3.

Un mondo, o parecchi?

Bel Arvardan, appena intervistato dalla stampa sull’imminente spedizione alla Terra, si sentiva in pace con tutta la galassia e le centinaia di milioni di sistemi che componevano l’impero. Non era più questione di essere conosciuto in questo o quel settore: appena le sue teorie fossero state provate, la fama lo avrebbe consacrato in ogni angolo della Via Lattea, su ogni pianeta dove l’uomo avesse messo piede nelle centinaia di migliaia d’anni da quando era cominciata l’espansione nello spazio.

E a quelle vette di notorietà, a quei puri e rarefatti vertici intellettuali e scientifici sarebbe assurto presto, anche se non facilmente. Aveva appena trentacinque anni e già la sua carriera era costellata di controversie.

L’ascesa di Arvardan era cominciata con una bomba che aveva fatto tremare le mura dell’Università di Arturo, quando, all’età inaudita di ventitré anni, aveva meritato il titolo di Archeologo Anziano presso quella istituzione. L’esplosione - non meno efficace perché metaforica - era stata provocata dal rifiuto, da parte della Rivista della Società Archeologica Galattica, di pubblicare la tesi di Arvardan. Per la prima volta nella storia di quella università la tesi di un Anziano veniva respinta e per la prima volta nella storia della rivista il rifiuto veniva espresso in termini così brutali.

A un profano tanta avversione contro un oscuro e smilzo libello intitolato Sull’antichità dei manufatti rinvenuti nel settore di Sirio, con considerazioni sull’applicazione a tale area della Teoria espansionistica dette ori umane, sarebbe parsa del tutto incomprensibile. La questione centrale, tuttavia, era che fin dall’inizio Arvardan aveva fatto sua l’ipotesi

- avanzata in precedenza da certi gruppi mistici più interessati alla metallica che all’archeologia - secondo cui l’umanità si sarebbe originata su un singolo pianeta per irradiarsi graduai munte nella galassia. Era il cavallo di battaglia degli scrittori fantastici e la bête noire di qualsiasi rispettabile archeologo imperiale. Ma Arvardan era diventato una potenza con cui anche gli scienziati più ortodossi non potevano fare a meno di misurarsi e nel giro di dieci anni si era affermato come la massima autorità sui reperti delle culture pre-imperiali; perché negli angoli arretrati e provinciali della galassia se ne trovavano ancora,

Tanto per fare un esempio, Arvardan aveva scritto una monografia sulla civiltà meccanizzata del settore di Rigel; laggiù, il perfezionamento dei robot aveva dato luogo a una cultura separata che era durata per secoli, finché la stessa perfezione degli schiavi meccanici aveva ridotto spaventosamente l’iniziativa umana: a quel punto, la flotta armata dell’ammiraglio Moray aveva espugnato facilmente il sistema. L’archeologia ortodossa insisteva sull’evoluzione indipendente dei vari tipi umani sui diversi pianeti e considerava le culture a tipiche, come quella di Rigel, la prova decisiva che esistevano differenze razziali non ancora smussate dall’integrazione. Arvardan aveva indebolito efficacemente quel punto di vista dimostrando che la cultura meccanizzata di Rigel non era altro che la naturale conseguenza delle pressioni economico-sociali in atto a quel tempo nella regione.

C’era poi la questione dei mondi barbari di Ofiuco, che gli ortodossi ritenevano tipici dei primi stadi di sviluppo dell’umanità e che ancora non avevano raggiunto il volo interstellare. I libri di testo si servivano di quei mondi come del modo migliore per dimostrare la teoria della fusione, secondo la quale l’uomo rappresentava l’apice evolutivo di tutti i pianeti a base acqua-ossigeno e con determinate caratteristiche di temperatura e gravita, La teoria proseguiva affermando che i ceppi umani, per quanto indipendenti, potevano unirsi fra loro in matrimonio e che infatti, quando scoprivano il volo interstellare, tale fusione avveniva puntualmente.

Sempre su Ofiuco, però, Arvardan aveva scoperto tracce di civiltà molto più antiche di quella attuale, dimostrando che i documenti più remoti del pianeta facevano presagire la pratica del commercio interstellare. Il tocco finale era stato dato quando Arvardan aveva dimostrato che l’emigrazione nella regione era avvenuta in un precedente stadio di civiltà.

