8.

Convergenza a Chica

Per la ventesima volta il dottor Shekt sfogliò il voluminoso incartamento in cui erano raccolti i dati, poi alzò gli occhi su Pola che era entrata in ufficio. La ragazza indossò il camice di laboratorio con aria imbronciata.

«Papà, non hai ancora mangiato?»

«Cosa? Ma certo, certo. E questo cos’è?»

«Il pranzo, o meglio lo era. Quella che ricordi di aver mangiato è la colazione. Non ha senso che ti porti le cose se non le tocchi nemmeno. Ti costringerò ad andare a casa.»

«Non arrabbiarti, mangerò, ma non posso interrompere un esperimento vitale ogni volta che tu decidi che è ora di pranzo.»

Arrivato al dessert tornò allegro. «Non immagini che tipo sia questo Schwartz. Ti ho parlato delle suture craniche?»

«Sono primitive, me l’hai detto.»

«Non è tutto, ha trentadue denti. Tre molari distribuiti sui due lati della bocca più uno falso, probabilmente fatto in casa: non ho mai visto un ponte che si agganci agli altri denti invece che direttamente all’osso della mascella. E comunque, hai mai conosciuto un uomo con trentadue denti?»

«Non vado in giro a contare i denti alla gente, papà. Qual è il numero giusto? Ventotto?»

«Ma certo, e non ho finito: ieri gli abbiamo fatto un esame interno e indovina che cos’abbiamo scoperto.»

«Intestini?»

«Pola, tu vuoi provocarmi. Schwartz ha un’appendice lunga otto o nove centimem. Ed è aperta. Grande galassia, è una cosa senza precedenti! Ho fatto un controllo alla facoltà di medicina (con cautela, si capisce) e ho constatato che l’appendice non è mai più lunga di un centimetro, un centimetro e mezzo al massimo e non è mai aperta.»

«Questo che significa?»

«Che è un caso di regressione assurda, un fossile vivente.» Si alzò e cominciò a passeggiare nervosamente per la stanza. «Ti dico io quello che penso: non dovremmo restituire Schwartz ai suoi. E un esemplare troppo raro.»

«No, no, papà» si affrettò a interromperlo Pola. «Non puoi farlo. Hai promesso a quel contadino che gli avresti restituito Schwartz e devi mantenere la parola per il suo stesso bene. Schwartz non è felice, qui.»

«Non è felice! Ma se lo trattiamo come un ricco Esterno.»

«Che importa? Quel poveraccio è abituato alla fattoria e alla sua gente.

È sempre vissuto là. Ora ha avuto una terribile esperienza, una dolorosa esperienza a quanto ne so, e la sua mente funziona in modo diverso. Non puoi aspettarti che capisca, dobbiamo considerare i suoi diritti umani e restituirlo alla famiglia.»

«Ma Pola, la causa della scienza...»

«Sciocchezze, che m’importa della causa della scienza? Cosa pensi che dirà la Fratellanza quando verrà a sapere degli esperimenti non autorizzati?

Credi che a loro importi qualcosa dei tuoi ideali? Pensa a te stesso se non vuoi pensare a Schwartz: più lo tieni segregato, più aumentano le probabilità che ti scoprano. Mandalo a casa come avevi deciso in un primo momento, mi ascolti? Io vado a vedere se ha bisogno di qualcosa prima di cena.»

Ma tornò in meno di cinque minuti, bianca e con la fronte imperlata di sudore. «Papà, se n’è andato!»

«Chi se ne è andato?» chiese Shekt, meravigliato.

«Schwartz!» gridò la ragazza, quasi in lacrime. «Devi esserti dimenticato di chiudere la porta, quando l’hai lasciato.»

Shekt si alzò di botto e allungò un braccio per non perdere l’equilibrio.

«Da quanto tempo è scappato?»

«Non io so, ma non può essere molto. Quando sei stato da lui l’ultima volta?»

«Meno di un quarto d’ora. Ero rientrato da un paio di minuti quando sei arrivata tu.»

«Va bene, allora» ribattè la ragazza, decisa. «Corro fuori, deve essere qui in giro. Tu rimani in ufficio, se qualcuno lo pesca non deve metterlo in relazione con te. Intesi?»

A Shekt non restò che annuire.

Non fu un sollievo, per Schwartz, passare dalla prigionia in ospedale alla desolazione della città che lo circondava. Inutile farsi illusioni: non aveva un piano e avrebbe dovuto improvvisare.

