4.

La strada maestra

A Chica Arbin non si sentiva a suo agio: gli sembrava di essere circondalo. Da qualche parte, in quella che era una delle più grandi città del mondo (dicevano che avesse cinquantamila abitanti), si annidavano gli ufficiali del vasto impero esterno.

Ovviamente Arbin non aveva mai visto un uomo della galassia, eppure a Chica il collo gli doleva per la paura di incontrarli. Messo alle strette non avrebbe saputo dire come si riconosceva un Esterno da un terrestre, ma in cuor suo era convinto che una differenza ci fosse.

Si guardò alle spalle e si avviò verso l’istituto. La sua biruote era parcheggiata all’aperto, con un disco orario che le garantiva sei ore di sosta. Era una stravaganza di per sé sospetta? Tutto lo spaventava, ormai.

L’aria era piena di occhi e di orecchi.

Se solo lo straniero si fosse ricordato di stare nascosto sul retro... Aveva annuito vigorosamente, ma chissà che cosa aveva capito. Arbin diventava sempre più impaziente. Perché aveva permesso a Grew di cacciarlo in quel guaio?

In qualche modo la porta dell’istituto si aprì e una voce interruppe i suoi pensieri.

«Che cosa vuoi?»

Sembrava impaziente: forse gliel’aveva già chiesto diverse volte.

Arbin rispose con voce strozzata, come se avesse inghiottito una manciata di polvere: «È qui che cercate volontari per il sinapsi-ficatore?».

L’impiegata lo guardò duramente e disse: «Firma qui».

Arbin si nascose le mani dietro la schiena e ripeté impacciato: «Dov’è il sinapsi-ficatore?». Grew gli aveva insegnato la parola, ma a lui sembrava strano dirla. Non significava niente.

Con voce di ferro l’impiegata insisté: «Non posso fare niente per te se non firmi il registro dei visitatori. È la regola».

Senza una parola, Arbin si voltò per andarsene. La ragazza dietro il banco strinse le labbra e premette violentemente il pedale accanto alla sedia.

Arbin desiderava con tutte le sue forze sembrare un Nessuno: la ragazza lo guardava duramente e se lo sarebbe ricordato anche fra mille anni.

Provò il folle desiderio di correre, di tornare alla macchina e alla fattoria...

Da un’altra stanza uscì una donna con un camice bianco. L’impiegata indicò Arbin. «Un volontario per il sinapsi-ficatore, signorina Shekt.

Rifiuta di scrivere il suo nome.»

Arbin alzò gli occhi: un’altra ragazza, giovane. «È lei che fa funzionare la macchina, signorina?»

«No, proprio no.» La nuova venuta sorrise con simpatia e Arbin sentì l’ansia calare un poco.

«Però posso portarla dalla persona che se ne occupa.» Poi, interessata:

«Vuole veramente sottoporsi a una prova?».

«Voglio solo vedere l’uomo che la fa funzionare» rispose ostinatamente Arbin.

«D’accordo.» La ragazza non sembrava irritata dal suo comportamento.

Tornò nella stanza da cui era uscita e dopo una breve attesa gli fece cenno con un dito.

Arbin la seguì col cuore che batteva in una piccola anticamera. Lei disse gentilmente: «Se vuole aspettare, entro mezz’ora al massimo il dottor Shekt sarà da lei. In questo momento è molto occupato... Se vuole dei librofilm e un visore per passare il tempo, glieli darò».

Ma Arbin scosse la testa. Le quattro pareti della stanzetta lo opprimevano, tenendolo sul chi vive. Era una trappola? Gli Anziani stavano per piombargli addosso?

Fu l’attesa più lunga della sua vita.

Ennius, Procuratore della Terra, non aveva avuto troppe difficoltà per farsi ricevere dal dottor Shekt ma la cosa gli aveva dato un’eccitazione fuori dell’ordinario. Era Procuratore da quattro anni ma una visita a Chica restava un evento. Come diretto rappresentante del lontano imperatore, il suo rango era paragonabile a quello dei vicere dei grandi settori galattici che stendevano i loro scintillanti domini su centinaia di parsec cubici, ma questo soltanto sulla carta. In realtà, un posto come il suo equivaleva più o meno all’esilio.