In seguito a queste scoperte, la Riv. Soc. Arch. Gal. (per chiamarla con la sua abbreviazione professionale) aveva deciso di pubblicare la tesi di Arvardan, sia pure con dieci anni di ritardo.

Ora, inseguendo la sua teoria preferita, l’archeologo stava per sbarcare su quello che sembrava il più insignificante pianeta dell’impero: la Terra.

Arvardan atterrò in quel lembo dei possedimenti imperiali che si stendeva fra le desolate altitudini dell’altopiano a nord dell’Himalaya. In quel luogo, dove non c’era né c’era mai stata radioattività, sorgeva un palazzo di fattura non terrestre: in sostanza era una copia dei palazzi vicereali che sorgevano sui mondi più fortunati. Il lusso discreto della costruzione era fatto per offrire tutte le comodità. La terribile roccia era stata coperta di terra, irrigata e immersa in un clima e un’atmosfera artificiali. Il risultato erano ottomila metri quadri di prati e giardini fioriti.

Il costo in termini energetici di un tale sforzo era proibitivo per le possibilità terrestri, ma aveva alle spalle le ricchezze di decine di milioni di pianeti, che per giunta aumentavano continuamente. (Si è calcolato che nell’anno 827 dell’Era Galattica ogni giorno cinquanta nuovi mondi venissero elevati al rango di province, condizione che richiedeva il raggiungimento del mezzo miliardo di abitanti.) In quell’angolo così poco terrestre viveva il Procuratore della Terra, che a volte, tra i suoi lussi artificiali, dimenticava di essere amministratore di un mondo da due soldi e si consolava al pensiero di discendere da una grande e nobile famiglia.

Sua moglie era di meno facile contentatura, specie . quando saliva in cima a un cocuzzolo erboso e vedeva in lontananza la linea netta e decisa che divideva la ,_ tenuta dalle spaventose desolazioni della Terra. Era allora che le fontane colorate (luminose di notte, come per effetto di un fuoco liquido), i viali fioriti o i boschetti idilliaci non bastavano più a compensarli della consapevolezza del proprio esilio.

Per questa ragione Arvardan fu ricevuto con onori anche maggiori di quelli che richiedeva il protocollo. Agli occhi del Procuratore egli rappresentava il soffio dell’impero, dello spazio e della mancanza di confini.

Da parte sua l’archeologo trovò molte cose da ammirare: «La residenza è costruita molto bene e con gusto. È straordinario notare come un tocco della cultura centrale si possa trovare anche nei mondi più periferici, Procuratore Ennius».

L’altro sorrise. «Temo che la nostra residenza sia più gradevole per una visita che come dimora della vita. È un guscio che suona cavo: a parte me e la mia famiglia, il personale, la guarnigione imperiale e qualche ospite di tanto in tanto, non resta altro della cultura centrale. Le assicuro che non è molto.»

Sedevano nel colonnato, al tramonto. Il sole scintillava sulle dentellature violacee dell’orizzonte già avvolte dalla nebbia. L’aria era così fragrante di fiori e piante che ogni soffio era come un sospiro.

Ovviamente a un Procuratore non si confaceva il dimostrare eccessiva curiosità per gli affari di un ospite, ma l’etichetta non tiene conto dell’inumano isolamento che patisce chi è lontano dal centro dell’impero.

Ennius chiese: «Pensa di rimanere un poco con noi, dottor Arvardan?».

«Non posso dirlo con certezza, Procuratore. Ho preceduto il resto della spedizione per familiarizzarmi con la cultura terrestre e sbrigare le necessarie formalità legali. Per esempio, ho bisogno di ottenere da lei il permesso ufficiale di impiantare campi nei luoghi necessari e così via.»

«Senz’altro, senz’altro! Ma quando comincerà a scavare? E che cosa si aspetta di trovare, su questo miserabile mucchio di spazzatura?»

«Se tutto va bene, spero di impiantare il primo campo fra qualche mese.

Quanto al suo pianeta... non è affatto un mucchio di spazzatura. È unico nella galassia.»

«Unico?» fece il Procuratore, irrigidendosi. «Non mi pare proprio! È un mondo comunissimo, un porcile, un cesso... Qualunque termine dispregiativo le venga in mente. Ma nonostante lo schifo che ti sale fino agli occhi, non può nemmeno vantarsi di essere il mondo peggiore della galassia. La verità è che rimane un pianeta qualunque, di bruti e contadini.»

