco un tale,

bel giovine, ben fatto, assai migliore

del fu tuo sposo...

- Oh ciel! Oh quale orrore! -

interruppe la bella. - In un convento

chiudetemi ove possa le mie pene

raddolcire e dell'animo il tormento -.

Tacque il buon padre e vede che conviene

lasciar che digerisca il suo dolore.

 

Dopo un mese di pianti e di afflizione,

essa prende a mutar qualche gingillo,

o un nastro od uno spillo

al capo, al petto, infin che il suo dolore

in attesa di nuovi cicisbei

divenne una galante occupazione.

 

A piccionaia tornano gli amori,

risa e sollazzi e danze, a poco a poco,

tornano ancora in gioco:

di Giovinezza nella lieta fonte

si tuffa e terge ogni mattin la fronte.

Vedendola di sé tanto sicura,

del morto il padre non ha più paura.

 

Un dì, mentr'ei tacea dell'argomento,

- E dunque? - ella esclamò, -

dov'è, se mi è permesso,

quel bel marito che tu m'hai promesso?

 

 

Epilogo

 

Poniam all'opra un margine. Le cose

troppo lunghe finiscono in serpenti.

Più che la penna consumar sul tema,

è bello il fiore cogliere dell'arte.

Mi si conceda adunque un piccol fiato

sì ch'io possa accudir ad altre imprese,

ove mi chiama Amor, che di mia vita

è gentile tiranno. Altri mi chiama

a cantar la dolcissima di Psiche

e mestissima storia e vi consento,

sperando che nel suo fuoco divino

a novi canti l'animo s'infiammi.

Felice ancor mi chiamerò, se questa

fia l'estrema fatica, a cui soggetto

mi tien di Psiche il prediletto sposo.

 

 

LIBRO SETTIMO

 

 

Alla Signora di Montespan

 

È la Favola un dono degli Dèi,

o se mortale fu quei che pel primo

il bel dono trovò, ben d'un altare

egli è degno e dovrìan tutti i mortali

a tanto saggio offrir culto divino.

 

La Favola davver è un dolce incanto,

per cui l'anima attenta è fatta schiava

del tenue fil, che col racconto i cuori

a piacimento e l'intelletto move.

 

O voi, non meno affascinante, Olimpia,

se mai la Musa mia sedette a caso

qualche volta alla mensa dei celesti,

prego, allietate d'uno sguardo il canto,

in cui lieto lo spirito trastulla

del vostro amico. Ove a' miei versi ottenga

la protezion dei vostri occhi gentili,

non più l'insulto temerò del Tempo,

d'ogni altra cosa struggitor perverso.

 

Solo da voi dovrà qualunque in Francia

tiene la penna attender vita e lume.

Da voi, se un raggio ne' miei versi brilla,

solo deriva, che maestra e guida

a rigo a rigo seguitate il canto

del povero poeta. E quale al mondo

può gareggiar con voi nella dottrina

delle cose più belle e più gentili?

 

Parole e sguardi in voi sono una grazia,

e ben vorrìa, se non spingesse un altro

e lungo tema, in voi fissar la Musa

sempre lo sguardo; ma non manca a voi

chi più bene di me l'allòr vi cinga.

 

A me basta che il nome oggi d'Olimpia

protegga il mio volume, onde sicuro

vada pel mondo e dalla bieca invidia

si salvi. Un libro, a cui concesso è il guardo

d'Olimpia, è degno che lo legga il mondo.

 

Non per me questo imploro alto favore,

ma pel ben della Favola, che vanta,

come sapete, crediti infiniti

da noi. Se la Bugia m'ottien la grazia

di piacervi, o gentil, un alto tempio

innalzerò devoto alla Bugia...

Ma forse meglio adoprerò l'ingegno

se sol per voi fabbricherò miei templi.

 

 

I - Gli Animali malati di peste

 

Un male

terribile, fatale,

che il Ciel forse inventò

per castigar le colpe della terra,

un mal pien di spavento

capace, se va bene,

d'empire i cimiteri in un momento,

la Peste insomma - dirla pur conviene -

faceva agli animali tanta guerra,

che morivan colpiti a cento a cento.

 

Nessuno ormai volea

curarsi d'una vita orrida troppo;

ogni cibo facea fastidio e groppo,

e lupi e volpi ciaschedun vivea

le mani e i piedi in mano;

fuggian le tortorelle per dispetto,

fuggia l'Amor lontano

e fuggia coll'Amor ogni diletto.

 

Allor tenne il Leone un gran consiglio,

e disse: - Amici miei,

poiché davanti al Ciel tutti siam rei

di colpe, ed è perciò che ne castiga,

per toglierci di briga, ecco, direi

che quei che ha più peccato

nella sua vita, sia sacrificato.

 

Il suo sangue (e la storia ci dimostra

che più volte giovò l'espedïente)

forse otterrà la guarigione nostra.

Facciamo orsù l'esame di coscienza

fratelli, e confessiam senza indulgenza

i fatti nostri. Già per parte mia

confesso che provai ghiottoneria

di molti agnelli, poveri innocenti,

e che mi venne fatto per errore

di mangiar qualche volta anche il pastore.

 

Io son pronto a scontar colle mie vene

le colpe mie, se farlo oggi conviene,

ma prima ciaschedun con altrettanta

sincerità confessi, onde il più reo

colla sua vita paghi il giubileo.

 

- Sire, - disse la Volpe, - un sì buon re

al mondo come voi forse non c'è.

Che scrupoli son questi, Maestà,

per quattro canagliucce di montoni?

Non vedo che vi possa esser peccato

a mangiar questa razza di minchioni.

 

No, no, signor, anzi fu un grande onore

a ognun d'essi il sentirsi rosicchiato

dai vostri denti. In quanto a quel pastore,

meritava di peggio in verità,

visto ch'egli osa il titolo di re

vantar sopra le bestie, e non gli va -.