Intrappolato nelle sterili vastità dell’Himalaya, circondato dalle beghe ugualmente sterili di un popolo che odiava lui quanto l’impero, giudicava un viaggio a Chica come un’occasione per evadere.

Ovviamente si trattava di evasioni brevi: dovevano esserlo per forza, visto che a Chica bisognava portare abiti impregnati di piombo anche quando si dormiva, e, cosa peggiore, ingurgitare continuamente metabolina.

Ne parlò amaramente con Shekt.

«Metabolina» disse, tenendo alta la pillola vermiglia per rendere più efficace il concetto. «E il vero simbolo di quello che il suo pianeta rappresenta per me, amico mio. Il suo scopo è accelerare i processi metabolici mentre sono immerso nella nuvola radioattiva che ci circonda e di cui lei non si rende nemmeno conto.»

Inghiottì il medicinale. «Fatto! Ora il mio cuore batterà più in fretta, il mio fiato sarà veloce e il fegato provvederà rapidamente alle trasformazioni chimiche che lo rendono la macchina più importante del corpo, come dicono i medici. Il tutto al prezzo di una serie di emicranie e un bello sfinimento alla fine.»

Il dottor Shekt ascoltava divertito. Dava l’impressione di essere un uomo miope non perché portasse occhiali o altri correttivi, ma perché era abituato da tempo a guardare da vicino cose e oggetti, a soppesare ansiosamente i fatti prima di aprire bocca. Era alto, anziano e aveva la figura leggermente curva. La sua profonda conoscenza della cultura galattica lo rendeva relativamente immune dall’ostilità e dal so spetto quasi universali che gravavano sul terrestre medio e che lo rendevano sgradevole anche agli occhi di un uomo di mondo come Ennius.

Shekt disse: «Sono certo che non ha bisogno di quella pillola; la metabolina è solo una delle vostre superstizioni e lei lo sa. Se la sostituissi con delle pillole di zucchero senza che lo sapesse, non starebbe peggio di così. Anzi, avrebbe comunque le sue emicranie. Per effetto psicosomatico».

«Dice così perché questo è il suo ambiente. Nega che il suo metabolismo basale sia più veloce del mio?»

«Naturalmente no, e con questo? So che esiste una superstizione dell’impero secondo cui noi terrestri siamo diversi dagli altri esseri umani, ma in fondo non è cosi. È qui come emissario degli antiterrestri?»

Ennius brontolò qualcosa, «Per la vita dell’imperatore, siete voi i migliori apostoli dell’antiterrestrismo. Vivete miserabilmente su un pianeta malato, vi nutrite di rabbia, non siete altro che un’ulcera della galassia.

«Dico sul serio, Shekt, Quale altro pianeta Tonda la sua vita su rituali così assurdi e vi aderisce con tanta masochistica furia? Non passa giorno senza che una delegazione di questo o quello dei vostri organismi politici mi chieda la pena di morte per un povero disgraziato che ha invaso una zona proibita, che non ha rispettato il Sessagesimo o ha mangiato un po’

più della sua razione,,.»

«E lei la concede sempre. La sua disapprovazione non le permette di opporsi.»

«Le stelle mi sono testimoni che faccio qualunque sforzo per evitare quelle morti, ma in ultima analisi cosa posso fare? L’imperatore esige che i costumi delle province siano rispettati e in questo è saggio, perché in questo modo priva del sostegno popolare i folli che altrimenti inneggerebbero alla rivolta ogni martedì e giovedì. Se rifiutassi di comminare le pene chieste dai vostri senati, consigli e parlamenti, si alzerebbe una tale cagnara contro l’amministrazione imperiale che preferirei passare vent’anni all’inferno in mezzo a una legione di diavoli, piuttosto che affrontare una simile situazione sulla Terra per dieci minuti!»

