La clinica Hobbs, fondata dal celebre chirurgo Ebanizer Hobbs nella sua stessa casa, era una palazzina dall'aspetto solido ed elegante in pieno centro di Kensington nella quale vennero abbattute delle pareti, murate alcune finestre e disseminate piastrelle fino a trasformarla in una stramberia. La sua presenza in quella via esclusiva disturbava a tal punto i vicini che i successori di Hobbs non ebbero difficoltà a comprare le case adiacenti per ingrandire la clinica, conservandone le facciate edoardiane, in modo che esternamente non si differenziava in alcun modo dalle file di abitazioni dell'isolato, tutte identiche. All'interno era un labirinto di stanze, scale, corridoi e finestrine interne che non davano su niente. Non c'era, come nei vecchi ospedali della città, il tipico anfiteatro da interventi con l'aspetto da agone di corride – un'arena centrale coperta da segatura o sabbia, contornata da loggioni per gli spettatori – bensì piccole sale operatorie con pareti, soffitto e pavimenti rivestiti di piastrelle e lastre metalliche che venivano spazzolate con detersivo e candeggina una volta al giorno, perché il defunto dottor Hobbs era stato uno dei primi ad accettare la teoria di Koch relativa alla trasmissione delle infezioni e ad adottare i metodi d'asepsi di Lister che la maggior parte del corpo medico rifiutava ancora per spocchia o pigrizia. Non era facile sradicare le vecchie abitudini; l'igiene era tediosa, complicata e interferiva con la rapidità operatoria, ritenuta segno distintivo della perizia di un chirurgo perché diminuiva il rischio di choc e di emorragie. Diversamente da molti suoi colleghi, convinti che le infezioni si producessero spontaneamente all'interno dell'organismo del malato, Ebanizer Hobbs capì immediatamente che i germi erano esterni, che provenivano dalle mani, dal pavimento, dagli strumenti e dall'ambiente e per questo motivo cospargeva tutto con una pioggia di fenolo, dalle ferite all'aria stessa della sala chirurgica. Ne respirò talmente tanto il pover'uomo che si ritrovò la pelle ulcerata da piaghe e morì prima del tempo a causa di una malattia renale, evento che indusse i suoi detrattori ad abbarbicarsi ai loro antiquati convincimenti. I discepoli di Hobbs, tuttavia, analizzarono l'aria e scoprirono che i germi non fluttuavano come invisibili rapaci pronti ad attaccare subdolamente, ma si concentravano sulle superfici sporche; l'infezione si produceva per contatto diretto e dunque era essenziale pulire a fondo gli strumenti, utilizzare bende sterili e i chirurghi non solo dovevano lavarsi con grande scrupolosità, ma, dove possibile, utilizzare guanti di caucciù. Non si trattava dei rozzi guanti utilizzati dagli anatomopatologi per sezionare i cadaveri o da qualche operaio che manipolava sostanze chimiche, ma di un prodotto morbido e sottile come la pelle umana, fabbricato negli Stati Uniti. La loro era una storia romantica: un medico, innamoratosi di un'infermiera, aveva deciso di proteggerla dagli eczemi causati dai disinfettanti e aveva commissionato i primi guanti di gomma poi adottati dai chirurghi per le operazioni. Tutto questo, Paulina del Valle l'aveva letto con attenzione su alcune riviste scientifiche prestatele dal suo parente don José Francisco Vergara, che a quei tempi, ammalato di cuore, si era ritirato nel suo palazzo di Viña del Mar, ma continuava a essere il grande studioso di sempre. La nonna non solo aveva scelto ottimamente il medico che l'avrebbe operata, con il quale si era messa in contatto dal Cile con diversi mesi di anticipo, ma aveva ordinato a Baltimora diverse paia dei famosi guanti di gomma, che viaggiavano ben impacchettati nel baule della sua biancheria intima.
Paulina del Valle inviò Frederick Williams in Francia a indagare sul tipo di legno usato per le botti in cui far fermentare il vino e a cercare di esplorare l'industria dei formaggi, visto che non c'era nessuna buona ragione che impedisse alle vacche cilene di produrre formaggi altrettanto saporiti di quelli delle vacche francesi, che non erano certamente meno stupide di loro. Durante la traversata della cordigliera delle Ande, e successivamente sul transatlantico, ebbi modo di osservare da vicino la nonna e mi resi conto che qualcosa di fondamentale iniziava a indebolirsi in lei, e non si trattava della volontà, la lucidità o l'avidità, bensì della fierezza. Era diventata dolce, morbida e talmente distratta da passeggiare sulla coperta della nave tutta vestita di mussola e perle, ma senza dentiera. Era palese che la notte non dormiva bene, mostrava occhiaie evidenti e aveva sempre un'aria sonnolenta. Aveva perso molto peso, quando si toglieva il corsetto le sue carni pendevano flosce. Desiderava avermi sempre accanto, "così non civetti con i marinai", celia crudele visto che a quell'età la mia timidezza era talmente incondizionata che bastava un innocente sguardo maschile nella mia direzione per farmi arrossire come un gambero. Il vero motivo era che Paulina del Valle si sentiva fragile e aveva bisogno che rimanessi al suo fianco per distrarre la morte. Non faceva parola dei suoi mali, anzi, diceva di aver intenzione di passare qualche giorno a Londra per poi proseguire verso la Francia e occuparsi della questione delle botti e del formaggio, ma intuii fin dall'inizio che i suoi progetti erano altri, come risultò evidente non appena arrivammo in Inghilterra e iniziò la sua opera di diplomazia per convincere Frederick Williams a partire da solo, perché noi dovevamo fare delle compere e ci saremmo riunite con lui successivamente. Non so se Williams se ne andò senza sospettare che la moglie era ammalata o se colse la verità e, comprendendo il suo pudore, decise di lasciarla in pace; a ogni buon conto, ci fece sistemare all'Hotel Savoy, e una volta sicuro che non ci mancasse niente, si imbarcò per la traversata della Manica senza particolare entusiasmo.
La nonna non desiderava testimoni della sua decadenza ed era particolarmente riservata con Williams. Ciò faceva parte di una civetteria che aveva acquisito con il matrimonio, un tratto assente quando lui era il suo maggiordomo. Allora non aveva avuto il minimo scrupolo a mostrargli i lati peggiori del suo carattere e a presentarsi dinanzi a lui come capitava; in seguito, invece, aveva iniziato a cercare di far colpo su di lui, dandogli l'immagine migliore di sé. Teneva molto a quella relazione autunnale e non voleva che la cattiva salute nuocesse al solido edificio della sua vanità; per questo motivo aveva cercato di allontanare il marito, e se non mi fossi impuntata avrebbe emarginato anche me. Dovetti combattere per ottenere il permesso di accompagnarla alle visite mediche, ma alla fine, davanti alla mia testardaggine e alla sua debolezza, si era arresa. Era sofferente e non riusciva quasi più a deglutire e, anche se era solita scherzare sugli inconvenienti dell'inferno e il tedio del cielo, non sembrava spaventata. La clinica Hobbs ispirava fiducia sin dalla soglia, con il suo atrio rivestito di scaffali pieni di libri e ritratti a olio dei chirurghi che avevano esercitato la loro professione tra quelle mura. Ci ricevette un'inappuntabile infermiera che ci condusse nello studio del dottore, una sala accogliente arredata con un camino in cui crepitava il fuoco di grandi ciocchi e con eleganti mobili inglesi di pelle marrone. L'aspetto del dottor Gerald Suffolk era impressionante quanto la sua fama. Aveva un'aria teutonica, era imponente e colorito, e una grossa cicatrice sulla guancia, lungi dall'imbruttirlo, lo rendeva indimenticabile. Sulla scrivania giacevano la corrispondenza tenuta con la nonna, le relazioni degli specialisti cileni consultati e il pacchetto con i guanti di gomma che gli aveva fatto arrivare quel mattino stesso tramite un fattorino. Venimmo poi a sapere che era stata una precauzione inutile, dal momento che nella clinica si utilizzavano già da tre anni. Suffolk ci diede il benvenuto come se si fosse trattato di una visita di cortesia, offrendoci un caffè turco aromatizzato con semi di cardamomo. Condusse la nonna in una stanza adiacente e, dopo averla visitata, tornò nello studio e si mise a sfogliare un librone in attesa del suo ritorno. La paziente ricomparve immediatamente e il chirurgo confermò la diagnosi dei medici cileni: la nonna era affetta da un tumore gastrointestinale. Aggiunse che l'operazione era rischiosa per la sua età avanzata e per il fatto che gli studi erano ancora in fase sperimentale, ma lui aveva messo a punto una tecnica perfetta per simili casi, che molti medici da tutto il mondo venivano a imparare. Si esprimeva con un tono di tale superiorità che mi tornò in mente l'opinione del maestro Juan Ribero, secondo il quale la vanagloria è prerogativa degli ignoranti; il saggio è umile perché sa di sapere poco. La nonna pretese che le spiegasse in dettaglio cosa pensava di fare su di lei, richiesta che sorprese il medico, abituato a pazienti che si consegnavano all'indiscutibile autorità delle sue mani con la passività di galline, ma di cui seppe immediatamente approfittare per dilungarsi in una conferenza durante la quale si rivelò più preoccupato di ammaliarci con il virtuosismo del suo bisturi, che non dello stato di salute della sfortunata paziente. Fece un disegno di viscere e organi che somigliava a un aggeggio infernale e ci indicò dove era ubicato il tumore, e come pensava di estirparlo, specificando anche il tipo di sutura, informazioni che Paulina del Valle accolse impassibile, ma che invece mi turbarono tanto che dovetti uscire dallo studio. Mi sedetti nell'atrio dei ritratti a pregare sottovoce. In realtà ero più spaventata per me che per lei, l'idea di rimanere sola al mondo mi terrorizzava. Stavo pensando a queste cose, rimuginando sulla mia possibile futura condizione di orfana, quando passò di lì un uomo che dovette notare il mio pallore perché si fermò. "Qualcosa non va, piccola?" domandò in castigliano con accento cileno. Negai con la testa, sorpresa, senza osare guardarlo in viso, non senza avergli però dedicato uno sguardo con la coda dell'occhio, dal momento che riuscii a stabilire che era giovane, con il viso ben rasato, gli zigomi alti, la mandibola decisa e occhi a mandorla; assomigliava all'illustrazione di Gengis Khan del mio libro di storia, anche se l'aria era meno feroce. Era tutto color miele, capelli, occhi, pelle, ma non c'era nulla di mieloso nel suo tono quando mi spiegò che era cileno come noi e che avrebbe assistito il dottor Suffolk durante l'intervento.
"La signora del Valle è in buone mani," disse senza un briciolo di modestia.
"Cosa può succedere se non la operate?" domandai tartagliando, come sempre mi succede quando sono molto nervosa.
"Il tumore continuerebbe a crescere. Ma non si preoccupi, cara, la chirurgia è progredita parecchio e sua nonna ha fatto molto bene a venire qui," concluse.
Avrei voluto sapere che cosa ci faceva un cileno da quelle parti e perché aveva quell'aspetto da tartaro – era facile immaginarselo con la lancia in mano, ricoperto di pelli – ma tacqui turbata. Londra, la clinica, i medici e il dramma della nonna erano più di quello che riuscivo a gestire da sola, facevo fatica a comprendere il pudore di Paulina del Valle circa la sua salute e il motivo per cui aveva spedito Frederick Williams dall'altra parte della Manica proprio quando avevamo maggiormente bisogno di lui. Gengis Khan mi diede un buffetto condiscendente sulla mano e se ne andò.
A dispetto delle mie pessimistiche previsioni, la nonna sopravvisse alla chirurgia e dopo la prima settimana, in cui la febbre si alzava e scendeva in modo incontrollabile, si stabilizzò e poté cominciare a nutrirsi di alimenti solidi. Non mi mossi dal suo fianco, se non per andare in albergo una volta al giorno a farmi un bagno e a cambiarmi, dato che l'odore di anestetici, farmaci e disinfettanti produceva una miscela vischiosa che si appiccicava alla pelle. Dormivo a tratti, seduta su una sedia di fianco alla malata. Nonostante il categorico divieto della nonna, il giorno stesso dell'operazione mandai un telegramma a Frederick Williams, che giunse a Londra trenta ore più tardi. Lo vidi perdere la sua proverbiale compostezza al capezzale di quella donna intontita dalle droghe, che gemeva a ogni respiro, con quattro peli in testa e senza denti, come una vecchietta incartapecorita. Si inginocchiò al suo fianco e appoggiò la fronte sulla mano esangue di Paulina del Valle, mormorando il suo nome; quando si alzò aveva il viso rigato di lacrime. La nonna, convinta che la gioventù non fosse una fase della vita, bensì uno stato d'animo, e che si godesse della salute che ci si meritava, in quel letto d'ospedale si sentiva completamente sconfitta. Quella donna, la cui fame di vita era pari alla sua golosità, aveva girato il viso contro il muro, indifferente a quanto la circondava, immersa in se stessa. La sua enorme forza di volontà, il suo vigore, la sua curiosità, il suo spirito d'avventura e persino la sua bramosia, tutto era stato cancellato dalla sofferenza del corpo.
In quei giorni ebbi molte occasioni di vedere Gengis Khan, che controllava lo stato della paziente e, com'era da aspettarsi, risultò più disponibile del celebre dottor Suffolk o delle severe infermiere della clinica. Rispondeva ai tormenti della nonna non già offrendo vaghe repliche consolatorie, ma argomentazioni razionali ed era l'unico che cercava di lenire la sua sofferenza, gli altri si interessavano unicamente dello stato della ferita e della febbre, ignorando i lamenti della paziente. Pretendeva forse di non sentire dolore? Doveva piuttosto tacere ed essere grata che le avessero salvato la vita. Il giovane dottore cileno invece non lesinava la morfina, convinto che sopportare il dolore minasse la resistenza fisica e morale del malato, ritardando o impedendo la guarigione, come chiarì a Williams. Venimmo a sapere che si chiamava Iván Radovic e proveniva da una famiglia di medici; suo padre era emigrato in Cile dai Balcani alla fine degli anni cinquanta, si era sposato con una maestra cilena del Nord e aveva avuto tre figli, due dei quali avevano seguito le sue orme nel campo della medicina. Suo padre, aggiunse, era morto di tifo nella Guerra del Pacifico, durante la quale aveva prestato servizio come chirurgo per tre anni, e sua madre aveva dovuto farsi carico della famiglia da sola. Ebbi modo di osservare il personale della clinica in tutta comodità, esattamente come ascoltai conversazioni che non erano destinate a orecchie quali le mie, perché nessuno, fatta eccezione per il dottor Radovic, diede mai segno di aver notato la mia presenza. Stavo per compiere sedici anni e giravo ancora con i capelli legati da un nastro e i vestiti scelti per me dalla nonna, che mi faceva cucire dei ridicoli abiti da bambinetta per trattenermi nell'infanzia il più a lungo possibile. La prima volta che indossai qualcosa di adeguato alla mia età fu quando Frederick Williams mi portò da Whiteney's senza il permesso della nonna e mise il negozio a mia disposizione. Quando tornammo all'hotel e mi presentai con i capelli raccolti in uno chignon e vestita da signorina, non mi riconobbe, ma questo sarebbe avvenuto alcune settimane dopo. Paulina del Valle doveva avere la resistenza di un bue; le aprirono lo stomaco, le estrassero un tumore delle dimensioni di un pompelmo, la ricucirono come una scarpa e non erano ancora passati due mesi che era tornata a essere la stessa di sempre. Quella terribile avventura le lasciò in eredità solamente una grossa cicatrice da filibustiere sulla pancia e una fame vorace di vita e, ovviamente, di cibo. Partimmo per la Francia non appena fu in grado di camminare senza bastone. Rifiutò completamente la dieta indicata dal dottor Suffolk perché, come dichiarò, non era venuta dal culo del mondo fino a Parigi per mangiare pappette da neonati. Con la scusa di voler studiare la produzione casearia e la tradizione culinaria francese, si rimpinzò di tutte le delizie che quel paese poteva offrirle.
Una volta sistemati nella villetta che Williams aveva affittato in boulevard Haussmann, ci mettemmo in contatto con l'ineffabile Amanda Lowell, che continuava a emanare quel fascino da regina vichinga in esilio. A Parigi si sentiva a casa sua, viveva in una mansarda tarlata ma accogliente dai cui lucernai si poteva godere la vista delle colombe sui tetti del quartiere e dei cieli perfetti della città. Constatammo che i suoi racconti sulla vita bohémienne e le sue amicizie con artisti celebri erano veritieri; grazie a lei visitammo gli studi di Cézanne, Sisley, Degas, Monet e diversi altri. La Lowell ci insegnò a godere di quei quadri, perché non avevamo l'occhio allenato all'impressionismo, e ben presto ne venimmo completamente sedotti. La nonna acquistò una buona collezione di opere che, una volta appese nella casa in Cile, scatenarono attacchi d'ilarità; nessuno seppe apprezzare i cieli centrifughi di Van Gogh o le stanche ragazze di Lautrec e pensarono che a Parigi qualcuno avesse preso all'amo quella sciocca di Paulina del Valle. Quando Amanda Lowell notò che non mi separavo mai dalla mia macchina fotografica e passavo ore intere chiusa in una camera oscura improvvisata nel villino, si offrì di presentarmi ai più celebri fotografi di Parigi. Come il mio maestro Juan Ribero, anche lei riteneva che la fotografia non rivaleggiasse con la pittura, due espressioni sostanzialmente diverse; il pittore interpreta la realtà e la macchina fotografica le dà forma. Nella prima tutto è invenzione, mentre nella seconda al dato reale si somma la sensibilità del fotografo. Ribero non mi consentiva trucchi sentimentali o esibizionisti, era vietato sistemare gli oggetti o i modelli affinché somigliassero a dei quadri; era contrario alla composizione artificiale e non mi consentiva nemmeno di manipolare i negativi o le stampe e in genere detestava gli effetti di luce o la diffusione, voleva che le immagini fossero oneste e semplici, seppure nitide nei più piccoli particolari. "Se quel che vuole è ottenere l'effetto di un quadro, allora dipinga, Aurora. Se ciò che desidera è invece la verità, impari a usare la sua macchina fotografica," mi ripeteva. Amanda Lowell non mi trattò mai come una bambina, fin dall'inizio mi prese sul serio. Anche lei era affascinata dalla fotografia, che ancora nessuno chiamava arte e che per molti non era che una stramberia, una delle tante trovate di questo secolo frivolo. "È troppo tardi perché io impari a fotografare, ma tu hai occhi giovani, Aurora, tu puoi vedere il mondo e obbligare gli altri a vederlo a modo tuo. Una bella fotografia racconta una storia, rivela un luogo, un evento, uno stato d'animo, è più potente di pagine e pagine scritte," mi diceva. La nonna, invece, trattava la mia passione per la fotografia come un capriccio adolescenziale ed era molto più interessata a prepararmi per il matrimonio e a scegliere il mio corredo. Mi iscrisse a una scuola per signorine in cui prendevo lezioni su come salire e scendere le scale con grazia, come piegare i tovaglioli per un banchetto o predisporre menù diversi a seconda delle circostanze, organizzare giochi da sala e sistemare mazzi di fiori, bagaglio di conoscenze che la nonna riteneva sufficienti per trionfare nella vita coniugale. Le piaceva fare acquisti e sacrificavamo pomeriggi interi nelle boutique a scegliere abiti, pomeriggi che avrei meglio impiegato perlustrando Parigi con la macchina fotografica in mano.
Non so come, ma trascorse un anno. Quando sembrava che Paulina del Valle si fosse ripresa dai suoi malanni e Frederick Williams si era ormai trasformato in un esperto di legnami da botti e di produzione di formaggi, dai più pestilenziali ai più bucherellati, conoscemmo Diego Domínguez a un ballo organizzato dall'ambasciata cilena per i festeggiamenti del 18 settembre, giorno dell'Indipendenza. Trascorsi ore interminabili da un parrucchiere che innalzò sulla mia testa una torre di riccioli e treccine ornate di perle, una vera prodezza se si considera che i miei capelli sono dritti come la criniera di un cavallo. Il mio abito era una bianca creazione spumosa costellata di lustrini che si sganciarono durante la festa seminando il pavimento della Legazione cilena di brillanti sassolini. "Se tuo padre potesse vederti adesso," esclamò la nonna, rapita, quando ebbi finito di prepararmi. Lei era agghindata dalla testa ai piedi in malva, il suo colore preferito, con un tripudio di perle rosate al collo, una sovrapposizione di chignon posticci di un sospetto color mogano, l'impeccabile dentatura di porcellana e una mantella di velluto nero bordata di giaietti dal collo fino ai piedi. Entrammo alla festa lei al braccio di Frederick Williams e io a quello di un marinaio di una nave della flotta cilena in visita di cortesia alla Francia, un giovane insignificante il cui viso e nome non riesco a ricordare, che si assunse, di sua iniziativa, il compito di istruirmi sull'uso del sestante nella navigazione. Fu un immenso sollievo quando Diego Domínguez si piazzò davanti alla nonna presentandosi con tutti i suoi cognomi e chiedendo il permesso di ballare con me. Questo non è il suo vero nome, l'ho modificato in queste pagine perché tutto quello che si riferisce a lui e alla sua famiglia deve essere salvaguardato. Basti sapere che è esistito, che la sua storia è vera e che l'ho perdonato. Gli occhi di Paulina del Valle brillarono dall'entusiasmo alla vista di Diego Domínguez, perché finalmente si presentava a noi un pretendente potenzialmente accettabile, figlio di gente nota, sicuramente ricco, dai modi impeccabili e per giunta bello. Lei acconsentì, lui mi tese la mano e prendemmo il largo. Dopo il primo valzer il signor Domínguez si fece dare il mio carnet di ballo e lo compilò interamente a suo nome, eliminando con un tratto di penna l'esperto di sestanti e altri candidati. Allora lo guardai con più attenzione e dovetti ammettere che era davvero attraente, irraggiava salute e forza, aveva un viso gradevole, occhi azzurri e un portamento virile. Sembrava a disagio in frac, ma si muoveva con sicurezza e ballava bene, o comunque certamente meglio di me che ballo come una papera nonostante l'anno di lezioni intensive alla scuola per signorine; inoltre, il turbamento aumentava la mia goffaggine. Quella sera mi innamorai con tutta la passione e la sventatezza del primo amore. Diego Domínguez mi guidava con mano ferma per la pista da ballo, guardandomi intensamente e quasi sempre in silenzio, perché i suoi tentativi di intavolare una conversazione si scontravano contro le mie monosillabiche risposte. La mia timidezza era una tortura, non potevo sostenere il suo sguardo e non sapevo dove posare il mio; quando sentivo il tepore del suo respiro sfiorarmi la guancia, mi si piegavano le gambe; dovevo combattere disperatamente contro la tentazione di fuggire di corsa per andare a nascondermi sotto qualche tavolo. Senz'altro feci una triste figura e quello sfortunato giovanotto rimase inchiodato al mio fianco solo per aver voluto commettere la spacconata di riempire il mio carnet con il suo nome. A un certo punto gli dissi che non era obbligato a ballare con me se non voleva. Mi rispose con una risata, l'unica della serata, e mi chiese quanti anni avevo. Io non mi ero mai trovata tra le braccia di un uomo, non avevo mai provato la pressione di un palmo maschile che mi cingeva alla vita. Le mie mani riposavano una sulla sua spalla e l'altra nella sua mano guantata, prive tuttavia della leggerezza di colomba raccomandata dalla mia insegnante di ballo, perché lui mi stringeva con determinazione. In qualche breve pausa mi offrì coppe di champagne che io bevevo solo perché non osavo rifiutare, con la prevedibile conseguenza che poi, mentre ballavamo, gli pestavo i piedi con maggior frequenza. Quando alla fine della festa il ministro cileno prese la parola per brindare alla sua patria lontana e alla bella Francia, Diego Domínguez si mise dietro di me, per quanto glielo consentiva l'orlo del mio vestito bianco, e sussurrò, chino sul mio collo, che ero "deliziosa" o qualcosa del genere.
Nei giorni successivi Paulina del Valle fece ricorso ai suoi amici diplomatici per entrare in possesso, senza il minimo ritegno, di ogni possibile informazione a proposito della famiglia e dei trascorsi di Diego Domínguez prima di autorizzarlo a condurmi in un giro a cavallo per gli Champs-Elysées, vigilata a prudente distanza da lei e da zio Frederick in carrozza. Dopo, prendemmo un gelato tutti insieme sotto dei parasole, tirammo briciole di pane alle anatre, e ci accordammo per andare all'opera quella stessa settimana. Di passeggiata in passeggiata, e di gelato in gelato, arrivammo a ottobre. Diego aveva viaggiato per l'Europa su ordine del padre, in quell'obbligatoria avventura che quasi tutti i giovani cileni di classe elevata compivano una volta nella vita per darsi una svegliata. Dopo aver visitato diverse città, visto i musei e le cattedrali di dovere ed essersi imbevuto di vita notturna e di birbanterie galanti, che presumibilmente l'avrebbero immunizzato per sempre da quel vizio e gli avrebbero fornito sufficiente materiale per millantare con i suoi amici, era pronto per tornare in Cile e mettere la testa a posto, lavorare, sposarsi e fondare una famiglia. Paragonato a Severo del Valle, di cui ero stata innamorata durante l'infanzia, era brutto, e in confronto alla signorina Matilde Pineda era stupido, ma non mi trovavo nella condizione di poter fare tali comparazioni: ero certa di aver trovato l'uomo perfetto e a stento riuscivo a credere al miracolo di essere stata notata. Frederick Williams considerava che non fosse prudente aggrapparsi al primo venuto, io ero ancora molto giovane e avrei avuto pretendenti in abbondanza per poter scegliere con calma, ma la nonna sosteneva che quel giovane, nonostante l'inconveniente di essere un agricoltore e di vivere in campagna, molto lontano dalla capitale, era quanto di meglio potesse offrire il mercato matrimoniale.
"Per nave o in ferrovia si può viaggiare senza problemi," disse.
"Nonna, non corra così in fretta, il signor Domínguez non mi ha mai accennato a nulla di quello che lei sta immaginando," le chiarii, arrossendo fino alle orecchie.
"Tanto vale che si sbrighi a farlo o dovrò metterlo alle strette."
"No!" esclamai spaventata.
"Non permetterò che mia nipote possa restarci male. Non abbiamo tempo da perdere. Se quel giovane non ha intenzioni serie, deve liberare immediatamente il campo."
"Ma nonna, che fretta c'è? Ci siamo appena conosciuti..."
