9.

Conflitto a Chica

Il tenente Mare Claudy, della guarnigione imperiale a Chica, sbadigliò lentamente e guardò il soffitto con invincibile noia. Stava finendo il secondo anno di servizio sulla Terra e non vedeva l’ora di essere sostituito.

In nessun angolo della galassia il problema di mantenere una guarnigione era complicato come su quell’orribile mondo. Sugli altri pianeti esisteva una certa intesa fra militari e civili, soprattutto civili di sesso femminile: si respirava un’aria di libertà, di franchezza.

Ma sulla Terra era una prigione. Le baracche erano a prova di radiazioni, l’atmosfera doveva essere filtrata e depurata dal pulviscolo radioattivo, i vestiti, trattati con il piombo, erano freddi e pesanti ma non si potevano togliere senza rischio. Di conseguenza, fraternizzare con la popolazione (ammesso che solitudine e disperazione potessero indurre un soldato a desiderare la compagnia di una terrestre) era del tutto fuori questione.

Che cosa restava, quindi, se non rabbia, sonno e lenta follia?

Il tenente Claudy scosse la testa nell’inutile tentativo di schiarirsi i pensieri, sbadigliò un’altra volta e cominciò a cercare le scarpe. Poi guardò l’orologio e decise che non era ancora l’ora del pasto serale.

Un secondo dopo balzò in piedi, salutando militarmente (ma aveva una scarpa sola ed era spiacevolmente sicuro di essere spettinato). Il colonnello, pur gettando un’occhiata di disprezzo all’insieme, non fece nessuna osservazione esplicita. «Tenente» cominciò con durezza «ci sono giunte segnalazioni di disordini nel quartiere commerciale. Porti una squadra di decontaminazione ai supermercati Dunham e prenda le redini della situazione. Faccia in modo che gli uomini siano protetti da ogni rischio di contagio, si parla di febbre da radiazioni.»

«Febbre da radiazioni!» gridò il tenente. «Mi scusi, signore, ma...»

«Sarà pronto a partire fra quindici minuti» aggiunse il superiore, freddamente.

Arvardan fu il primo a vedere l’ometto e si irrigidì al lieve cenno di saluto. «Salute, signor mio. Dica alla signorina che non c’è bisogno di lacrimare tanto.»

Pola alzò la testa e trattenne il fiato. Automaticamente si avvicinò al grosso e protettivo Arvardan, che altrettanto automaticamente le cinse la schiena con un braccio. Non gli venne in niente che per la seconda volta toccava una ragazza della Terra.

«Che cosa vuole?» chiese Arvardan, furioso.

L’ometto uscì con diffidenza dal riparo di un bancone colmo di pacchi.

Con un tono che era al tempo stesso strisciante e impudente, disse:

«Si dicono strane cose, signorina, ma non deve preoccuparsi. Porterò il suo uomo al sicuro, all’istituto».

«Quale istituto?» chiese Pola, tremando.

«Oh, andiamo» sbottò l’ometto. «Io sono Natter, il fruttivendolo con la bancarella proprio di fronte all’Istituto per le Ricerche Nucleari. L’ho vista un sacco di volte.»

«Le ripeto: che cosa vuole?» chiese Arvardan con durezza.

Il corpiciattolo di Natter tremava dal divertimento. «La gente dice che quel signore lì abbia la febbre da radiazioni.»

«Febbre da radiazioni?» chiesero Pola e Arvardan contemporaneamente.

Natter annuì. «Esatto. I due tassisti che gli hanno offerto da mangiare la pensano così. E le notizie volano.» «Le guardie là fuori» chiese Pola «stanno cercando un uomo con la febbre?»

«Proprio così.»

«Come mai lei non ha paura del contagio?» chiese bruscamente Arvardan. «Penso che sia stata questa la ragione che ha indotto le autorità a vuotare il negozio.»

«Certo. La polizia aspetta fuori perché teme di contaminarsi, ma fra poco arriverà la squadra di decontaminazione degli Esterni.»

«Però lei non ha paura.»

«Perché dovrei? E’ evidente che il vostro amico non ha la febbre.

Guardatelo, dove sono i rigonfiamenti sulla bocca? Non è nemmeno rosso, gli occhi sono a posto.

Io so com’è la febbre: venga, signorina, usciamo da questo posto.»

Ma Pola era ancora spaventata. «No, non possiamo. Lui è... lui...» Non riuscì a continuare.