Ammesso che la sua fuga fosse guidata da un impulso razionale - e non dal semplice desiderio di reagire alla passività - questo era la speranza di imbattersi in un particolare che gli restituisse la memoria. Perché ormai era sicuro di aver avuto un’amnesia.

Ma una prima occhiata alla città lo depresse notevolmente. Era pomeriggio inoltrato e nel sole calante Chica aveva l’aspetto di un agglomerato bianco, quasi latteo. Probabilmente gli edifici erano dello stesso materiale di cui era fatta la fattoria dove aveva bussato all’inizio.

Una voce dentro di lui, tuttavia, diceva che le città dovrebbero essere grigie e marrone e molto più sporche. Ne era sicuro.

Si incamminò lentamente, convinto per qualche motivo che non ci sarebbe stata una caccia all’uomo in piena regola. Lo sapeva senza riuscire a spiegarselo, ma negli ultimi giorni si era accorto di diventare sempre più sensibile alle “atmosfere” e alle “sensazioni” dell’ambiente che lo circondava. Faceva parte degli strani processi che si erano sviluppati nella sua mente da quando... da quando...

Poi il suo pensiero passò ad altro.

L’atmosfera della prigione-ospedale era di segretezza, paura e segretezza: per questo non potevano dare l’allarme e seguirlo in forze. Lui lo sapeva, ma come? La strana attività della sua mente era una conseguenza dell’amnesia, si verifica va normalmente in questi casi?

Schwartz attraversò un altro incrocio. I veicoli erano relativamente pochi e i pedoni... be’, erano pedoni. Avevano vestiti ridicoli: senza cuciture, senza bottoni, coloratissimi. D’altra parte i suoi erano identici. Si domandò dove fossero gli abiti che portava una volta e se li avesse realmente posseduti. È difficile essere sicuri delle cose, se si dubita per principio della propria memoria.

Ma ricordava con chiarezza sua moglie e i figli. Loro non potevano essere immaginari. Si fermò in mezzo al marciapiede per ritrovare il contegno che aveva improvvisamente perduto. Forse i suoi familiari non erano che la versione distorta di persone che esistevano effettivamente e che lui doveva rintracciare nella nuova realtà, per nebulosa che sembrasse.

La gente che gli passava intorno lo urtava e a volte borbottava cose poco piacevoli. Schwartz affrettò il passo e all’improvviso gli sembrò di aver fame. Ma non aveva soldi.

Si guardò intorno: niente che somigliasse a un ristorante. Del resto, come faceva a saperlo? Non riusciva a decifrare le insegne.

Guardò nella vetrina di ogni negozio davanti al quale passava e finalmente ne trovò uno il cui interno consisteva di piccoli separé con relativi tavoli; ad uno sedevano due uomini, a un altro un uomo solo. E mangiavano.

Almeno questo non era cambiato: si mangiava al solito modo, masticando e inghiottendo.

Schwartz entrò e si fermò stupito. Non c’era il banco, non sembrava esserci cucina e nessuno si dava da fare a preparare da mangiare. Pensò di chiedere un pasto e offrirsi di lavare i piatti in cambio, ma... a chi doveva rivolgersi?

Si avvicinò con diffidenza ai due uomini che mangiavano in compagnia.

Li indicò e disse faticosamente: «Da mangiare! Dove, per favore?».

I due lo guardarono stupiti. Uno cominciò a parlare in fretta, incomprensibilmente. Indicò una piccola struttura incassata nella parete accanto al tavolo e il suo compagno lo imitò, ripetendo il gesto con una certa impazienza.

Schwartz abbassò gli occhi. Si voltò per andarsene ma qualcuno gli mise una mano sulla manica...

Granz aveva notato Schwartz quando era ancora una faccia rubiconda che guardava dalla vetrina:

«Chissà che diavolo vuole.»

Messter, seduto dall’altra parte del tavolo e con le spalle alla strada, si era girato, aveva dato un’occhiata e si era stretto nelle spalle, senza dire niente.

Granz aveva aggiunto: «Eccolo che entra».

«E allora?»

«Niente, commentavo.»

Ma nel giro di pochi secondi, e dopo essersi guardato intorno con aria disperata, il nuovo venuto si era avvicinato indicando lo stufato che avevano nel piatto. Poi, con uno strano accento, aveva chiesto: «Da mangiare! Dove, per favore?».

Granz aveva alzato gli occhi. «Il mangiare è qui dentro, amico. Siediti a un tavolo e usa il Ristomat... Non sai come si fa? Ma guarda ‘sto disgraziato, Messter. Mi fissa a bocca aperta e non capisce una parola di quello che dico. Ehi, amico, lo vedi questo affare? Mettici dentro una moneta e lasciami mangiare in pace, va bene?»