 

A questo dir scoppiâr grandi gli applausi

tra i cortigiani. In quanto ai Tigri, agli Orsi

e agli altri illustri poi non si cercò

il pel nell'ovo e i minimi trascorsi,

dal più ringhioso all'ultimo dei cani

per poco non sembrarono al capitolo

dei santi a cui si può baciar le mani.

 

S'avanza in fine a confessarsi l'Asino

contrito in cor, e confessando il vero,

narra che un giorno, andando

nel fresco praticel d'un monistero,

o fosse tentazione del demonio,

o fame o gola di quell'erba tenera,

brucò dell'erba (e fu cosa rubata

per essere sincero),

ma ne prese soltanto una boccata.

 

Udito ciò, gridarono anatèma

quei santi padri al povero Asinello.

Un Lupo, intinto di teologia,

sorto a parlar sul tema,

mostrò che la cagion della moria

venìa da questo tristo spelacchiato,

che per il suo malfare

bisognava che almen fosse impiccato.

 

Mangiar dell'erba altrui...! ma si può dare

azione più nefanda?

La morte era una pena troppo blanda

per espiar sì orribile misfatto.

E come disse il giudice fu fatto.

 

Della giustizia quando siede al banco,

sempre il potente come giglio è bianco,

ma se a seder si pone

il poveraccio, è un sacco di carbone.

 

 

II - Il mal maritato

 

Se la bellezza andasse ognor congiunta

colla bontà del cor, prometto a Dio

che prendo moglie domattina anch'io.

Ma il bello e il buono, ahimè! fanno divorzio

sovente e tanto rare

sono l'anime belle in care forme,

che meglio è tralasciare.

 

Di quanti veggo matrimoni, alcuno

non è che mi concilii con Imene,

anzi di quattro quarti almen degli uomini

che stendono le braccia alle catene,

di non pentito non trovai veruno.

E per non dir di tutti

dirò solo di un tal che la gelosa

donna avara, crucciosa e tormentosa,

s'ei volle uscir da orribili tormenti,

dovette rimandare a' suoi parenti.

 

Nulla poteva contentar costei,

nulla era bello e mai degno di lei.

A letto ci si andava troppo presto,

e troppo tardi si scendeva poi.

O bianco o nero che faceste voi,

o bigio, era la stessa cantilena

mattina e sera. I servi arrovellavano

e lo sposo n'avea la zucca piena.

 

A sentirla, davver era un tormento.

- Lui non pensa, non fa, non guarda a nulla.

Lui corre, lui sonnecchia,

lui questo, lui codesto ogni momento... -

Infin che il pover'uomo,

quando n'ebbe ben ben rotta l'orecchia,

la rimandò in campagna presso i suoi

a far la ninfa in mezzo all'oche e ai buoi.

 

Dopo un bel pezzo a casa la ripiglia,

sperando che le sian passati i grilli:

- Ebben, mia dolce Filli,

v'è piaciuta dei campi l'innocenza

e il soggiorno seren della famiglia?

- Ah non parlarne! È cosa, -

ella risponde, - indegna, vergognosa,

veder la gente oziosa, inetta e senza

premura per la casa e per gli armenti.

Questi servi non sono più indolenti.

E perché volli un po' farmi sentire

non ti dico il furore e l'odio e l'ire.

 

- O cara mia, - riprese allor lo sposo, -

se il vostro umor è sempre agro e rabbioso,

che nol posson soffrire anche i bifolchi

quando un momento tornano dai solchi,

come regger potranno tutto il giorno

i vostri servi che vi stanno intorno?

E come non ne avrà le calze rotte

quel povero marito

che voi volete insieme anche la notte?

Tornate a casa vostra: e se pentito

vi chiamerò per mio tristo destino,

possa morire e avere nell'inferno

due donne come voi sempre vicino

in mio castigo eterno.

 

 

III - Il Topo eremita

 

Racconta una leggenda orïentale

che un certo Topo, sazio ormai del mondo,

d'un formaggio d'Olanda a far la vita

di buon romita si ritrasse in fondo,

lontano dal mondano carnevale.

 

Ivi era solitudine perfetta

per tutto il giro del formaggio, e il Topo

coi piè, coi denti seppe tanto fare

che poco tempo dopo

ebbe la sua cucina e una celletta,

ove grasso divenne. Iddio protegge

qual si consacra volentieri a lui.

 

Un dì, quindi si legge,

arrivaron non so quai pellegrini

di popoli vicini

a dimandârgli un poco d'elemosina.

Narraron come fossero in viaggio

a cercar del soccorso oltre i confini:

che stretta era Rattopoli d'assedio

dal popolo di Gattico,

e che partiti in fretta alla sfuggita

non avean quasi da campar la vita.

Dasse qualcosa e sol per qualche giorno,

finché giunto il soccorso preveduto,

in patria avrian potuto far ritorno.

 

- Amici miei, - rispose il solitario, -

le cose di quaggiù non mi riguardano.

Che posso far se non dire un rosario,

perché vi aiuti il Ciel come desidero? -

E così detto, il santo

chiuse la porta... e riverisco tanto.

 

 

IV - L'Airone

 

L'Airon dal lungo collo e dal più lungo becco,

che sta su gambe lunghe, a spasso iva nel secco

d'un torrentello e a riva;

come nei giorni belli erano l'acque chiare

e i miei dolci carpioni vedevansi a guizzare

coi lucci in comitiva.

 

Venian tanto dappresso, che avria potuto al solo

mover del becco, e come se li pigliasse a volo,

mangiarseli in buon'ora.

Ma volle invece attendere d'aver più fame. Assai

egli era in ciò metodico e non usava mai

mangiare fuori d'ora.

 

Tornato pien di fame più tardi sulla sponda,

non vide altro che tinche a diguazzar nell'onda

e fece il disgustato,

così come dicesse: Di tinche son già sazio.