Natter disse a bassa voce: «Potrei portarlo fuori io. Non faranno domande, non chiederanno la sua carta di registrazione».

Pola represse un grido e l’archeologo scattò: «Che cosa le fa credere di essere così importante?».

Natter scoppiò in una risata rauca e aprì il risvolto della giacca.

«Messaggero della Società degli Anziani. Nessuno oserà farmi domande.»

«E perché farebbe tutto questo?»

«Per denaro! Voi siete in pericolo, io vi aiuto. Tutto qui. Spenderete volentieri un centinaio di crediti e a me faranno comodo. Cinquanta crediti ora, cinquanta alla consegna.»

Ma Pola sussurrò intimorita: «Lo porterà agli Anziani, invece!».

«Perché dovrei? A loro non servirebbe, a me frutterà cento crediti. Se aspettate che arrivino gli Esterni, c’è il caso che ve lo ammazzino prima di scoprire che non ha la febbre. Sapete come sono fatti, non gli importa se uccidono un terrestre oppure no. Anzi, se possono lo fanno volentieri.»

Arvardan propose: «Porti con lei anche la ragazza». Ma gli occhietti di Natter erano aguzzi e astuti. «Eh no, signor mio. Io corro un rìschio calcolato, ma solo se ne vale la pena. Con una persona posso farcela, con due no. Ergo, prendo quella che vale di più. Non è ragionevole?»

«E se ti afferro e ti spezzo le gambe?» sbottò Arvardan.

Natter fece qualche passo indietro ma trovò la forza di fare una risata.

«Saresti uno stupido, se ci provassi. Ti prenderebbero e aggiungerebbero un omicidio agli altri reati. Quindi, signor mio, tieni giù le mani.»

«Per piacere...» intervenne Pola, tirando il braccio di Arvardan.

«...Dobbiamo pur correre il rischio. Facciamo come dice lui. Sarà onesto con noi, vero, signor Natter?»

Le labbra dell’ometto si arricciarono. «Il tuo grosso amico mi ha fatto male a un braccio. Non ne aveva il diritto e non mi piacciono i bulli.

Pretendo altri cento crediti: duecento in tutto.»

«Mio padre la pagherà...»

«Cento in anticipo» ribattè l’ometto, ostinato.

«Ma non ho cento crediti!» si lamentò Pola.

«Non c’è problema, signorina, li ho io» rispose Arvardan, gelido.

Aprì il portafogli ed estrasse parecchie banconote. Le gettò a Natter.

«Muoviti, adesso!»

«Vada con lui, Schwartz» sussurrò Pola.

Schwartz obbedì senza commenti, come se non gli importasse di nulla.

In quel momento sarebbe andato all’inferno con altrettanta indifferenza.

Pola e l’archeologo rimasero soli e si guardarono senza parlare. Era la prima volta che lei lo vedeva realmente e fu stupita nel trovarlo così alto, fiducioso e padrone di sé. Era un bell’uomo, di una bellezza quasi rude: finora lo aveva accettato come un vago e momentaneo alleato, ma adesso...

Pola arrossì e gli avvenimenti dell’ultima ora o due si confusero in un violento batticuore.

Non sapevano nemmeno i rispettivi nomi.

Lei sorrise e disse: «Mi chiamo Pola Shekt».

Arvardan la trovò affascinante. Il sorriso era un alone che le illuminava il volto, uno splendore. Lo faceva sentire... Poi scacciò duramente il pensiero. Restava una terrestre!

Così disse, meno cordialmente di quanto avrebbe voluto: «Mi chiamo Bel Arvardan». Tese la mano abbronzata, in cui quella piccola di lei scomparve per un attimo.

La ragazza continuò: «Volevo ringraziarla per il suo aiuto».

L’archeologo si strinse nelle spalle. «Vogliamo andare? Ormai il suo amico è in salvo, credo.»

«Già, se l’avessero catturato avremmo sentito dei rumori, non le pare?» I suoi occhi chiesero disperatamente conferma di ciò che aveva detto, ma Arvardan combattè la tentazione di cedere alla tenerezza.

«Vogliamo andare o no?»

Pola si sentì gelare. «Ma certo, naturalmente!»

Nell’aria si avvertiva un ronzio, come un lamento che arrivasse dall’orizzonte. Pola abbassò la mano tesa.

«Adesso che succede?» chiese Arvardan.

«Arrivano gli imperiali.»