"Sai quanti anni ho, Aurora? Settantaquattro. Pochi vivono così a lungo. Prima di morire devo averti sposata come si conviene."
"Lei è immortale, nonna."
"No, figliola, lo sembro e basta," replicò.
Non so se lei tese a Diego Domínguez la trappola progettata o se lui colse le sue allusioni e prese autonomamente la decisione. Ora che sono in grado di rivedere questo episodio con il senno del poi e con un maggior senso dell'umorismo, mi è chiaro che non si innamorò mai di me, semplicemente si sentì lusingato dal mio amore incondizionato e probabilmente mise sulla bilancia i vantaggi di tale unione. Forse mi desiderava, perché eravamo entrambi giovani e liberi; forse credette che con il tempo avrebbe imparato ad amarmi; forse si sposò con me per pigrizia e convenienza. Diego era un buon partito, ma anch'io lo ero: disponevo della rendita lasciatami da mio padre ed era ipotizzabile che avrei ereditato una fortuna dalla nonna. Quali che fossero le sue ragioni, il fatto è che chiese la mia mano e mi mise al dito un anello di diamanti. I segnali di pericolo erano evidenti per chiunque avesse gli occhi, tranne che per la nonna, accecata dal timore di lasciarmi sola, e per me, che ero pazza d'amore, ma non per zio Frederick, che sostenne fin dall'inizio che Diego Domínguez non era l'uomo giusto per me. Siccome non gli era mai piaciuto nessuno di quelli che mi si erano avvicinati negli ultimi due anni, non gli demmo retta, credendo si trattasse di gelosia paterna. "Ho l'impressione che questo giovane sia di temperamento piuttosto freddo," commentò più di una volta, ma la nonna controbatteva dicendo che non si trattava di freddezza, bensì di rispetto, come era prerogativa di un perfetto cavaliere cileno.
Paulina del Valle si dedicò freneticamente agli acquisti. Per la fretta i pacchetti andavano a finire nei bauli senza nemmeno essere aperti e poi, quando videro la luce a Santiago, ci accorgemmo che c'erano doppioni di tutto e che la metà delle cose non mi andavano bene. Quando venne a sapere che Diego Domínguez doveva rientrare in Cile, si mise d'accordo con lui per viaggiare sulla stessa nave, opportunità che offriva alcune settimane in cui conoscerci meglio, come dissero. Frederick Williams mise il broncio e fece il possibile per modificare il programma, ma non c'era potenza al mondo in grado di contrastare quella signora quando si metteva un'idea in testa e la sua ossessione del momento era sposare la nipote. Ricordo poco del viaggio, trascorso in una nebulosa di passeggiate in coperta, partite a palla e a carte, cocktail e feste fino a Buenos Aires, dove ci separammo perché lui doveva acquistare dei tori da riproduzione e condurli attraverso la rotta andina del Sud fino alla sua tenuta. Non ci furono molte opportunità di rimanere soli o di conversare senza testimoni; appresi le informazioni essenziali sui ventitré anni del suo passato e sulla sua famiglia, ma non venni a sapere praticamente nulla dei suoi gusti, delle sue convinzioni e ambizioni. La nonna gli disse che mio padre, Matías Rodríguez de Santa Cruz, era morto e che mia madre era un'americana che non avevamo conosciuto perché era morta di parto, versione che non si discostava dalla verità. Diego non mostrò il desiderio di conoscere ulteriori dettagli; nemmeno la mia passione per la fotografia lo interessò e quando gli precisai che non avevo intenzione di rinunciarci, disse che non aveva nulla in contrario, sua sorella dipingeva acquerelli e sua cognata ricamava a punto croce. Durante la lunga traversata per mare non arrivammo davvero a conoscerci, ma ci ritrovammo avviluppati nella solida ragnatela che la nonna, con le migliori intenzioni, tesseva intorno a noi.
Siccome nella prima classe del transatlantico c'era poco da fotografare, a parte gli abiti delle signore e le composizioni floreali della sala da pranzo, scendevo spesso nelle coperte inferiori a scattare ritratti, soprattutto ai passeggeri dell'ultima classe, che viaggiavano pigiati nel ventre dell'imbarcazione: lavoratori ed emigranti che andavano a cercare fortuna in America, russi, tedeschi, italiani, ebrei, gente partita con le tasche quasi vuote, ma con il cuore traboccante di speranza. Mi parve che, nonostante la scomodità e la mancanza di mezzi, stessero meglio dei viaggiatori della classe superiore, dove tutto risultava impeccabile, cerimonioso e noioso. Tra gli emigranti si instaurava facilmente uno spirito cameratesco, gli uomini giocavano a carte o a domino, le donne si riunivano in gruppi a raccontarsi le loro vite, i bambini improvvisavano canne da pesca o giocavano a nascondino; di pomeriggio facevano la loro splendida comparsa chitarre, fisarmoniche, flauti e violini, e si organizzavano allegre feste con canti, balli e birra. Nessuno sembrava disturbato dalla mia presenza, non mi facevano domande e nel giro di pochi giorni mi accettarono come una di loro e questo mi permetteva di scattare a mio piacimento. Sulla nave non potevo sviluppare i negativi, ma li classificai con cura per poterlo fare successivamente a Santiago. In una di queste escursioni nelle coperte inferiori mi imbattei inaspettatamente nell'ultima persona che mi aspettavo di trovare lì.
"Gengis Khan!" esclamai quando lo vidi.
"Credo che mi stia confondendo con qualcun altro, signorina..."
"Mi perdoni, dottor Radovic," mi scusai, sentendomi una deficiente.
"Ci conosciamo?" chiese stupito.
"Non si ricorda di me? Sono la nipote di Paulina del Valle."
"Aurora? Santo cielo, non l'avrei mai riconosciuta. Come è cambiata!"
Certo che ero cambiata. Mi aveva conosciuto un anno e mezzo prima, vestita da bambinetta, e ora aveva davanti agli occhi una donna fatta e finita, con una macchina fotografica che le pendeva al collo e un anello di fidanzamento al dito. Durante quel viaggio nacque l'amicizia che con il tempo avrebbe cambiato la mia vita. Il dottor Iván Radovic, passeggero di seconda classe, non poteva salire alla coperta di prima senza invito, ma io potevo scendere a fargli visita, cosa che feci spesso. Mi parlava del suo lavoro con la passione con cui io gli raccontavo della fotografia; mi vedeva usare la macchina, ma non potendo mostrargli le foto già scattate, che si trovavano in fondo ai bauli, gli promisi che l'avrei fatto una volta arrivati a Santiago. Non andò così, perché poi mi vergognai di chiamarlo a tale scopo; mi sembrò una forma di vanità e non volli rubare del tempo a un uomo impegnato a salvare vite. Quando venne a sapere della sua presenza sulla nave, la nonna lo invitò immediatamente a prendere un tè sulla terrazza della nostra suite. "Con lei a bordo, dottore, mi sento sicura persino in alto mare. Se mi dovesse spuntare un altro pompelmo nella pancia, lei verrà a estirparmelo con un coltello da cucina," scherzò. Gli inviti per il tè, cui seguivano partite a carte, si ripeterono molte volte. Iván Radovic ci raccontò che aveva terminato il praticantato alla clinica Hobbs e stava tornando in Cile per lavorare in un ospedale.
"Perché non apre una clinica privata, dottore?" suggerì la nonna, che gli si era affezionata.
"Non avrò mai il capitale e le conoscenze necessari, signora del Valle."
"Io sono disposta a investire, se vuole."
"Non posso permettere assolutamente che..."
"Non lo farei per lei, ma solo perché è un buon investimento, dottor Radovic," lo interruppe la nonna. "Tutti si ammalano, la medicina è un grande affare."
"Non credo che la medicina sia un affare, ma un diritto, signora. Come medico sono obbligato a offrire i miei servigi e spero che verrà il giorno in cui la salute sarà alla portata di ogni cileno."
"Lei è socialista?" domandò la nonna con una smorfia di ripugnanza, perché dopo il "tradimento" della signorina Matilde Pineda diffidava del socialismo.
"Sono medico, signora del Valle. Curare è l'unica cosa che mi interessa."
Giungemmo in Cile alla fine di dicembre del 1898 e ci ritrovammo in un paese in piena crisi morale. Nessuno, dai ricchi latifondisti ai maestri di scuola, agli operai del salnitro era contento del proprio destino o del governo. I cileni sembravano rassegnati alle loro debolezze caratteriali, quali la propensione alla violenza, all'ozio e al ladrocinio, e a piaghe sociali come l'asfissiante burocrazia, la disoccupazione, l'inefficienza della giustizia e la povertà, che cozzava con la spudorata ostentazione dei ricchi e stava alimentando una rabbia sorda e crescente che covava da nord a sud. Non ricordavamo che Santiago fosse così sporca, abitata da persone tanto indigenti, con così tanti casermoni infettati da scarafaggi, con un così alto numero di bambini morti prima di imparare a camminare. La stampa informava che l'indice di mortalità nella capitale era equivalente a quello di Calcutta. La nostra casa di via Ejército Libertador era rimasta affidata alle cure di un paio di lontane zie povere in canna, due tra i numerosi congiunti che qualsiasi famiglia cilena ha, e di alcuni domestici. Le zie regnavano su quei domini da più di due anni e ci ricevettero senza eccessivo entusiasmo, accompagnate da Caramello, ormai così anziano che non mi riconobbe nemmeno. Il giardino era ridotto a una boscaglia, le fontane in stile arabeggiante boccheggiavano, l'aria dei saloni sapeva di camposanto, le cucine sembravano un porcile e sotto i letti riposavano cacche di topo, ma niente di tutto ciò mortificò Paulina del Valle, che tornava con l'intenzione di organizzare le nozze del secolo e non avrebbe permesso che niente, né la sua età, né il calore di Santiago, né la mia indole ritrosa glielo impedissero. Aveva a disposizione i mesi estivi, durante i quali tutti si recavano in campagna o sulla costa, per rammodernare la casa, visto che in autunno sarebbe ripresa l'intensa vita sociale e bisognava prepararsi per le mie nozze a settembre, all'inizio della primavera, il mese delle feste nazionali e dei matrimoni, un anno giusto dopo il mio primo incontro con Diego. Frederick Williams si accollò l'incarico di assoldare un esercito di muratori, ebanisti, giardinieri e cameriere che si dedicarono al compito di rinnovare quel disastro di casa ai soliti ritmi cileni, vale a dire senza troppa premura. L'estate giunse polverosa e torrida, con il suo aroma di pesche e le grida dei venditori ambulanti che decantavano le delizie della stagione. Quanti se lo potevano permettere, andarono in vacanza in campagna o al mare; la città sembrava morta. Severo del Valle venne a trovarci carico di sacchi di verdura, canestri di frutta e buone notizie dai vigneti; ci si presentò con la pelle abbronzata, più in forze e più bello che mai. Mi guardò a bocca aperta, sorpreso che io fossi la stessa ragazzina da cui si era congedato due anni prima, mi fece girare come una trottola per potermi osservare da tutte le angolature e il suo generoso responso fu che avevo un aspetto simile a quello di mia madre. La nonna non gradì affatto quel commento, il mio passato non si doveva menzionare in sua presenza, per lei la mia vita era iniziata quando, all'età di cinque anni, avevo varcato la soglia della sua palazzina di San Francisco, non esisteva un prima. Nívea era rimasta nella tenuta con i bambini perché era nuovamente in procinto di partorire ed era troppo appesantita per poter intraprendere il viaggio verso Santiago. La produzione dei vigneti si annunciava molto buona per quell'anno, si pensava di vendemmiare in marzo per il vino bianco e in aprile per quello rosso, raccontò Severo del Valle, e aggiunse che alcuni vitigni di quello rosso, completamente diversi, crescevano mescolandosi con gli altri e che, oltre a essere più delicati, si guastavano più facilmente e maturavano più tardi. Nonostante dessero un frutto eccellente, pensava di sradicarli per risparmiarsi un problema in più. Immediatamente Paulina del Valle tese l'orecchio e vidi brillare nelle sue pupille quella luce ambiziosa, generalmente foriera di idee redditizie.
"Non appena sarà iniziato l'autunno, trapiantali separatamente. Curali e il prossimo anno ci faremo un vino speciale," disse.
"Perché cacciarsi in questa grana?"
"Se quest'uva matura più tardi, probabilmente è più raffinata e concentrata. Il vino sarà sicuramente molto migliore."
"Stiamo producendo uno dei migliori vini del paese, zia."
"Su, accontentami, nipote, fai quel che ti chiedo..." pregò la nonna con il tono adulatore che utilizzava prima di dare un ordine.
Non ebbi la possibilità di vedere Nívea fino al giorno stesso del mio matrimonio, quando giunse con un nuovo neonato a carico per snocciolarmi in tutta fretta le informazioni elementari di cui qualsiasi sposina deve essere edotta prima della luna di miele, e che nessuno si era preso la briga di suggerirmi. La mia condizione virginale, peraltro, non mi preservava dai sussulti di una passione istintiva che non sapevo definire; pensavo a Diego giorno e notte, e non sempre si trattava di pensieri casti. Lo desideravo, ma non sapevo molto bene a che fine. Avevo voglia di essere abbracciata, di essere baciata come aveva fatto in un paio di occasioni, di vederlo nudo. Non avevo mai visto un uomo nudo e, lo confesso, la curiosità non mi faceva dormire. Questo era quanto, il resto della strada, un mistero. Con la sua sfacciata schiettezza, Nívea era l'unica in grado di istruirmi, ma ciò sarebbe avvenuto solo diversi anni dopo, quando ci fu tempo e modo di approfondire la nostra amicizia: solo allora mi avrebbe messo a parte dei segreti della sua vita intima con Severo del Valle e mi avrebbe descritto nei minimi particolari, ridendo a crepapelle, le posizioni apprese dalla collezione di suo zio, José Francisco Vergara. A quel tempo, mi ero lasciata dietro l'innocenza, ma ero molto ignorante in materia erotica, come quasi tutte le donne e anche la maggior parte degli uomini, stando a quanto mi assicura Nívea. "Senza i libri dello zio, avrei avuto quindici figli senza sapere come," mi disse. I suoi consigli, che avrebbero fatto rabbrividire le zie, mi furono molto utili per il secondo amore, ma non sarebbero valsi a nulla per il primo.
Per tre lunghi mesi vivemmo accampati in quattro camere nella casa di via Ejército Libertador, boccheggiando per il caldo. Non mi annoiai, perché la nonna riprese immediatamente l'attività delle opere di bene, nonostante tutti i membri del Club de las Damas fossero in vacanza. Durante la sua assenza la disciplina si era stemperata e le toccò prendere di nuovo in mano le redini della compassione compulsiva; tornammo a fare visita a malati, vedove e matti, a distribuire cibo e a sovrintendere ai prestiti alle donne indigenti. Quest'idea, della quale si erano burlati persino sui giornali, convinti che le beneficiarie – tutte estremamente povere – non avrebbero mai reso il denaro, si rivelò talmente buona che il governo decise di copiarla. Le donne non solo corrispondevano scrupolosamente il debito in rate mensili, ma si sostenevano l'un l'altra di modo che, quando una non poteva pagare, lo facevano le altre al posto suo. Intuii che a Paulina del Valle passò per la mente l'ipotesi di riscuotere degli interessi e trasformare la carità in un affare, ma la bloccai immediatamente. "Tutto ha un limite, nonna, anche l'avidità," la redarguii. L'appassionato carteggio con Diego Domínguez mi teneva sulla corda, sempre in attesa della posta. Scoprii che per lettera sono in grado di esprimere quello che non oserei mai dire a quattr'occhi; la parola scritta è profondamente liberatoria. Al posto dei romanzi che tanto mi piacevano prima, mi sorpresi a leggere versi amorosi; se un poeta morto dall'altra parte del mondo poteva descriverei miei sentimenti con tale precisione, dovevo accettare umilmente l'evidenza che il mio amore non era niente di eccezionale, che non avevo inventato nulla e che tutti si innamorano allo stesso modo. Immaginavo il mio fidanzato cavalcare al galoppo per i suoi possedimenti come un eroe leggendario dalle ampie spalle, nobile, risoluto e bello, un vero uomo nelle cui mani sarei stata in salvo; lui mi avrebbe reso felice, mi avrebbe dato protezione, figli, amore eterno. Mi figuravo un futuro di rose e melassa nel quale avremmo galleggiato abbracciati per sempre. Di cosa sapeva il corpo dell'uomo che amavo? Di terra, come i boschi da cui proveniva, o della dolce fragranza del pane, o forse d'acqua di mare, come quell'aroma sfuggente che mi invadeva nei sogni fin dall'infanzia. Improvvisamente il bisogno di sentire l'odore di Diego divenne talmente impellente che gli scrissi di spedirmi uno di quei fazzoletti che portava al collo o una delle sue camicie non ancora lavate. Le risposte del mio fidanzato a queste lettere appassionate erano placide cronache della vita in campagna – le mucche, il grano, l'uva, il cielo estivo senza piogge – e sobrie notazioni sulla sua famiglia. Ovviamente, non spedì mai né un fazzoletto, né una camicia. Nelle ultime righe mi ricordava quanto mi voleva bene e quanto saremmo stati felici nella fresca casa di tegole e mattoni crudi che il padre stava costruendo per noi sulla proprietà e che avrebbe affiancato quella fatta per il fratello Eduardo, in occasione del suo matrimonio con Susana, e quella che avrebbe edificato per la sorella Adela, allorché si fosse sposata. Da generazioni, i Domínguez vivevano sempre insieme; l'amore per Cristo, il legame tra fratelli, il rispetto per i genitori e il duro lavoro, diceva, erano i pilastri della sua famiglia.
Per molto che scrivessi o sospirassi leggendo poesie, mi avanzava ancora del tempo; decisi quindi di tornare allo studio di don Juan Ribero, girai per la città a scattare foto e la sera mi misi a lavorare nella camera oscura che avevo installato in casa. Stavo sperimentando la stampa su platino, una tecnica nuova che restituisce immagini molto belle. Il procedimento è semplice, anche se più costoso, ma se ne accollava la spesa la nonna. Si cosparge la carta con pennellate di una soluzione al platino e il risultato sono immagini dalle sottili gradazioni di tono, luminose, chiare, di grande profondità, che rimangono inalterate. Sono passati dieci anni e quelle sono le più straordinarie fotografie della mia collezione. Riguardandole, sono molti i ricordi che prendono forma davanti ai miei occhi con la stessa impeccabile nitidezza di quelle stampe su platino. Posso scorgere nonna Paulina, Severo, Nívea, amici e parenti, posso anche vedere in qualche autoritratto com'ero allora, poco prima degli eventi che avrebbero cambiato la mia vita.
Quando sorse il secondo martedì di marzo, la casa era vestita a festa, aveva una moderna installazione a gas, telefono, un ascensore per la nonna, carta da parati giunta da New York, mobili con tappezzerie nuove fiammanti, parquet appena incerati, bronzi lucidati, cristalli lustri e la collezione di quadri impressionisti nei saloni. Un nuovo contingente di servitori in divisa lavorava ai comandi di un maggiordomo argentino che Paulina del Valle aveva sottratto all'Hotel Crillon offrendogli il doppio dello stipendio.
"Ci criticheranno, nonna. Nessuno ha un maggiordomo, è una pacchianeria," la avvertii.
"Non importa. Non ho intenzione di lottare con delle indie mapuche in ciabatte che lasciano i capelli nella zuppa e a tavola tirano i piatti," replicò, decisa a far colpo sulla società capitolina in generale e sulla famiglia di Diego Domínguez in particolare.
E dunque la nuova servitù andò a sommarsi agli antichi domestici che da anni lavoravano in casa e che, ovviamente, non potevano essere licenziati. Erano talmente tante le persone a servizio che, passeggiando oziose, si scontravano le une con le altre, e fu così alto il numero di bisticci e furtarelli che alla fine dovette intervenire a mettere ordine Frederick Williams, dato che l'argentino non sapeva da che parte iniziare. L'evento causò un certo scalpore, non si era mai visto che il padrone di casa si abbassasse al livello dei domestici, ma zio Frederick agì magistralmente; la sua lunga esperienza professionale a qualcosa gli servì. Non credo che Diego Domínguez e la sua famiglia, i primi ospiti che ricevemmo, apprezzarono l'eleganza del servizio, anzi, tanto splendore li inibì. Appartenevano a un'antica dinastia di latifondisti del Sud, ma a differenza della maggior parte dei proprietari terrieri cileni, che trascorre un paio di mesi nelle sue proprietà e il resto del tempo vive di rendita a Santiago o in Europa, loro nascevano, crescevano e morivano in campagna. Era gente dalla solida tradizione famigliare, profondamente cattolica e semplice, non avvezza alle raffinatezze imposte dalla nonna, che sicuramente dovettero sembrar loro un tantino decadenti e poco cristiane. Mi colpì il fatto che avessero tutti gli occhi azzurri, fatta eccezione per Susana, la cognata di Diego, una bellezza bruna dall'aria languida, simile a un quadro spagnolo. A tavola rimasero confusi davanti alla sfilata di posate e ai sei bicchieri, nessuno assaggiò l'anatra all'arancia e con un certo spavento videro arrivare il dolce flambé. Alla vista della parata di domestici in divisa, la madre di Diego, doña Elvira, chiese come mai ci fossero tanti militari in casa. Rimasero interdetti davanti ai quadri impressionisti, certi che l'autrice di quegli scarabocchi fossi io e che la nonna, per puro rimbecillimento, li avesse appesi alle pareti, ma apprezzarono il breve concerto per arpa e piano che fu offerto nella sala della musica. La conversazione languì alla seconda frase fino a quando i tori da monta non aprirono la strada al tema della riproduzione del bestiame, argomento che interessò oltremodo Paulina del Valle, che senz'altro stava pensando alla possibilità di dedicarsi alla produzione dei formaggi insieme a loro, visto l'alto numero di vacche che possedevano. Se nutrivo qualche dubbio a proposito della mia futura vita in campagna insieme alla tribù del mio fidanzato, quella visita lo dissipò. Mi innamorai di quei contadini di vecchio ceppo, benevoli e senza pretese, del padre sanguigno e ridanciano, della madre così candida, del fratello maggiore gentile e virile, della misteriosa cognata e della sorella minore allegra come un canarino, che per conoscermi avevano intrapreso un viaggio di diversi giorni. Mi accettarono con naturalezza e sono certa che, pur rimanendo piuttosto sconcertati dal nostro stile di vita, non ci criticarono perché sembravano incapaci di formulare un cattivo pensiero. Dato che Diego mi aveva scelto, mi consideravano parte della famiglia, questo a loro bastava. La loro semplicità mi permise di rilassarmi, cosa che raramente mi succede con gli estranei, e in breve mi ritrovai a conversare con ognuno di loro, a raccontargli del viaggio in Europa e della mia passione per la fotografia. "Mi mostri le sue foto, Aurora," mi chiese doña Elvira, ma quando lo feci non riuscì a celare la sua disillusione. Credo che si aspettasse qualcosa di più rassicurante rispetto a picchetti di operai in sciopero, casermoni, bambini cenciosi che giocavano nei canali, violente rivolte popolari, bordelli, emigranti rassegnati seduti sui loro bagagli nella stiva di una nave. "Ma, figlia mia, perché non fa delle foto carine? Perché va fino a casa del diavolo, con tutti i bei paesaggi che ci sono in Cile..." mormorò la santa donna. Stavo per spiegarle che più che le cose carine mi interessavano quei visi segnati dalla fatica e dalla sofferenza, ma capii che non era il momento adatto. Avrei avuto modo in seguito di farmi conoscere da mia suocera e dal resto della famiglia.
"Perché le hai mostrato quelle fotografie? I Domínguez sono persone all'antica, non avresti dovuto spaventarli con le tue idee moderne, Aurora," mi rimproverò Paulina del Valle quando se ne furono andati.
"Erano spaventati comunque dal lusso di questa casa e dai quadri impressionisti, non crede, nonna? E poi Diego e la sua famiglia devono sapere che tipo di donna sono," replicai.
"Non sei ancora una donna, sei una bambina. Cambierai, avrai dei figli, dovrai adattarti all'ambiente di tuo marito."
"Rimarrò sempre la stessa persona e non voglio rinunciare alla fotografia. Non stiamo parlando degli acquerelli della sorella di Diego o dei ricami di sua cognata: questa è una parte fondamentale della mia vita."
"Va bene, prima di tutto sposati e poi fa' quel che ti pare," concluse la nonna.
Non aspettammo fino a settembre, come era nei piani, ma ci dovemmo sposare a metà aprile perché doña Elvira Domínguez era stata colpita da un lieve attacco di cuore e la settimana successiva, rimessasi tanto da poter muovere qualche passo da sola, aveva espresso il desiderio di vedermi sposata con il figlio Diego prima di andarsene all'altro mondo. Il resto della famiglia acconsentì, perché se la signora fosse venuta a mancare si sarebbe dovuto posticipare il matrimonio di almeno un anno per osservare il lutto regolamentare. La nonna si rassegnò ad affrettare i preparativi e a dimenticare la cerimonia principesca progettata, e io tirai un sospiro di sollievo, perché l'idea di offrirmi alla vista di mezza Santiago entrando nella cattedrale al braccio di Frederick Williams o di Severo del Valle, sepolta sotto una montagna di organza bianca, come voleva la nonna, mi inquietava non poco.