Egli era come il topo, di cui racconta Orazio,

d'un gusto delicato.

 

- Di tinche a me? - diceva. - Un così rozzo pasto

non piglia un Airone per farsi il sangue guasto -.

Vedendo poi dei ghiozzi

- Nemmen per questi, - aggiunse, - s'incommoda un par mio

a spalancare il becco, e non pretenda Iddio

ch'io questa roba ingozzi -.

 

Ma ben dovette aprirlo per minor prezzo, allora

che pesci non si videro nell'acqua della gora.

La fame non si placa

col fumo e dir non basta: Io sono un Airone.

Aggiunge alfin la favola che parvegli un boccone

squisito una lumaca.

 

 

V - La Ragazza

 

Una Ragazza un poco superbiosa

volea marito a patto

ch'ei fosse bello e giovane e ben fatto,

non freddo, non geloso

(notate bene questa circostanza),

che non fosse scipito e avesse poi

oltre i denari un gran di nobiltà.

Gran Dio! come si fa, ditelo voi,

a trovar queste mele sopra un ramo?

 

Eppur a contentar le sue pretese

la Sorte fu cortese

di mandarle partiti onesti e buoni.

Ma lei: - Che, che... si celia? figurarsi

se mi devo pigliar questi straccioni!

Il fastidio non val d'incomodarsi...

Tutta gente pezzente, inconcludente,

che mi ripugna e che mi fa pietà.

 

L'un spirito non ha, l'altro non ha

quel non so che di garbo e di finezza... -.

E sprezza l'uno e sprezza

quell'altro per il naso...

Non c'è cosa sì bella e sì preziosa,

che possa contentar la schifiltosa.

 

Dopo i partiti buoni

si presentaron sposi più modesti;

ma quella ancor: - Oh sì, ch'io voglio a questi

adesso l'uscio aprir di casa mia,

chi pensan ch'io mi sia?

Una donna in fastidio di me stessa,

che di pianger la notte mai non cessa

per la malinconia

di dormir sola in letto? -.

 

E superba così del suo dispetto,

vede passar intanto il suo bel tempo,

e diradar la schiera degli amanti.

Un anno passa, un altro viene avanti,

oggi muore un sorriso, e muore un gioco,

diman sloggia l'amore,

ed entra a poco a poco

in casa col rimorso anche il dolore.

 

Cadono i vezzi e spiace

quel volto ch'essa cerca inutilmente

di rendere leggiadro

con cipria e con belletto,

fin ch'ella cede inesorabilmente

al Tempo, delle belle il più gran ladro.

 

Se oggi mi crolla un muro,

di rifarlo dimani ancor procuro,

ma né in parte rifar posso, né in tutto,

un bel volto che il tempo abbia distrutto.

Madonna schifiltosa, che allo specchio

più tardi si consiglia,

cangia parere e - Piglia, -

dice, - un marito. - Piglialo, -

susurra in un orecchio

un certo desiderio,

che parla anche alle donne schifiltose;

ed ebbe in cortesia,

al destin rassegnata delle cose,

di trovare un babbeo comechessia.

 

 

VI - I desideri

 

Nel Mogòl c'è dei folletti

abilissimi valletti,

che alla casa e all'orto attendono,

ma bisogna aver rispetto

o scompiglia chi le tocca

le faccende del folletto.

 

Un di questi folletti in illo tempore

coltivava il giardin d'un galantuomo

in riva al Gange, e svelto, lieto, amabile,

non aveva pensier da quello in fuori

de' suoi padroni e dei suoi cari fiori.

 

Gli zeffiri, che sono coi folletti

buoni compagni, il campo rinfrescavano,

e il nostro giardiniere,

lavorando con mano attenta ed agile,

accoglievali sempre con piacere.

 

I folletti si sa che son volubili,

ma questo alla sua casa si attaccò

con tanto amor, che stuzzicò l'invidia:

e tanto i suoi fratelli congiurarono,

che il Capo di partir gli comandò.

 

O sia questa una legge di repubblica,

o sia che così volle il presidente,

o per capriccio o per ragion politica,

il fatto sta che in fondo alla Norvegia

fu traslocato perentoriamente.

 

In quel freddo paese gli assegnarono

una casa sepolta entro la neve.

Così provvede spesso la repubblica,

e così fu che in forza del congedo

il nostro Indou divenne Samoiedo.

 

Ma prima di partir volle lo spirito

parlar co' suoi padroni,

e disse lor: - Partire mi costringono

e non vado a cercarne le ragioni;

però nel breve tempo a me concesso

ancora m'è permesso

di soddisfar tre vostri desideri,

e il faccio volentieri.

Chiedete ciò che in l'animo vi frulla,

un bel desiderar non costa nulla -.

 

I suoi padroni cercan l'Abbondanza,

e l'Abbondanza versa il cornucopia.

Piovon marenghi, gli scrigni ne crepano,

le biade da' granai quasi traboccano,

e luogo non c'è più per la Speranza.

 

E conta e conta e scrivi sui registri,

ahi! non c'è tempo per tirare il fiato,

quindi i ladri si svegliano e congiurano,

quindi i signori chiedono gl'imprestiti,

piovon le tasse... O voto sciagurato!

 

Quella povera gente disperata,

anzi quasi malata di fortuna,

- Basta! basta! - pregando alfine esclama, -

o poveretti, o povertà beata,

o gran virtù, che il troppo mai non chiama.

 

O pia Mediocrità, torna e discaccia

quest'Abbondanza che avvelena l'ore;

ite, o tesori, e tu vieni, ritorna

del buon umore amica e del buon core! -

A questo dir Mediocrità si affaccia.

 

Le fan largo, con lei la pace stringono,

né chiedono di più. Ride il folletto

di lor come di quei che sempre sognano

fantasmi, e il bene perdono più schietto.