Preso in contropiede dalla foga irrazionale del Procuratore, Arvardan riuscì solo a obbiettare: «Ma è un mondo radioattivo».

«Be’, e allora? Migliaia di pianeti sono radioattivi e alcuni molto più della Terra.»

Fu in quel momento che il fruscio del bar mobile attirò la loro attenzione. Si fermò a pochi centimetri dai due uomini.

Ennius fece un gesto e chiese: «Cosa preferisce?».

«Niente di speciale. Un cocktail alla limetta, magari.»

«L’abbiamo, nel bar ci sono gli ingredienti... Con o senza chensey?»

«Solo un pizzico» rispose l’archeologo avvicinando il pollice e l’indice.

«Sarà pronto fra un attimo.»

Nelle viscere del bar mobile (che di tutte le invenzioni umane era la più popolare e diffusa) il barista entrò in azione. Non si trattava, naturalmente, di un barista umano e la sua anima elettronica mescolava gli ingredienti non a occhio ma contando gli atomi, in modo che la dosatura fosse sempre perfetta. L’ispirazione e il gusto di un semplice essere umano non potevano competere.

I bicchieri da cocktail apparvero all’improvviso nelle apposite nicchie.

Arvardan prese quello verde e, per un attimo lo appoggiò alla guancia per sentirne il fresco. Poi assaggiò.

«Perfetto.» Inserì il bicchiere nell’apposita cavità del bracciolo e disse:

«Migliaia di pianeti radioattivi, Procuratore, ha ragione. Ma solo uno è abitato. Questo, Procuratore».

«Be’...» Ennius affondò le labbra nella bevanda e dopo averla assaggiata sembrò perdere un po’ della sua amarezza. «Forse sotto questo aspetto è unico. Non è una distinzione invidiabile.»

«Qui non si tratta di unicità statistica.» Arvardan parlava lentamente fra un sorso e l’altro. «Si va oltre, ci sono straordinarie potenzialità. I biologi hanno dimostrato, o affermano di aver dimostrato, che sui pianeti in cui la radioattività marina e atmosferica è al di sopra di certi livelli, la vita non può svilupparsi. E la radioattività terrestre è parecchio al di sopra di tale margine.»

«Interessante, non lo sapevo. Immagino che questo dimostri che le forme di vita terrestri sono radicalmente diverse da quelle che esistono nel resto della galassia: dovrebbe farle piacere, visto che lei è di Sirio.» La cosa sembrò divertirlo, perché aggiunse con aria sardonica: «Lo sa che il compito più difficile nell’amministrazione di questo pianeta consiste nel tener testa all’antiterrestrismo che esiste in tutto il settore siriano? E il sentimento è ricambiato, con gli interessi, dai terrestri. Non voglio dire che l’avversione per la Terra non esista, in forme più o meno diluite, in parecchie zone della galassia, ma non come a Sirio».

La risposta di Arvardan fu impaziente e appassionata: «Procuratore Ennius, respingo l’insinuazione. Sono uno degli uomini meno intolleranti che esistano perché credo nell’unicità della razza umana, idea su cui si basano le mie convinzioni scientifiche. Questo vale anche per la Terra. La vita è fondamentalmente una nel senso che si basa su catene di molecole di acidi nucleici e complessi proteici in dispersione colloidale. Gli effetti della radioattività cui ho accennato non valgono soltanto per l’umanità ma per qualsiasi organismo, poiché tutta la vita si basa sulla meccanica dei quanti di queste macromolecole. La regola vale per lei, per me, per i terrestri, i ragni e i germi.

«Come lei sa, le proteine e gli acidi nucleici sono complicatissimi raggruppamenti di nucleotidi di amminoacidi e altri composti specializzati.

Essi formano delicati modelli tridimensionali, instabili come un raggio di sole in una giornata nuvolosa. È proprio questa instabilità che costituisce la vita perché il modello è costretto continuamente a cambiare posizione per mantenere la propria identità, come una pertica in equilibrio sul naso di un acrobata.

«Ma prima che la vita sia possibile, queste meravigliose combinazioni chimiche devono essere costruite a partire da materia inorganica.