Cosa posso dire del primo incontro d'amore con Diego? Poco, perché la memoria archivia in bianco e nero; i grigi si perdono per strada. Forse non fu così miserabile come lo ricordo, ma le sfumature si sono perse, e conservo solamente una sensazione complessiva di rabbia e frustrazione. Dopo le nozze private nella casa di via Ejército Libertador, andammo in albergo per trascorrervi quella notte, prima di partire per due settimane di luna di miele a Buenos Aires, visto che la precaria salute di doña Elvira non ci permetteva di allontanarci troppo. Quando mi congedai dalla nonna, sentii che una fase della mia vita si concludeva per sempre. Abbracciandola mi resi conto di quanto bene le volevo e di quanto era rimpicciolita, gli abiti le stavano larghi e io la superavo in altezza di un palmo: ebbi il presentimento che non le rimanesse molto tempo, la vidi piccola e vulnerabile, una vecchina dalla voce tremolante e dalle ginocchia di lana. Rimaneva poco di quell'eccezionale matriarca che per più di settant'anni aveva fatto di testa sua decidendo i destini della famiglia come le pareva. Accanto a lei Frederick Williams sembrava suo figlio, perché il corso del tempo non lo sfiorava, quasi fosse immune alle alterazioni dei mortali. Fino al giorno prima, all'insaputa della nonna, il buon zio Frederick mi aveva pregato di non sposarmi se non ero sicura, ma io avevo sempre risposto di non essere mai stata tanto certa di qualcosa in vita mia. Non avevo dubbi circa il mio amore per Diego Domínguez. A mano a mano che si avvicinava il giorno delle nozze la mia impazienza cresceva. Mi guardavo allo specchio nuda o appena coperta dalle delicate camicie da notte di pizzo che la nonna aveva comprato in Francia e mi domandavo con ansia se lui mi avrebbe trovato graziosa. Un neo sul collo o i capezzoli scuri mi sembravano difetti imperdonabili. Mi desiderava quanto lo desideravo io? Lo appurai quella prima notte in albergo. Eravamo stanchi, avevamo mangiato molto, lui aveva bevuto più del dovuto e anch'io avevo tre coppe di champagne in corpo. Entrammo nell'hotel con apparente indifferenza, ma la scia di riso che lasciavamo sul pavimento al nostro passaggio denunciava la nostra condizione di sposi novelli. Ritrovandomi sola con Diego, provai una tale vergogna all'idea che fuori qualcuno ci immaginasse mentre facevamo l'amore che rimasi chiusa in bagno con la nausea fino a quando, molto tempo dopo, il mio marito nuovo fiammante non bussò delicatamente alla porta per constatare se ero ancora viva. Mi condusse per mano in camera, mi aiutò a togliermi il complicato cappello, mi sfilò le forcine dello chignon, mi liberò del giacchino di renna, mi sbottonò i mille bottoncini di perla della camicia, mi sbarazzò della pesante gonna e delle crinoline, finché non mi rimase addosso unicamente la sottile camicia di batista che portavo sotto il corsetto. Mentre mi privava degli indumenti, mi sentivo progressivamente dissolvere come acqua, svanire, ridurmi semplicemente a scheletro e aria. Diego mi baciò sulle labbra, ma non come avevo immaginato migliaia di volte nei mesi precedenti, bensì con forza e urgenza; poi il bacio si fece più imperioso, mentre le sue mani armeggiavano con la camicia che cercavo di trattenere perché la prospettiva che mi vedesse nuda mi terrorizzava. Le carezze frettolose e l'evidenza del suo corpo contro il mio, mi misero sulla difensiva, in un tale stato di tensione che tremavo come se sentissi freddo. Mi chiese infastidito cosa mi pigliava e mi ordinò di cercare di rilassarmi, ma constatato che questo metodo peggiorava la situazione, cambiò tono, aggiunse che non dovevo aver paura e mi promise che sarebbe stato attento. Spense la lampada, in qualche modo si arrangiò per condurmi sul letto e il resto si consumò speditamente. Non feci nulla per aiutarlo. Rimasi immobile come una gallina ipnotizzata, cercando inutilmente di ricordare i consigli di Nívea. A un certo punto la sua spada mi trafisse, riuscii a trattenere un grido e sentii in bocca il sapore del sangue. Il ricordo più nitido di quella notte fu la disillusione. Era questa la passione per cui i poeti versavano tanto inchiostro? Diego mi consolò dicendomi che la prima volta era sempre così, che con il tempo avremmo imparato a conoscerci e che tutto sarebbe andato meglio, poi mi diede un casto bacio sulla fronte, mi girò la schiena senza aggiungere altro e si addormentò come un neonato, mentre io vegliavo al buio con un panno tra le gambe e un dolore lancinante al ventre e al cuore. Ero troppo giovane per intuire il motivo della mia frustrazione, non conoscevo neppure la parola orgasmo, ma avevo esplorato il mio corpo e sapevo che da qualche parte si nascondeva quel piacere sismico in grado di sconvolgere la vita. Diego lo aveva provato dentro di me, era evidente, ma io avevo sperimentato unicamente angoscia. Mi sentii vittima di una terribile ingiustizia biologica: per l'uomo il sesso era facile – poteva ottenerlo persino con la forza – mentre per noi era privo di piacere e latore di gravi conseguenze. Alla maledizione divina del partorirai con dolore bisognava aggiungere anche amerai senza piacere?
Quando Diego si svegliò la mattina successiva, io mi ero già vestita da tempo e avevo deciso di tornare a casa a rifugiarmi tra le braccia sicure della nonna, ma l'aria fresca e la passeggiata per le vie del centro, quasi deserte a quell'ora della domenica, mi tranquillizzarono. Mi bruciava la vagina, dove sentivo ancora la presenza di Diego, ma a poco a poco la rabbia si era dissipata e mi disposi ad affrontare il futuro come una donna anziché come una ragazzina viziata. Ero consapevole di quanto mi avessero coccolato nei diciannove anni della mia esistenza, ma quella tappa si era conclusa; la notte prima ero stata iniziata alla condizione coniugale e dovevo comportarmi e pensare da persona matura, conclusi, inghiottendo le lacrime. La responsabilità della mia felicità era esclusivamente mia. Mio marito non mi avrebbe consegnato la gioia eterna come un regalo avvolto in carta velina, me la sarei dovuta forgiare giorno dopo giorno con intelligenza e fatica. Fortunatamente amavo quell'uomo ed ero convinta, come lui mi aveva assicurato, che con il tempo e la pratica le cose tra noi due sarebbero andate molto meglio. Povero Diego, pensai, sarà deluso quanto me. Tornai in albergo in tempo per chiudere le valigie e partire per la luna di miele.
La tenuta di Caleufú, incuneata nella zona più bella del Cile, un paradiso selvaggio di selva fredda, vulcani, laghi e fiumi, apparteneva ai Domínguez dai tempi della colonia, da quando le terre erano state ripartite tra i nobili hidalgos della Conquista. La famiglia aveva aumentato le proprie ricchezze acquistando altri terreni dagli indios al prezzo di qualche bottiglia di acquavite, ed era arrivata a possedere uno dei latifondi più prosperi della regione. La proprietà non era mai stata suddivisa; per tradizione, la ereditava interamente il figlio maggiore, che aveva l'obbligo di dare lavoro o di aiutare i fratelli, mantenere e fornire una dote alle sorelle e farsi carico dei fittavoli. Mio suocero, don Sebastián Domínguez, era una di quelle persone che hanno tenuto fede alle aspettative nei loro confronti, invecchiava con la coscienza in pace, grato alla vita dei doni ricevuti, in particolare dell'affetto della moglie, doña Elvira. In gioventù era stato uno scavezzacollo, lo ammetteva lui stesso ridendo, prova ne erano gli svariati contadini della proprietà con gli occhi azzurri, ma la mano dolce e ferma di doña Elvira l'aveva progressivamente domato senza che lui se ne rendesse conto. Svolgeva il suo ruolo di patriarca con bontà; quando avevano problemi, i fittavoli si rivolgevano prima di tutto a lui, perché i due figli, Eduardo e Diego, erano più rigidi e doña Elvira non apriva bocca fuori dalle mura di casa. La pazienza che don Sebastián dimostrava con gli affittuari, che trattava come bambini un po' ritardati, si trasformava in severità quando aveva a che fare con i figli maschi. "Siamo privilegiati, pertanto le responsabilità sono maggiori. Per noi non ci sono scuse né pretesti, il nostro dovere è ottemperare alle leggi di Dio e aiutare la nostra gente, di ciò dovremo rendere conto nei cieli," diceva. Doveva avere circa una cinquantina d'anni, ma ne dimostrava meno perché conduceva una vita molto sana, passava la giornata a cavallo in giro per le sue terre, era il primo ad alzarsi e l'ultimo a coricarsi, assisteva alla trebbiatura, alla doma, al raduno del bestiame che aiutava personalmente a marchiare e castrare. Iniziava la giornata con una tazza di caffè nero con sei cucchiaini di zucchero e una spruzzata di brandy; ciò gli dava forze sufficienti per affrontare le fatiche dei campi fino alle due del pomeriggio quando, a pranzo, mangiava quattro portate e tre dessert abbondantemente annaffiati di vino in compagnia della famiglia. Non vivevano tante persone in quell'immensa e vecchia casa; il dolore maggiore dei miei suoceri era aver avuto solo tre figli. La volontà di Dio così aveva disposto, dicevano. All'ora di cena si riunivano tutti quelli che durante il giorno si erano dedicati alle più svariate occupazioni e nessuno poteva mancare. Eduardo e Susana vivevano con i figli in un'altra casa, costruita per loro a duecento metri da quella grande, ma lì si preparava unicamente la colazione, il resto dei pasti veniva consumato alla tavola dei miei suoceri. A causa dell'anticipo con cui si era celebrato il nostro matrimonio, la casa destinata a Diego e a me non era ancora pronta e vivevamo in un'ala di quella dei genitori. Don Sebastián si accomodava a capotavola su una poltrona più alta e intarsiata, all'altro capo sedeva doña Elvira e sui lati trovavano posto i figli con le mogli, due zie vedove, alcuni cugini o parenti prossimi, una nonna talmente anziana da dover essere alimentata con un biberon e gli invitati, che non mancavano mai. La tavola veniva apparecchiata con alcuni posti in più per gli ospiti che generalmente capitavano senza preavviso e che a volte si fermavano per settimane. Erano sempre i benvenuti, perché nell'isolamento della campagna le visite erano la maggior distrazione. Più a sud, all'interno del territorio indio, vivevano alcune famiglie cilene come pure coloni tedeschi, senza i quali la regione sarebbe rimasta quasi selvaggia. Ci volevano parecchi giorni per percorrere a cavallo le proprietà dei Domínguez, che arrivavano fino al confine con l'Argentina. La sera si pregava e il calendario dell'anno era scandito dalle ricorrenze religiose, osservate con rigore e allegria. I miei suoceri si resero conto che la mia educazione in materia religiosa era stata piuttosto carente, ma da questo punto di vista non ci furono problemi perché io dimostrai grande rispetto per le loro credenze e loro non cercarono di impormele. Doña Elvira mi spiegò che la fede è un dono divino: "Dio chiama il tuo nome, ti sceglie," disse. Ciò, ai suoi occhi, mi rendeva libera dalla colpa; Dio non aveva chiamato ancora il mio nome, ma se mi aveva destinato a quella famiglia così cristiana era perché presto lo avrebbe fatto. L'entusiasmo con cui la aiutavo nelle opere di carità presso i fittavoli compensava il mio scarso fervore religioso; lei credeva che tale zelo fosse dovuto al mio spirito compassionevole, segno della mia buona indole, e non sapeva che derivava dall'allenamento al Club de las Damas della nonna e dal prosaico desiderio di conoscere i lavoratori dei campi per poi fotografarli. Fatta eccezione per don Sebastián, Eduardo e Diego, che erano stati cresciuti ed educati in un buon collegio e avevano compiuto il viaggio di prammatica in Europa, nessun altro da quelle parti sospettava quale fosse la reale dimensione del mondo. In quella casa i romanzi non erano ammessi; credo che a don Sebastián mancasse il coraggio di censurarli e per evitare che se ne leggesse qualcuno di quelli sulla lista nera della Chiesa, preferiva non andare per il sottile ed eliminarli tutti. I giornali arrivavano con tale ritardo che, più che notizie, portavano storia. Doña Elvira leggeva i suoi libri di preghiere e Adela, la sorella minore di Diego, possedeva un certo numero di testi di poesia, alcune biografie di personaggi storici e cronache di viaggi, che continuava a rileggere. Più tardi scoprii che riusciva a entrare in possesso di qualche romanzo di mistero cui strappava le copertine rimpiazzandole con quelle dei libri autorizzati dal padre. Quando arrivarono i miei bauli e le mie casse da Santiago fecero la loro comparsa centinaia di volumi che doña Elvira, con l'abituale dolcezza, mi chiese di non esibire davanti al resto della famiglia. Ogni settimana la nonna o Nívea mi spedivano materiale di lettura, che io custodivo in camera. I miei suoceri non dicevano nulla, confidando nel fatto, immagino, che quella cattiva abitudine mi sarebbe passata una volta che avessi avuto figli e non mi fossero più avanzate tante ore di ozio, come succedeva a mia cognata Susana, che aveva tre creature bellissime e molto viziate. Non si opposero, però, alla fotografia, probabilmente intuirono che sarebbe stato molto difficile piegarmi su questo punto, e anche se non si dimostrarono mai curiosi di vedere il mio lavoro, mi assegnarono una stanza in fondo alla casa dove potei sistemare il mio laboratorio.
Ero cresciuta in città, nell'ambiente confortevole e cosmopolita della casa della nonna, avevo goduto di molta più libertà rispetto a qualsiasi cilena di allora e di oggi, perché anche se sta volgendo al termine il primo decennio del ventesimo secolo, qui le cose non sono migliorate molto per le ragazze. Il cambio di vita sperimentato atterrando in seno alla famiglia Domínguez fu brutale, anche se loro cercarono di fare il possibile perché mi sentissi a mio agio. Si comportarono molto bene con me, fu facile imparare ad amarli; il loro affetto controbilanciò il carattere riservato e spesso scontroso di Diego, che in pubblico mi trattava come una sorella e in privato mi parlava a malapena. Le prime settimane, quelle in cui cercai di adattarmi, furono molto interessanti. Don Sebastián mi regalò una bella cavalla nera con una stella bianca sulla fronte e Diego mi mandò con un fattore a percorrere la tenuta e a conoscere lavoratori e vicini, insediati a tanti chilometri di distanza che ogni visita richiedeva tre o quattro giorni. Poi mi lasciò libera. Mio marito si dedicava ai lavori dei campi e alla caccia con il fratello e il padre e a volte si accampavano fuori per diversi giorni. Io non sopportavo la noia della casa, con le sue interminabili occupazioni quali vezzeggiare i bambini di Susana, preparare dolci e conserve, pulire e arieggiare, cucire e lavorare a maglia; quando terminavo il mio lavoro a scuola o nel dispensario della tenuta, indossavo un paio di pantaloni di Diego e partivo al galoppo. Mia suocera mi aveva messo in guardia dal montare a cavalcioni, come un uomo, perché avrei patito "problemi femminili", eufemismo che non riuscii a sciogliere del tutto, ma nessuno avrebbe potuto montare di lato in quel panorama di colline e dirupi senza correre il rischio di spaccarsi la testa in una caduta. Il paesaggio mi lasciava senza fiato sorprendendomi a ogni svolta del cammino, sbalordendomi. Cavalcavo su per le colline e giù per le vallate fino ai fitti boschi, un paradiso di larici, alloro, cannella, mirto e araucarie millenarie, legname fine che i Domínguez destinavano alla loro segheria. Mi inebriava l'aroma della selva umida, quella fragranza sensuale di terra rossa, linfa e radici; la pace della macchia sorvegliata da quei silenziosi giganti verdi; il mormorio misterioso della foresta: canto di acque invisibili, danza del vento imbrigliato nei rami, rumore di radici e di insetti, trilli di dolci colombe terraiole e grida di chiassosi rapaci. I sentieri terminavano alla segheria e oltre dovevo aprirmi un varco nella boscaglia, confidando nell'istinto della mia cavalla, le cui zampe sprofondavano in un limo color petrolio, consistente e odoroso come sangue vegetale. La luce filtrava attraverso l'immensa cupola degli alberi in chiari raggi obliqui, ma c'erano zone gelide in cui si acquattavano i puma, a spiarmi con i loro occhi fiammeggianti. Portavo un fucile legato alla sella, ma in caso d'emergenza non avrei avuto tempo di imbracciarlo e, comunque, non avevo mai sparato. Fotografai i boschi antichi, i laghi di sabbia nera, i fiumi tempestosi di pietre canterine e gli impetuosi vulcani che incoronavano l'orizzonte come draghi addormentati in torridi cenere. Scattai anche fotografie dei fittavoli della proprietà, che poi portavo loro in regalo e che ricevevano turbati, senza sapere cosa farsene di quelle immagini non richieste di se stessi. Mi affascinavano i loro volti segnati dalle intemperie e dalla povertà, ma a loro non piaceva vedersi così com'erano, con i loro cenci e i loro dolori sulle spalle, preferivano i ritratti dipinti a mano per i quali posare con l'unico abito buono, quello del matrimonio, ben lavati e pettinati, con i figli senza il moccio al naso.
Di domenica si sospendeva il lavoro e si celebravano la messa – quando potevamo contare su un sacerdote – o gli "apostolati", che le donne della famiglia praticavano visitando i contadini nelle loro case per catechizzarli. Così combattevano a suon di regalini e tenacia le credenze indigene che si intrecciavano con i santi cristiani. Io non mi incaricavo della predicazione religiosa, ma ne approfittavo per farmi conoscere dai contadini. Molti di loro erano indios che ancora utilizzavano parole della loro lingua e mantenevano vive le loro tradizioni, altri erano meticci, tutti umili e schivi in condizioni normali, ma rissosi e fracassoni quando bevevano. L'alcol era un balsamo amaro che per qualche ora li alleviava della terrestre oppressione di tutti i giorni corrodendogli al contempo le viscere come un sorcio nemico. Le ubriacature e le zuffe alle armi bianche venivano multate, così come altre infrazioni quali tagliare un albero senza permesso o lasciare liberi gli animati privati al di fuori del piccolo appezzamento che veniva assegnato a ognuno per la sussistenza della famiglia. Il furto e l'oltraggio ai superiori venivano puniti a bastonate, ma a don Sebastián ripugnavano i castighi corporali; aveva anche abolito lo ius primae noctis, una vecchia tradizione ereditata dall'epoca coloniale che permetteva ai padroni di deflorare le figlie dei contadini prima che si sposassero. Lui stesso aveva esercitato tale diritto in gioventù, ma dopo l'arrivo nella tenuta di doña Elvira si era messo fine a queste libertà. Non approvava nemmeno le visite ai postriboli dei paesi limitrofi e insisteva perché i figli si sposassero giovani in modo da evitare le tentazioni. Eduardo e Susana lo avevano fatto sei anni prima, quando entrambi ne avevano venti, e a Diego, ai tempi diciassettenne, avevano assegnato una ragazza imparentata con la famiglia, che era però annegata nel lago prima che il fidanzamento avesse un seguito. Eduardo, il fratello maggiore, era più gioviale di Diego, aveva il dono di saper raccontare le barzellette e cantare, conosceva tutte le leggende e le storie della regione, gli piaceva conversare e sapeva ascoltare. Era molto innamorato di Susana, gli si illuminavano gli occhi quando la vedeva e non si spazientiva mai per i suoi capricciosi mutamenti d'animo. Mia cognata soffriva di dolori al capo che generalmente la rendevano di pessimo umore, si chiudeva a chiave nella sua stanza, non mangiava e vigeva l'ordine di non disturbarla per nessun motivo, ma quando le passava il malanno riemergeva completamente in forze, sorridente e affettuosa; sembrava un'altra donna. Mi accorsi che dormiva sola, e che né il marito né i figli entravano nella sua camera senza autorizzazione, la sua porta era sempre chiusa a chiave. La famiglia era abituata alle sue emicranie e alle sue depressioni, ma quel desiderio di intimità pareva loro quasi un'offesa, esattamente come li stupiva che io non consentissi a nessuno di entrare senza permesso nella piccola camera oscura dove sviluppavo le fotografie, nonostante avessi spiegato quali danni poteva causare un raggio di luce ai miei negativi. A Caleufú non c'erano porte né luoghi chiusi a chiave, salvo le cantine e la cassaforte dell'ufficio. Si verificavano furtarelli, naturalmente, ma non avevano conseguenze perché in genere don Sebastián chiudeva un occhio. "Questa gente è molto ignorante, non ruba né per vizio né per necessità, ma solo per cattiva abitudine," diceva, per quanto, a dir la verità, i fittavoli avessero molti più bisogni di quanto il padrone ammettesse. I contadini erano liberi, ma in pratica vivevano da generazioni su quella terra e non passava loro per la mente che le cose potessero andare diversamente, non sapevano dove andare. Pochi giungevano alla vecchiaia. Molti bambini morivano durante l'infanzia di infezioni intestinali, morsicature di topi e polmoniti, le donne di parto e di consunzione, gli uomini a causa di incidenti, ferite infettate o intossicazione da alcol. L'ospedale più vicino era proprietà di tedeschi; ci lavorava un medico bavarese di grande fama, ma si affrontava il viaggio solo in caso di gravi emergenze, i mali minori si curavano con i segreti della natura, le preghiere e il ricorso alle meicas, le guaritrici indigene che conoscevano il potere delle piante locali meglio di chiunque altro.
Alla fine di maggio, l'inverno ci piombò addosso senza attenuanti, con la sua cortina di pioggia a ripulire il paesaggio come una paziente lavandaia e la sua prematura oscurità che ci obbligava a ritirarci alle quattro del pomeriggio trasformando le notti in un'eternità. Non potevo più uscire per le mie lunghe cavalcate o per fotografare la gente della tenuta. Eravamo isolati, le strade erano un pantano e nessuno veniva a farci visita. Passavo il tempo a sperimentare nuove tecniche di sviluppo nella camera oscura e a scattare foto alla famiglia. Venni allora a scoprire che tutto ciò che esiste intesse una relazione, è parte di un rigoroso disegno; quel che a prima vista può sembrare un viluppo di casualità, alla minuziosa analisi della macchina fotografica rivela gradualmente le sue perfette simmetrie. Niente è casuale, niente è banale. Così come nell'apparente caos vegetale di un bosco vige una stretta connessione di causa ed effetto, per ogni albero ci sono centinaia di uccelli, per ogni uccello, migliaia di insetti, per ogni insetto milioni di particelle organiche, allo stesso modo i contadini, con i loro lavori o la famiglia in casa, al riparo dell'inverno, sono tessere imprescindibili di un immenso mosaico. L'essenziale è spesso invisibile; è solo il cuore, e non l'occhio, a poterlo cogliere, ma la macchina fotografica a volte sfiora tracce di quella sostanza. Era questo che nella sua arte il maestro Ribero cercava di ottenere e che cercò di insegnarmi; superare la mera documentarietà per giungere al midollo, all'anima della realtà. Quelle sottili connessioni che prendevano vita sulla carta fotografica mi commuovevano profondamente e mi incoraggiavano a continuare a sperimentare. Nella reclusione dell'inverno aumentò la mia curiosità; nella misura in cui l'ambiente circostante si faceva più asfissiante e chiuso nel suo letargo all'interno dei grossi muri di mattoni, la mia mente diventava più inquieta. Iniziai a esplorare ossessivamente il contenuto della casa e i segreti dei suoi abitanti. Esaminai con occhi nuovi l'ambiente famigliare, come se lo vedessi per la prima volta, senza dar niente per scontato. Mi lasciavo guidare dall'intuito accantonando le idee preconcette, "vediamo solo quello che vogliamo vedere", diceva don Juan Ribero, e aggiungeva che il mio lavoro avrebbe dovuto mostrare ciò che nessuno aveva visto prima. Sulle prime i Domínguez posarono con sorrisi forzati, ma ben presto si abituarono alla mia discreta presenza e finirono con l'ignorare la macchina fotografica: fu allora che riuscii a coglierli nella loro naturalezza, tali com'erano. La pioggia si portò via fiori e foglie, la casa con i suoi mobili ingombranti e i grandi spazi vuoti si chiuse all'esterno e rimanemmo intrappolati in una strana prigionia domestica. Giravamo per le stanze illuminate dalle candele, schivando le gelide correnti d'aria; i pavimenti in legno scricchiolavano come vedove gementi e si udivano i passetti furtivi dei topi intenti nelle loro faccende; regnava odore di fango, di tegole bagnate, di vestiti ammuffiti. I domestici accendevano bracieri e camini, le cameriere ci portavano bottiglie d'acqua calda, coperte e scodelle di cioccolata fumante, ma non c'era modo di ingannare il lungo inverno. Fu allora che cedetti alla solitudine.
Diego era un fantasma. Cerco adesso di ricordare qualche momento condiviso con lui, ma riesco a vederlo solo come un mimo sul palcoscenico, privo di voce e separato da me da un ampio fossato. Ho nella mente – e nella mia collezione di fotografie di quell'inverno – molte immagini di lui mentre lavora nei campi o in casa, sempre indaffarato con qualcuno, mai con me, distante ed estraneo. Fu impossibile entrare in intimità con lui, ci separava un abisso silenzioso e i miei tentativi di scambiare qualche idea o di appurare i suoi sentimenti si scontravano contro la sua ostinata vocazione all'assenza. Sosteneva che ormai c'eravamo già detti tutto, se ci eravamo sposati era perché ci volevamo bene, non c'era bisogno di approfondire l'evidenza. All'inizio il suo mutismo mi offendeva, ma poi capii che si comportava così con tutti tranne che con i suoi nipoti; con i bambini sapeva essere allegro e tenero, forse desiderava quanto me avere dei figli, ma ogni mese venivamo beffati. Neanche di questo parlavamo, era uno dei tanti argomenti legati al corpo e all'amore che per pudore non affrontavamo. In qualche occasione cercai di dirgli che mi sarebbe piaciuto che mi accarezzasse, ma lui si metteva immediatamente sulla difensiva, ai suoi occhi una donna onesta non doveva sentire quel genere di bisogni e tanto meno esprimerli. Ben presto la sua reticenza, la mia vergogna e l'orgoglio di entrambi alzarono fra noi una muraglia cinese. Avrei dato qualsiasi cosa per poter parlare con qualcuno di quanto succedeva dietro la nostra porta chiusa, ma mia suocera era eterea come un angelo, con Susana non avevo stretto una vera amicizia, Adela aveva appena compiuto sedici anni e Nívea era troppo lontana, e io non osavo mettere per iscritto queste inquietudini. Diego e io continuavamo a fare l'amore – per chiamarlo in qualche modo – di tanto in tanto, sempre come la prima volta, la convivenza non ci aveva avvicinato, ma questo dispiaceva solo a me, lui si sentiva a suo agio in quella relazione. Non litigavamo e ci trattavamo con una cortesia forzata, anche se io avrei preferito mille volte una guerra aperta piuttosto che i nostri cupi silenzi. Mio marito evitava di ritrovarsi da solo con me: alla sera tirava in lungo le partite a carte fino a quando io, vinta dalla stanchezza, andavo a coricarmi; la mattina saltava giù dal letto al canto del gallo e persino di domenica, quando il resto della famiglia si alzava tardi, lui trovava qualche pretesto per uscire di buon'ora. Io, invece, vivevo in funzione dei suoi stati d'animo, mi affrettavo a servirlo in mille cose e feci il possibile per attrarlo e rendergli la vita piacevole; il cuore mi balzava in gola quando udivo i suoi passi o la sua voce. Non mi stancavo mai di guardarlo, mi sembrava bello come gli eroi delle favole; a letto toccavo le sue spalle ampie e forti cercando di non svegliarlo, i suoi capelli folti e ondulati, i muscoli delle gambe e il collo. Mi piaceva il suo profumo di sudore, terra e cavallo quando tornava dai campi, di sapone inglese dopo che si era fatto il bagno. Sprofondavo il viso nei suoi vestiti per aspirare la sua fragranza maschile, non osando farlo con il suo corpo. Ora, grazie alla distanza del tempo e della libertà acquisita negli ultimi anni, sono consapevole di quanto mi umiliai per amore. Misi tutto da parte, dalla mia personalità al mio lavoro, per sognare un paradiso domestico che non era per me.