Sul punto di pigliar da lor licenza,

pegno di sua bontà, lasciava loro,

amabile tesoro, la Sapienza.

 

 

VII - La Corte del Leone

 

Volendo un dì conoscere

Sua grande leonina Maestà

a qual razza di sudditi

gli è dato comandar, ordine dà

a tutti i suoi ministri

di bandire ai quattro angoli del regno

un grand'editto col regal suo segno.

 

Dicea l'editto che durante un mese

il re farebbe gran corte plenaria

con feste e luminaria

e danze della celebre, divina,

famosa Marmottina,

perché così il paese

prendesse in qualche modo conoscenza

di sua potenza e sua magnificenza.

 

Quindi apriva la Reggia... ah quale Reggia!

dite una beccaria

con tal puzzo di morti e di moria,

da far crollare il naso della gente.

L'Orso arricciò con tale smorfia il suo,

che il re, fuori di sé per quell'azione,

lo manda all'altro mondo immantinente

a far smorfie alle corna di Plutone.

 

La Scimmia allor, esperta nel mestiero

di dar l'incenso, non trovò severo

troppo il castigo, anzi lodò la zampa

e la bile magnanima del re.

In quanto all'antro e al puzzo, giudicò

che al mondo fior non c'è,

che Colonia profumi non trovò,

per quanto fini e rari,

di quel carnaio più dolci alle nari.

 

Il troppo e il troppo poco in modo eguale

spiacque al Leon, in ciò pari a Caligola,

che non volea veder piangere e ridere.

Ivi c'era la Volpe, e a lei volgendosi,

chiese il re con un far confidenziale:

- E tu che senti? dillo schiettamente -.

 

La Volpe ch'era pronta ad ogni caso,

mostrandosi d'avere il raffreddore,

volle uscire dal rotto della cuffia

col dire: - Non ho naso! -.

 

Non dev'essere troppo adulatore

né troppo schietto deve mai parere

chi desidera ai Grandi di piacere.

È meglio che tu impari

a dir né sì, né no, forse... magari!

 

 

VIII - Gli Avvoltoi e i Piccioni

 

Nacque contesa fra gli uccelli un giorno

per invidia di Marte, a cui sorrise

i sereni turbar campi dell'aria.

Non parlo io già dei teneri uccellini

che riconduce a noi marzo od aprile,

e che nelle ombre dei boschetti ameni

coll'esempio e col canto a noi maestri

sono d'amor. Nemmen parlo di quelli

che la Madre d'Amor aggioga al carro,

ma canto gli Avvoltoi, torbido popolo,

dal becco adunco e dagli unghiuti artigli,

che per cagion di un cane, si racconta,

fecer la terra del lor sangue rossa.

 

S'io volessi narrar ad uno ad uno

di quella guerra gli accidenti e i casi,

chi voce mi darìa? molti perirono

dei capi e tanti eroi morser la polvere

che Prometeo sperò dall'alto Caucaso

che fosse per finir la lunga pena.

Bello e triste a veder era la lotta

delle due parti e il numero dei morti

e il valor e l'inganno e la sicura

arte di guerra, onde cercâr le schiere

di farsi danno e che infinite all'Orco

generose travolse alme d'eroi.

 

A mille a mille dal sereno giorno

piovean gli spirti in quel rinchiuso e nero

regno dell'ombre, in fin che di pietade

si strinse il cor a un popolo vicino,

popol gentil dal collo iridescente

e dai teneri affetti. A metter pace

uscirono i Colombi messaggieri,

e sì ben adoprarono, che i patti

firmaron gli Avvoltoi dai becchi adunchi.

Ahimè! la pace ritornò di danno

ai Colombi pacifici, che stretti

dal comune nemico, a cento a cento

perîr nell'unghie e in becco agli Avvoltoi.

Infelici e imprudenti, a cui dei tristi

piacque aggiustare le selvagge imprese!

 

Dividi i tristi ed avrà pace il mondo,

o vedrai, se concordia li assicura,

credilo a me, sempre soffrirne i buoni.

 

 

IX - La Carrozza e la Mosca

 

Per una strada lunga, erta, sassosa

e tortuosa, esposta a pieno sole,

sei robusti cavalli ivano a stento,

tirando una Carrozza. La pietosa

gente era scesa, vecchi, donne e frati:

e i cavalli sudati

e trafelati

eran lì lì per cedere,

quando arriva una Mosca, che volando,

punzecchiando, e di qua, di là ronzando,

pensa che tocchi a lei spinger la macchina.

Posa al timone, sulla punta siede

del naso al carrozzier e, quando vede

che la macchina o bene o mal cammina,

si ringalluzza tutta la sciocchina.

 

Va e viene e si riscalda colla boria

d'un capitan di vaglia,

allor che muove in mezzo a una battaglia

i dispersi soldati alla vittoria.

 

- E non vi pare indegno, -

pensava quella stolta bestiola, -

che a spingere sia sola,

mentre legge il frataccio in pace santa

il breviario e questa donna canta?

Forse che col cantar si tira il legno? -

 

Intanto che l'insetto ronza queste

note moleste, il legno arrivò su.

E la Mosca: - Buon Dio, ci siamo alfine

su queste alte colline.

Ehi, signori cavalli, ringraziatemi,

la strada ora va in piano,

non vi rincresca a dar la buonamano -.

 

Così fanno quei certi faccendoni,

che nelle imprese sembran necessari,

e guastano gli affari - in ogni cosa,

gente importuna, inutile e noiosa.

 

 

X - Pierina e il Secchiolino del latte

 

Pierina una mattina col secchiolino in testa

ritto sul cerchio, a vendere il latte se ne va.

Succinta la gonnella per essere più lesta,

e con scarpette basse cammina alla città.