All’inizio, dunque, per effetto dell’energia radiante del sole su quelle immense soluzioni che chiamiamo oceani, le molecole organiche accrescono gradualmente la propria complessità ed evolvono dal metano alla formaldeide fino agli zuccheri e agli amidi, dall’urea ai nucleotidi fino agli acidi nucleici e dall’urea fino agli amminoacidi e alle proteine.

Ovviamente queste combinazioni-disintegrazioni di atomi dipendono dal caso e su un dato mondo possono richiedere milioni di anni mentre su un altro poche centinaia. Ma è più probabile che ce ne vogliano milioni, anzi, la cosa più probabile è che i processi della vita non comincino affatto.

«Ora, i chimici organici hanno elaborato con grande esattezza la sequenza delle reazioni necessarie al processo, in particolare quelle energetiche: voglio dire i rapporti energetici che si stabiliscono in ogni cambiamento atomico. È ormai noto, senza ombra di dubbio, che molti passi cruciali nella costruzione della vita richiedono l’assenza di energia radiante. Se questo le sembra strano, Procuratore, posso dirle soltanto che la fotochimica (la chimica delle reazioni indotte dall’energia radiante) è una branca ben sviluppata della scienza e che molte semplici reazioni daranno esito diverso a seconda che siano avvenute o meno in presenza di energia luminosa.

«Sui pianeti ordinari il sole è l’unica fonte di energia radiante, o almeno di gran lunga la più potente. Al riparo delle nubi, o di notte, i composti del carbonio e dell’azoto si combinano e ricombinano nei modelli resi possibili dall’assenza dei piccoli quanti di energia scagliati nel loro mezzo dal sole, e che possiamo paragonare ad altrettante palle lanciate tra un numero sterminato di piccolissimi birilli.

«Ma sui mondi radioattivi, sole o non sole, ogni goccia d’acqua (anche nella notte più nera, anche a ottomila metri di profondità) brilla e brucia di raggi gamma che agiscono sugli atomi di carbonio: li “attivano”, come dicono i chimici, e determinano reazioni obbligate che procedono in un’unica direzione senza risolversi mai nella vita.»

La bevanda di Arvardan era finita. Posò il bicchiere vuoto sul bar e lo vide immediatamente ritirare nell’apposito compartimento dove fu lavato, sterilizzato e preparato per il prossimo brindisi.

«Un altro?» chiese Ennius.

«Me lo chieda dopo cena» rispose Arvardan. «Per adesso basta.»

Ennius batté un’unghia molto lunga sul bracciolo della poltrona. «Lei ha la virtù di rendere affascinanti questi problemi. Se le cose stanno come dice, come ha potuto formarsi la vita sulla Terra? Come si è sviluppata?»

«Ah, anche lei comincia a farsi delle domande. Credo che la risposta sia molto semplice: la radioattività in eccesso impedisce il formarsi della vita ma non distrugge necessariamente le forme già sviluppate. Potrebbe modificarle, ma salvo in casi estremi non le distruggerebbe. Vede, la chimica dei due casi è diversa: nel primo le semplici molecole vengono arrestate nel processo di sviluppo, nel secondo bisognerebbe che fossero fatte regredire. Non è la stessa cosa.»

«Ancora non vedo il punto.»

«Non è ovvio? La vita sulla Terra ha avuto origine prima che il pianeta diventasse radioattivo. Mio caro Procuratore, è la sola spiegazione possibile se non si vuoi negare l’esistenza della vita su questo mondo o la chimica quale noi la conosciamo.» Ennius guardò l’archeologo con assoluta incredulità. «Non può pensare questo.»

«Perché no?»

«Perché come può un pianeta diventare radioattivo? La parabola degli elementi radioattivi nella crosta richiede milioni e miliardi di anni: almeno questo l’ho imparato, prima di specializzarmi in legge. La loro presenza sulla Terra deve essere antichissima.»

«D’altra parte esiste la radioattività artificiale, Procuratore Ennius.

Anche su vasta scala. Ci sono migliaia di reazioni nucleari che sviluppano energia sufficiente a creare ogni sorta d’isotopi radioattivi. Supponiamo che gli esseri umani usassero nell’industria reazioni nucleari controllate senza le dovute precauzioni. O se ne servissero nella guerra (ammesso di riuscire a immaginare una guerra limitata a un solo pianeta): gli elementi della crosta sarebbero stati convertiti, in gran parte, in materiali radioattivi.