Durante quel protratto e ozioso inverno, la famiglia dovette ricorrere a svariati espedienti dell'immaginazione per combattere la noia. Avevano tutti buon orecchio per la musica, suonavano diversi strumenti e così i pomeriggi trascorrevano in concerti improvvisati. Susana era solita deliziarci avvolta in una tunica di velluto logoro, con un turbante alla turca in testa e gli occhi anneriti con il carboncino, cantando con roca voce da gitana. Doña Elvira e Adela organizzarono lezioni di cucito per le donne e cercarono di mantenere attiva la piccola scuola, ma solamente i figli dei fittavoli che abitavano vicino riuscivano a sfidare il clima e a venire a lezione; ogni giorno si recitava un rosario invernale che attirava grandi e piccini perché dopo venivano serviti torta e cioccolata. Susana ebbe l'idea di allestire un'opera teatrale per festeggiare la fine del secolo e questa iniziativa ci tenne occupati per settimane a stendere il copione, imparare le parti, approntare il palcoscenico in uno dei granai, cucire i costumi e fare le prove. L'intreccio, ovviamente, era una prevedibile allegoria su vizi e sventure del passato, vinti dall'incandescente scimitarra della scienza, della tecnologia e del progresso del ventesimo secolo. Oltre al teatro, organizzammo tornei di tiro al bersaglio e di parole del dizionario, campionati di ogni tipo, dagli scacchi alla costruzione di burattini, all'edificazione di villaggi con fiammiferi, ma di ore ne avanzavano sempre. Feci di Adela la mia assistente nel laboratorio fotografico e di nascosto iniziammo a scambiarci i libri; io le prestavo quelli che mi arrivavano da Santiago e lei i suoi romanzi di mistero che divoravo con passione. Mi trasformai in un'esperta investigatrice, e in genere indovinavo l'identità dell'omicida prima dell'ottantesima pagina. Il catalogo era limitato e, per quanto ci sforzassimo di far durare le letture, i libri terminavano presto, e allora io e Adela giocavamo a modificare le storie o a inventare complicatissimi crimini che l'altra doveva risolvere. "Che cosa continuate a bisbigliarvi voi due?" ci domandava spesso mia suocera. "Niente, mamma, pianifichiamo omicidi," replicava Adela con il suo innocente sorriso da coniglietto. Doña Elvira rideva, ben lontana dal supporre quanto fosse veritiera la risposta della figlia.
Eduardo, in qualità di primogenito, alla morte di don Sebastián avrebbe ereditato la proprietà, ma aveva costituito una società con il fratello per amministrarla insieme. Mi piaceva mio cognato, era dolce e giocherellone, mi faceva un sacco di scherzi e mi portava piccoli regali, agate trasparenti dal letto del fiume, una modesta collana dalla riserva mapuche, fiori silvestri, una rivista di moda che commissionava in paese, nel tentativo di compensare l'indifferenza del fratello nei miei confronti, evidente a tutti i membri della famiglia. Mi prendeva spesso la mano e mi domandava ansioso se stavo bene, se avevo bisogno di qualcosa, se sentivo la mancanza della nonna, se a Caleufú mi annoiavo. Susana, invece, sprofondata in quella sua languidezza da odalisca piuttosto simile all'indolenza, mi ignorava per la maggior parte del tempo e aveva un modo impertinente di darmi le spalle, lasciandomi con le parole a mezz'aria. Formosa, dalla carnagione dorata e grandi occhi scuri, era una vera bellezza, ma credo non fosse cosciente della sua avvenenza. Non c'era con chi esibirla, esclusi i famigliari, motivo per cui dedicava scarso impegno alla cura della sua persona, tanto che a volte non si pettinava neanche e passava la giornata infagottata in una vestaglia con ai piedi delle pantofole di pelle di pecora, sonnolenta e triste. Altre volte, invece, appariva splendente come una principessa araba, con la lunga chioma nera raccolta in una crocchia con pettinini di tartaruga e una collana d'oro che le segnava il contorno perfetto del collo. Quando era di buon umore, le piaceva posare per me; una volta, a tavola, suggerì che la fotografassi nuda. Fu una provocazione che ebbe gli effetti di una bomba su quella famiglia così conservatrice; a doña Elvira quasi venne un altro attacco di cuore e Diego, scandalizzato, si levò in piedi in modo talmente inconsulto da far cadere per terra la sedia. Se Eduardo non avesse fatto una battuta, si sarebbe scatenato un dramma. Adela, la meno aggraziata dei fratelli Domínguez, con il viso da coniglietto e quegli occhi celesti persi in un mare di lentiggini, era senz'altro la più simpatica. La sua allegria era una certezza, come la luce del mattino; si poteva contare su di lei per risollevare gli animi anche nelle più profonde ore invernali, quando il vento ululava tra le tegole ed eravamo già tutti stufi di giocare a carte alla luce di una candela. Suo padre don Sebastián la adorava, non le negava nulla ed era solito chiederle, un po' per gioco, un po' sul serio, di non sposarsi così da poterlo curare durante la vecchiaia.
L'inverno venne e se ne andò, lasciandosi dietro tra i fittavoli due bambini e un anziano morti di polmonite; mancò anche la nonna che viveva in casa e che, stando ai loro calcoli, era vissuta più di un secolo, perché aveva già fatto la prima comunione quando il Cile aveva dichiarato l'indipendenza dalla Spagna, nel 1810. Vennero tutti sepolti con poche cerimonie nel cimitero di Caleufú, trasformato in un pantano dai temporali torrenziali. Non smise di piovere fino a settembre, quando la primavera iniziò a germogliare ovunque e finalmente potemmo uscire nel patio a stendere al sole i vestiti e i materassi ammuffiti. Doña Elvira aveva trascorso quei mesi avvolta in scialli, passando dal letto alla poltrona, sempre più debole. Una volta al mese, con molta discrezione, mi domandava se "c'erano novità" e siccome non ce n'erano incrementava le sue preghiere affinché io e Diego le dessimo altri nipoti. Nonostante le lunghissime notti di quell'inverno, l'intimità con mio marito non se ne avvantaggiò. Ci ritrovavamo al buio, in silenzio, quasi come due nemici, e io restavo sempre con quel medesimo sentimento di frustrazione e di irrefrenabile angoscia della prima volta. Avevo la sensazione che ci abbracciassimo solo quando io prendevo l'iniziativa, ma può darsi che mi sbagli, forse non andava sempre così. Con l'arrivo della primavera, ripresi a fare escursioni nei boschi e verso i vulcani da sola; galoppando in quelle immensità riuscivo in parte a placare la fame d'amore, e la fatica e le natiche ammaccate dalla sella avevano la meglio sui desideri repressi. Tornavo al pomeriggio, impregnata dell'umidità del bosco e del sudore del cavallo, mi facevo preparare un bagno caldo e rimanevo per ore nell'acqua profumata di foglie d'arancio. "Fai attenzione, figlia mia, le cavalcate e i bagni sono dannosi per il ventre, causano sterilità," mi avvertiva la mia tormentata suocera. Doña Elvira era una persona semplice, tutta bontà e spirito di servizio, con un'anima trasparente che si rifletteva nell'acqua placida dei suoi occhi celesti, la madre che avrei voluto avere. Trascorrevo molte ore al suo fianco, mentre lei lavorava a maglia per i suoi nipoti raccontandomi e riraccontandomi le stesse piccole storie della sua vita e di Caleufú, mentre io l'ascoltavo con il tormento della consapevolezza che non sarebbe durata ancora molto in questa vita. Già allora sospettavo che un figlio non avrebbe ridotto la distanza tra me e Diego, ma lo desideravo se non altro per poterlo offrire come regalo a doña Elvira. Immaginare la mia vita in quella tenuta senza di lei mi provocava una terribile angoscia.
Il secolo volgeva al termine e i cileni lottavano per essere parte del progresso industriale dell'Europa e degli Stati Uniti, ma i Domínguez, come molte altre famiglie conservatrici, guardavano con paura all'abbandono delle abitudini tradizionali e alla tendenza a imitare le mode straniere. "Sono diavolerie belle e buone," diceva don Sebastián quando leggeva dei progressi tecnologici sulle copie arretrate dei giornali. Suo figlio Eduardo era l'unico interessato al futuro, Diego viveva nel suo isolamento, Susana con le sue emicranie e Adela non era ancora uscita dal guscio. Per quanto vivessimo ai margini, gli echi del progresso ci raggiungevano e non potevamo ignorare i mutamenti della società. A Santiago era scoppiata la mania degli sport, i giochi e le passeggiate all'aria aperta, più consona a eccentrici inglesi che non ai pigri discendenti degli hidalgos del regno di Castilla y León. Una ventata d'arte e cultura proveniente dalla Francia rinfrescava l'ambiente e un pesante cigolio di macchinari tedeschi interrompeva la lunga siesta coloniale del Cile. Si stava formando una classe media arrivista e istruita che puntava a vivere come i ricchi. La crisi sociale che stava scuotendo le fondamenta del paese con scioperi, violenze, disoccupazione e cariche della polizia a sciabole sguainate era un brusio lontano che non alterava il ritmo della nostra esistenza a Caleufú, ma, sebbene nella tenuta continuassimo a vivere come i trisnonni che avevano dormito in quegli stessi letti cent'anni prima, il ventesimo secolo stava per raggiungere anche noi.
Nonna Paulina era sfiorita molto, mi raccontavano per lettera Frederick Williams e Nívea del Valle; stava soccombendo ai numerosi acciacchi della vecchiaia e al presentimento della morte. Si erano resi conto di quanto fosse invecchiata quando Severo del Valle le aveva portato le prime bottiglie del vino ottenuto dai vitigni che maturavano più tardi e che, come erano venuti a sapere, si chiamavano carmenere: un vino rosso morbido e voluttuoso, con una percentuale molto bassa di tannino, buono come i migliori vini di Francia, che venne battezzato Viña Paulina. Finalmente avevano tra le mani un prodotto unico, che avrebbe dato loro fama e denaro. La nonna lo aveva assaggiato appena. "È un peccato che non potrò goderne, se lo berranno gli altri," aveva detto e poi non lo aveva più nominato. Non si erano verificati l'esplosione d'allegria e i commenti arroganti che accompagnavano abitualmente i suoi trionfi finanziari; dopo una vita spregiudicata, stava diventando umile. Il segno più chiaro della sua debolezza era la quotidiana presenza del noto sacerdote dalla sottana bisunta che faceva la ronda intorno agli agonizzanti per sottrarre loro il patrimonio. Non so se di sua iniziativa, o se istigata da quel vecchio menagramo, la nonna aveva esiliato in fondo a una cantina il celebre letto mitologico su cui aveva trascorso metà della sua vita e al suo posto aveva collocato una branda da soldato con un materasso di crine di cavallo. Questo mi parve un sintomo molto allarmante e non appena si fu asciugato il fango delle strade annunciai a mio marito che dovevo andare a Santiago a trovare la nonna. Mi aspettavo qualche obiezione, ma non andò così e in meno di ventiquattr'ore Diego aveva organizzato il mio trasporto su un carro fino al porto, da dove avrei preso la nave per Valparaíso, per proseguire poi verso Santiago in treno. Adela moriva dalla voglia di accompagnarmi e si dedicò con tanto impegno a sedersi in braccio al padre, a mordicchiargli le orecchie, a tirargli le basette e a pregarlo, che alla fine don Sebastián non riuscì a negarle quel nuovo capriccio, nonostante doña Elvira, Eduardo e Diego non fossero d'accordo. Non ci fu bisogno che argomentassero le loro ragioni, intuii che non ritenevano appropriato il clima che avevano respirato a casa della nonna e reputavano che non fossi sufficientemente matura per prendermi cura della ragazzina come si doveva. Alla fine partimmo per Santiago insieme a una coppia di amici tedeschi che si imbarcavano sullo stesso vapore. Indossavamo uno scapolare del Sacro Cuore di Gesù per proteggerci da tutti i mali, amen, il denaro cucito in una borsina sotto il corsetto, istruzioni precise di non parlare con gli sconosciuti e più bagagli di quelli necessari per fare il giro del mondo.
Io e Adela trascorremmo a Santiago un paio di mesi che sarebbero stati meravigliosi se la nonna non fosse stata ammalata. Ci ricevette con simulato entusiasmo e, in animo, progetti quali fare passeggiate, andare a teatro e in treno a Viña del Mar a prendere l'aria della costa, ma all'ultimo momento ci mandava con Frederick Williams e lei si tirava indietro. Andò così quando intraprendemmo il viaggio in carrozza per fare visita a Severo e Nívea del Valle ai vigneti, che in quel periodo stavano producendo le prime bottiglie di vino da esportazione. La nonna riteneva che Viña Paulina fosse un nome troppo creolo e aveva deciso di sostituirlo con qualcosa di francese per poterlo vendere negli Stati Uniti, dove, stando a lei, nessuno ci capiva niente di vini, ma Severo si era opposto a un simile raggiro. Trovai Nívea con lo chignon striato di capelli bianchi e un po' ingrassata, ma invariabilmente agile, spudorata e discola, circondata dai figli più piccoli. "Credo che finalmente stia per arrivarmi il cambiamento, adesso potremo fare l'amore senza paura di avere un altro bambino," mi sussurrò all'orecchio, senza poter minimamente immaginare che diversi anni dopo sarebbe venuta al mondo Clara, la chiaroveggente, la più strana delle creature nate nel numeroso e stravagante clan dei del Valle. La piccola Rosa, la cui bellezza faceva tanto parlare, aveva cinque anni. Mi dispiace che la fotografia non possa cogliere i suoi colori, sembra una figlia del mare con quegli occhi gialli e i capelli verdi come bronzo anticato. Già allora era una creatura angelica, un po' indietro per la sua età, che passava fluttuando come un'apparizione. "Da dove è uscita? Deve essere figlia dello Spirito Santo," scherzava sua madre. Quella splendida bambina era giunta a consolare Nívea della perdita di due dei piccoli morti di difterite e della lunga malattia che stava minando i polmoni di un terzo. Cercai di toccare l'argomento con Nívea – si dice che non ci sia sofferenza più terribile della perdita di un figlio – ma lei cambiava discorso. Il massimo che arrivò a dirmi fu che da secoli e secoli le donne soffrivano il dolore di mettere al mondo i loro figli per poi doverli seppellire, lei non era certo un'eccezione. "Sarebbe molto presuntuoso da parte mia supporre che Dio mi benedice mandandomi molti figli e che tutti mi sopravviveranno," disse.
Paulina del Valle non era nemmeno l'ombra di quella che era stata, aveva perso interesse per il cibo e per gli affari, riusciva a stento a camminare perché le ginocchia le venivano meno, ma era più lucida che mai. Sul suo comodino erano allineate le boccette di medicine e tre suore facevano a turno per assisterla. La nonna sapeva che non avremmo avuto molte altre opportunità di stare insieme e per la prima volta nella nostra relazione si dispose a rispondere alle mie domande. Ci mettemmo a sfogliare gli album di fotografie che lei mi commentò a una a una; mi raccontò la storia del letto commissionato a Firenze e della sua rivalità con Amanda Lowell che, vista dalla prospettiva della sua età, risultava piuttosto comica, e mi parlò di mio padre e del ruolo di Severo del Valle nella mia infanzia, ma eluse risolutamente la questione dei miei nonni materni e di Chinatown; mi disse che mia madre era stata una modella americana di grande bellezza, e nient'altro. Alcuni pomeriggi ci sedevamo nella veranda a vetrate a chiacchierare con Severo e Nívea del Valle. Mentre lui parlava degli anni a San Francisco e delle sue esperienze successive alla guerra, lei mi ricordò alcuni particolari di quanto era accaduto durante la rivoluzione, quando io avevo solo undici anni.
La nonna non si lamentava, ma zio Frederick mi avvisò che pativa acuti dolori di stomaco e che le costava una fatica immensa vestirsi ogni mattina. Fedele al credo che si ha l'età che si dimostra, continuava a tingersi i radi capelli che le spuntavano ancora in testa, ma non si pavoneggiava più con gioielli da imperatrice come faceva prima, "gliene sono rimasti molto pochi", mi sussurrò misteriosamente suo marito. La casa aveva un aspetto trascurato come la sua padrona, i quadri mancanti avevano lasciato spazi chiari sulla tappezzeria, c'erano meno mobili e tappeti, le piante tropicali della veranda erano un ginepraio avvizzito e polveroso e gli uccelli tacevano nelle loro gabbie. Quanto mi aveva anticipato zio Frederick per lettera a proposito della branda da soldato su cui dormiva la nonna era vero. Aveva sempre occupato la stanza più grande della casa e il famoso letto mitologico vi si ergeva nel mezzo come un trono papale; era da lì che dirigeva il suo impero. Trascorreva le mattine tra le lenzuola, circondata dalle acquatiche figure policrome che un artigiano fiorentino aveva intagliato quarant'anni prima, studiando i libri contabili, dettando la corrispondenza, inventando nuovi affari. Sotto le lenzuola l'obesità spariva e riusciva a ottenere un effetto di fragilità e bellezza. Le avevo scattato innumerevoli fotografie in quel letto d'oro e mi venne voglia di fotografarla ora, su una branda da penitente, con la sua modesta camicia di spighetta e lo scialle da nonnina, ma si rifiutò categoricamente. Notai che dalla sua camera erano spariti i bei mobili francesi di seta capitonné, il grande scrittoio di legno di rosa con intarsi di madreperla venuto dall'India, i tappeti e i quadri, e che come unica decorazione c'era un grande Cristo crocifisso. "Sta regalando i mobili e i gioielli alla Chiesa," mi spiegò Frederick Williams e alla luce di questa constatazione decidemmo di sostituire le suore con delle infermiere e di trovare il modo di impedire, anche a costo di ricorrere alla forza se necessario, le visite del prete apocalittico che, oltre a portarsi via delle cose, contribuiva a seminare il panico. Iván Radovic, l'unico medico di cui Paulina del Valle si fidava, approvò pienamente tali misure. Fu un piacere rivedere quel vecchio amico – la vera amicizia resiste al tempo, alla distanza e al silenzio, come mi disse – e confessargli, ridendo, che nella mia memoria appariva sempre travestito da Gengis Khan. "Sono gli zigomi slavi," mi spiegò di buon grado. Aveva ancora una vaga aria da comandante tartaro, ma il contatto con gli ammalati nell'ospedale dei poveri in cui lavorava lo aveva addolcito e inoltre, in Cile, non aveva un aspetto così esotico come in Inghilterra; poteva benissimo passare per un toqui araucano, più alto e più pulito. Era un uomo silenzioso, che ascoltava con immensa attenzione persino il parlottio incessante di Adela, che si innamorò immediatamente di lui e, abituata com'era a sedurre il padre, applicò la medesima tecnica per abbindolare Iván Radovic. Sfortunatamente per lei, il dottore la vedeva come una ragazzina, innocente e spiritosa, ma pur sempre una ragazzina. La totale mancanza di cultura di Adela e la petulanza con cui sosteneva le più madornali sciocchezze non lo infastidivano, credo che lo divertissero, anche se i suoi ingenui moti di civetteria riuscivano a farlo arrossire. Il dottore ispirava fiducia, mi risultava facile parlargli di argomenti di cui raramente facevo cenno con altre persone per timore di annoiarle, come la fotografia. A lui interessava perché da vari anni la si stava utilizzando in medicina in Europa e negli Stati Uniti; mi chiese di insegnargli a usare la macchina fotografica per tenere un registro delle operazioni e dei sintomi esterni dei suoi pazienti da mostrare a conferenze e lezioni e con questo pretesto andammo a trovare don Juan Ribero, ma trovammo lo studio chiuso e un cartello di vendita. Il parrucchiere del negozio di fianco ci spiegò che il maestro non lavorava più per via delle cataratte a entrambi gli occhi, ma ci fornì il suo indirizzo e andammo a fargli visita. Viveva in un edificio di via Monjitas che aveva conosciuto tempi migliori, grande, antico e abitato da fantasmi. Una domestica ci guidò attraverso diverse stanze tutte comunicanti tra loro, tappezzate dal soffitto al pavimento di fotografie di Ribero, fino a una sala con vecchi mobili di mogano e sgangherate poltrone di felpa. Non c'erano lampade accese; solo dopo qualche secondo abituammo gli occhi a quella penombra e riuscimmo a intravedere il maestro seduto con un gatto sulle ginocchia vicino alla finestra da cui penetravano gli ultimi riflessi del pomeriggio. Si alzò in piedi e ci venne incontro con grande sicurezza per salutarci, niente nell'incedere denunciava la sua cecità.
"Signorina del Valle! Mi scusi, ora è la signora Domínguez, vero?" esclamò tendendomi le mani.
"Aurora, maestro, la stessa Aurora di sempre," replicai abbracciandolo. Poi gli presentai il dottor Radovic e gli parlai del suo desiderio di imparare a fotografare per scopi medici.
"Non posso più insegnarle niente, amico mio. Il cielo mi ha colpito nel punto più doloroso, la vista. Un fotografo cieco, pensi che ironia della sorte!"
"Non vede niente, maestro?" chiesi allarmata.
"Con gli occhi non vedo niente, ma continuo a guardare il mondo. Mi dica, Aurora, è cambiata? Com'è adesso? L'immagine più nitida che ho di lei è quella di una ragazzina di tredici anni inchiodata davanti alla porta del mio studio con la cocciutaggine di un mulo."
"Continuo a essere la stessa, don Juan, timida, sciocca e testarda."
"No, no, mi dica per esempio com'è pettinata e di che colore è il suo vestito."
"La signora indossa un abito bianco, leggero, con lo scollo di pizzo, non so di quale stoffa perché di queste cose non me ne intendo, e una cintura gialla, come il nastro del cappello. Le garantisco che è molto graziosa," disse Radovic.
"Non mi metta in imbarazzo, dottore, la prego," lo interruppi.
"E adesso la signora ha le guance arrossate..." aggiunse, e i due uomini scoppiarono a ridere all'unisono.
Il maestro suonò un campanello ed entrò la domestica con il vassoio del caffè. Trascorremmo un'ora molto piacevole a parlare delle nuove tecniche, delle macchine fotografiche che si usavano in altri paesi e degli incredibili progressi della fotografia scientifica; don Juan Ribero era aggiornato su tutto.
"Aurora possiede l'intensità, la concentrazione e la pazienza necessarie a qualsiasi artista. Immagino che le stesse cose siano indispensabili a un buon medico, vero? Le chieda di mostrarle il suo lavoro, dottore, è modesta e non lo farà se lei non insiste," suggerì il maestro a Iván Radovic quando ci congedammo.
Qualche giorno più tardi si presentò l'occasione per farlo. La nonna si era svegliata con terribili dolori allo stomaco, i suoi calmanti abituali non riuscivano ad alleviarglieli e quindi chiamammo Radovic, che accorse immediatamente a somministrarle un forte composto di laudano. La lasciammo a riposare nel suo letto, uscimmo dalla camera e una volta fuori Radovic mi spiegò che si trattava di un altro tumore, ma che era ormai troppo anziana per tentare un nuovo intervento, non avrebbe retto all'anestesia; lui poteva solamente cercare di tenere sotto controllo il dolore e assisterla affinché morisse in pace. Volli sapere quanto tempo le restava, ma non era facile stabilirlo, perché nonostante l'età la nonna era molto forte e il tumore progrediva lentamente. "Si prepari, Aurora, perché la fine può arrivare nel giro di pochi mesi," disse. Non riuscii a trattenere le lacrime, Paulina del Valle rappresentava le mie uniche radici, senza di lei mi sarei trovata alla deriva e il fatto di avere Diego come marito non mitigava affatto quella sensazione di naufragio, anzi, la aumentava. Radovic mi allungò il suo fazzoletto e rimase in silenzio, senza guardarmi, confuso dal mio pianto. Gli fece promettere che mi avrebbe avvisata per tempo in modo da poter giungere dalla campagna per accompagnare la nonna negli ultimi momenti. Il laudano aveva fatto effetto e la nonna si era tranquillizzata in fretta; quando si fu addormentata accompagnai Iván Radovic all'uscita. Sulla portami chiese se poteva fermarsi ancora un momento, aveva un'ora libera e fuori c'era molto caldo. Adela stava facendo il sonnellino pomeridiano, Frederick Williams era andato al club a nuotare e l'immensa casa di via Ejército Libertador sembrava una nave immobile. Gli offrii un bicchiere d'orzata e ci accomodammo nella veranda con le felci e le gabbie con gli uccelli.
"Fischi, dottor Radovic," gli suggerii.
"Devo fischiare? Perché?"
"Secondo gli indios, fischiando si richiama il vento. Abbiamo bisogno di un soffio di brezza per placare la calura."
"Mentre fischio, perché non mi porta le sue fotografie? Mi piacerebbe molto vederle," mi chiese.
Tornai con diverse scatole e mi sedetti al suo fianco cercando di spiegargli il mio lavoro. Gli mostrai dapprima alcune foto scattate in Europa, quando ancora mi interessava più l'estetica del contenuto, poi le stampe in platino di Santiago, quelle degli indios e dei contadini della tenuta, e infine quelle dei Domínguez. Le osservò con la stessa attenzione con cui visitava la nonna, domandando qualcosa di tanto in tanto. Si soffermò su quella della famiglia di Diego.
"Chi è questa donna così bella?" volle sapere.
"È Susana, la moglie di Eduardo, mio cognato."
"E immagino che questo sia Eduardo, vero?" disse indicando Diego.
"No, questo è Diego. Perché pensava che fosse il marito di Susana?"
"Non saprei, mi sembrava..."
Quella sera stesi le fotografie per terra e rimasi ore a guardarle. Andai a letto molto tardi, angosciata.