«Lascialo perdere» aveva brontolato Messter. «È solo un morto di fame che cerca di scroccare qualcosa.»

«Un momento.» Vedendo che lo sconosciuto faceva per andarsene, Granz lo aveva afferrato per la manica. Poi aggiunse a beneficio di Messter: «Per lo spazio, facciamogli mangiare qualcosa. Non deve mancargli molto per il Sessagesimo, il meno che posso fare è dargli una mano. Amico, cos’è, non hai soldi? Accidenti, ancora non capisce. Soldi, amico, soldi! Questi...» E trasse di tasca un pezzo lucente da mezzo credito. Lo lanciò in aria e chiese:

«Non ne hai?»

Schwartz scosse la testa lentamente. «Bene, allora prendi questo.» Si rimise in tasca il mezzo credito e lo sostituì con una moneta molto più piccola.

Schwartz la prese con incertezza.

«Va bene, ma non startene lì imbambolato. Mettila nel Ristomat, questo affare qui.»

Improvvisamente Schwartz capì. Il Ristomat era costituito da una serie di fessure per monete di vario tipo e manopole che corrispondevano ad altrettanti rettangoli bianchi. Sui rettangoli erano scritti i nomi dei piatti, che purtroppo lui non capiva. Indicò il cibo dei due uomini e poi le manopole, alzando le sopracciglia per far capire che non sapeva ordinare.

Messter disse seccato: «Un panino non gli va bene, in questa città anche i morti di fame hanno pretese. Secondo me è male incoraggiarli».

«Va bene, ci rimetto qualche credito. Tanto domani è giorno di paga...»

Poi, a Schwartz: «Aspetta». Granz infilò le monete nel Ristomat e ritirò l’ingombrante vassoio dalla nicchia. «Portatelo a un altro tavolo, però. No, quel diecino tienitelo. Ti comprerai una tazza di caffè.»

Schwartz si allontanò rapidamente con il contenitore, su un lato del quale era attaccato un cucchiaio per mezzo di una pellicola trasparente. Per romperla bastò passarci sopra un’unghia. Contemporaneamente, la parte superiore del contenitore si aprì lungo una fessura e si accartocciò su se stessa.

Il cibo, diversamente da quello che aveva visto nel piatto degli altri, era freddo, ma in fondo non aveva importanza. Dopo qualche minuto, tuttavia, Schwartz si rese conto che il contenitore era diventato bollente e il pranzo si stava riscaldando. Mise giù la posata, preoccupato, e aspettò.

Il sugo cominciò a fumare, poi a bollire dolcemente. Quando si fu raffreddato di nuovo, Schwartz finì il suo pranzo.

Granz e Messter erano ancora seduti quando uscì dal locale. Anche il terzo uomo era al suo posto, ma Schwartz non gli fece caso.

Non aveva nemmeno notato che, da quando era uscito dall’istituto, un ometto piccolo e sottile gli era stato alle costole senza farsi notare e senza perderlo di vista un istante.

Dopo aver fatto una doccia ed essersi cambiato d’abito, Bel Arvardan si era dedicato al suo progetto originario, che consisteva nell’osservare l’animale uomo, sottospecie terrestre, nel suo ambiente nativo. Il tempo era buono, il venticello rinfrescante e il paese... pardon, la città... lucente, tranquilla e pulita.

Non male.

Prima tappa Chica, pensò. La più grande collezione di esseri umani del pianeta. Poi sarebbe andato a Washenn, capitale locale, e poi a Senlù, Sanfran e Bonair! Aveva preparato un ampio itinerario nei continenti occidentali (dove viveva la maggior parte della scarsa popolazione terrestre), e concedendo due o tre giorni a ognuna delle principali località, sarebbe tornato a Chica giusto in tempo per ricevere la nave con il resto della spedizione.

Ci sarebbe stato da imparare.

Nel tardo pomeriggio era entrato in un Ristomat e mentre mangiava aveva osservato il piccolo dramma che si svolgeva fra due terrestri entrati subito dopo di lui e l’uomo anziano e grassoccio che aveva fatto il suo ingresso per ultimo. Aveva guardato con distacco e senza lasciarsi coinvolgere, ma in un certo senso l’episodio controbilanciava la sua esperienza negativa sull’aereo. I due uomini seduti al tavolo dovevano essere aerotassisti e non certo ricchi, ma avevano saputo essere caritatevoli.