Shekt sospirò e scompigliò i capelli sottili che aveva sulla nuca, «Per il resto della galassia - ammesso che si renda conto della nostra esistenza - la Terra non è altro che un sasso nel cielo, ma per noi è la patria, la sola patria che conosciamo. E non siamo diversi da voi, solo più sfortunati, Siamo costretti a vivere uno addosso all’altro in un mondo che in gran parte è quasi morto, immersi in un muro di radiazioni che ci imprigiona e circondati da un’immensa galassia che ci tratta alla stregua di paria. Come possiamo combattere il senso di frustrazione che ci brucia? Lei, Procuratore, permetterebbe che la parte in eccesso della nostra popolazione emigrasse su altri mondi?»

Ennius si strinse nelle spalle, «Che vuole che m’importi? Sono i popoli degli altri mondi a non volervi, perché temono il contagio delle malattie terrestri.»

«Le malattie terrestri!» Shekt lo fulminò con un’occhiata. «È una fandonia senza senso che dev’essere sradicata. Non siamo portatori di morte e lei non è morto per essere vissuto fra noi...»

«Ovviamente» sorrise Ennius «io faccio di tutto per impedire i contatti inopportuni.»

«Voi avete paura della vostra stessa propaganda! Delle fandonie messe in giro dai vostri ciarlatani.»

«Lei nega, Shekt, che ci sia un fondamento scientifico nell’idea che i terrestri siano radioattivi?»

«Certo che lo sono, come potrebbero evitarlo? Anche lei è radioattivo, gli abitanti di tutti i pianeti dell’impero lo sono. Noi Io siamo un poco di più, glielo concedo, ma non tanto da fare del male a nessuno.»

«L’uomo della strada la pensa diversamente, nella galassia. E temo che non abbia voglia di fare esperimenti. D’altra parte,,.»

«D’altra parte, sta cercando di dirmi, noi siamo diversi. Non siamo esseri umani perché siamo soggetti a mutazioni più rapide e ci saremmo allontanati radicalmente dal modello della specie. Ma queste cosiddette trasformazioni non sono dimostrate.»

«Però la gente ci crede.» «Finché ci crederà e noi della Terra saremo trattati come paria, riscontrerete sempre le caratteristiche che disapprovate nella nostra gente. Trattati intollerabilmente, c’è da meravigliarsi che vi trattiamo allo stesso modo? Odiati come siamo, c’è da stupirsi che restituiamo l’odio? No, no, siamo di gran lunga gli offesi, non gli offensori.»

A Ennius dispiaceva di aver risvegliato l’ira dello scienziato. Anche i migliori terrestri, pensò, hanno la stessa cieca convinzione, la fanatica idea che il loro pianeta si debba opporre a tutto il resto dell’universo.

Disse con tatto: «Shekt, scusi se l’ho fatta stizzire. Consideri che sono giovane e annoiato e cerchi di perdonarmi. Davanti a lei vede un poveraccio di quarant’anni (cioè l’età di un bambino, nella carriera diplomatica) costretto a fare apprendistato sulla Terra; potrebbero passare anni prima che i burocrati dell’Ufficio Province Esterne si ricordino di me e mi mandino in un posto meno infognato di questo. Siamo entrambi prigionieri della Terra ed entrambi cittadini del grande mondo dell’intelletto, in cui non esistono distinzioni di pianeta o di razza. Mi dia la mano e torniamo amici».

Le rughe sul volto di Shekt si rilassarono, o meglio furono sostituite da altre che indicavano buonumore. Rise di cuore. «Le parole sono quelle di un supplice ma il tono rimane quello dell’amministratore imperiale. Lei non è un buon attore, Procuratore.»

«Allora si mostri superiore e sia un buon maestro. Mi parli di questo famoso sinapsi-ficatore.»

Shekt trasalì e aggrottò le sopracciglia. «Come, ne ha sentito parlare? In tal caso è un fisico, oltre che un diplomatico...»

«Sapere le cose fa parte del mio mestiere. Sul serio, Shekt, mi piacerebbe imparare qualcosa di più.»

Lo scienziato scrutò attentamente l’altro e parve dubbioso. Si alzò e si portò una mano nodosa alle labbra, che pizzicò pensierosamente. «Non saprei da dove cominciare.»