Dovetti congedarmi dalla nonna perché era giunta l'ora di tornare a Caleufú. Nel soleggiato dicembre di Santiago, Paulina del Valle si sentiva meglio – anche per lei l'inverno era stato molto lungo e solitario – e mi promise che, dopo Capodanno, anziché andare al mare come facevano quelli che potevano fuggire la canicola della città, sarebbe venuta a trovarmi insieme a Frederick Williams. Stava talmente bene che ci accompagnò in treno a Valparaíso, dove io e Adela ci imbarcammo per il Sud. Tornavamo in campagna prima di Natale, perché non potevamo mancare alla festa più importante dell'anno per i Domínguez. Con mesi di anticipo doña Elvira aveva preparato i regali per i contadini, fatti in casa o comprati in città; vestiti e giocattoli per i bambini, stoffa per abiti o lana da lavorare a maglia per le donne, utensili per gli uomini. In quel giorno si distribuivano animali, sacchi di farina, patate, chancaca o zucchero di canna, fagioli e granoturco, charqui ovvero carne essiccata, erbe per le infusioni di mate, sale e barattoli di cotognata, preparata in enormi padelle di rame sui falò all'aria aperta. I fittavoli della proprietà giunsero dai quattro punti cardinali, alcuni camminarono per giorni interi con le mogli e i figli per arrivare alla festa. Vennero abbattuti bovini e capre, furono cucinate patate e pannocchie fresche, e si prepararono pentole di fagioli. A me toccò decorare con fiori e rami di pino le lunghe tavolate disposte nel patio e preparare le brocche di vino annacquato e zuccherato, che non era in grado di ubriacare gli adulti e che i bambini bevevano insieme alla farina tostata. Venne un sacerdote e si fermò per due o tre giorni a battezzare i bambini, confessare i peccatori, sposare i conviventi e redarguire gli adulteri. A mezzanotte del ventiquattro dicembre si celebrò la messa natalizia su un altare di fortuna innalzato all'aperto, perché nella piccola cappella della proprietà non c'era posto per tanta gente, e all'alba, dopo una succulenta colazione con caffellatte, pane fatto in casa, panna, marmellata e frutti estivi, il Bambin Gesù venne condotto in allegra processione perché tutti potessero baciare i suoi piedi di maiolica. Don Sebastián designava la famiglia che più si era distinta per la sua condotta morale e gli consegnava il Bambin Gesù. Per un anno, fino al Natale successivo, l'urna di vetro con la piccola statua avrebbe occupato un posto d'onore nella capanna di quei contadini che si erano guadagnati la protezione divina. Fino a quando vi fosse rimasto, non sarebbe potuto succedere niente di male. Don Sebastián faceva in modo che ogni famiglia avesse l'opportunità di offrire rifugio a Gesù sotto il proprio tetto. Quell'anno avevamo anche organizzato l'opera allegorica sull'arrivo del ventesimo secolo, alla quale parteciparono tutti i membri della famiglia, tranne doña Elvira, troppo debole, e Diego, che preferì assumersi la responsabilità delle questioni tecniche, come le luci e i fondali dipinti. Don Sebastián, di ottimo umore, accettò il triste ruolo dell'anno vecchio che se ne andava brontolando e uno dei bambini di Susana – ancora in fasce – rappresentò l'anno nuovo.
Alla voce del pranzo gratuito accorsero anche alcuni indios pehuenches. Erano molto poveri – avevano perso le loro terre e i piani di sviluppo del governo li ignoravano – ma per orgoglio non arrivarono a mani vuote; sotto le coperte portavano alcune mele che ci offrirono coperte di sudore e sporcizia, un coniglio morto che puzzava di carogna e alcune zucche contenenti del muchi, un liquore preparato con un piccolo frutto violaceo masticato e sputato in un pentolino insieme alla saliva dove poi lo si lasciava fermentare. Il vecchio cacicco camminava davanti con le tre mogli e i cani, seguito da una ventina di membri della tribù, gli uomini con le lance in pugno perché nonostante quattro secoli di sconfitte e di abusi non avevano perso il loro aspetto battagliero. Le donne, nient'affatto timide, erano altrettanto potenti e indipendenti degli uomini, regnava un'uguaglianza tra sessi che Nívea del Valle avrebbe applaudito. Salutarono cerimoniosamente nella loro lingua chiamando "fratelli" don Sebastián e i suoi figli, che diedero loro il benvenuto e li invitarono a partecipare al banchetto, pur sorvegliandoli da vicino perché al primo momento buono rubavano. Mio suocero sosteneva che fossero privi del senso della proprietà perché abituati alla vita comunitaria e alla condivisione, ma Diego ribatteva che gli indios, così veloci nel sottrarre le cose altrui, non permettevano a nessuno di toccare le loro. Temendo che si ubriacassero e diventassero violenti, don Sebastián offrì al capo un barile di acquavite come incentivo per quando se ne fossero andati, dato che non si poteva aprire nella sua proprietà. Si sedettero formando un grande cerchio a mangiare, bere e fumare tutti dalla stessa pipa e a fare lunghi discorsi che nessuno ascoltava, senza mescolarsi ai contadini di Caleufú, anche sei bambini correvano tutti insieme. Quella festa mi diede l'opportunità di fotografare gli indios a mio piacimento e di stringere amicizia con alcune delle donne, nella speranza che mi permettessero di far loro visita nell'accampamento dall'altra parte del lago, dove si erano installati per passare l'estate. Quando si esauriva il foraggio o il paesaggio gli veniva a noia, sradicavano i pali che sostenevano le loro dimore, arrotolavano i teli delle tende e partivano a caccia di nuove terre. Se fossi riuscita a trascorrere un po' di tempo con loro, forse si sarebbero abituati alla mia presenza e alla macchina fotografica. Desideravo fotografarli intenti nelle loro faccende quotidiane, idea che fece orrore ai miei suoceri, perché circolava ogni sorta di storia raccapricciante a proposito delle usanze di quelle tribù nelle quali il paziente lavoro dei missionari non aveva lasciato che una sbiadita verniciatina.
Nonna Paulina non venne a trovarmi quell'estate, come aveva promesso. Il viaggio in treno o in nave era sopportabile, ma i due giorni sul carro trainato dai buoi dal porto a Caleufú la spaventò. Le sue lettere settimanali rappresentavano il mio principale contatto con il mondo esterno e a mano a mano che passavano le settimane la mia nostalgia cresceva. Il mio animo mutò, mi feci scontrosa, giravo più taciturna del solito, trascinandomi dietro la mia frustrazione come un pesante velo nuziale. La solitudine mi avvicinò a mia suocera, quella donna dolce e discreta, totalmente dipendente dal marito, senza idee proprie, incapace di lottare contro le più piccole difficoltà della vita, ma che compensava la mancanza di lumi con un'immensa bontà. I miei silenziosi attacchi di rabbia si riducevano in briciole in sua presenza, doña Elvira aveva il dono di restituirmi l'equilibrio e di placare l'ansia che a volte mi soffocava.
Durante quei mesi estivi fummo molto occupati con i raccolti, gli animali appena nati e le conserve; il sole tramontava alle nove di sera e le giornate si erano fatte eterne. Per quell'epoca la casa che mio suocero aveva fatto costruire per Diego e per me era pronta, solida, fresca, bella, circondata da verande coperte sui quattro lati, ancora odorosa di terracotta, legno appena tagliato e del basilico che i contadini avevano piantato lungo i muri per tenere lontana la malasorte e gli incantesimi. I miei suoceri ci diedero alcuni mobili che appartenevano alla famiglia da molte generazioni, il resto lo comprò Diego in paese senza consultarmi. Al posto dell'ampio letto in cui avevamo dormito fino ad allora, comprò due lettini di bronzo che sistemò in modo che fossero separati da un comodino. Dopo pranzo tutta la famiglia si ritirava nelle camere per il riposo obbligato fino alle cinque del pomeriggio, poiché si riteneva che il caldo bloccasse la digestione. Diego si stendeva un po' su un'amaca sotto il pergolato a fumare e poi andava a nuotare al fiume; gli piaceva andarci da solo e le poche volte in cui decisi di accompagnarlo si infastidì a tal punto che non tornai a insistere. Dato che non condividevamo quelle ore di siesta nell'intimità della nostra camera, io le destinavo alla lettura o al lavoro nel mio piccolo laboratorio fotografico, perché non riuscivo ad abituarmi a dormire a metà giornata. Diego non mi chiedeva nulla, non mi domandava nulla, dimostrava a malapena un educato interesse per le mie attività e i miei sentimenti, non si spazientiva mai a causa dei miei mutevoli stati d'animo, dei miei incubi, tornati con maggiore frequenza e intensità, o dei miei imbronciati silenzi. Passavamo giornate intere senza rivolgerci una parola, ma lui sembrava non accorgersene. Io mi rinchiudevo nel mutismo come in un'armatura, contando le ore per vedere quanto riuscissimo a reggere quella situazione, ma alla fine ero sempre la prima a cedere, perché il silenzio costava molto più a me che a lui. Prima, quando dividevamo lo stesso letto, mi avvicinavo a lui fingendo di dormire, mi incollavo alla sua schiena e allacciavo le mie gambe alle sue e così a volte riuscivo a oltrepassare l'abisso che si stava inesorabilmente aprendo tra di noi. In quei rari abbracci non cercavo il piacere, che non sapevo neanche essere possibile, ma solo consolazione e compagnia. Per qualche ora vivevo nell'illusione di averlo riconquistato, ma poi arrivava l'alba e tutto tornava come prima. Trasferendoci nella nuova casa persino quella precaria intimità sparì, perché la distanza tra i due letti risultava più ampia e ostile delle acque tumultuose del fiume. A volte, tuttavia, quando mi svegliavo gridando inseguita dai bambini con la tunica nera dei miei sogni, lui si alzava, mi raggiungeva e mi abbracciava forte fino a quando non mi ero calmata; quelli erano forse gli unici momenti di contatto spontaneo tra noi. Quegli incubi lo preoccupavano, temeva che sarebbero potuti degenerare in pazzia, e per questo motivo si procurò una boccetta d'oppio di cui a volte mi dava qualche goccia dissolta nel liquore d'arancia per aiutarmi a dormire sonni felici. Fatta eccezione per le attività condivise con il resto della famiglia, io e Diego trascorrevamo pochissimo tempo insieme. Spesso partiva per qualche escursione attraversando la cordigliera verso la Patagonia argentina, o se ne andava in paese a fare provviste; a volte si perdeva per due o tre giorni senza dare spiegazioni e io sprofondavo nell'angoscia immaginando qualche incidente, ma Eduardo mi tranquillizzava ricordandomi che il fratello era sempre stato così, un solitario cresciuto nella magnitudine di quella natura brada, abituato al silenzio, che fin da piccolo aveva avuto bisogno di grandi spazi; aveva l'anima di un vagabondo e se non fosse nato nella stretta rete di quella famiglia, probabilmente sarebbe diventato marinaio. Eravamo sposati da un anno e io mi sentivo in difetto, non solo non ero stata capace di dargli un figlio, ma non ero neanche riuscita a interessarlo a me, e men che meno a farlo innamorare: alla mia femminilità mancava qualcosa di fondamentale. Ipotizzavo che mi avesse scelta perché era in età da matrimonio, la pressione dei genitori l'aveva obbligato a cercarsi una fidanzata; io ero stata la prima, forse l'unica, che gli si fosse parata davanti. Diego non mi amava. L'avevo saputo fin dall'inizio, ma con l'arroganza del primo amore e dei diciannove anni, non mi era parso un ostacolo insuperabile, ero convinta che l'avrei potuto sedurre con la tenacia, la virtù e la civetteria, come nelle favole romantiche. Nella tormentosa ricerca di quello che non andava bene in me dedicai ore e ore a scattarmi autoritratti, alcuni di fronte a un grande specchio che trasferii nel mio laboratorio, altri sistemandomi davanti all'obiettivo. Scattai centinaia di fotografie, in alcune sono vestita, in altre nuda, mi esaminai sotto tutte le angolazioni e l'unica cosa che scoprii fu una tristezza crepuscolare.
Dalla sua poltrona di malata, doña Elvira osservava la vita della famiglia senza perdersi un particolare e si rese conto delle assenze prolungate di Diego e della mia desolazione, fece due più due e giunse a qualche conclusione. La sua delicatezza e l'abitudine così cilena di non parlare dei sentimenti le impedivano di affrontare il problema direttamente, ma durante le molte ore che trascorremmo insieme noi due sole, arrivammo a essere come madre e figlia. E così, discretamente e a poco a poco, mi raccontò delle difficoltà che aveva avuto all'inizio con il marito. Si era sposata molto giovane e aveva avuto il primo figlio solo cinque anni più tardi, dopo molti aborti che le avevano segnato anima e corpo. A quell'epoca Sebastián Domínguez era ancora immaturo e privo di senso della responsabilità per la vita matrimoniale; era impetuoso, festaiolo e fornicatore, lei non usò questa parola, ovviamente, credo che non la conoscesse nemmeno. Doña Elvira si era sentita isolata, lontana dalla famiglia, sola e spaventata, e si era convinta che il matrimonio fosse stato un terribile errore al quale solo la morte avrebbe potuto porre rimedio. "Ma Dio ascoltò le mie suppliche, arrivò Eduardo e dalla sera alla mattina Sebastián cambiò completamente; non c'è padre e marito migliore di lui, viviamo insieme da trent'anni e ogni giorno ringrazio il cielo per la felicità che condividiamo. Bisogna pregare, figlia mia, aiuta molto," mi consigliò. Pregai, ma certamente senza l'intensità e la perseveranza necessarie perché nulla cambiò.
I primi sospetti li avevo avuti alcuni mesi prima, ma li avevo scartati vergognandomi profondamente di me stessa; non potevo prenderli in considerazione senza rimettermi all'evidenza che il mio carattere possedeva dei tratti di malvagità. Mi ripetevo che congetture del genere non potevano che essere idee del diavolo capaci di gettare radici e germogliare nel mio cervello come tumori mortali, idee che dovevo combattere senza transigere, ma il tarlo del livore prevalse sui miei buoni propositi. In primo luogo furono le fotografie della famiglia che avevo mostrato a Iván Radovic. Quello che non era evidente a una semplice occhiata – per l'abitudine di vedere solo quello che vogliamo vedere, come diceva il mio maestro Juan Ribero – emerse riflesso in bianco e nero sulla carta. Lì iniziò a profilarsi il linguaggio inequivocabile del corpo, dei gesti e degli sguardi. A partire da quei primi dubbi feci ricorso più e più volte alla macchina fotografica; con il pretesto di preparare un album per doña Elvira scattavo in ogni momento istantanee della famiglia, che poi sviluppavo nell'intimità del mio laboratorio per studiarle con perversa attenzione. Così giunsi in possesso di una miserabile collezione di piccoli indizi, alcuni dei quali talmente labili che solo io, avvelenata dal risentimento, potevo cogliere. Con la macchina davanti al volto, una sorta di maschera che mi rendeva invisibile, potevo mettere a fuoco la scena e al contempo mantenere una distanza glaciale. Verso la fine di aprile, quando il caldo diminuì, le cime dei vulcani si coronarono di nubi e la natura iniziò a ritirarsi per l'autunno, gli indizi di cui parlavano le fotografie mi parvero sufficienti e mi accinsi all'odiosa incombenza di sorvegliare Diego, come una qualsiasi donna gelosa. Quando finalmente riconobbi l'artiglio che mi comprimeva la gola e riuscii a dargli il nome che ha nel vocabolario, mi sentii sprofondare in una palude. Gelosia. Chi non l'ha provata non può sapere quanto male faccia né immaginare quali pazzie si possano commettere in suo nome. Nei miei trent'anni di vita ne ho patito solo quella volta, ma la scottatura è stata talmente profonda che le cicatrici non si sono rimarginate e spero che non si rimarginino mai e che mi servano da memento per il futuro. Diego non era mio – nessuno può mai appartenere a qualcun altro – e la contingenza di essere sua moglie non mi dava alcun diritto su di lui o sui suoi sentimenti, l'amore è un libero contratto che scocca come una scintilla e può concludersi allo stesso modo. Mille pericoli lo minacciano e se la coppia lo difende può salvarsi, crescere come un albero, e offrire ombra e frutti; ma questo avviene solo se si lotta in due. Diego non lo fece mai, la nostra relazione era condannata fin dall'inizio. Oggi sono in grado di capirlo, ma allora ero accecata, all'inizio semplicemente dalla rabbia e poi dallo sconforto.
Spiandolo con l'orologio alla mano, mi resi conto che le assenze di mio marito non collimavano con le giustificazioni che dava. Quando teoricamente era andato a caccia con Eduardo, ritornava molte ore prima o dopo il fratello; quando gli altri uomini della famiglia erano impegnati nella segheria o a radunare il bestiame per marchiarlo, lui spuntava nel patio di punto in bianco e più tardi, se accennavo all'argomento a tavola, risultava che non era stato con loro in tutta la giornata; quando andava in paese a far compere tornava a mani vuote perché, si supponeva, non aveva trovato quel che cercava, anche se si trattava di un utensile banale come un'ascia o una sega. Durante le molte ore che la famiglia passava insieme evitava le conversazioni a ogni costo, era sempre lui a organizzare le partite a carte o a chiedere a Susana di cantare. Se lei era vittima di una delle sue emicranie, lui si annoiava subito e se ne andava a cavallo con il fucile in spalla. Non potevo seguirlo nelle sue escursioni senza che lo notasse o senza insospettire la famiglia, ma quando rimaneva nei pressi stavo ben attenta a sorvegliarlo. Ebbi così modo di notare che a volte si alzava nel cuore della notte e non andava in cucina a mangiare qualcosa, come io immaginavo, ma si vestiva, usciva nel patio e spariva per una o due ore, per poi tornare silenziosamente a letto. Seguirlo al buio era più facile che durante il giorno, quando ci guardavano una dozzina di occhi, era solo questione di evitare il vino durante la cena e le gocce serali di oppio e rimanere sveglia. Una notte, verso la metà di maggio, mi accorsi che stava scivolando fuori dal letto e, alla fioca luce della lampada a olio che tenevamo sempre accesa davanti al crocifisso, vidi che indossava pantaloni e stivali, prendeva la camicia e la giacca e usciva. Aspettai qualche istante, poi mi alzai in fretta e lo seguii con il cuore che batteva a più non posso. Non riuscivo a vederlo bene nel buio della casa, ma quando uscì nel patio il suo profilo si stagliò nitidamente alla luce della luna, che a tratti appariva nel firmamento in tutta la sua pienezza. Il cielo era parzialmente coperto e di tanto in tanto le nubi la adombravano, avvolgendoci nell'oscurità. Sentii i cani abbaiare e pensai che se si fossero avvicinati avrebbero denunciato la mia presenza, ma non arrivarono e allora capii che Diego li aveva legati prima. Mio marito fece il giro completo della casa e si diresse rapidamente verso la stalla dei cavalli che montavamo noi della famiglia e che non venivano usati per il lavoro nei campi, tolse la spranga al portone ed entrò. Rimasi in attesa, protetta dal buio di un olmo che distava pochi metri dalle scuderie, scalza e vestita unicamente con una sottile camicia da notte, senza osare fare un altro passo, convinta che Diego sarebbe riapparso a cavallo e che non l'avrei potuto seguire. Trascorse un lasso di tempo che mi parve molto lungo senza che nulla accadesse. All'improvviso intravidi un bagliore attraverso la fessura del portone aperto, forse una candela o una piccola lampada. Mi battevano i denti e tremavo convulsamente per il freddo e la paura. Stavo quasi per darmi per vinta e tornare a letto, quando vidi un'altra sagoma avvicinarsi alla stalla dal lato orientale – e che quindi evidentemente non proveniva dalla casa grande – entrare nella scuderia tirandosi dietro la porta. Lasciai passare quasi un quarto d'ora prima di decidermi, poi mi obbligai ad avanzare di qualche passo; ero intorpidita e a stento riuscivo a muovermi. Mi avvicinai alla stalla atterrita, senza sapere come avrebbe reagito Diego se mi avesse scoperto a spiarlo, ma incapace di tornare indietro. Spinsi dolcemente il portone che cedette senza opporre resistenza perché la spranga era esterna, non si poteva chiudere da dentro, e riuscii a sgattaiolare come un ladro attraverso il piccolo varco. Dentro era buio, ma in fondo tremava una lucina verso la quale avanzai in punta di piedi, quasi senza respirare, precauzioni inutili dato che la paglia attutiva il rumore dei miei passi e diversi animali erano svegli, potevo sentirli muoversi e sbuffare vicino alle loro mangiatoie.
Alla debole luce di una lanterna appesa a una trave, dondolata dalla brezza che si infiltrava tra le assi, li vidi. Avevano sistemato delle coperte su un covone di paglia, quasi un nido, su cui lei era distesa supina, protetta dal pesante cappotto slacciato sulla pelle nuda. Aveva braccia e gambe aperte, la testa inclinata verso una spalla, la chioma nera che le copriva il viso e la sua pelle brillava come legno chiaro nel delicato bagliore aranciato della lanterna. Diego, con indosso unicamente la camicia, era inginocchiato davanti a lei e le lambiva il sesso. Era così totale l'abbandono nell'atteggiamento di Susana, e nei gesti di Diego c'era una tale contenuta passione, che compresi immediatamente quanto io fossi estranea a tutto ciò. In realtà, io neanche esistevo, come pure Eduardo o i tre bambini, non esisteva nessun altro, erano solo loro due e il loro ineluttabile amarsi. Mio marito non mi aveva mai accarezzata in quel modo. Era facile intuire che si erano ritrovati così altre migliaia di volte, che si amavano da anni; capii infine che Diego mi aveva sposato perché aveva bisogno di un paravento per mascherare i suoi amori con Susana. In un attimo le tessere di quel penoso rompicapo trovarono il loro posto, mi fu possibile decifrare la sua indifferenza nei miei confronti, le assenze che coincidevano con le emicranie di Susana, il suo rapporto difficile con il fratello Eduardo, il modo subdolo in cui si comportava con il resto della famiglia e come riuscisse sempre a fare in modo di esserle vicino, di toccarla, il suo piede contro quello di lei, la mano sul suo gomito o sulla spalla e a volte, come per casualità, attorno alla vita o al collo, quegli inconfondibili segnali che le fotografie mi avevano rivelato. Mi venne in mente quanto Diego amasse i bambini e congetturai che forse non erano suoi nipoti, ma suoi figli, tutti e tre con gli occhi celesti, il marchio dei Domínguez. Rimasi immobile, raggelando a poco a poco mentre loro facevano l'amore con voluttà, assaporando ogni contatto, ogni gemito, senza fretta, come se davanti a loro ci fosse un'intera vita. Non sembravano una coppia di amanti in un precipitoso incontro clandestino, ma sposi novelli alla seconda settimana di luna di miele, quando la passione è ancora intatta, ma esistono già la fiducia e la conoscenza reciproca dei corpi. Io, certamente, non avevo mai sperimentato un'intimità simile con mio marito, e non sarei stata in grado di immaginarmela nemmeno nelle più audaci fantasie. La lingua di Diego percorreva l'interno delle gambe di Susana salendo dalle caviglie, trattenendosi tra le cosce per poi scendere di nuovo, mentre le mani si arrampicavano lungo la sua vita e impastavano i suoi seni rotondi e opulenti, giocherellando con i capezzoli turgidi e lucenti come chicchi d'uva. Il corpo di Susana, morbido e dolce, sussultava e ondeggiava come un pesce nel fiume, la testa si muoveva da una parte all'altra nella disperazione del piacere, i capelli sempre sul volto, le labbra aperte in un lungo gemito, le mani alla ricerca di Diego da guidare lungo la splendida topografia del suo corpo, fino a che la lingua di lui la fece esplodere di piacere. Susana inarcò la schiena all'indietro per quel godimento che la trafiggeva come un lampo e lanciò un grido roco che lui soffocò comprimendo la bocca contro la sua. Poi Diego la prese tra le braccia, la cullò, l'accarezzò come un gatto, sussurrandole all'orecchio una lunga serie di parole segrete, con una delicatezza e una dolcezza che non avrei mai creduto possibili in lui. A un certo punto lei si rizzò a sedere sulla paglia, si tolse il cappotto e iniziò a baciarlo, prima sulla fronte, poi sulle palpebre, le tempie, lungamente la bocca, la lingua birichina che esplorava le orecchie di Diego, saltando sul pomo d'Adamo, sfiorando il collo, i denti che stuzzicavano i capezzoli virili, le dita impigliate nei peli del petto. Allora toccò a lui abbandonarsi completamente alle carezze, si distese a pancia in giù sulla coperta e lei gli si mise cavalcioni sulla schiena, morsicandogli la nuca e il collo, percorrendo le sue spalle con brevi baci giocosi, scendendo fino alle natiche, esplorandolo, annusandolo, assaporandolo e lasciandosi dietro una scia di saliva. Diego si girò e la bocca di lei avvolse il suo membro eretto e pulsante in un interminabile combattimento di piacere in cui davano e prendevano nella più recondita intimità, fino a quando lui non poté più resistere e si avventò su di lei, la penetrò e rotolarono come nemici in una trama di braccia, gambe e baci e rantoli e sospiri ed espressioni d'amore che non avevo mai sentito. Poi si appisolarono in un caldo abbraccio sotto le coperte e il cappotto di Susana, come due bambini innocenti. Arretrai silenziosamente e intrapresi il ritorno a casa, mentre il freddo glaciale della notte si impadroniva inesorabilmente del mio cuore.
Un precipizio si aprì davanti a me, sentii le vertigini risucchiarmi verso il fondo insieme alla tentazione di saltare e perdermi nell'abisso della sofferenza e del terrore. Il tradimento di Diego e la paura del futuro mi trascinarono alla deriva, sperduta e costernata; la collera che mi aveva scosso all'inizio non durò molto, immediatamente mi annientò un senso di morte, di dolore totale. Avevo consegnato la mia vita a Diego, mi ero affidata alla sua protezione di marito, avevo creduto ciecamente alle parole del rito matrimoniale: eravamo uniti fino alla morte. Non c'era via di fuga. La scena della scuderia mi mise davanti agli occhi una realtà che presentivo da parecchio tempo, ma che mi ero rifiutata di affrontare. Il primo impulso fu correre verso la casa grande, piazzarmi in mezzo al patio e ululare come una pazza, svegliare la famiglia, i contadini, i cani per renderli testimoni dell'adulterio. La timidezza, tuttavia, ebbe la meglio sulla disperazione e mi trascinai silenziosamente a tentoni verso la camera che dividevo con Diego; mi sedetti sul letto tremando, mentre le lacrime mi scivolavano sulle guance andando a inzupparmi il petto e la camicia. Nei minuti o nelle ore successive ebbi tempo per pensare a quanto era successo e per accettare la mia impotenza. Non si trattava di un'avventura della carne; ciò che univa Diego e Susana era un amore collaudato, pronto a correre ogni rischio e a travolgere al suo passaggio qualsiasi ostacolo si fosse frapposto, come un inesorabile fiume di lava incandescente. Io ed Eduardo non contavamo assolutamente niente, eravamo vuoti a perdere, meno di briciole nell'immensità della loro avventura passionale. Dovevo dirlo a mio cognato prima che a chiunque altro, decisi, ma immaginando quale catastrofe si sarebbe abbattuta sulla vita di quel brav'uomo con la mia confessione capii che non avrei mai avuto il coraggio di farlo. Prima o poi Eduardo avrebbe scoperto tutto da solo o, se gli fosse andata bene, non avrebbe mai saputo nulla. Forse anche lui, come me, nutriva dei sospetti, ma non desiderava averne conferma per mantenere salvo il precario equilibrio delle illusioni; c'erano di mezzo tre bambini, il suo amore per Susana e la coesione monolitica del clan famigliare.