Che mi risponde?»

Il sole era sceso dietro le montagne lasciando una chiazza scarlatta che si rifletteva sul volto dì Ennius. Si alzò la brezza e gli insetti accuratamente selezionati che popolavano il giardino cominciarono a frinire nel modo più rilassante.

Il Procuratore disse: «Mi sembra molto artificioso. Innanzitutto non riesco a immaginare l’uso bellico dell’energia atomica o l’eventualità di una reazione incontrollata,.,».

«È ovvio, Procuratore, che lei tenda a sottovalutare le reazioni nucleari perché vive in un’epoca in cui sono facilmente imbrigliate. Ma se qualcuno, ad esempio un esercito, avesse adoperato armi del genere prima che venisse scoperto il modo di difendersi? Sarebbe come usare bombe incendiarle prima di rendersi conto che l’acqua, o la sabbia, estinguono il fuoco.»

«Hmm» mormorò Ennius. «Lei parla come Shekt.»

«Chi è?» Arvardan alzò gli occhi rapidamente.

«Un terrestre, uno dei pochi decenti. Voglio dire... un uomo col quale un nobile può parlare. È un fisico e una volta mi ha detto che la Terra potrebbe non essere stata sempre radioattiva.»

«Ah, non è affatto strano: non è una teoria escogitata da me. Fa parte del Libro degli Anziani, che contiene la Storia tradizionale o mitica dell’antichissima Terra, Io dico le stesse cose ma trasformo il fraseggio nebuloso del Libro in affermazioni scientifiche.»

«Il Libro degli Anziani?» Ennius sembrava sorpreso. «Dove se lo è procurato?»

«Qui e là. Non è stato facile e ho potuto ottenerne soltanto delle parti. Le informazioni leggendarie sulla non-radioattività, anche se poco attendibili scientificamente, sono importanti nel mio lavoro, Perché me lo ha chiesto?»

«Perché è il testo sacro di una setta molto radicale. Agli Esterni non è permesso leggerlo, ma finché lei sarà qui non dirò che lo ha fatto. Nonterrestri, o Esterni come vengono chiamati dai componenti la setta, sono stati linciati per molto meno.»

«Ne parla come se la polizia imperiale non fosse troppo efficiente, quaggiù.»

«È così, nei casi di sacrilegio, Uomo avvistato, dottor Arvardan,»

Risuonò una nota melodiosa che sembrava armonizzare con il fruscio delle foglie. Si spense lentamente, come se amasse indugiare nel giardino del palazzo.

Ennius si alzò. «Credo sia pronta la cena. Vuole unirli a me, dottore, e godere dell'ospitalità che quest’avamposto dell’impero in Terra può offrirle?»

Le occasioni di preparare pranzi elaborati non capitavano spesso e qualsiasi pretesto, anche il più debole, doveva essere sfruttato. I piatti furono parecchi, l’ambiente lussuoso, gli uomini educati e le donne ammalianti. E il dottor B. Arvardan di Baronn, Sirio, ne fu conquistato fino in fondo.

Arvardan approfittò del fatto dì avere degli ascoltatori e nella seconda parte del banchetto ripeté molte delle cose che aveva detto a Ennius. A tavola, tuttavia, la sua esposizione incontrò decisamente meno favore.

Un florido gentiluomo con l’uniforme di colonnello si piegò verso di lui con la classica condiscendenza del militare per l’uomo di scienza e disse:

«Se ho interpretato correttamente le sue parole, dottore, lei vuoi dirci che questi cani della Terra rappresentano una razza antichissima e che potrebbero essere i progenitori di tutta l’umanità?».

«Esito, colonnello, a dichiararlo con tanta franchezza ma direi che ci sono buone possibilità. Spero di poter dare un giudizio accurato fra un anno.»

«Se scoprirà che le cose stanno così, dottore (ma ne dubito), lei mi avrà sorpreso nel modo più clamoroso» riprese il colonnello. «Mi trovo quaggiù da quattro anni e la mia esperienza non è delle più trascurabili. A mio giudizio i terrestri non sono che fuorilegge e tagliagole. Sono inferiori intellettualmente a noi, questo è sicuro. Non hanno la scintilla che è servita all’umanità per diffondersi nella galassia: sono pigri, superstiziosi, gretti e senza traccia di nobiltà d’animo. Sfido lei, o chiunque altro, a mostrarmi un terrestre che possa dirsi in ogni senso uguale a un vero uomo: lei o me, ad esempio; solo allora le concederò che possa rappresentare la razza dei nostri antenati. Ma fino a quel momento mi scusi se mi dissocio completamente dalla sua ipotesi.»