Allegra, canticchiando, facendo i conti in mente,

pensa che può dal latte ritrar qualche denaro

e sei dozzine d'ova comprare agevolmente.

L'ova di poi si covano ed ecco a poco a poco

un bel pollaio in corte che non le costa caro.

 

La volpe con Pierina avrà cattivo giuoco:

ben ingrassate infine

si vendon le galline.

Col piccol capitale,

si compera un maiale,

che tenero in principio

a furia di cruschello

diventa un porco bello.

Raccolto un altro gruzzolo,

con questo - visto il prezzo che fanno sul mercato -

si compera un vitello,

anzi una vacca, e sembrale vedere già sul prato

saltare questa e quello.

 

A tanto ben di Dio

saltando essa di gioia, il secchiolin cascò...

Vitello e vacca ed ova e porco bello, addio!

La sua fortuna in terra dispersa contemplò.

Tornata a casa, vede ch'è solo per miracolo

se l'uomo non la batte;

da questo fatto origine ebbe l'antica istoria

del secchiolin del latte.

 

Non c'è nessun che in aria non fabbrichi un castello;

o don Chisciotti, o Pirri, o saggi, o mentecatti,

ciascun sogna vegliando, e siam tutti distratti

dai sogni che riempiono di nuvole il cervello,

tutto par pronto e facile, l'amor, l'onor, la gloria;

e subito mi gonfio di pazza vanagloria,

e già mi sembra d'essere, o papa, o prence, o re,

già vedo tutto il popolo prostrato innanzi a me,

ma proprio mentre io siedo de' miei gran sogni in cima,

cade il castello, e resto il Bertoldin di prima.

 

 

XI - Il Curato e il Morto

 

Un morto lemme lemme al camposanto

andava in una comoda carrozza,

vestito d'una rozza

camicia, che in antico dialetto

si chiama cataletto,

veste d'estate e veste anche d'inverno,

che i morti non si tolgono in eterno.

 

Al carro andava accanto

il prete a seppellir quel cristïano

col breviario in mano,

e recitava come d'ordinario,

o un pezzo di rosario

o versetti di salmi in proporzione,

s'intende, del salario.

 

Don Abbondio seguia, quasi il covasse,

coll'occhio il suo bel morto

perché non gli scappasse,

e rifaceva intanto

i suoi conti, dicendo: - In soldi tanto

e tanto in cera e in piccoli proventi:

c'è da comprare un mezzo bariletto

di quel di malvasia,

ma vo' che sia

buono e il miglior che dànno queste vigne.

 

C'è da fare un grembiale anche a Perpetua,

e a quelle nipotine

pettegoline, ed anche... -.

Ma un sasso in questo mentre al cataletto

fe' traballar le panche,

si piegò il catafalco e cadde sotto

con tanta violenza,

che n'ha Sua Riverenza il capo rotto.

Il morto tirò seco il poveretto,

e per la lunga via

fece al curato buona compagnia.

 

Se lo guardi in ogni lato,

questo nostro viver corto

è la storia del curato,

che fa i conti sopra il morto.

 

 

XII - Chi corre dietro alla Fortuna e chi l'aspetta in letto

 

Ognun si affanna a correre sull'orme

della Fortuna, inutilmente. In luogo

esser vorrei dove la turba passa

di questi irrequïeti cortigiani,

che la Diva volubile del caso

di terra in terra inseguono e sul punto

d'afferrarne la chioma, ecco, si scioglie

dalle mani il fantasma agile e sfuma.

 

Povera gente! io la compiango. I matti

chiedon pietà, non ira. - E perché dunque, -

dicon costor, - se altri ha potuto un giorno

lasciar la zappa ed i piantati cavoli,

e sul trono salir di Santa Chiesa,

non io potrò lo stesso? e non son io

forse da tanto? - Anzi tu sei, - rispondo, -

più degno ancor, ma la virtù non vale,

se la cieca Fortuna anche non giova.

 

E quando pur tu diventassi il papa

di Santa Chiesa, amico, e ti lusinghi

che valga la tïara il bel riposo

che tu perdi per via? dolce riposo,

che fu prezioso dono anche agli Dèi,

e che mal si accompagna alla fortuna?

O ciechi, il tanto affaticar che giova?

Fortuna e dormi, e se Fortuna è donna,

quantunque dea, verrà ben da se stessa,

come vuole il suo sesso, a ricercarti -.

 

Furon due buoni amici in un villaggio,

che possedevan qualche terra al sole.

L'uno sempre in sospiri ed in corruccio

colla Fortuna, un dì fe' la proposta

al suo compagno di lasciar il borgo

natio, dove nessun nasce profeta,

e di cercar lontan nuove avventure.

 

- Va' pur, - disse costui, - se la ti gira,

per me sto a casa mia comodo e cheto

e non cerco altro ciel, altro emisfero.

Qui spero di dormir fino a quel giorno

che ti vedrò tornato; or dunque addio -.

 

Parte l'amico ambizïoso (forse

più avaro ancor), e va per monti e valli,

infin che arriva ove la dea bizzarra

facea suoi giochi, più che altrove, in Corte.

 

Ivi stette un buon pezzo il cortigiano

attento all'ore più propizie, pronto

al mattutin omaggio, pronto all'ora

della mensa regale, ed alla sera;

ma non gli cadde in bocca una nocciòla.

 

- Che significa ciò? - disse. - Quest'aria

non è per me. Cerchiam altro paese.

Ben veggo la Fortuna innanzi e indietro

correr le sale e aprir la porta a questo,

ed ora a quello, e a me la capricciosa

non guarda in viso. Aver troppe superbe

idee pel capo nuoce ai cortigiani

abitatori delle illustri sale.

 

Signori e Corte, io vi saluto, addio.

A voi lascio inseguir questo fantasma

che fa di luminello, e poi che sento

che Fortuna ha divoti santuari

verso Calcutta, in pio pellegrinaggio

andrò laggiù -. Ciò detto, ecco s'imbarca

e solca il mar.