Diego tornò a un certo punto della notte, poco prima dell'alba. Alla luce della lampada a olio mi vide seduta sul letto, congestionata di pianto, incapace di parlare e pensò che un altro dei miei incubi mi avesse svegliata. Si sedette al mio fianco e cercò di attirarmi verso di lui, come faceva in queste situazioni, ma mi ritrassi con un gesto istintivo e credo che la mia espressione di rancore fosse davvero terribile perché lui si fece immediatamente indietro. Rimanemmo a guardarci, lui con sorpresa e io con odio, fino a quando la verità si installò tra i nostri due letti, inappellabile e schiacciante nella sua mostruosa nudità.
"E adesso cosa facciamo?" fu l'unica frase che riuscii a balbettare.
Non cercò di negare né di giustificarsi, mi sfidò con uno sguardo d'acciaio, pronto a difendere il suo amore in qualsiasi modo, anche a costo della mia vita. Allora la barriera d'orgoglio, educazione e buone maniere che mi aveva contenuto durante quei mesi di frustrazione venne spazzata via e i silenziosi rimproveri si trasformarono in una valanga di recriminazioni senza fine che lui incassò in silenzio e impassibile, ma attento a ogni parola. Lo accusai di tutto quello che mi passava per la testa e alla fine lo supplicai di ripensarci, gli dissi che ero disposta a perdonarlo e a dimenticare, che potevamo andarcene via, lontano, dove nessuno ci conosceva, per ricominciare. Quando le parole e le lacrime mi si esaurirono era già giorno. Diego superò la distanza che separava i nostri letti, si sedette al mio fianco, mi prese le mani e con calma e serietà mi spiegò che amava Susana da molti anni e che quell'amore era la cosa più importante della sua vita, più del suo onore, del resto della famiglia e della salvezza della sua anima; per tranquillizzarmi poteva giurarmi che si sarebbe allontanato da lei, ma sarebbe stata una promessa falsa. Aggiunse che aveva cercato di farlo partendo per l'Europa e separandosi da lei per sei mesi, ma non era servito. Era persino giunto a sposarsi con me per vedere se così riusciva a rompere quel terribile legame con la cognata, ma il matrimonio, lungi dall'aiutarlo nella decisione di allontanarsi da lei, gli aveva facilitato le cose smorzando i sospetti di Eduardo e del resto della famiglia. Ciò nonostante era contento che finalmente io avessi scoperto la verità, perché gli dispiaceva ingannarmi; non poteva rinfacciarmi nulla, mi assicurò, io ero un'ottima moglie e si rammaricava di non potermi dare tutto l'amore che meritavo. Si sentiva meschino ogni volta che sgattaiolava furtivamente da me per andare da Susana, sarebbe stato un sollievo non dovermi mentire più. La situazione ora era chiara.
"Ed Eduardo, non conta niente?" chiesi.
"Quel che succede tra lui e Susana è un problema loro. È a proposito della nostra relazione che dobbiamo prendere una decisione adesso."
"Hai già deciso tutto tu, Diego. Non ho più nulla da fare qui, tornerò a casa mia," gli dissi.
"È questa la tua casa adesso, siamo sposati, Aurora. Non si può dividere quello che Dio ha unito."
"Sei stato tu a violare più di un precetto divino," specificai io.
"Potremmo vivere come fratello e sorella. Non ti farò mai mancare niente, ti rispetterò sempre, avrai protezione e libertà per dedicarti alle tue fotografie o a ciò che vorrai. L'unica cosa che ti chiedo è di non far scoppiare uno scandalo."
"Non mi puoi più chiedere niente, Diego."
"Non te lo chiedo per me. Ho la pelle dura e posso rispondere in prima persona, da uomo. Te lo chiedo per mia madre. Lei non lo sopporterebbe..."
E quindi rimasi per doña Elvira. Non so come, ma riuscii a vestirmi, buttarmi un po' d'acqua in faccia, pettinarmi, fare colazione e uscire di casa per dedicarmi alle mie occupazioni quotidiane. Non so come, ma riuscii ad affrontare Susana all'ora di pranzo e non so quale spiegazione diedi ai miei suoceri per i miei occhi gonfi. Quello fu il giorno peggiore, mi sentivo bastonata e stordita, sul punto di frantumarmi in lacrime alla prima domanda. Quella sera avevo la febbre e mi facevano male le ossa, ma il giorno successivo ero più tranquilla, sellai il mio cavallo e mi lanciai verso le colline. Ben presto iniziò a piovere e continuai a trottare fino a quando la povera cavalla non ce la fece più, allora smontai e mi feci strada a piedi tra la boscaglia e il fango, sotto gli alberi, scivolando, cadendo e tornando a rialzarmi, gridando a pieni polmoni mentre l'acqua mi infradiciava. Il poncho inzuppato era diventato talmente pesante che dovetti abbandonarlo e proseguii tremante di freddo, ma sentendomi bruciare dentro. Tornai al tramonto, senza voce e febbricitante, bevvi una tisana calda e mi misi a letto. Del resto ricordo poco, perché durante le settimane successive fui molto occupata a combattere la morte e non ebbi né tempo né animo per pensare alla tragedia del mio matrimonio. La notte trascorsa scalza e mezza nuda nella stalla e la galoppata sotto la pioggia mi fecero prendere una polmonite che per poco non mi mandò all'altro mondo. Mi portarono su un carro all'ospedale dei tedeschi, dove fui lasciata nelle mani di una teutonica infermiera dalle trecce bionde che, armata di tenacia, mi salvò la vita. Quella nobile valchiria riusciva a sollevarmi come un neonato grazie alle sue potenti braccia da boscaiolo ed era altrettanto capace di imboccarmi con cucchiaiate di brodo di gallina con la pazienza di una nutrice.
All'inizio di luglio, quando l'inverno si era definitivamente insediato e il paesaggio era solo ed esclusivamente acqua – fiumi torrenziali, inondazioni, fangaie, pioggia e ancora pioggia – Diego e un paio di fittavoli vennero a prendermi all'ospedale per riportarmi a Caleufú infagottata in coperte e pellicce, come un pacco. Avevano sistemato sul carro una copertura di tela cerata, un letto, e persino un braciere acceso per combattere l'umidità. Sudando in quell'involucro di coperte percorsi lentamente la via del ritorno a casa, mentre Diego cavalcava al mio fianco. Diverse volte le ruote si impantanarono; non era sufficiente la forza dei buoi che trainavano il carro e gli uomini dovettero sistemare delle assi sul fango e spingere. Io e Diego non scambiammo una sola parola in quel lungo giorno di viaggio. A Caleufú, doña Elvira venne ad accogliermi piangendo di felicità, nervosa, sollecitando le domestiche affinché si prendessero cura dei bracieri, delle bottiglie d'acqua calda, delle zuppe con sangue di vitello che avrebbero dovuto restituirmi il colorito e la voglia di vivere. Aveva pregato talmente tanto per me, disse, che alla fine Dio si era impietosito. Con la scusa che mi sentivo ancora molto debole le chiesi che mi permettesse di dormire nella casa grande e lei mi sistemò in una camera vicina alla sua. Per la prima volta nella vita ricevetti premure materne. La nonna Paulina del Valle, che tanto mi amava e tanto aveva fatto per me, pur essendo in fondo una gran sentimentale, non era incline a manifestazioni d'affetto. Sosteneva che la tenerezza, quel miscuglio sdolcinato di affetto e compassione che in genere veniva rappresentato sugli almanacchi da madri estatiche davanti alla culla delle loro creature, era perdonabile quando veniva riservata ad animali indifesi, come, per esempio, i gattini appena nati, ma era una solenne sciocchezza tra esseri umani. Il nostro rapporto fu sempre caratterizzato dall'ironia e dall'impertinenza; ci toccavamo poco, salvo quando dormivamo insieme durante la mia infanzia, e in generale ci trattavamo con una certa bruschezza di modi che risultava agevole per entrambe. Facevo ricorso a effusioni scherzose quando volevo ottenere qualcosa e ci riuscivo sempre, perché la mia portentosa nonna si ammorbidiva molto facilmente, più per schivare le dimostrazioni d'affetto che per debolezza di carattere. Doña Elvira, invece, era una persona così semplice che sarebbe rimasta ferita dal tono sarcastico con cui io e la nonna eravamo solite trattarci. Era affettuosa di natura, mi prendeva la mano e la teneva tra le sue, mi baciava, mi abbracciava, le piaceva spazzolarmi i capelli, mi somministrava personalmente i ricostituenti di midollo e merluzzo, mi applicava cataplasmi di canfora per la tosse e mi faceva sudare per mandare via la febbre strofinandomi con olio di eucalipto e avvolgendomi in coperte calde. Si preoccupava che mangiassi bene e riposassi, la sera mi dava le gocce d'oppio e rimaneva a pregare di fianco a me fino a quando non mi ero addormentata. Ogni mattina mi domandava se avessi avuto degli incubi e mi chiedeva di descriverglieli nei particolari, "perché se si parla di quelle cose, poi non se ne ha più paura", sosteneva. Non era molto in salute e non so da dove tirasse fuori le forze per curarmi e tenermi compagnia, mentre io simulavo una debolezza maggiore di quella che realmente sentivo per prolungare l'idillio con mia suocera. "Guarisci in fretta, figlia mia, tuo marito ha bisogno di averti al suo fianco," mi diceva spesso in tono preoccupato anche se Diego continuava a ripeterle che era meglio che trascorressi l'inverno nella casa grande. Quelle settimane di convalescenza dalla polmonite sotto il suo tetto furono una strana esperienza. Mia suocera mi dedicò le cure e l'affetto che non avrei mai ottenuto da Diego. Quell'amore dolce e incondizionato agì come un balsamo e mi guarì lentamente dalla voglia di morire e dal rancore che provavo per mio marito. Riuscii a comprendere i sentimenti di Diego e Susana e l'inesorabile fatalità dell'accaduto; la loro passione doveva essere una forza tellurica, un terremoto che li aveva trascinati senza scampo. Immaginai quanto avessero lottato contro quell'attrazione prima di soccomberle, quanti tabù avessero dovuto sfidare per stare insieme, quanto dovesse essere terribile il tormento giornaliero di fingere una relazione fraterna quando intimamente bruciavano di desiderio. Smisi di domandarmi come fosse possibile che non riuscissero a dominare la lussuria e come l'egoismo potesse impedir loro di vedere la rovina che potevano provocare nelle persone più vicine, perché immaginai quanto dovessero essere tormentati. Io avevo amato disperatamente Diego e potevo capire cosa provasse Susana per lui; mi sarei comportata anch'io come lei in quelle circostanze? Immaginavo di no, ma non ci avrei giurato. Anche se il senso di sconfitta era rimasto intatto, riuscii quanto meno a liberarmi dell'odio, a prendere le distanze e a calarmi nei panni degli altri protagonisti di quella sciagura; provai più compassione per Eduardo che non pena per me, aveva tre figli ed era innamorato di sua moglie, per lui la tragedia di quell'incestuosa infedeltà sarebbe stata peggiore. Anche per mio cognato dovevo tacere, ma il segreto non mi pesava più sulle spalle come un macigno, perché il ribrezzo che provavo per Diego, lavato via dalle mani di doña Elvira, si attenuò. La gratitudine nei confronti di quella donna andò a sommarsi al rispetto e all'affetto che avevo nutrito fin dal primo momento e mi attaccai a lei come un cagnolino: avevo bisogno della sua presenza, della sua voce, delle sue labbra sulla mia fronte. Mi sentivo obbligata a proteggerla dal cataclisma che ribolliva in seno alla sua famiglia; ero disposta a rimanere a Caleufú a dissimulare la mia umiliazione di moglie rifiutata perché, se me ne fossi andata e lei avesse scoperto la verità, sarebbe morta di dolore e di vergogna. La sua esistenza girava intorno a quella famiglia, ai bisogni di ognuna delle persone che vivevano tra le mura di casa sua, questo era il suo unico mondo. L'accordo siglato con Diego fu che avrei fatto la mia parte fino a quando doña Elvira fosse stata in vita e poi sarei stata libera, mi avrebbe lasciato andare e non si sarebbe mai più messo in contatto con me. Avrei dovuto sopportare la condizione – per molti infamante – di "separata" e non mi sarei più potuta sposare, ma almeno non avrei dovuto vivere vicino a un uomo che non mi amava.
A metà settembre, quando ormai non avevo più scuse per fermarmi a casa dei miei suoceri ed era giunto il momento di tornare a vivere con Diego, arrivò il telegramma di Iván Radovic. In un paio di righe il medico mi comunicava che dovevo tornare a Santiago perché la fine della nonna si stava avvicinando. Mi aspettavo quella notizia da mesi, ma quando ricevetti il telegramma la sorpresa e il dolore furono una batosta che mi lasciò tramortita. La nonna era immortale. Non riuscivo a figurarmela come la vecchietta calva e fragile che era in realtà, continuavo a vedere l'amazzone con due toupet, golosa e astuta che era sempre stata. Doña Elvira mi accolse tra le sue braccia e mi disse che non dovevo sentirmi sola, adesso avevo un'altra famiglia, appartenevo a Caleufú e lei avrebbe cercato di aver cura di me e di proteggermi come aveva fatto Paulina del Valle. Mi aiutò a preparare le due valigie, mi appese nuovamente al collo lo scapolare del Sacro Cuore di Gesù e mi assillò con mille raccomandazioni; per lei Santiago era un antro di perdizione e il viaggio una pericolosissima avventura. A quell'epoca, dopo la paralisi invernale, bisognava riprendere il lavoro alla segheria e, nonostante le insistenze della madre, Diego prese quest'ottima scusa per non venire con me a Santiago. Mi avrebbe accompagnata al porto Eduardo. Sulla porta della casa grande di Caleufú, a salutarmi con la mano, c'erano tutti: Diego, i miei suoceri, Adela, Susana, i bambini e diversi fittavoli. Non sapevo che non li avrei più rivisti.
Prima di partire controllai il laboratorio in cui non avevo più messo piede dopo l'infausta notte nella scuderia e scoprii che qualcuno aveva sottratto le fotografie di Diego e Susana ma, certamente ignaro del processo dello sviluppo fotografico, non aveva cercato i negativi. Non mi servivano a nulla quelle prove meschine; le distrussi. Riposi invece i negativi degli indios, della gente di Caleufú e del resto della famiglia nelle valigie perché non sapevo quanto sarei stata lontano e non volevo che si rovinassero. Feci il viaggio a cavallo con Eduardo, il bagaglio legato a un mulo, sostando nelle fattorie per mangiare e riposare. Mio cognato, quell'omone dall'aspetto di orso, aveva lo stesso carattere dolce della madre, la stessa ingenuità quasi infantile. Durante il tragitto ci fu l'opportunità di chiacchierare da soli, come non avevamo mai fatto prima. Mi confessò che fin da bambino scriveva poesie, "come non farlo quando si vive in mezzo a tanta bellezza?" aveva aggiunto indicando il paesaggio di boschi e acqua che ci circondava. Mi confessò di non aspirare a nulla, di non provare curiosità per orizzonti diversi, come Diego, a lui bastava Caleufú. Quando in gioventù era stato in Europa si era sentito perso e profondamente infelice, non riusciva a vivere lontano da quella terra che amava. Dio era stato molto generoso con lui, disse, lo aveva messo a vivere in un vero paradiso terrestre. Ci congedammo al porto stringendoci in un forte abbraccio, "che Dio ti protegga sempre, Eduardo", gli sussurrai all'orecchio. Rimase un tantino sconcertato dal mio solenne commiato.
Frederick Williams mi aspettava alla stazione e mi condusse in carrozza alla casa di via Ejército Libertador. Si stupì di vedermi tanto dimagrita e la spiegazione che gli offrii circa la mia lunga malattia non lo soddisfece, mi osservava con la coda dell'occhio, domandandomi insistentemente di Diego, se ero felice, com'era la famiglia dei miei suoceri e se mi ero adattata alla vita di campagna. La dimora della nonna, un tempo la più sfavillante in quel quartiere di palazzine, era diventata cadente quanto la sua padrona. Dai cardini pendevano diverse imposte e i muri sembravano scoloriti, il giardino era in totale stato d'abbandono, tanto che la primavera non l'aveva nemmeno sfiorato, lasciandolo immerso nel suo triste inverno. All'interno la desolazione era più evidente; i bei saloni di un tempo erano quasi vuoti, mobili, dipinti e tappeti erano spariti; dei famosi quadri impressionisti che avevano suscitato tanto scandalo diversi anni prima non ne rimaneva nessuno. Zio Frederick mi spiegò che la nonna, preparandosi alla morte, aveva donato quasi tutto alla Chiesa. "Credo tuttavia che i liquidi siano intatti, Aurora, perché tiene ancora i conti al centesimo e i libri contabili sono sotto il letto," aveva aggiunto ammiccando sornione. Lei, che entrava in chiesa solo per essere vista, che detestava lo sciame di preti scrocconi e di suore deferenti che svolazzava perpetuamente intorno al resto della famiglia, aveva disposto nel suo testamento un lascito considerevole per la Chiesa cattolica. Con il suo noto fiuto per gli affari, in procinto di morire si era messa a comprare ciò che a poco le serviva in vita. Williams conosceva la nonna meglio di chiunque altro e credo che l'amasse quasi quanto me, e a dispetto di tutte le previsioni degli invidiosi, non la privò della sua fortuna per abbandonarla nella vecchiaia, al contrario, difese gli interessi della famiglia per anni, fu un marito degno di lei, disposto a starle vicino fino all'ultimo soffio di vita, e a fare ancora di più per me, come gli anni a venire avrebbero dimostrato. Paulina ormai era poco lucida, le droghe per placare i dolori la trattenevano in un limbo privo di ricordi e di desideri. Siccome non riusciva più a deglutire, in quei mesi si era ridotta pelle e ossa e veniva nutrita con latte attraverso un sondino nel naso. Le rimaneva solo qualche ciocca bianca sulla testa e i grandi occhi neri si erano rimpiccioliti, due puntini in una mappa di rughe. Mi chinai a baciarla ma non mi riconobbe e girò la faccia; la sua mano cercava, invece, quella del marito e quando lui la prese, un'espressione di pace le distese il viso.
"Non soffre, Aurora, le stiamo dando parecchia morfina," mi spiegò zio Frederick.
"Ha avvisato i figli?"
"Si, ho spedito un telegramma due mesi fa, ma non hanno risposto e non credo che arriveranno in tempo, a Paulina non rimane molto," disse con commozione.
E così fu; Paulina del Valle morì silenziosamente il giorno dopo. Al suo fianco c'eravamo io, suo marito, il dottor Radovic, Severo e Nívea del Valle; i suoi figli sarebbero comparsi molto più tardi con i loro avvocati pronti a combattere per un'eredità che nessuno gli contendeva. Il medico aveva tolto alla nonna il tubicino per l'alimentazione e Williams le aveva messo dei guanti perché aveva le mani gelate. Le labbra le erano diventate bluastre ed era molto pallida, aveva iniziato a respirare in modo sempre più impercettibile, senza angoscia, e all'improvviso aveva semplicemente smesso di farlo. Radovic le prese il polso, trascorse un minuto, forse due, e poi annunciò che se ne era andata. Regnava una dolce quiete nella camera, stava accadendo qualcosa di misterioso, forse lo spirito della nonna si era separato e volteggiava come un uccello confuso sopra il suo corpo, congedandosi. La sua dipartita mi provocò un senso di infinita desolazione, un sentimento antico che già conoscevo ma cui non riuscii a dare un nome né una spiegazione fino a un paio d'anni dopo, quando finalmente il mistero della mia vita si dissolse e capii che la morte del nonno Tao Chi'en, molti anni prima, mi aveva fatta sprofondare in un'angoscia simile. La ferita non si era rimarginata e ora si era riaperta con lo stesso bruciante dolore. La sensazione di totale abbandono che mi lasciò la nonna era identica a quella che mi aveva pervaso all'età di cinque anni, quando Tao Chi'en era sparito dalla mia vita. Gli antichi dolori della mia infanzia – una perdita dopo l'altra – sepolti per anni negli strati più profondi della mia memoria, sollevavano la loro minacciosa testa di Medusa per divorarmi: una madre morta mettendomi al mondo, un padre che aveva volutamente ignorato la mia esistenza, una nonna materna che mi aveva abbandonata senza spiegazioni nelle mani di Paulina del Valle e, soprattutto, la repentina scomparsa della persona che più amavo, il nonno Tao Chi'en.
Sono passati nove anni da quel giorno di settembre in cui Paulina del Valle se ne andò; mi sono lasciata dietro questa e altre disgrazie, ora sono in grado di ricordare la mia grandiosa nonna con il cuore sereno. Non sparì nell'immensa nerezza di una morte definitiva come mi era sembrato all'inizio; una parte di lei mi è rimasta vicina e cammina sempre al mio fianco insieme a Tao Chi'en, due spiriti molto diversi che mi accompagnano e mi aiutano, il primo nelle questioni pratiche della vita e il secondo nella risoluzione dei problemi di cuore; ma quando la nonna smise di respirare sulla branda da soldato su cui aveva trascorso gli ultimi tempi, non potevo immaginare che sarebbe tornata e il dolore mi annientò. Se fossi capace di esternare i miei sentimenti probabilmente soffrirei di meno, ma mi si coagulano dentro come un immenso blocco di ghiaccio e possono passare anni prima che il gelo inizi a sciogliersi. Non piansi quando se ne andò. Il silenzio che regnava nella camera sembrava un errore di procedura, perché una donna che era vissuta come Paulina del Valle doveva morire cantando con un'orchestra, come all'opera; e invece il suo trapasso fu silenzioso, l'unica azione discreta di tutta la sua vita. Gli uomini uscirono dalla camera e io e Nívea, con delicatezza, la vestimmo per il suo ultimo viaggio con l'abito delle carmelitane che aveva appeso nell'armadio un anno prima, ma non resistemmo alla tentazione di farle indossare la sua più raffinata biancheria intima francese di seta color malva. Sollevandola mi resi conto di quanto fosse diventata leggera, si era ridotta a un fragile scheletro appena ricoperto di pelle. In silenzio la ringraziai di tutto quello che aveva fatto per me, le dissi parole affettuose che mai avrei osato profferire se avesse potuto sentirmi, baciai le sue belle mani, le palpebre da tartaruga, la nobile fronte e le chiesi perdono per le scenate della mia infanzia, per essere arrivata così tardi a salutarla, per la lucertola essiccata che avevo sputato in un finto accesso di tosse e per gli altri scherzi pesanti che aveva dovuto sopportare, mentre Nívea approfittava della buona opportunità che Paulina le offriva per piangere senza clamore i suoi bambini morti. Una volta vestita, la cospargemmo con il suo profumo di gardenia e aprimmo tende e finestre perché potesse entrare la primavera, come le sarebbe piaciuto. Furono bandite le prefiche, i drappi neri, e non vennero coperti gli specchi: Paulina del Valle era vissuta come una spavalda imperatrice e meritava di essere celebrata con la luce di settembre. Anche per Williams doveva essere così, tant'è che si recò di persona al mercato per riempire la carrozza di fiori freschi con cui decorare la casa.
Quando giunsero parenti e amici – a lutto e con il fazzoletto in mano – rimasero scandalizzati, perché non si era mai vista una veglia funebre alla luce del sole, con fiori nuziali e senza lacrime. Se ne andarono farfugliando calunnie e ancora adesso, dopo anni, c'è chi mi addita sostenendo che esultai alla morte di Paulina del Valle perché speravo di mettere le mani sull'eredità. Non ereditai nulla, invece, di questo si occuparono tempestivamente i suoi figli e i loro avvocati, ma non ne avevo comunque bisogno, dato che mio padre mi aveva lasciato a sufficienza per vivere in modo decoroso e il resto me lo sono guadagnato lavorando. Nonostante l'interminabile sfilza di consigli e lezioni della nonna non sono mai riuscita a sviluppare il suo fiuto per gli affari; non sarò mai ricca, ma me ne rallegro. Anche Frederick Williams non dovette discutere con gli avvocati, perché i soldi gli interessavano molto meno di quanto le malelingue sostenessero da anni. Inoltre, la moglie era stata molto generosa in vita e lui, da uomo prudente qual era, aveva messo tutto da parte. I figli di Paulina non riuscirono a dimostrare che il matrimonio della madre con l'antico maggiordomo era illegale e dovettero rassegnarsi a lasciare in pace zio Frederick, e non riuscirono nemmeno ad appropriarsi dei vigneti che erano a nome di Severo; non rimase loro dunque che sguinzagliare gli avvocati dietro ai preti, per vedere se fosse possibile recuperare i beni di cui si erano impadroniti spaventando l'ammalata con i calderoni dell'inferno, ma fino a ora nessuno ha mai vinto un processo contro la Chiesa cattolica che, come tutti sanno, ha Dio dalla sua. A ogni modo di soldi ce n'erano d'avanzo e i figli, svariati parenti e persino gli avvocati sono riusciti a viverci fino a oggi.
L'unico momento di allegria durante quelle deprimenti settimane fu la ricomparsa nelle nostre vite della signorina Matilde Pineda. Aveva letto sul giornale che Paulina del Valle era mancata e si era armata di coraggio per presentarsi nella casa da cui era stata cacciata ai tempi della rivoluzione. Arrivò con un piccolo mazzo di fiori in omaggio, accompagnata dal libraio Pedro Tey. Lei era invecchiata molto in quegli anni e all'inizio non la riconobbi, mentre lui era rimasto lo stesso omino calvo dalle folte sopracciglia sataniche e dalle pupille incendiarie.
Dopo il funerale, le messe cantate, le novene fatte recitare, la distribuzione delle elemosine e le opere di bene che la defunta nonna aveva predisposto, il putiferio delle spettacolari esequie si placò e io e Frederick Williams ci ritrovammo soli nella casa vuota. Ci sedemmo nella veranda a compiangere la nonna assente con sobrietà – non siamo fatti per le lacrime – e a ricordarla nelle sue molte grandezze e poche miserie.