«Ha paura anche di loro?» A parlare era l’io orgoglioso di Arvardan: il non terrestre, l’archeologo siriano. Pregiudizi o no, e per quanto potessero avere mentalità ristretta e militare, i soldati della guarnigione rappresentavano la ragione e l’umanità. Poteva permettersi di essere condiscendente, ora, e si fece immediatamente più tenero.

«Non si preoccupi degli Esterni» disse Arvardan, usando l’aggettivo con cui gli indigeni definivano i non terrestri. «Lasci fare a me, signorina Shekt.»

Lei parve turbata. «Oh no, non cerchi di fare bravate. Non gli parli.

Faccia come dicono e non li guardi neppure.»

Il sorriso di Arvardan si allargò.

I poliziotti li videro quando erano ancora a una certa distanza dall’ingresso principale e si bloccarono. L’uomo e la donna uscirono nel piccolo spiazzo silenzioso. Si sentiva solo il respiro della folla e il ronzio dei mezzi militari. Poi lo spiazzo fu invaso da una squadra di uomini con la testa coperta da un globo di cristallo che sciamavano dagli autoveicoli.

La gente si scansò in preda al panico, incoraggiata dagli ordini secchi dei militari e da spintarelle con il calcio delle fruste neuroniche.

Il tenente Claudy, che comandava il gruppo, si avvicinò a un poliziotto terrestre e chiese: «Avanti, voi, chi sarebbe il tizio con la febbre?».

All’interno del globo che conteneva aria pura la faccia di Claudy era leggermente distorta, e la voce, per effetto dell’amplificazione radio, aveva un timbro metallico.

Il poliziotto abbassò la testa in segno di profondo rispetto. «Se piace a vostra eccellenza, abbiamo isolato il malato nel magazzino. I due che erano con lui sono davanti alla porta.»

«Davvero, eh? Molto bene, che ci rimangano. Ora, per prima cosa voglio che questa gente se ne torni a casa. Sergente! Decontaminate l’edificio!»

Un gruppo di soldati, ermeticamente sigillati nelle tute che impedivano qualsiasi contatto con l’ambiente terrestre, si precipitò nel supermercato.

Passò un interminabile quarto d’ora mentre Arvardan osservava affascinato: era un esperimento sul campo di relazioni interculturali, e per ragioni professionali era restio a disturbarlo.

Quando l’ultimo dei soldati fu uscito di nuovo, il grande magazzino era avvolto dalle ombre della notte incipiente.

«Sigillate le porte!»

Ancora pochi minuti e i contenitori di disinfettante che erano stati piazzati nei punti strategici di ciascun piano vennero attivati a distanza.

Nei recessi dell’edificio i coperchi si aprirono e densi vapori salirono lungo le pareti, aderendo a ogni centimetro quadrato di superfìcie. Anche l’aria ne era satura, fino agli angoli più remoti. Nessuna specie di protoplasma, dal germe all’uomo, poteva sopravvivere in presenza di quelle emanazioni e per la decontaminazione finale ci sarebbe voluto un faticosissimo lavaggio chimico.

Poi il tenente si avvicinò ad Arvardan e a Pola. «Come si chiamava?»

Non c’era crudeltà nella sua voce, solo indifferenza. Un terrestre era stato ucciso, o almeno così credeva: del resto, quel pomeriggio lui aveva ammazzato una mosca. E così facevano due.

Non ci fu risposta. Pola si limitò a chinare la testa e Arvardan a guardarlo incuriosito. L’ufficiale dell’impero non smise di guardarli e fece un cenno agli uomini: «Vedete se sono contaminati».

Un ufficiale con le insegne del Corpo medico imperiale li esaminò senza troppe cerimonie. Con le mani guantate premette sotto le ascelle e tirò gli angoli della bocca, in modo da vedere l’interno delle guance.

«Nessuna contaminazione, tenente. Se fossero stati esposti da questo pomeriggio, e contagiati, i segni sarebbero chiari.»

«Ummm.» Il tenente Claudy si tolse i guanti e godette il soffio dell’aria fresca, fosse anche quella della Terra. Poi sfilò il casco e lo appoggiò all’incavo del gomito. Con durezza chiese: «Il tuo nome, squinzia terrestre?».

Era un termine di per sé offensivo e il tono in cui era stato pronunciato lo rendeva ancora più odioso, ma Pola non mostrò risentimento.

«Pola Shekt, signore» rispose in un sussurro.

«Documenti!»

Lei frugò nel taschino della giacca bianca ed estrasse un libretto rosa.