«Sante stelle, se sta pensando da quale teorema matematico deve partire, le semplificherò il problema. Lasci perdere le equazioni, tanto non so niente di funzioni e tensori.»

Shekt ammiccò. «Bene, allora. Per limitarsi alla parte descrittiva, si tratta di un apparecchio inteso ad aumentare la capacità di apprendimento dell’essere umano.»

«Dell’essere umano? Ma guarda! E funziona?»

«Vorrei saperlo. È necessario altro lavoro, ma le dirò i fatti essenziali e giudicherà da sé. Il sistema nervoso dell’uomo e degli animali è composto di materiale neuroproteico. Si tratta di grosse molecole in precario equilibrio elettrico e sensibili alla minima scossa. Ogni molecola che riceva la “scossa” di uno stimolo tende a ripetere il processo e a scuoterne un’altra, fino a raggiungere il cervello. Quest’ultimo è un immenso raggruppamento di molecole collegate fra loro in ogni modo possibile. Dato che le molecole presenti nel cervello sono qualcosa come dieci alla ventesima potenza (cioè uno seguito da venti zeri) le combinazioni possibili sono un numero enorme. Se tutti gli elettroni e protoni dell’universo diventassero universi essi stessi e se gli elettroni e i protoni di questi nuovi universi diventassero a loro volta universi, ebbene, gli elettroni e i protoni di tutti gli universi messi insieme sarebbero ancora niente in confronto a...

Mi segue?»

«Neanche una parola, per fortuna. Se ci provassi comincerei a ululare come un cane per il mal di testa.»

«Hmmm. Comunque, quelli che chiamiamo impulsi nervosi sono soltanto il risultato dello squilibrio elettronico che procede dai nervi al cervello e dal cervello ai nervi. Questo è chiaro?»

«Sì.»

«Benedetto il suo genio, allora. Finché l’impulso procede lungo la cellula nervosa la sua velocità è molto grande perché le neuroproteine sono praticamente in contatto. Tuttavia le cellule nervose hanno un’estensione limitata e fra l’una e l’altra vi è un piccolo divisorio di tessuto non nervoso. In altre parole due cellule adiacenti non si toccano.»

«Ah» disse Ennius. «E l’impulso nervoso deve saltare il fosso.»

«Proprio cosi! Il fosso, come lei lo chiama, diminuisce la forza dell’impulso e ne rallenta la velocità di trasmissione in ragione del quadrato del suo spessore. Questo vale anche per il cervello. Ora immagini la scoperta dì un mezzo che abbassi la costante dielettrica del divisorio intercellulare.»

«La costante che?»

«La forza isolante de! tessuto non nervoso, era questo che volevo dire.

Se diminuisse, l’impulso salterebbe il fosso più facilmente: si penserebbe e si imparerebbe più velocemente.»

«Allora torno alla mia domanda. Funziona?»

«Ho sperimentato la macchina su certi animali.»

«E con quali risultati?»

«Che la maggior parte sono morti per denaturazione delle proteine cerebrali... coagulazione, in altre parole. Come cuocere troppo un uovo.»

Ennius fece una smorfia. «C’è qualcosa di ineffabilmente crudele nella freddezza della scienza. E le cavie che non sono morte?»

«Non costituiscono una prova conclusiva, visto che non si tratta di esseri umani. Il complesso delle prove sembra loro favorevole, ma ho bisogno di soggetti umani. Vede, sì tratta di proprietà elettroniche che cambiano a ogni cervello perché ogni cervello genera microcorrenti di un certo tipo.

Nessuna è identica all’altra, proprio come le impronte digitali e il modello dei vasi sanguigni nella retina. Anzi, forse sono ancora più personali.

Credo che il trattamento debba tenerne conto, e se ho ragione non ci sarà più denaturazione. Purtroppo non ho volontari su cui praticare l’esperimento. Ne sto cercando, ma...» Allargò le braccia.

«Non li biasimo certo, vecchio mio» disse Ennius. «No, seriamente: se la macchina venisse perfezionata, che cosa ne farebbe?»