"Che cosa pensa di fare ora, zio Frederick?" volli sapere.
"Dipende da lei, Aurora."
"Da me?"
"Non ho potuto fare a meno di notare qualcosa di strano in lei, bambina mia," disse, con quel modo tanto discreto di domandare che gli era proprio.
"Sono stata molto ammalata e la dipartita della nonna mi rattrista profondamente, zio Frederick. Tutto qui, non c'è niente di strano, glielo assicuro."
"Mi rammarica che mi sottovaluti tanto, Aurora. Dovrei essere molto stupido o amarla molto poco per non aver colto il suo stato d'animo. Mi dica cosa succede, vediamo se posso aiutarla."
"Nessuno può aiutarmi, zio."
"Mi metta alla prova, vediamo..." mi chiese.
E allora mi resi conto che non avevo nessun altro al mondo in cui confidare e che Frederick Williams aveva dimostrato di essere un eccellente consigliere nonché l'unico membro della famiglia dotato di buon senso. Lo potevo certamente mettere a parte della mia tragedia. Mi ascoltò sino alla fine con grande attenzione, senza interrompermi una sola volta.
"La vita è lunga, Aurora. Adesso vede tutto nero, ma il tempo guarisce e cancella quasi tutto. In questa fase le sembra di procedere in un tunnel alla cieca, con la sensazione che non ci sia via d'uscita, ma c'è, glielo assicuro. Continui a camminare, bambina mia."
"Cosa sarà di me, zio Frederick?"
"Avrà altri amori, forse dei figli, o diventerà la miglior fotografa di questo paese," mi disse.
"Mi sento così confusa e così sola!"
"Non è sola, Aurora, io sono qui con lei e continuerò a restarci finché ne avrà bisogno."
Mi persuase che non dovevo tornare da mio marito, che potevo trovare una dozzina di pretesti per ritardare di anni il mio ritorno, e comunque Diego non avrebbe certamente preteso che tornassi a Caleufú, gli conveniva tenermi il più lontano possibile. Quanto alla generosa doña Elvira, non rimaneva altra alternativa che consolarla con una fitta corrispondenza, si trattava di guadagnare tempo, mia suocera era debole di cuore e non sarebbe vissuta ancora a lungo stando alle prognosi dei medici. Zio Frederick mi assicurò di non avere alcuna fretta di lasciare il Cile, io ero tutta la sua famiglia, mi amava come una figlia o una nipote.
"Non ha nessuno in Inghilterra?" gli domandai.
"Nessuno."
"Lei sa che circolano voci sulle sue origini, si dice che lei sia un nobile decaduto e la nonna non ha mai smentito tale versione."
"Non c'è niente di più lontano dalla verità, Aurora!" esclamò ridendo.
"Ah... E così non ha un blasone nascosto da qualche parte?" mi unii alla risata.
"Guardi qua, bambina mia," replicò.
Si tolse la giacca, sbottonò la camicia, sollevò la maglietta e mi mostrò la schiena. Era percorsa da orribili cicatrici.
"Flagellazione. Cento frustate per aver rubato del tabacco in una colonia penale australiana. Scontai cinque anni di condanna prima di fuggire su una zattera. Mi raccolse in alto mare un'imbarcazione pirata cinese e fui messo a lavorare come uno schiavo, ma non appena attraccammo fuggii di nuovo. Così, di balzo in balzo, alla fine arrivai in California. L'unica cosa che ho della nobiltà britannica è l'accento, che appresi da un vero lord, il mio primo datore di lavoro in California. Mi insegnò anche la professione di maggiordomo. Paulina del Valle mi assunse nel 1870 e da allora sono rimasto al suo fianco."
"La nonna conosceva questa storia, zio?" domandai quando mi fui riavuta dalla sorpresa e riuscii a emettere qualche suono.
"Certo! Paulina si divertiva molto all'idea che la gente scambiasse un delinquente per un aristocratico."
"Per quale motivo fu condannato?"
"Per il furto di un cavallo, quando avevo quindici anni. Stavano per impiccarmi, ma ebbi fortuna e la pena venne commutata e così finii in Australia. Non si preoccupi, Aurora, non ho più rubato un centesimo in tutta la mia vita, le frustate mi fecero perdere il vizio, anche se non mi tolsero quello del tabacco," disse ridendo.
E così rimanemmo insieme. I figli di Paulina del Valle vendettero la casa di via Ejército Libertador, che attualmente è stata trasformata in un istituto femminile, e misero all'asta quel poco che ancora conteneva. Misi in salvo il letto mitologico e lo feci sparire prima dell'arrivo degli eredi, nascondendolo smontato nel deposito dell'ospedale pubblico di Iván Radovic, dove rimase fino a quando gli avvocati si furono stancati di frugare a caccia delle ultime vestigia delle antiche ricchezze della nonna. Io e Frederick Williams comprammo una casa di campagna fuori città, sulla strada per la cordigliera; possediamo dodici ettari di terreno circondato da pioppi tremuli, invaso da fragranti gelsomini, irrigato da un modesto ruscello, su cui tutto cresce in assoluta libertà. Williams ci alleva cani e cavalli di razza, gioca a croquet e si dedica ad altre noiose attività tipiche degli inglesi; lì ha sede il mio quartiere d'inverno. La casa è un vecchio rudere, ma ha un certo fascino e spazio sufficiente per il mio laboratorio fotografico e per il celebre letto fiorentino che troneggia con le sue creature marine policrome in mezzo alla mia camera. Su di esso dormo protetta dallo spirito vigile della nonna Paulina del Valle, che è solita giungere in tempo per spaventare a colpi di ramazza i bambini con la tunica nera dei miei incubi. Santiago si espanderà sicuramente verso la parte della Stazione centrale e noi verremo lasciati in pace in questo bucolico podere di pioppi e colline.
Grazie a zio Lucky, che mi infuse il suo alito fortunato quando nacqui, e alla generosa protezione della nonna e di mio padre, non posso proprio lamentarmi della mia vita. Dispongo dei mezzi e della libertà per fare quello che voglio, posso dedicarmi completamente a percorrere la ripida geografia del Cile con la macchina al collo, come ho fatto negli ultimi otto o nove anni. La gente sparla alle mie spalle, è inevitabile; diversi parenti e conoscenti hanno messo una croce sul mio nome e se mi vedono per strada fingono di non conoscermi, è intollerabile che una moglie abbandoni il marito. Queste bassezze non mi tolgono il sonno: non devo piacere a tutti, ma solo a quelli che mi interessano davvero, che non sono molti. I tristi risultati della mia relazione con Diego Domínguez avrebbero dovuto mettermi in guardia per il resto dei miei giorni dagli amori precipitosi e appassionati, ma così non è stato. È vero che per qualche mese mi aggirai con le ali ferite, trascinandomi giorno dopo giorno con una sensazione di totale sconfitta, di essermi giocata la mia unica mano e di aver perso tutto. È altrettanto vero che sono condannata a essere una coniugata senza marito, stato che mi impedisce di "rifarmi una vita", come dicono le mie zie, ma questa strana condizione mi consente una grande disinvoltura. Un anno dopo la separazione da Diego mi innamorai di nuovo, il che significa che ho la pelle dura e le mie ferite si cicatrizzano in fretta. Il secondo amore non è stato una dolce amicizia che con il tempo si è trasformata in una solida relazione, ma nient'altro che un impeto di passione che ci colse entrambi di sorpresa e che per pura casualità è andato a finire bene... be', per il momento, chissà cosa ci riserverà il futuro. Tutto accadde un giorno d'inverno, uno di quei giorni di pioggia verde e ostinata, di lampi incessanti e oppressione nel cuore. I figli di Paulina del Valle e i loro legulei erano tornati a importunarci con la loro inesauribile sfilza di documenti, ognuno in triplice copia e con undici bolli, che io firmavo senza leggere. Io e Frederick Williams ce n'eravamo andati da via Ejército Libertador e alloggiavamo in un albergo perché non erano ancora terminati i lavori di ristrutturazione nella casa dove viviamo adesso. Zio Frederick si era imbattuto per strada nel dottor Radovic, che non vedevamo da parecchio tempo, e si erano messi d'accordo per andare tutti insieme a vedere uno spettacolo di zarzuela spagnola in tournée in America Latina; ma il giorno stabilito zio Frederick si dovette mettere a letto con l'influenza e io mi ritrovai sola ad aspettare nella hall dell'albergo, con le mani ghiacciate e i piedi doloranti per via degli stivaletti che mi stringevano. Sui vetri delle finestre si stava scatenando il diluvio e il vento scuoteva gli alberi della strada come pennacchi, la serata non incoraggiava a uscire e per un momento invidiai il raffreddore di zio Frederick che gli consentiva di rimanersene a letto con un buon libro e una tazza di cioccolata fumante, malgrado ciò l'apparizione di Iván Radovic mi fece dimenticare il temporale. Il dottore entrò con il cappotto zuppo di pioggia e, quando mi sorrise, mi resi conto che era molto più bello di quanto ricordassi. Ci guardammo negli occhi e credo che fosse la prima volta che ci vedevamo o, perlomeno, che io lo osservavo sul serio, e quel che vidi mi piacque. Ci fu un lungo silenzio, una pausa che in altre circostanze sarebbe risultata molto pesante, ma che in quel momento sembrò un modo di dialogare. Mi aiutò a indossare la mantella e ci incamminammo verso la porta lentamente, vacillando, gli occhi sempre fissi in quelli dell'altro. Nessuno dei due aveva intenzione di sfidare la tempesta che stava lacerando il cielo, ma non volevamo nemmeno separarci. Apparve un portiere con un enorme ombrello e si offrì di accompagnarci alla vettura che attendeva sulla porta, e allora uscimmo senza dir nulla, esitando. Non ebbi nessuna vampata di chiaroveggenza sentimentale, nessuno straordinario presentimento circa il fatto che fossimo anime gemelle, non ravvisai il proemio di un amore da romanzo, niente di tutto ciò, semplicemente mi limitai a prender nota dei sobbalzi del mio cuore, dell'aria che mi mancava, del caldo e del pizzicore alla pelle, del desiderio incontenibile di toccare quell'uomo. Temo che in quell'incontro non ci fosse in gioco, da parte mia, niente di spirituale, ma solo ed esclusivamente lussuria, anche se allora ero troppo inesperta e il mio lessico era troppo limitato per consentirmi di attribuire a quel turbamento il termine con cui è registrato nei vocabolari. La parola è il meno, il dato essenziale fu che quello sconvolgimento delle viscere ebbe la meglio sulla mia timidezza e, complice la carrozza, che non offriva facili vie di fuga, gli presi il viso tra le mani e senza pensarci due volte lo baciai sulla bocca, come molti anni prima avevo visto fare a Nívea e Severo del Valle, con determinazione e voracità. Fu un gesto semplice e inappellabile. Non posso scendere nei particolari circa quanto avvenne in seguito perché è facile da immaginare e perché se Iván leggesse queste pagine dovrei affrontare una zuffa di indicibili proporzioni. Va detto: le nostre battaglie sono memorabili almeno quanto le nostre riconciliazioni, il nostro non è un amore tranquillo e zuccheroso, ma in suo favore si può affermare che è un amore tenace; gli ostacoli non sembrano intimorirlo, al contrario, lo fortificano. Il matrimonio è una questione di buon senso, di cui entrambi siamo privi. Il fatto di non essere sposati favorisce il nostro bel legame, ognuno può dedicarsi alle sue cose, disponiamo ognuno dei propri spazi e quando siamo sul punto di scoppiare, ci resta sempre la scappatoia di separarci per qualche giorno per ritornare a unirci quando la nostalgia dei baci ci sconfigge. Con Iván Radovic ho imparato a tirar fuori la voce e gli artigli. Se lo sorprendessi a tradirmi – Dio non voglia – come mi capitò con Diego Domínguez, non mi consumerei in lacrime, come allora, ma lo ucciderei senza il minimo rimorso.
No, non ho intenzione di parlare dell'intimità che condivido con il mio amante, ma c'è un episodio che non posso tacere, perché riguarda la memoria che, dopo tutto, è la ragione per cui scrivo queste pagine. I miei incubi sono un viaggio alla cieca verso le buie caverne in cui dormono i miei ricordi più antichi, immobilizzati negli strati più profondi della mia coscienza. La fotografia e la scrittura costituiscono un tentativo di cogliere quegli istanti prima che svaniscano, di fissare i ricordi per dare un senso alla mia vita. Era già da qualche mese che io e Iván stavamo insieme, ci eravamo già adattati alla consuetudine di vederci con discrezione, grazie al buon zio Frederick, che diede protezione al nostro amore fin dall'inizio. Iván doveva tenere una conferenza medica in una città del Nord e io lo accompagnai con la scusa di fotografare i giacimenti di salnitro in cui le condizioni di lavoro erano molto precarie. Gli imprenditori inglesi si rifiutavano di dialogare con gli operai e regnava un clima di crescente violenza, che sarebbe esplosa alcuni anni dopo. Quando ciò avvenne, nel 1907, mi trovavo lì per caso e le mie fotografie sono l'unico documento inconfutabile a conferma che il massacro di Iquique ebbe luogo, perché la censura governativa cancellò dalla storia i duemila morti che io vidi nella piazza. Ma questa è un'altra storia, e queste pagine non sono la sede per raccontarla. La prima volta che mi recai in quella città con Iván non potevo immaginare a quale tragedia avrei presenziato successivamente, per noi due si trattava di una breve luna di miele. Venimmo registrati separatamente nell'albergo e quella sera, dopo che ognuno aveva portato a termine la sua giornata, Iván venne in camera mia, dove l'attendevo con una bottiglia dell'eccellente Viña Paulina. Fino a quel momento, la nostra era stata un'avventura della carne, un'esplorazione dei sensi, per me fondamentale al fine di superare l'umiliazione di essere stata rifiutata da Diego e capire che come donna non ero un fallimento, come temevo. A ogni incontro con Iván Radovic andavo acquisendo sempre maggior confidenza, avevo vinto la timidezza e il pudore, ma non mi ero accorta che quella gloriosa intimità aveva ceduto il passo a un grande amore. Quella sera ci abbracciammo con languida spossatezza per via del buon vino e delle fatiche del giorno, lentamente, come due saggi nonni che hanno fatto l'amore novecento volte e non possono più sorprendersi né defraudarsi. Che cosa accadde di tanto speciale per me? Niente, credo, se non che l'incetta di esperienze felici con Iván quella notte raggiunse il numero cruciale necessario per smantellare le mie difese. Successe che, di ritorno dall'orgasmo, stretta tra le forti braccia del mio amante, sentii un singulto scuotermi, e poi un altro e un altro ancora fino a quando una marea incontenibile di pianto accumulato mi trascinò con sé. Piansi e piansi, senza difese e completamente abbandonata, sicura tra quelle braccia come non ricordavo di essermi mai sentita. Una diga mi si spezzò dentro e quell'antico dolore tracimò come neve sciolta. Iván non mi fece domande e non cercò di consolarmi, mi tenne stretta al suo petto, mi lasciò piangere fino a quando le lacrime non si esaurirono e quando cercai di dargli una spiegazione mi chiuse la bocca con un lungo bacio. Peraltro non avevo nessuna spiegazione al momento, avrei dovuto inventarmela, ma adesso so – perché è accaduto ancora in altre occasioni – che tutte le volte in cui mi sentivo assolutamente in salvo, protetta e al sicuro, mi tornavano alla memoria i primi cinque anni della mia vita, gli anni che nonna Paulina e tutti gli altri avevano avvolto di una cappa di mistero. Per prima, in un bagliore di luminosità, rividi l'immagine del nonno Tao Chi'en che mormorava il mio nome in cinese, Lai Ming. Fu un istante brevissimo, ma fulgido come la luna. Poi tornai a vivere l'incubo ricorrente che mi tormenta da sempre e allora compresi che esisteva una relazione diretta tra quel nonno adorato e i diavoli con la tunica nera. La mano che nel sogno mi abbandona è quella di Tao Chi'en. Chi cade lentamente è Tao Chi'en. La macchia che si spande inesorabilmente sui ciottoli della strada è il sangue di Tao Chi'en.
Vivevo ufficialmente da poco più di due anni con Frederick Williams, ma sempre più coinvolta nella relazione con Iván Radovic, senza il quale non potevo più pensare di vivere, quando la mia nonna materna, Eliza Sommers, ricomparve nella mia vita. Tornò intatta, con quel suo aroma di zucchero e vaniglia, immune al deterioramento delle ristrettezze e dell'oblio. La riconobbi al primo sguardo, anche se erano passati diciassette anni da quando mi aveva lasciato a casa di Paulina del Valle e per tutto quel tempo non avevo visto una sua fotografia e il suo nome era stato pronunciato molto di rado in mia presenza. La sua immagine era rimasta impigliata negli ingranaggi della mia nostalgia ed era cambiata talmente poco che quando si materializzò sulla soglia della nostra casa con la sua valigia in mano mi sembrò che ci fossimo salutate il giorno prima e che quanto era accaduto in quegli anni fosse un'illusione. L'unica novità era che risultava più bassa di quanto ricordassi, ma può darsi che fosse per effetto della mia statura, l'ultima volta che ero stata con lei ero una mocciosa di cinque anni che la guardava dal basso. Stava sempre impettita come un ammiraglio, aveva lo stesso viso giovanile e quella severa acconciatura, anche se i capelli erano spruzzati di ciocche bianche. Portava addirittura la stessa collana di perle che le avevo sempre visto e che, adesso lo so, non si toglie nemmeno per dormire. Ad accompagnarla fu Severo del Valle, che era rimasto in contatto con lei durante tutti quegli anni senza mai avermelo rivelato perché lei non glielo aveva permesso. Eliza Sommers aveva dato la sua parola a Paulina del Valle che non avrebbe mai tentato di mettersi in contatto con la nipote e tenne fede alla promessa fino a quando la morte di Paulina non la sciolse dal vincolo. Quando Severo le scrisse per informarla, preparò i bauli e chiuse la sua casa, come aveva fatto già molte volte prima, e si imbarcò per il Cile. Quando era rimasta vedova a San Francisco nel 1885, aveva intrapreso un pellegrinaggio con il corpo imbalsamato del marito da seppellire a Hong Kong. Tao Chi'en aveva trascorso la maggior parte della sua vita in California ed era uno dei pochi immigrati cinesi ad aver ottenuto la cittadinanza americana, ma aveva sempre espresso il desiderio che le sue ossa finissero in terra cinese, così la sua anima non si sarebbe persa nell'immensità dell'universo senza incontrare la porta del cielo. Tale precauzione non è stata sufficiente, dal momento che sono sicura che il fantasma del mio ineffabile nonno Tao Chi'en vaghi ancora in questi mondi, altrimenti non mi spiego come sia possibile che io lo senta ronzarmi intorno. Non si tratta solo della mia immaginazione, nonna Eliza mi ha dato conferma di alcune prove, quali l'odore di mare che a volte mi avvolge e la voce che mi sussurra una parola magica: il mio nome in cinese.
"Salve, Lai Ming," fu il saluto che mi rivolse quella straordinaria nonna quando mi vide.
"Oi poa!" esclamai.
Non avevo più pronunciato quelle parole – nonna materna, in cantonese – dall'epoca remota in cui vivevo con lei all'ultimo piano di un ambulatorio di agopuntura nel quartiere cinese di San Francisco, ma non me l'ero dimenticate. Mi mise una mano sulla spalla e mi scortò dalla testa ai piedi, poi assentì col capo e alla fine mi abbracciò.
"Sono felice che tu non sia bella come tua madre," disse.
"Mio padre diceva la stessa cosa."
"Sei alta, come Tao. E Severo mi ha detto che sei anche sveglia come lui."
Nella nostra famiglia quando ci si ritrova in una situazione un tantino imbarazzante si serve del tè e, visto che passo il tempo a sentirmi a disagio, sono sempre intenta a servire il tè. Questa bevanda ha la virtù di aiutarmi a controllare i nervi. Morivo dalla voglia di afferrare la nonna per la vita e di ballare con lei un giro di valzer, di raccontarle di getto tutta la mia vita e muoverle i rimproveri che per anni avevo rimuginato tra me e me, ma niente di tutto ciò fu possibile. Eliza Sommers appartiene a quel genere di persone che non inducono alle confidenze, la sua dignità incute timore e sarebbero dovute trascorrere alcune settimane prima che io e lei potessimo parlare in modo rilassato. Fortunatamente il tè e la presenza di Severo del Valle e di Frederick Williams, rientrato da una delle sue passeggiate per il podere bardato come un esploratore in terra d'Africa, alleggerirono la tensione. Non appena zio Frederick si tolse gli occhiali scuri e vide Eliza Sommers, qualcosa cambiò nel suo atteggiamento: si impettì, alzò il tono di voce e si ringalluzzì tutto. La sua ammirazione raddoppiò quando vide i bauli e le valigie con le stampigliature dei viaggi e venne a sapere che quella piccola signora era uno dei pochi stranieri giunti fino in Tibet.
Non so se l'unica ragione che spinse la mia oi poa a venire in Cile fosse il desiderio di rivedermi; sospetto che le interessasse di più proseguire il viaggio fino al Polo antartico, dove nessuna donna aveva ancora messo piede, ma qualunque fosse il motivo, la sua visita per me fu fondamentale. Senza di lei la mia vita sarebbe continuata a rimanere disseminata di zone nebulose; senza di lei non avrei potuto redigere queste memorie. Fu quella nonna materna a fornirmi i tasselli che mancavano per ricostruire il rompicapo della mia esistenza: mi parlò di mia madre, delle circostanze della mia nascita e mi diede la soluzione finale per decifrare i miei incubi. Fu sempre lei ad accompagnarmi, più tardi, a San Francisco per conoscere zio Lucky, un agiato commerciante cinese, grasso e dalle gambe storte, ma assolutamente amabile, e per riesumare i documenti necessari a riannodare i fili sparsi della mia storia. Il rapporto tra Eliza Sommers e Severo del Valle è profondo quanto i segreti che hanno condiviso per molti anni; lei lo considera il mio vero padre, perché è stato l'uomo che ha amato sua figlia e l'ha sposata. L'unico ruolo di Matías Rodríguez de Santa Cruz è stato quello di accidentale donatore di qualche gene.
"Non ha importanza chi ti ha generato, Lai Ming, è un atto che poteva compiere chiunque. È stato Severo a darti il cognome e ad assumersi la responsabilità della tua persona," dichiarò.
"Se è così, allora è stata Paulina del Valle a farmi da madre e da padre, porto il suo cognome ed è stata lei a farsi carico di me. Tutti gli altri sono passati come comete per la mia infanzia, lasciando poco più di una scia di polvere siderale," ribattei.
"Prima di lei, tua madre e tuo padre siamo stati io e Tao, siamo stati noi ad allevarti, Lai Ming," specificò lei, e a ragione, perché quei nonni materni esercitarono un influsso così potente su di me che da trent'anni me li porto dentro come una dolce presenza e sono certa che continuerò a farlo per il resto della mia vita.
Eliza Sommers vive in un'altra dimensione insieme a Tao Chi'en, la cui morte per lei è stata un grave contrattempo, ma certo non un ostacolo per continuare ad amarlo come prima. Nonna Eliza è una di quelle persone destinate a un unico grandioso amore, credo non ci sia posto per nessun altro nel suo cuore di vedova. Dopo aver seppellito il marito in Cina vicino alla tomba di Lin, la sua prima moglie, e aver assolto ai riti funebri buddhisti come lui desiderava, si ritrovò libera. Sarebbe potuta tornare a San Francisco a vivere con il figlio Lucky e la giovane moglie che aveva ordinato per catalogo a Shanghai, ma la prospettiva di trasformarsi in una suocera temuta e venerata equivaleva a cedere alla vecchiaia. Non si sentiva sola e non temeva il futuro, dato che lo spirito protettore di Tao Chi'en è sempre con lei; anzi, per la verità sono più uniti che mai, ormai non si separano neanche per un istante. Si è abituata a chiacchierare con il marito a bassa voce, per non sembrare una demente agli occhi degli altri, e di notte dorme sul lato sinistro del letto per cedergli quello a destra, come ha sempre fatto. Lo spirito avventuriero che l'aveva spinta a fuggire dal Cile a diciassette anni, nascosta nel ventre di una nave, si risvegliò in lei quando si ritrovò vedova. Ricordò un momento epifanico quando, a diciotto anni, in piena febbre dell'oro, il nitrito del suo cavallo e il primo raggio di sole dell'alba l'avevano svegliata nell'immensità di un luogo selvaggio e solitario. Quella mattina aveva scoperto l'esaltazione della libertà. Aveva trascorso la notte da sola sotto gli alberi, attorniata da mille pericoli: banditi spietati, indios selvaggi, vipere, orsi e altri animali feroci, eppure, per la prima volta in vita sua, non aveva avuto paura. Era stata allevata dentro un corsetto, con il corpo, l'anima e l'immaginazione compressi, intimidita persino dai suoi stessi sentimenti, ma quell'avventura l'aveva affrancata. Aveva dovuto sviluppare una forza che probabilmente aveva sempre avuto, ma che fino a quel momento ignorava perché non aveva mai avuto bisogno di ricorrervi. Sulle tracce di un amante sfuggente, aveva abbandonato la sicurezza del focolare mentre ancora era bambina, si era imbarcata clandestinamente, incinta, e nel corso del viaggio aveva perso il figlio ed era stata sul punto di perdere anche la vita; era poi arrivata in California, si era vestita da uomo e si era preparata a batterla da cima a fondo, senz'altre armi né strumenti oltre al disperato impulso dell'amore. Era stata in grado di sopravvivere da sola in una terra dura in cui vigeva la legge dell'avidità e della violenza, e strada facendo aveva acquistato coraggio e aveva iniziato ad assaporare il gusto dell'indipendenza. Non avrebbe più dimenticato l'intensa euforia dell'avventura. Sempre per amore, aveva vissuto trent'anni nel ruolo di sposa discreta di Tao Chi'en, madre e pasticciera, compiendo il suo dovere, senz'altro orizzonte oltre il suo focolare di Chinatown, ma il seme piantato in quegli anni di nomadismo era rimasto intatto nel suo spirito, pronto a germogliare nel momento propizio. Quando era venuto a mancare Tao Chi'en, l'unica bussola della sua vita, era giunto il momento di navigare seguendo solo le correnti. "In fondo sono sempre stata una giramondo, desidero solo viaggiare senza meta," aveva scritto in una lettera al figlio Lucky. Decise, tuttavia, che prima doveva ottemperare alla promessa fatta a suo padre, il capitano John Sommers, di non abbandonare la zia Rose nella vecchiaia. Da Hong Kong si era diretta in Inghilterra, pronta ad accompagnare l'anziana signora nei suoi ultimi anni; era il minimo che potesse fare per quella donna che le aveva fatto da madre. Rose Sommers aveva più di settant'anni e la salute iniziava a venirle meno, anche se continuava a scrivere quei romanzi d'amore, tutti più o meno uguali, che l'avevano consacrata come la più famosa scrittrice romantica di lingua inglese. Alcuni curiosi si spingevano fino a intraprendere lunghi viaggi per intravedere la sua minuta figura a passeggio nel parco con il cane e si diceva che la regina Vittoria si consolasse nella vedovanza leggendo le sue melense storie di amori che trionfavano. L'arrivo di Eliza, che amava come una figlia, fu un enorme sollievo per Rose Sommers anche perché iniziava a tremarle la mano e tenere in pugno la penna le costava sempre di più. A partire da allora iniziò a dettarle i romanzi e in seguito, quando le venne meno anche la lucidità, fu Eliza, che fingeva di prendere appunti, a iniziare a scrivere effettivamente i romanzi, senza che editore o lettrici sospettassero nulla, si trattava semplicemente di ripetere la stessa formula. Alla morte di Rose Sommers, Eliza rimase nella stessa casetta del quartiere bohémien – molto quotata, perché la zona era diventata di moda – ed ereditò il capitale accumulato dalla madre adottiva con i romanzetti rosa. La prima cosa che fece fu andare a trovare il figlio Lucky a San Francisco e conoscere i nipoti, che le sembrarono piuttosto bruttini e noiosi. Poi partì per destinazioni più esotiche, consentendo finalmente al suo destino di vagabonda di compiersi. Era una di quelle viaggiatrici che si ostinavano a trasferirsi nei luoghi da cui gli altri fuggivano. Niente le dava tanta soddisfazione come vedere sui suoi bagagli timbri e decalcomanie dei posti più reconditi del pianeta; nulla la inorgogliva quanto l'essere colpita da una rara epidemia o morsicata da qualche bestia esotica. Viaggiò per anni con i suoi bauli da esploratrice, facendo sempre ritorno alla casetta di Londra, in cui l'attendeva la corrispondenza di Severo del Valle con le notizie su di me. Quando venne a sapere che Paulina del Valle era mancata, decise di tornare in Cile, paese dove era nata, ma a cui non aveva pensato per più di mezzo secolo, per incontrare di nuovo sua nipote.