Oh! ben ebbe di bronzo

il petto, ed ebbe adamantino usbergo,

colui che primo osò sfidar l'abisso

e le mobili vie dell'Oceàno.

 

Al nostro pellegrin tornò la dolce

memoria del natìo suo paesello,

quando fra venti, e scogli e fra ladroni,

nella gran solitudine dell'acque

danzar vicino a sé vide la Morte.

 

Giunto a Calcutta, ascolta che Fortuna

era andata al Giappone ed ei vi corre,

e corre tanto che a portarlo i mari

erano stanchi. Ancor tutto il vantaggio

ch'ei ne trasse fu quel che in un proverbio

selvaggio è detto: “O di natura esperto,

statti a ca' tua”. Pel nostro vagabondo

non fu di grazie Jeddo generosa

più di Calcutta, ed ei ne venne al conto

che il mondo non valea del suo tranquillo

villaggio la casetta. E torna e piange

di conforto a veder la vecchia casa

e - Beato, - ripete, - o veramente

beato l'uom, che del suo nido all'ombra

i desideri suoi frena e corregge.

 

 

XIII - I due Galli

 

Vivean due Galli in armonia, quand'ecco

arriva una gallina.

Addio pace! ciascun aguzza il becco.

O Amor, Amor, per te fûr visti i fiumi

d'Ilio d'umano sangue andar vermigli

al sangue misto dei celesti Numi!

 

Fra i nostri Galli un pezzo

durò la guerra. Alto rumor ne suona

nel paese e ne parla ogni persona.

Accorron tutti quei che volentieri

fan pompa agli spettacoli,

e fu mercede al vincitor più d'una

dalle lucide penne Elena bella.

 

Il vinto sparve e il duol che l'arrovella

nascose e pianse i suoi perduti amori.

Col diritto il rival de' vincitori

gli toglie l'idol suo, che in pieno giorno

superbo mena intorno,

sfidando la gelosa ira e il coraggio

del debellato amante,

che intanto l'arme aguzza

e l'ali al volo esercita, ed aspetta

segretamente il dì della vendetta.

 

E non molto aspettò. Lo stesso dì

che altero il vincitor a far galloria

cantava in cima al tetto la vittoria,

un feroce avvoltoio che l'udì

addosso a lui piombò,

e addio gloria! con l'unghie lo finì.

 

La Fortuna fa spesso agl'insolenti

di questi tiri e insegna

a diffidar dei fortunati eventi.

 

 

XIV - Ingratitudine e ingiustizia degli uomini verso la Fortuna

 

Vincendola sui venti, nei più remoti mari,

un certo Mercatante fece de' buoni affari;

né secche mai, né scogli gli chiesero i pedaggi

e i dazi della merce ne' suoi lunghi viaggi,

fin ch'egli sol tra cento compagni ebbe il conforto

di giunger colla nave felicemente in porto.

 

Del mar, anzi di Stige gli altri nell'onda bruna

precipitar; lui solo condusse la Fortuna

a riveder la patria, e qui gli fe' trovare

soci ed agenti onesti, perle a trovarsi rare.

Quindi gli fece vendere, per finir bene i conti,

lo zucchero, il tabacco, a lauti prezzi e pronti,

le droghe, la cannella e in poche settimane

il fondo delle stoffe e delle porcellane.

 

La moda e la pazzia, le mani colme d'oro,

a far più grosso vennero il già ricco tesoro,

tal che in bottega e in casa non si sapea contare

che a due scudi per volta. Nulla di singolare

se fra cavalli e cani e servi e fra carrozze,

paresse di quaresima sempre un festin di nozze.

 

Un degli amici un giorno gli chiese la ragione

a tavola di tutta questa benedizione.

- D'onde la traggi? - D'onde? dal mio talento, o caro,

dall'arte di sapere usare il mio denaro

a tempo e luogo giusto. Con vanto lo confesso,

la mia Fortuna, amico, non devo che a me stesso -.

 

Così, tratto dal dolce, fece i suoi conti male:

in nuovi giochi e in rischi, perdette un capitale.

Si aggiunse l'imprudenza che un grosso bastimento,

mal noleggiato, al primo colpo perì del vento,

e un altro mal provvisto di buone armi e d'armati

cadde senza difesa in mano dei pirati,

e infine che la merce d'un terzo giunto in porto,

rimase per un pezzo denaro mezzo morto.

 

A questo ancor si aggiunse l'inganno degli agenti,

lo sfarzo, le baldorie e l'altre spese ingenti

del fabbricar... Capite che messo su una strada

che sdrucciola bisogna che chi tentenna cada.

Vedendolo ridotto in un meschin arnese:

- E ciò d'onde deriva? - l'amico suo gli chiese.

- D'onde? - rispose. - Ahimè! dalla Fortuna trista -.

E l'altro: - Miserabile, prego che Dio t'assista,

e ti conceda il Cielo il dono del coraggio,

che se non sei più ricco, almen ti renda saggio.

 

 

XV - L'Indovina

 

La nominanza è spesso sulle dita

del caso e vien dal caso anche la gloria,

questa è l'antica istoria

di tutti i tempi, ove raggiri e cabale

e pregiudizi reggono la vita.

 

Non c'è rimedio, il meno è la giustizia

a questo mondo, e a guisa di torrente

scorron le cose irreparabilmente.

 

Una donna facea la pitonessa

a Parigi e la gente affascinata

correva per qualunque buccicata

a consultare la sacerdotessa.

 

Chi perdeva uno spillo od un amante,

chi voleva sbrigarsi d'un eterno

marito, una gelosa ed altre tante

e tanti, o chi volea strappare un terno,

 

andavan dalla celebre Indovina

ad invocar le magiche parole,

ed essa con un'arte sopraffina

di dire a ciaschedun ciò ch'egli vuole,

 

con segni indiavolati e petulanza,

travestendo la zotica ignoranza,

seppe alfine ottenere il gran miracolo

di passar fra la gente per oracolo.