L’ufficiale lo prese, lo aprì e lo esaminò alla luce di una torcia portatile, poi lo gettò a terra e Pola si chinò a raccoglierlo.

«In piedi!» disse impaziente l’ufficiale, allontanando il libretto con un calcio. Pola, bianca in faccia, ritrasse le dita.

Arvardan aggrottò le sopracciglia e decise che era ora di intervenire.

«Perché non guardi da questa parte?»

Il tenente si voltò di scatto, le labbra contratte. «Che hai detto, terrestre?»

Pola intervenne immediatamente. «La prego, signore, quest’uomo non ha nulla a che fare con quanto è avvenuto oggi. Non l’ho mai visto prima...» Ma il tenente la spinse da parte. «Ripeto: che hai detto, terrestre?»

Arvardan restituì l’occhiata freddamente. «Ripeto: guarda da questa parte. E stavo per aggiungere che non mi piace il modo come tratti le donne e che faresti meglio a imparare le buone maniere.»

Era troppo arrabbiato per informare il soldato che non era un terrestre.

Il tenente Claudy sorrise senza divertimento. «Tu invece le hai imparate, eh? Non sai che quando si parla a un uomo si deve aggiungere “signore”?

Non sai stare al tuo posto? Bene, è un sacco di tempo che non do una lezione a un pendaglio da forca come te.»

Poi, con un guizzo serpentino, schiaffeggiò Arvardan una, due volte.

L’archeologo arretrò, sorpreso, e sentì un rombo sordo nelle orecchie. Il braccio scattò per bloccare quello del militare, che sgranò gli occhi dalla meraviglia.

I muscoli di Arvardan si contrassero e un attimo dopo il tenente Claudy fu sbattuto a terra, il casco in mille pezzi. Non riusciva a muoversi e il ghigno di Arvardan era feroce. «C’è un altro bastardo che pensa di volersi divertire con la mia faccia?»

Ma il sergente aveva alzato la frusta neuronica. La attivò e un lampo violaceo si sprigionò dall’estremità, avvolgendo l’archeologo.

Ogni muscolo del corpo di Arvardan si contrasse per il dolore insopportabile e lui cadde in ginocchio. Poi, completamente paralizzato, svenne.

Quando riprese i sensi, Arvardan sentì una sensazione di freschezza alle tempie. Cercò di aprire gli occhi e scoprì che non volevano obbedirgli, come se i cardini delle palpebre si fossero arrugginiti. Le tenne chiuse e, a scatti lentissimi, alzò il braccio verso la faccia. (Ogni movimento, per quanto frazionato, gli causava la puntura di mille aghi.) Una piccola mano gli passò sulla fronte un asciugamano bagnato.

L’archeologo aprì un occhio e lottò contro la nebbia.

«Pola» disse. Ci fu un improvviso grido di gioia.

«Sì? Come si sente?»

«Come se fossi morto» gracchiò Arvardan. «Senza il vantaggio di non sentire il dolore... Cos’è successo?»

«Ci hanno portati alla base militare, poi è arrivato il colonnello. Hanno perquisito lei e... Non so che cosa faranno. Oh, signor Arvardan, non avrebbe dovuto colpire il tenente. Credo che gli abbia spezzato il braccio.»

Sul volto dell’archeologo aleggiò un debole sorriso. «Bene, ma avrei preferito spezzargli la schiena.»

«Resistere a un ufficiale dell’impero è un reato capitale.» La voce della ragazza si era ridotta a un sussurro.

«Davvero? La vedremo.»

Arvardan chiuse gli occhi e si rilassò. Il pianto di Pola gli arrivò come da una grandissima distanza e quando sentì l’ago dell’ipodermica non riuscì a muovere un muscolo.

Poi, nelle vene e lungo i nervi arrivò la benedizione dell’assenza di dolore. Le braccia si sciolsero e la schiena potè finalmente rilassarsi.

L’archeologo aprì le palpebre rapidamente e, puntellandosi sul gomito, si tirò a sedere.

Il colonnello lo fissava pensieroso, Pola con una punta d’apprensione ma nel complesso felice.

Il militare disse: «Bene, dottor Arvardan, a quanto pare abbiamo avuto uno spiacevole contrattempo in città.»

Dottor Arvardan... Pola si rese conto di quanto poco sapesse di lui, a cominciare dalla sua occupazione. Non aveva mai provato i sentimenti che provava ora.