Lo scienziato si strinse nelle spalle. «Non spetta a me dirlo. Lo deciderebbe il Gran Consiglio.»

«Non metterebbe la sua invenzione al servizio dell’impero?»

«Io non ho nessuna obiezione, ma il Gran Consiglio ha giurisdizione su tutta...» «Oh» sbottò Ennius con impazienza. «Al diavolo il vostro Gran Consiglio. Ho già trattato con loro in passato. Sarà disposto a mettere una buona parola al momento opportuno?»

«Che influenza vuole che abbia?»

«Potrebbe far capire al Consiglio che se la Terra fabbricasse il sinapsificatore e lo mettesse a disposizione della galassia, quest’ultima potrebbe abrogare alcune leggi contro 1 emigrazione della vostra genie.»

«Cosa?» disse Shekt, sarcastico. «Ed esporvi al contagio, alla differenza, alla nostra inumanità?»

«Potreste essere autorizzati addirittura a trasferirvi en masse su un altro pianeta» insinuò tranquillamente Ennius, «Ci pensi.»

In quel momento la porta si aprì ed entrò una ragazza che si diresse oltre l’armadietto dei librofilm. La sua apparizione dissipò l’atmosfera polverosa dello studio e fu come un raggio di sole. Alla vista dell’ospite arrossì leggermente e fece per andarsene.

«Vieni, vieni, Pola» si affrettò a richiamarla Shekt. «Signore,» disse a Ennius «credo che non abbia mai conosciuto mia figlia. Pola, questi è il Procuratore della Terra Ennius.»

Il Procuratore si alzò con una galanteria che disorientò la ragazza.

«Cara signorina Shekt» disse il dignitario «lei è un gioiello che non credevo la Terra capace di produrre; ma lo sarebbe su qualunque mondo.»

Prese la mano di Pola, che lei aveva teso rapidamente ma con una punta di timidezza. Per un attimo Ennius sembrò sul punto di baciarla, secondo il costume cavalieresco della passata generazione, ma l’intenzione, se c’era, non si concretizzò. La mano fu lasciata dopo essere stata presa leggermente, forse un po’ troppo in fretta.

Pola aggrottò leggermente le sopracciglia e disse: «Sono frastornata dalla sua considerazione, signore, per una semplice ragazza, della Terra.

Lei è valente e coraggioso a sfidare il contagio in questo modo».

Shekt si schiarì la gola e intervenne: «Mia figlia, Procuratore, sta terminando gli studi all’Università di Chica e ha ottenuto il permesso di esercitarsi con me in laboratorio due volte alla settimana, come tecnico. È un’esperienza che le serve ed è una brava ragazza; non lo dico per orgoglio paterno, ma spero che un giorno potrà sedere al mio posto».

«Papà» disse Pola con dolcezza «ho una notizia importante per te.» Poi esitò.

«Devo andarmene?» chiese tranquillamente Ennius.

«No, no» rispose Shekt. «Cosa c’è, Pola?»

«Abbiamo un volontario» rispose la ragazza.

Shekt la guardò con gli occhi sbarrati. «Per il sinapsi-ficatore?»

«Così dice.»

«Bene» intervenne Ennius. «Vedo che le porto fortuna.»

«Così pare.» Shekt si rivolse di nuovo alla figlia. «Digli di aspettare e portalo nella stanza C, lo raggiungo subito.»

Appena la ragazza fu uscita si rivolse al Procuratore. «Vuole scusarmi, signore?»

«Ma certo. Quanto dura l’operazione?»

«Diverse ore, temo. Vuole assistere?»

«Non riesco a immaginare niente di più atroce, caro Shekt. Sarò al Palazzo del Governo fino a domani, mi farà sapere i risultati?»

Shekt parve sollevato. «Ma sì, certo.»

«Bene. E pensi a quello che le ho detto sul sinapsi-ficatore, la nuova strada maestra della conoscenza.»

Ennius uscì, meno tranquillo di quando era arrivato. Non ne sapeva molto di più ma le sue paure erano aumentate.