 

Sebbene quest'oracolo la bocca

aprisse in cima a un povero solaio,

pure attirava tanta gente sciocca,

che misurò i denari collo staio.

 

Il marito divenne cavaliere,

si cangiò casa, si fe' l'arte in grande,

ma in mezzo ai candelabri, alle specchiere,

la maga barattò le noci in ghiande.

 

Un'altra donna intanto, che innocente

è di magia, venuta in quell'oscura

soffitta, vede accorrere la gente

a farsi dir la solita ventura.

 

Donne, fanciulle e conti e servi e serve,

era un continuo andare e ritornare.

Invan la donna cerca protestare

ch'essa non fa la strega, a nulla serve

 

ogni protesta, e il dir di non volere.

Bisogna profetar, fare gl'incanti,

e pigliar più denari col mestiere

che un avvocato non ne piglia tanti.

 

Aiutava, dirò, la messa in scena,

un manico di scopa e quattro storte

sedie, e quell'aria di miseria piena,

che puzzava di sabato e di morte.

 

L'altra donna ben presto vide il guaio

di non aver salvata l'apparenza:

la fede era rimasta sul solaio.

È l'insegna che fa la concorrenza.

 

 

XVI - Il Gatto, la Donnola e il Coniglio

 

Un bel mattino donna Donnoletta,

colto il momento, nella casa entrò

d'un giovane Coniglio.

E mentre ch'egli è fuori a far l'amore

nella rugiada, in mezzo al timo in fiore,

le masserizie sue vi collocò.

 

Quando il Coniglio ebbe mangiato ed ebbe

saltato e rosicchiato,

a casa sua tornò.

Ma proprio in quel momento

ch'entrava nell'oscuro appartamento,

alla finestra l'altra si affacciò.

 

- Santa ospitalità! che vedo io qui? -

disse il Coniglio fermo sulla porta.

- O signora Faina prepotente,

faccia il piacer d'uscirne immantinente,

o chiamo tutti i Topi del paese

che la faran sgombrar ed a sue spese.

 

- Che? la terra - risposegli madama

dal naso aguzzo, - è di chi se la piglia.

E proprio non consiglio per sì poco

d'una guerra tentar l'incerto gioco.

E poi per qual ragione

soltanto suo proclama

un luogo ove si arrampica

pel primo anche il padrone?

Qual legge, qual diritto,

e su qual carta è scritto

che questa tana sia

di Pietro, di Martin quondam Iseppe,

o piuttosto di Gianni od anche mia? -

 

Gian Coniglio rispose che anche l'uso

è buona legge e che per questo ei crede

d'aver diritto. Il nonno suo Belmuso

lasciò la casa al padre suo Belpiede,

dal quale venne al figlio,

ch'è lui, Giovan Coniglio.

 

- Se del primo occupante tu ritieni -

la Donnola rispose, -

giusta la legge, vieni

e interroghiam Mammone,

ch'è giudice sicuro in queste cose -.

 

Era questi un gatton grasso e bonario,

un sant'uomo di gatto,

tutto pel, tutto gozzo e tutto lardo,

e che facea la vita

beata di pacifico eremita.

 

Buon giudice del resto in ogni sorta

di casi... Vanno, picchiano alla porta,

deo gratias... - Miei figliuoli, -

dice padre Leccardo, -

venite pure avanti,

perché sapete, gli anni

m'han fatto sordo, oltre agli altri malanni -.

 

Vanno i due litiganti,

senza nessun sospetto,

al suo santo cospetto.

Quando il padre Leccardo, il santo scaltro,

li vide bene a tiro,

aprendo le due zampe, all'uno e all'altro

aggiustò le partite in un sospiro.

 

Così capita spesso

a certi staterelli, che giustizia

chiedon a un diplomatico congresso.

 

 

XVII - La Testa e la Coda del Serpente

 

Testa e Coda di serpente

son terribili alla gente,

e in quel regno, dove filano

le tre Parche il nostro stame,

hanno nome tristo e infame.

Per ragioni di decoro

scoppiò un giorno fra di loro

una lite velenosa.

 

Lamentavasi la Coda

che la Testa in ogni cosa

stesse in testa:

mentre a lei, non men di questa

dignitosa,

alla proterva

fosse imposto come serva

d'obbedire silenziosa.

 

- E non sono anch'io creata

d'egual sangue? - prese a dire. -

O ch'io sempre debba in l'erba

strisciar umile e servire

la superba?

 

Se facesse un giorno Iddio

ch'io potessi andare avanti,

tutti quanti

ben vedrebbero che anch'io

andar so per conto mio -.

 

Nella grande sua bontà

spesso il Cielo anche si giova

di chi logica non ha.

Volle adunque a lei concedere

una volta questa prova,

e la Coda cieca e stolta,

che non vede in pieno giorno

più ch'io vegga in fondo al forno,

contro i muri, andando in volta,

contro i sassi e sotto i piedi,

trasse seco alla rovina

la meschina col cervello.

Sciagurati quegli stati

che la pigliano a modello.

 

 

XVIII - Un Animale nella Luna

 

Di qui viene un filosofo e proclama

che l'uom de' Sensi suoi fatto è zimbello,

di là ne viene un altro e per sé giura

che buon giudice è il Senso. Ebben, io dico

che sta nel ver Filosofia che prova

e l'una cosa e l'altra, ove s'intenda

con discrezion. Se gli uomini nel Senso

ciecamente s'affidano, è comun

fonte d'errori; ma rimosso il velo,

che al Senso fa la lontananza e l'aria

in cui nuotan le cose, e i cento screzi

che la macchina umana e gli apparati

soffron nel tempo, ancor il Senso estimo

che sia netto e fedel specchio del vero.