Arvardan uscì un paio di minuti dopo il mendicante.

Le strade erano più affollate perché la giornata di lavoro stava volgendo al termine e l’archeologo dovette scansarsi all’ultimo momento per evitare di scontrarsi con una ragazza.

«Mi scusi» disse.

Era vestita di bianco, con abiti che avevano la linea stereotipata di un’uniforme, e sembrava non preoccuparsi dello scontro. L’espressione ansiosa, il brusco scatto della testa e l’improvvisa preoccupazione che le era apparsa negli occhi rendevano la situazione alquanto ovvia.

Arvardan le sfiorò la spalla con un dito. «Posso aiutarla, signorina? Ha qualche problema?»

Lei lo guardò con gli occhi sgranati. Poteva avere dai diciannove ai ventun anni, giudicò Arvardan, occhi scuri e capelli castani, zigomi alti e mento piccolo; la vita era sottile e il portamento aggraziato. Il pensiero che l’adorabile creatura fosse una terrestre conferiva alle sue grazie un fascino particolare e perverso, scoprì Arvardan.

Lei continuava a fissarlo e al momento di parlare sembrò che stesse per scoppiare in lacrime. «Oh, è inutile, non si preoccupi di me. È assurdo aspettarsi di trovare qualcuno quando non si ha la minima idea di dove sia andato.» L’avvilimento le curvava le spalle e inumidiva gli occhi. Poi si mise dritta e respirò profondamente. «Ha visto un uomo grassoccio sul metro e settanta, vestito di verde e bianco, senza cappello e calvo?»

Arvardan la fissò sbalordito. «Cosa? Verde e bianco? Oh, non ci credo...

È un tizio che parla con difficoltà, per caso?»

«Certo, certo! L’ha visto, allora!»

«Non più tardi di cinque minuti fa stava mangiando con due uomini.

Eccoli... Ehi, voi due!» Fece un cenno ai clienti del ristorante.

Granz fu il primo ad avvicinarsi.

«Tassi, signore?»

«No, ma se racconterete alla signorina dov’è andato l’uomo a cui avete dato da mangiare, vi sarete guadagnato il prezzo della corsa.»

Granz sembrò dispiaciuto. «Vorrei aiutarvi ma non l’avevo mai visto in vita mia.»

Arvardan disse alla ragazza: «Stia a sentire, signorina. Non può essere andato nella direzione da cui è venuta lei o lo avrebbe incontrato, ma non dev’essere lontano. Dirigiamoci a nord, lo riconoscerò se lo vedo».

Si era offerto di aiutare la ragazza d’impulso, e solitamente non era un impulsivo; ora si scoprì a sorriderle. Granz intervenne all’improvviso.

«Che cosa ha fatto, signora? Ha violato qualche Usanza, vero?»

«No, no» si affrettò a rispondere lei. «È solo un po’ malato, ecco tutto.»

Si allontanarono e Messter li seguì con lo sguardo. «Un po’ malato?»

Spinse all’indietro il berretto con la visiera e si diede un pizzico sul mento.

«Che te ne pare, Granz? Un po’ malato.»

Diede un’occhiata obliqua al collega.

«Che ti frulla per la mente?» chiese a disagio Granz.

«Qualcosa che fa star male me. Quel tipo deve essere scappato dall’ospedale e la ragazza dev’essere un’infermiera. Hai visto come era preoccupata? Perché prendersela tanto, se fosse solo “un po’” malato?

Quello non riusciva a parlare e non capiva un accidente, l’hai detto tu stesso.»

Negli occhi di Granz ci fu un lampo di panico. «Pensi che avesse la febbre?»

«Ne sono sicuro. Febbre da radiazioni, è spacciato. E non era a più di trenta centimetri da noi, dannazione..,»

Accanto a loro si materializzò un ometto con gli occhi penetranti e la voce acuta. «Di che state parlando, signori? Chi ha la febbre da radiazioni?»

Idue tassisti lo guardarono con poca simpatia. «E tu chi saresti?»

«Oh,» rispose l’ometto «volete saperlo, vero? Sono un messaggero della Fratellanza.» Mostrò un piccolo distintivo luminoso che portava nel risvolto interno della giacca. «E ora, in nome della Società degli Anziani, cos’è questa storia della febbre da radiazioni?»

Messter rispose in tono mesto e reverenziale: «Io non ne so niente, ma c’è un’infermiera che sta cercando un malato e io mi sono chiesto se non avesse la febbre. Non ho infranto le Tradizioni, vero?»