Arvardan fece una breve risata. «Spiacevole, dice. Mi sembra un aggettivo inadeguato.»

«Lei ha spezzato il braccio di un ufficiale dell’impero nell’esercizio delle sue funzioni.»

«Quell’ufficiale mi aveva provocato. Il suo dovere non consiste nell’insultarmi volgarmente o nel prendermi a schiaffi. Comportandosi come ha fatto, ha perso ogni diritto ad essere trattato come un ufficiale e un gentiluomo. Sono un libero cittadino dell’impero e ho tutto il diritto di ribellarmi a un comportamento così arrogante e illegale.»

Il colonnello si schiarì la gola, come se non sapesse cosa dire. Pola li guardava con tanto d’occhi, incredula.

Finalmente il colonnello dichiarò: «Inutile che le dica che lo considero uno spiacevole incidente. Dolore e umiliazione sono stati uguali per entrambi e sarà meglio dimenticare l’accaduto».

«Dimenticare? Credo proprio di no. Sono stato ospite del Procuratore e può darsi che gli interessi sapere in che modo la sua guarnigione mantiene l’ordine sulla Terra».

«Senta, dottor Arvardan, le assicuro che riceverà pubbliche scuse...»

«All’inferno. Che cosa pensate di fare della signorina Shekt?»

«Lei cosa propone?»

«Che la liberiate immediatamente, le restituiate i documenti e lei le faccia le dovute scuse...»

Il colonnello arrossì e disse con uno sforzo: «Ma certo». Poi si volse a Pola. «Se la signorina vuole accettare i sensi del mio più profondo rammarico...»

Lasciatesi alle spalle le mura della caserma, in dieci minuti di aerotassì tornarono in città. Poco dopo mezzanotte erano davanti all’istituto.

Pola disse: «Non riesco a capire. Lei sembra essere un personaggio importante e mi sento una sciocca a non riconoscerla. Non pensavo che gli Esterni potessero trattare un terrestre come hanno fatto con lei».

Arvardan era riluttante a porre fine alla finzione, ma ci fu costretto. «Io non sono un terrestre, Pola. Sono un archeologo del settore di Sirio.»

La ragazza voltò la testa verso di lui, di scatto. Nel chiaro di luna era pallidissima e per diversi secondi non disse niente. «Allora ha affrontato i soldati perché dopotutto era al sicuro e lo sapeva. E io che credevo... Avrei dovuto capirlo.»

Era profondamente amareggiata. «Chiedo umilmente perdono, signore, se oggi, nella mia ignoranza, ho mostrato eccessiva familiarità e scarso rispetto nei suoi confronti...»

«Pola,» gridò Arvardan, furioso «che cosa le prende? Che importanza ha se non sono terrestre? In che modo mi rende diverso da quello che ero cinque minuti fa?»

«Lei avrebbe dovuto dirmelo, signore.»

«Non le ho chiesto di chiamarmi signore. Per piacere, non faccia come il resto di loro.»

«Il resto di chi, signore? Dei disgustosi animali che vivono sulla Terra?

A proposito, le devo cento crediti.»

«Se ne scordi» fece l’archeologo, disgustato.

«Non posso obbedire a quest’ordine. Se mi darà il suo indirizzo, le spedirò i soldi domani per vaglia.»

Arvardan si fece improvvisamente brutale. «Lei mi deve molto più di cento crediti.»

Pola si morse il labbro e disse, a voce più bassa: «È l’unica parte del mio grande debito che possa ripagare. L’indirizzo?».

«Palazzo del Governo» le gridò allontanandosi. Era scomparso nella notte.

E Pola scoppiò a piangere.

Shekt andò incontro a sua figlia sulla porta dell’ufficio.

«È tornato» disse. «L’ha portato un omiciattolo.»

«Bene.» Le riusciva difficile parlare.

«Mi ha chiesto duecento crediti, glieli ho dati.»

«Avrebbe dovuto averne cento, ma non fa niente.»

La ragazza entrò nell’ufficio. Shekt aggiunse: «Sono stato molto in pena.

Gli incidenti nel quartiere... non osavo chiedere. Potevi esserci andata di mezzo tu.»

«Va tutto bene, non è successo niente. Papà, stanotte fammi dormire qui.»

Ma nonostante la stanchezza non riuscì a chiudere occhio, perché qualcosa era successo. Aveva conosciuto un uomo, un Esterno...

Per fortuna aveva il suo indirizzo.