Saggia fu la natura il dì che queste

cose ordinò nel mondo e un giorno io spero

manifestarne l'intime ragioni.

 

Quel Sol che vedi di quaggiù, non largo

più di tre spanne, ove potessi in alto,

nella sua sede giudicarlo, immenso,

sterminato diresti occhio del mondo.

Il mio pensier lo immagina, se il giro

colla man ne misuro e lo distendo

per l'infinita via che lo divide

dall'umil Terra. Il contadin lo crede

schiacciato scudo, ma il pensier del saggio

l'arrotonda, lo ferma in mezzo al Cielo

e in giro a lui fa camminar la Terra.

Tutti i miei Sensi io nego e so ritrarne

contro la stessa illusïon de' Sensi

il ver che v'è nascosto, anche se l'occhio

vede color diverso, anche se il suono

tardi arriva all'orecchio che l'accoglie.

È il mio pensier, è la ragion maestra,

che drizza del baston l'angol riflesso

nell'onda chiara, e da ragion guidati,

non sgarrano gli sguardi, e più non sogni

capo di donna della Luna in grembo:

(favola assurda!) male macchie e i nèi

che Cinzia ne' sereni pleniluni

mostra, tu pensi esser montagne, dossi,

che gettan ombre e fan vedere al volgo

uomini spesso e bovi ed elefanti.

 

In Albïon, or non è molto, un dotto

astronomo, puntando il telescopio,

ben credette veder non so qual mostro

nel bel disco lunar. Io non vi dico

le meraviglie e il grido della gente.

Parve presagio di sicura guerra,

e qual presagio! Accorre anche il monarca

che suol da re proteggere i sublimi

studi, e col suo regal occhio scoperse

il mostro... Ebben, che vi credete, amici?

Fra due lenti rinchiuso un topolino

era sola cagion di tanta guerra.

 

O popolo beato, a cui null'altra

cagion turba la pace, e te beato,

o buon popol di Francia, il dì che a questi

studi soltanto sacrerai l'ingegno!

Marte ha di palme seminato i campi

e dietro al gran Luigi è la Vittoria

fedele amante. Temono i nemici,

e noi cerchiamo il bel rumor dell'armi,

onde liete saranno anche le Muse

e superba l'Istoria... Ahi! ma la pace

fia sempre a noi dolente desiderio,

non riposo giammai. Carlo, il sovrano

signor inglese, poiché molto in guerra

di valore brillò, cerca comporre

diuturne contese e coll'olivo

benedire la pace. O date incenso

al benigno sovrano! e v'è missione

di re più degna e di tal re? d'Augusto

non fu l'impresa placida più bella

che le geste di Cesare famose?

O veramente popolo beato,

quando verrà questa diletta pace

a ricondur tra noi dell'arti il regno?

 

 

LIBRO OTTAVO

 

 

I - La Morte e il Moribondo

 

Impreveduta mai piomba la Morte

in capo al Saggio. In ogni tempo a guardia

veglia l'occhio di lui. Pronto è il fardello

a partire, ogni giorno, ogni momento

pel fatal malinconico viaggio.

 

Ogni tempo del Tempo è un'ora buona

al pagar la scadenza. Infimi e grandi,

soggiaccion tutti al gran tributo, e spesso

nelle culle regali aprono e a un punto

chiudon per sempre le pupille al sole

principi e re.

Che val splendor di trono,

beltà che vale e giovinezza e casta

virtù, di fronte all'impudica mano

della Morte che sradica e distrugge?

Giorno verrà che l'Universo intero

il mesto accrescerà regno di morte.

 

Nella sua grande, universal rovina,

se tanto è nota questa brutta Morte

e tanto è antica, or come mai per tanti

così tacita arriva ed improvvisa?

 

Un moribondo, che cent'anni almeno

avea vissuto, a bisticciarsi prese

colla Morte e chiamavala indiscreta,

che lo facea partire a spron battuto

senza il tempo di far un codicillo,

senz'avvertirlo... - È giusto ch'un sen vada

a piedi scalzi? aspetta almanco un poco.

 

Mia moglie vuol tenermi compagnia,

e deggio a un nipotin far qualche lieve

assegno; o aspetta almen, Morte, ch'io possa

rabberciare quest'angolo di casa...

Ih! che bisogno c'è per la partenza

di tôrre il fiato alla povera gente?

 

- Non ti sorprendo io già, - disse la Morte, -

e a torto, Vecchio, tu di me ti lagni.

Non conti forse i tuoi cent'anni? e quanti

sono in Parigi e in Francia, anzi nel mondo,

ch'hanno toccato un numero sì bello?

Tu mi rimbrotti che non t'abbia a tempo

avvisato e che compiere ti resta

qualche faccenda. Che so io di casa,

di nipote, di moglie, e testamento?

Ma non furono forse avvisi a tempo

e il tremolare delle gambe e il monco

fiato e la mente annuvolata e stanca?

 

Poco appetito, orecchia sorda e noia

fin del sole che splende e si diffonde,

come se il sol per te sprecasse i raggi,

voglia di nulla o desiderio insano

di ciò che non ti tocca, e molti morti

degli amici tuoi stessi, e moribondi,

e malati e infiniti accatarrati,

non eran segni, o Vecchio, della Morte?

Presto adunque e si lascino le ciarle,

andiam, che poco importa alla repubblica

che tu faccia o non faccia il testamento -.

 

Avea ragion la Morte. A creder mio

esser pronto dovrebbe ogni buon vecchio

a far di questa vita il suo fardello,

come quando un si toglie dal convito

e col cartoccio in man l'ospite inchina.

 

Di quanti giorni può tardar la fine,

Vecchio, de' giorni tuoi? Vedi superbi,

e come a danza andar lieti alla Morte