Intervenne un uomo corpulento all’estremità del tavolo: «Dicono che l’unico terrestre buono è il terrestre morto, e anche allora puzza». E scoppiò a ridere grossolanamente.

Arvardan aggrottò la fronte e senza alzare gli occhi dal piatto disse:

«Non voglio parlare di differenze razziali, anche perché in questo caso sarebbe irrilevante. Io mi riferisco ai terrestri della preistoria: i loro discendenti sono rimasti a lungo isolati e hanno dovuto imparare a vivere in un ambiente insolito. Nonostante questo, non li tratterei con troppa sufficienza».

Si girò verso Ennius e disse: «Procuratore, credo che prima di cena lei abbia fatto il nome di un terrestre».

«Davvero? Non ricordo.»

«Un fisico, un certo Shekt.»

«Oh, sì. Sì.»

«Affret Shekt, per caso?»

«Certo. Ha sentito parlare di lui?»

«Credo di sì. Ci penso da tutta la sera e adesso ritengo di averlo inquadrato. Non lavora per caso all’Istituto per le Ricerche Nucleari a...

Come si chiama quel maledetto posto?» Si batté il palmo sulla fronte un paio di volte. «A Chica?»

«È proprio lui. Che cosa ne sa?»

«Soltanto quello che ho detto. Ho letto un suo articolo nel numero di agosto della «Rivista di fisica». L’ho notato perché cercavo qualunque informazione che riguardasse la Terra e gli articoli dei terrestri sulle riviste a diffusione galattica sono molto rari. Comunque, quell’uomo afferma di aver messo a punto un apparecchio che chiama sinapsi-ficatore e che dovrebbe migliorare le capacità di apprendimento da parte del sistema nervoso dei mammiferi.»

«Davvero?» chiese Ennius, un po’ troppo tagliente. «Non ne so niente.»

«Posso trovarle l’articolo: è abbastanza interessante, anche se non pretendo di capire i passaggi matematici. Shekt ha trattato col sinapsificatore alcuni animaletti originari della Terra - topi, credo che li chiamino

- e in seguito li ha messi in un labirinto. Sapete di che esperimenti si tratta: si mette l’animale in un dedalo e si vede se riesce a scoprire la strada che porta a un boccone di cibo. Ha usato topi non trattati come cavie di controllo e ha scoperto che i loro colleghi sottoposti alla macchina scoprivano la strada che portava al cibo in meno di up terzo del tempo.

Vede il punto, colonnello?»

Il militare che aveva cominciato la discussione rispose con indifferenza:

«No, dottore, onestamente no».

«Allora cercherò di essere più chiaro. Credo fermamente che qualsiasi scienziato capace di svolgere un lavoro del genere, anche un terrestre, sia perlomeno mio uguale dal punto di vista intellettuale, e, se mi perdona la presunzione, anche suo uguale.»

Ennius lo interruppe. «Mi scusi, dottor Arvardan, vorrei tornare al sinapsi-ficatore. Shekt lo ha sperimentato anche su esseri umani?»

Arvardan rise. «Ne dubito, Procuratore Ennius.

Nove topi su dieci di quelli sottoposti all’esperimento sono morti durante il trattamento. Non credo che Shekt si azzarderà a usare cavie umane finché non si saranno fatti progressi.»

Ennius si appoggiò allo schienale della poltrona con un solco sulla fronte e non disse una parola né toccò cibo per il resto della serata.

Prima di mezzanotte il Procuratore aveva silenziosamente lasciato la compagnia e, con un’unica parola rivolta alla moglie, si era imbarcato sul velivolo privato che in due ore l’avrebbe condotto a Chica. Aveva ancora la fronte aggrottata e il cuore un po’ pesante.

Così, lo stesso pomeriggio in cui Arbin Maren condusse Joseph Schwartz a Chica per offrirlo come volontario negli esperimenti di Shekt, l’inventore del sinapsi-ficatore rimase a colloquio per oltre un’ora col Procuratore della Terra.