«E mi parlate di Tradizioni, voi due? Tornate al vostro lavoro e lasciate che di questo mi occupi io.»

L’ometto si sfregò le mani, si guardò intorno e poi si diresse a nord.

«Eccolo!» Pola strinse con forza il gomito del compagno. Era accaduto rapidamente, quasi accidentalmente. Quando ormai disperavano di trovarlo, si era materializzato nell’ingresso principale del supermercato, a nemmeno tre isolati dal Ristomat.

«Lfho visto» disse Arvardan. «Adesso stia dietro di me, lo seguiremo.

Se la vedesse e fuggisse tra la folla, potremmo non riprenderlo più.»

Lo seguirono cercando di non dare nell’occhio, in una specie di caccia d’incubo. La folla del supermercato era una palude di sabbie mobili che poteva inghiottirlo da un momento all’altro e aiutarlo a nascondersi: una barriera che non avrebbe ceduto, come dotata di una malevola volontà propria.

Arvardan passò cautamente intorno a un banco, seguendo Schwartz come se avesse abboccato a un’invisibile canna da pesca. Poi allungò una grande mano e l’abbassò sulla spalla dell’altro.

Schwartz esclamò qualcosa di incomprensibile e cercò furiosamente di svincolarsi, ma la stretta di Arvardan era fortissima e a beneficio dei curiosi disse: «Ehi, vecchio mio, sono mesi che non ti si vede. Come stai?».

Una pietosa bugia, considerato l’incomprensibile balbettio dell’altro, ma nel frattempo era arrivata Pola.

«Schwartz» disse «venga immediatamente con noi.»

Per un attimo Schwartz tentò di fare resistenza, poi abbassò le spalle.

Disse stancamente: «Vengo... con voi...» ma le parole furono soffocate dagli altoparlanti del negozio.

«Attenzione! Attenzione! La direzione prega tutti i clienti di uscire ordinatamente dalla porta sulla Quinta Strada. È essenziale che questo avvenga rapidamente. Attenzione! Attenzione!»

Il messaggio fu ripetuto tre volte, l’ultima quando già i clienti avevano cominciato a fare la fila all’uscita. Molti cominciavano a porsi l’eterna e insolubile domanda: «Cos’è stato? Che sta succedendo?».

Arvardan si strinse nelle spalle e disse: «Mettiamoci in fila, signorina, ce ne andremo lo stesso». Pola scosse la testa. «Non possiamo. Non possiamo...»

«Perché no?» L’archeologo alzò le sopracciglia.

La ragazza si limitò a scuotere la testa. Come poteva dirgli che Schwartz non aveva carta di registrazione? E chi era lui, perché la aiutava? Era combattuta tra i sospetti e la disperazione.

Alla fine disse: «Se ne vada o per lei saranno guai».

Dagli ascensori si riversava la gente dei piani superiori. Arvardan, Pola e Schwartz erano unapiccola isola di solidità nella corrente umana.

In seguito, riflettendo sulla faccenda, Arvardan si rese conto che in quel momento avrebbe potuto abbandonare la ragazza. Abbandonarla! Non vederla più! Non avrebbe avuto niente da rimproverarsi, ma tutto sarebbe stato diverso e l’impero galattico si sarebbe dissolto nel caos e nella distruzione.

No, non l’avrebbe lasciata. Disperata com’era non si poteva certo definire carina, ma Arvardan si sentì commosso dalla sua totale fragilità.

Si era allontanato di un passo, ma ora tornò a girarsi. «Lei rimane qui?»

Pola annuì.

«Perché?»

«Perché...» e le lacrime cominciarono a scenderle sulle guance «...non so che cos’altro fare.»

Era solo una ragazza spaventata, anche se era una terrestre.

L’archeologo disse con voce più tranquilla: «Se mi dice cos’è che non va, cercherò di aiutarla».

Non ci fu risposta.

I tre formavano un quadro. Schwartz si era rannicchiato sul pavimento, troppo avvilito per cercare di seguire la conversazione o per meravigliarsi dell’improvviso sfollamento del negozio. Nascose la faccia tra le mani in un ultimo e inascoltato gemito di disperazione. Pola, piangendo, sapeva solo di essere più spaventata di quanto avesse mai ritenuto possibile.

Arvardan cercava senza troppo successo di confortare la ragazza, battendole la mano sulla spalla. Per la prima volta in Vita sua aveva toccato una terrestre.

L’ometto li sorprese in quel momento.