Probabilmente durante la lunga traversata sul vapore, nonna Eliza ebbe modo di ricordare i suoi primi diciassette anni in Cile, questo snello e brioso paese; l'infanzia, durante la quale era stata accudita da un'india di buon cuore e dalla bella miss Rose; la tranquilla e sicura esistenza fino alla comparsa dell'amante che l'aveva messa incinta, e l'aveva abbandonata per inseguire l'oro in California per non dare più segni di vita. Siccome nonna Eliza crede nel karma, deve aver pensato che quel lungo periplo fosse necessario per ritrovare Tao Chi'en, che deve amare in ognuna delle sue reincarnazioni. "Che idee poco cristiane," era stato il commento di Frederick Williams quando avevo cercato di spiegargli per quale motivo Eliza Sommers non avesse bisogno di nessuno.
Nonna Eliza mi portò in regalo un baule malandato, che mi consegnò con una strizzatina maliziosa dei suoi occhi neri. Conteneva ingialliti manoscritti firmati Una Dama Anonima. Si trattava dei romanzi pornografici scritti da Rose Sommers in gioventù, un altro dei segreti di famiglia molto ben celati. Li ho letti con attenzione a fini esclusivamente didattici, per il beneficio diretto di Iván Radovic. Questa divertente letteratura – come potevano venire in mente simili audacie a una zitella vittoriana? – e le confidenze di Nívea del Valle mi hanno aiutato a vincere quella timidezza che all'inizio rappresentava un ostacolo quasi insormontabile tra me e Iván. È ben vero che il giorno del temporale, quando saremmo dovuti andare a teatro e non ci andammo, feci il primo passo e lo baciai sulla carrozza prima che quel pover'uomo avesse il tempo di difendersi, ma il mio ardire si spinse fino a lì e non andò oltre, e in seguito perdemmo tempo prezioso a dibatterci tra la mia terribile insicurezza e i suoi scrupoli, perché non voleva "rovinare la mia reputazione", come affermava. Non fu semplice convincerlo del fatto che la mia reputazione era già stata sufficientemente strapazzata prima che lui comparisse all'orizzonte e così sarebbe rimasta a lungo, visto che non avevo intenzione di tornare da mio marito né di rinunciare al mio lavoro o alla mia indipendenza, cose tutte malviste da quelle parti. Dopo l'umiliante esperienza con Diego, mi sembrava impossibile suscitare desiderio o amore; alla mia totale ignoranza in materia sessuale si univa un senso di inferiorità, mi ritenevo brutta, inadeguata, poco femminile; provavo vergogna per il mio corpo e per la passione che Iván risvegliava in me. Rose Sommers, la lontana bisnonna che non conobbi, mi fece uno splendido regalo donandomi quella libertà giocherellona così necessaria per fare l'amore. Iván generalmente prende le cose troppo sul serio, il suo temperamento slavo tende alla tragicità; a volte sprofonda nella disperazione pensando che non potremo vivere insieme fino alla morte di mio marito, momento in cui saremo già sicuramente molto vecchi. Quando queste nuvole scure gli rabbuiano l'animo, faccio appello ai manoscritti di Una Dama Anonima e scopro sempre inediti procedimenti per dargli piacere o almeno per farlo ridere. Esercitandomi a svagarlo nell'intimità ho perso progressivamente il pudore e ho acquisito una sicurezza che non avevo mai avuto prima. Non mi sento una seduttrice, il benefico effetto dei manoscritti non è giunto a tanto, ma almeno non ho più paura di prendere l'iniziativa per spronare Iván, che diversamente potrebbe adattarsi comodamente alla routine. Sarebbe uno spreco fare l'amore come una vecchia coppia di sposi quando non siamo nemmeno uniti in matrimonio. Il vantaggio dell'essere amanti è che dobbiamo curare molto la nostra relazione, perché tutto cospira per la nostra separazione. La decisione di rimanere insieme va continuamente rinnovata, e questo ci mantiene vivi.
Ecco la storia che mi raccontò mia nonna Eliza Sommers.
Tao Chi'en non si perdonò mai la morte della figlia Lynn. Fu inutile che la moglie e Lucky gli ripetessero che non c'era capacità umana in grado di frapporsi al compiersi del destino, che come zhong yi aveva fatto tutto il possibile e che la scienza medica del tempo era ancora impotente nella prevenzione e nell'arresto di quelle fatali emorragie che portavano alla morte tante donne durante il parto. Per Tao Chi'en fu come aver girato in tondo per ritrovarsi di nuovo nel punto in cui era trent'anni prima, a Hong Kong, quando la prima moglie Lin aveva partorito una bambina. Anche lei aveva iniziato a dissanguarsi e nel disperato tentativo di salvarla Tao Chi'en aveva offerto al cielo qualsiasi cosa in cambio della vita di Lin. La neonata era morta dopo qualche minuto e lui aveva pensato che quello fosse stato il prezzo per la salvezza della moglie. Non avrebbe mai immaginato che molto tempo dopo, dall'altra parte del mondo, avrebbe dovuto pagare di nuovo con sua figlia Lynn.
"Non dica queste cose, padre, per favore," ribatteva Lucky. "Non si tratta del baratto di una vita per l'altra, queste sono superstizioni indegne di un uomo della sua intelligenza e della sua cultura. La morte di mia sorella non ha nulla a che vedere con quella della sua prima moglie o con lei. Sono disgrazie che succedono ogni momento."
"A cosa sono serviti tanti anni di studio e di esperienza se non sono stato capace di salvarla?" si lamentava Tao Chi'en.
"Milioni di donne muoiono di parto, lei ha fatto il possibile per Lynn..."
Eliza Sommers era distrutta quanto il marito dalla perdita della sua unica figlia, e in più era gravata dalla responsabilità di allevare la piccola orfana. Mentre lei dormiva in piedi dalla stanchezza, Tao Chi'en non chiudeva occhio; passava la notte a meditare, aggirandosi per casa come un sonnambulo a piangere di nascosto. Non facevano l'amore da giorni e, visto quale spirito regnava nella casa, non si poteva ipotizzare che l'avrebbero fatto in un futuro prossimo. Trascorsa una settimana, Eliza optò per l'unica soluzione che le venne in mente: piazzò la nipotina in braccio a Tao Chi'en e dichiarò di non essere in grado di allevarla, di aver trascorso venti e passa anni della sua vita a prendersi cura dei figli Lucky e Lynn come una schiava e che ora non aveva abbastanza forze per ricominciare di nuovo con la piccola Lai Ming. Tao Chi'en si ritrovò in carico una neonata senza mamma, che doveva essere alimentata ogni mezz'ora con latte annacquato con un contagocce perché a stento riusciva a deglutire, e che doveva essere cullata senza tregua perché piangeva giorno e notte a causa delle coliche. La piccolina non era nemmeno gradevole alla vista, era minuscola e rugosa, con la pelle ingiallita dall'ittero, i lineamenti deformati dal parto difficile e senza un solo capello in testa; ciò nonostante, dopo le prime ventiquattr'ore di accudimento, Tao Chi'en riusciva a guardarla senza spaventarsi. Dopo ventiquattro giorni trascorsi a portarsela in giro in una borsa a tracolla, a darle da mangiare con il contagocce e a dormire con lei, iniziò a sembrargli graziosa. E dopo ventiquattro mesi passati ad allevarla come una madre era completamente innamorato della nipote nonché convinto che sarebbe stata ancor più bella di Lynn, nonostante non vi fosse il benché minimo indizio che avvalorasse tale supposizione. La bambina non era più il vermiciattolo che era stata alla nascita, ma era ben lungi dall'assomigliare alla madre. Le abitudini di Tao Chi'en, che prima si riducevano all'ambulatorio medico e alle poche ore di intimità con la moglie, vennero completamente stravolte. La sua giornata ruotava intorno a Lai Ming, quella bambina esigente che viveva appiccicata a lui, a cui bisognava raccontare le favole, che occorreva addormentare con le ninnananne, obbligare a mangiare, portare a passeggio, cui si dovevano comprare i vestiti più belli dei negozi americani e di quelli di Chinatown, che andava presentata a tutti per strada, perché mai si era vista una bambina così sveglia, tale era la convinzione del nonno obnubilato dall'affetto. Era certo che la nipote fosse un genio e per dimostrarlo le si rivolgeva in cinese e in inglese, idiomi che si aggiunsero al gergo spagnolo parlato dalla nonna creando una monumentale babele. Lai Ming reagiva agli stimoli del nonno come qualsiasi altro bambino di due anni, ma a lui sembrava che le sue incerte prestazioni fossero la prova irrefutabile di un'intelligenza superiore. Ridusse la sua attività nell'ambulatorio a qualche ora nel pomeriggio, in modo da poter trascorrere la mattina con la nipote a insegnarle nuovi misteri, come a una scimmia ammaestrata. Malvolentieri consentiva a Eliza di portarla alla sala da tè nel pomeriggio mentre lui lavorava, perché si era messo in testa di potere iniziare ad istruirla alla medicina sin dall'infanzia.
"La mia famiglia vanta sei generazioni di zhong yi, Lai Ming rappresenterà la settima, visto che tu non dimostri la minima attitudine," comunicò Tao Chi'en al figlio Lucky.
"Pensavo che solo gli uomini potessero diventare medici," commentò Lucky.
"Prima era così. Lai Ming sarà la prima donna zhong yi della storia," replicò Tao Chi'en.
Ma Eliza Sommers gli impedì di riempire la testa della nipote di teorie mediche in così giovane età; ci sarebbe stato tempo più avanti, per il momento era necessario portare fuori da Chinatown la bambina per qualche ora al giorno, per americanizzarla. Almeno su questo i nonni concordavano, Lai Ming doveva appartenere al mondo dei bianchi, dove senz'altro avrebbe avuto maggiori opportunità che non tra i cinesi. A loro favore giocava il fatto che la piccola non aveva il benché minimo tratto asiatico, il suo aspetto era inequivocabilmente spagnolo come quello della famiglia del padre. L'eventualità che un giorno Severo del Valle facesse ritorno con l'intenzione di reclamare quella presunta figlia per portarsela in Cile era del tutto intollerabile e quindi non veniva menzionata: immaginarono che il giovane cileno avrebbe semplicemente rispettato i patti, visto che aveva dato prove più che sufficienti della sua nobiltà d'animo. Non toccarono i soldi destinati alla bambina, che vennero depositati su un conto corrente per la sua futura educazione. Ogni tre o quattro mesi Eliza scriveva un breve messaggio a Severo del Valle per tenerlo informato sulla sua "protetta", come la definiva allo scopo di mettere bene in chiaro che non gli riconosceva diritti di paternità. Per tutto il primo anno non ricevettero risposta, visto che lui era disperso nel suo dolore e nella guerra, ma poi Severo fece in modo di scrivere di tanto in tanto. Paulina del Valle non la rividero più, perché non fece ritorno alla sala da tè e non portò mai a compimento la minaccia di sottrarre la bambina e rovinare la loro esistenza.
Così trascorsero cinque anni di armonia nella casa dei Chi'en, fino a quando, inevitabilmente, si scatenarono gli eventi che avrebbero distrutto la famiglia. Tutto ebbe inizio con la visita di due donne che si presentarono come missionarie presbiteriane e che desideravano parlare in privato con Tao Chi'en. Lo zhong yi le ricevette nell'ambulatorio, convinto che si fossero recate lì per motivi di salute, non c'era altra ragione che giustificasse l'arrivo improvviso di due bianche a casa sua. Sembravano sorelle, erano giovani, alte, rosee, dagli occhi chiari come l'acqua della baia, e avevano entrambe quell'atteggiamento di solare sicurezza che generalmente accompagna lo zelo religioso. Si presentarono con i loro nomi di battesimo, Donaldina e Martha, e iniziarono a spiegare che la missione presbiteriana di Chinatown fino a quel momento aveva proceduto con grande cautela e discrezione per non offendere la comunità buddhista, ma che ora si avvaleva di nuovi membri decisi a fare attecchire le norme elementari di decenza cristiana in quel settore che, come dissero, "non era un territorio cinese, ma americano, su cui non si poteva permettere che venissero violate la legge e la morale". Avevano sentito parlare delle sing song girls, ma attorno al traffico delle bambine schiavizzate a fini sessuali si alzava una barriera di silenzio. Le missionarie sapevano che le autorità americane venivano corrotte perché chiudessero un occhio. Qualcuno aveva indicato loro Tao Chi'en come l'unico dotato di fegato sufficiente per raccontare la verità e aiutarle, motivo per cui si trovavano lì. Lo zhong yi aspettava quel momento da decenni. Nella sua lenta opera di riscatto di quelle sciagurate adolescenti aveva contato solamente sull'aiuto silenzioso di qualche amico quacchero che si occupava di portare via dalla California le piccole prostitute per iniziarle a una nuova vita lontano dai tongs e dai ruffiani. A lui toccava comprare alle aste clandestine tutte quelle che poteva permettersi e accogliere quante erano troppo ammalate per servire nei bordelli; cercava di curare il loro corpo e di consolarne l'anima, ma non sempre ci riusciva e molte morivano sotto i suoi occhi. Aveva destinato due stanze della sua casa, quasi sempre occupate, alle sing song girls da accogliere, ma Tao Chi'en sapeva che con la crescita della popolazione cinese in California il problema delle schiave si faceva sempre più grave e che, da solo, poteva fare ben poco per contribuire a risolverlo. Quelle due missionarie erano state mandate dal cielo; anzitutto perché godevano dell'appoggio della potente Chiesa presbiteriana e poi perché erano bianche; avrebbero potuto mobilitare la stampa, l'opinione pubblica e le autorità americane al fine di porre termine a quel crudele traffico. E quindi raccontò loro con dovizia di particolari il modo in cui quelle creature venivano comprate o rapite in Cina, di come la cultura cinese disprezzasse le bambine, ragione per cui era frequente incontrare in quel paese neonate affogate nei pozzi o buttate per la strada, morsicate da topi e cani. Le famiglie non le volevano, quindi era estremamente facile acquistarle per qualche centesimo e portarle in America, dove potevano venire sfruttate per migliaia di dollari. Venivano trasportate in grandi casse nelle stive delle navi, come animali, e quante sopravvivevano alla disidratazione e al colera entravano negli Stati Uniti grazie a contratti matrimoniali fasulli. Erano tutte spose agli occhi dei funzionari dell'immigrazione e la giovane età, il deplorabile stato fisico e l'espressione di terrore negli occhi a quanto pareva non destavano sospetti. Quelle ragazzine non avevano la minima importanza. Ciò che sarebbe successo loro era un "problema dei celestiali" che non riguardava i bianchi. Tao Chi'en spiegò a Donaldina e a Martha che, una volta avviate alla professione, l'aspettativa di vita delle sing song girls era di tre o quattro anni: ricevevano fino a trenta uomini al giorno, morivano di malattie veneree, di aborto, polmonite, fame e maltrattamenti; una prostituta cinese di vent'anni era una rarità. Dal punto di vista anagrafico non avevano certificazioni, ma dato che entravano nel paese con un documento ufficiale, bisognava registrarne legalmente il decesso, nell'eventualità remota che qualcuno chiedesse di loro. Molte impazzivano. Erano a buon mercato, si potevano rimpiazzare in un batter d'occhio, nessuno investiva sulla loro salute per farle durare più a lungo. Tao Chi'en indicò alle missionarie il numero approssimativo di bambine schiave di Chinatown, quando si realizzavano le aste e dove erano situati i bordelli, dai più miseri, dove le ragazzine venivano trattate alla stregua di animali in gabbia, ai più lussuosi amministrati dalla famosa Ah Toy, diventata la maggiore importatrice di carne fresca del paese. Comprava creature undicenni in Cina e, durante il viaggio verso gli Stati Uniti, le consegnava ai marinai affinché all'arrivo sapessero dire "prima paga" e distinguere l'oro dal bronzo, per non venire truffate con metalli fessi. Le ragazze di Ah Toy venivano selezionate tra le più belle e avevano maggior fortuna delle altre, il cui destino era essere messe all'incanto alla stregua di bestiame e servire gli uomini più spregevoli secondo le loro pretese, comprese quelle più crudeli e umilianti. Molte si trasformavano in creature selvagge, si comportavano come animali feroci e dovevano essere incatenate al letto e stordite con narcotici. Tao Chi'en fornì alle missionarie i nomi di tre o quattro commercianti cinesi benestanti e autorevoli, tra i quali figurava lo stesso figlio Lucky, gli unici a essere d'accordo con lui sulla necessità di eliminare quel tipo di traffico e che avrebbero potuto aiutarle nel loro compito. Donaldina e Martha, con le mani tremanti e gli occhi lucidi, presero nota di tutto quel che Tao Chi'en disse loro, lo ringraziarono e congedandosi gli chiesero se avrebbero potuto contare su di lui nel momento in cui si fosse passati all'azione.
"Farò quel che potrò," rispose lo zhong yi.
"Anche noi, signor Chi'en. La missione presbiteriana non avrà pace fino a quando quest'aberrazione non avrà fine e quelle povere bambine non verranno salvate, anche a costo di dover aprire a colpi d'ascia le porte di quegli antri di perversione," gli assicurarono.
Quando venne a sapere ciò che aveva fatto il padre, funesti presagi si abbatterono su Lucky Chi'en. Conosceva l'ambiente di Chinatown molto meglio di Tao e sapeva che questi aveva commesso un'irrimediabile imprudenza. Grazie alla sua inclinazione e alla sua simpatia, Lucky poteva contare su amici a tutti i livelli della comunità cinese; da anni realizzava lucrosi affari guadagnando in modo modesto, ma costante, ai tavoli di fan tan. Nonostante la giovane età, era diventato un personaggio amato e rispettato da tutti, persino dai tongs, che non l'avevano mai importunato. Per anni aveva collaborato con il padre al riscatto delle sing song girls, con il tacito accordo di non cacciarsi in guai peggiori; sapeva perfettamente che per sopravvivere a Chinatown era necessaria una discrezione assoluta, la regola d'oro era non invischiarsi con i bianchi – i temuti e odiati fan güey – e risolvere tutto, specialmente i crimini, tra compatrioti. Prima o poi si sarebbe saputo che il padre teneva informate le missionarie e che queste, a loro volta, mettevano a parte le autorità americane. Non c'era sistema più infallibile per tirarsi addosso le disgrazie e nemmeno tutta la sua buona fortuna sarebbe stata sufficiente a proteggerli. Così disse a Tao Chi'en e così avvenne nell'ottobre del 1885, il mese del mio quinto compleanno.
La sorte di mio nonno venne decisa quel memorabile martedì in cui le giovani missionarie, accompagnate da tre robusti poliziotti irlandesi e dal vecchio giornalista Jacob Freemont, specializzato in delitti, giunsero a Chinatown in pieno giorno. Il movimento nella strada si paralizzò e una moltitudine di persone prese a seguire quella comitiva di fan güey, così insolita nel quartiere, che si dirigeva a passo deciso verso una squallida casa alla cui angusta porta sbarrata da inferriate si affacciavano i visi dipinti con polvere di riso e rossetto di due sing song girls, che si offrivano ai clienti con i loro miagolii e i seni da cagnoline al vento. Alla vista dei bianchi che si avvicinavano, le bambine sparirono all'interno della casa gridando per la paura e al loro posto apparve una vecchia inferocita che rispose ai poliziotti con una sfilza di insulti nella sua lingua. A un cenno di Donaldina, tra le mani di uno dei poliziotti irlandesi comparve un'ascia con la quale, per lo stupore della folla, si procedette ad abbattere la porta. I bianchi irruppero attraverso lo scomodo accesso, si sentirono grida, passi in fuga e ordini in inglese e dopo neanche un quarto d'ora riapparvero gli assaltatori che spingevano avanti una mezza dozzina di bambine terrorizzate, la vecchia che scalciava trascinata da uno dei poliziotti e tre uomini che camminavano a testa bassa sotto il tiro delle pistole. Per strada si scatenò lo scompiglio e qualche curioso cercò di farsi avanti con tono minaccioso, ma venne bloccato su due piedi dai colpi sparati in aria. I fan güey fecero salire le bambine e gli altri detenuti su una vettura coperta della polizia e quel carico venne portato via dai cavalli. Il resto della giornata la gente di Chinatown lo trascorse a commentare l'accaduto. Prima di allora la polizia non era mai intervenuta per questioni che non riguardassero direttamente i bianchi. Le autorità americane dimostravano grande tolleranza per "le abitudini dei gialli", come li qualificavano; nessuno si prendeva la briga di andare a controllare le fumerie d'oppio, le bische e men che meno l'attività delle piccole schiave, ritenuta una delle tante grottesche perversioni dei celestiali, quali il mangiare carne di cane condita in salsa di soia. L'unico a dimostrarsi più compiaciuto che sorpreso fu Tao Chi'en. L'illustre zhong yi fu sul punto di venire aggredito da un paio di scagnozzi di uno dei tongs nel ristorante dove abitualmente pranzava con la nipote, quando espresse, a voce sufficientemente alta da essere sentito nonostante il frastuono del locale, la sua soddisfazione circa il fatto che finalmente le autorità cittadine si fossero decise ad affrontare la questione delle sing song girls. Benché quasi tutti gli avventori degli altri tavoli ritenessero che, per una popolazione quasi esclusivamente maschile, le piccole schiave fossero un indispensabile articolo di consumo, si fecero avanti per difendere Tao Chi'en, l'uomo più rispettabile della comunità. Se non fosse stato per l'opportuno intervento del proprietario del ristorante, sarebbe scoppiato un pandemonio. Tao Chi'en si allontanò indignato con la nipote per mano, tenendo nell'altra il suo pranzo avvolto in un pezzo di carta.
Probabilmente l'episodio del bordello non avrebbe avuto altre conseguenze se un paio di giorni dopo non si fosse ripetuto in modo analogo in un'altra strada: le stesse missionarie presbiteriane, lo stesso giornalista, Jacob Freemont, e gli stessi tre poliziotti irlandesi che questa volta si erano portati dietro altri quattro ufficiali di rinforzo e due grossi cani feroci che strattonavano i guinzagli. L'operazione durò otto minuti e Donaldina e Martha si portarono via diciassette bambine, due mezzane, un paio di sgherri e un numero imprecisato di clienti che uscirono con i pantaloni a mezza gamba. La notizia dell'obiettivo che si erano prefissati la missione presbiteriana e il governo dei fan güey si diffuse per Chinatown come polvere da sparo e raggiunse anche le immonde celle in cui sopravvivevano le schiave. Per la prima volta nelle loro disgraziate vite respirarono un soffio di speranza. Furono inutili le minacce di massacrarle a bastonate se si fossero ribellate o la divulgazione delle terribili storie su diavoli bianchi che se le portavano via per succhiare loro il sangue, perché da quel momento le ragazze cercarono di attirare l'attenzione delle missionarie e nel giro di qualche settimana le incursioni della polizia erano aumentate al pari degli articoli di giornale che le accompagnavano. In questa occasione, la penna insidiosa di Jacob Freemont decise finalmente di servire una giusta causa e seppe scuotere le coscienze dei cittadini con la sua eloquente campagna sull'orribile destino delle piccole schiave nel cuore di San Francisco. Il vecchio giornalista sarebbe morto poco dopo senza poter apprezzare l'impatto dei suoi articoli; Donaldina e Martha, invece, avrebbero visto i frutti del loro zelo. Diciotto anni dopo ebbi modo di conoscerle durante un soggiorno a San Francisco; hanno ancora la pelle rosea e lo stesso furore messianico nello sguardo, percorrono ancora giornalmente Chinatown a piedi, sempre all'erta, ma ormai non le appellano più maledette fan güey e nessuno sputa al loro passaggio. Ora le chiamano lo mo, madri amorevoli, e si inchinano per salutarle. Hanno riscattato migliaia di bambine mettendo fine al loro vergognoso traffico, anche se non sono riuscite a debellare altre forme di prostituzione. Mio nonno Tao Chi'en sarebbe molto soddisfatto.
Il secondo mercoledì di novembre, come tutti gli altri giorni, Tao Chi'en andò a prendere la nipotina alla sala da tè della moglie in plaza de la Unión. Di pomeriggio la bambina rimaneva con la nonna Eliza fino a quando lo zhong yi aveva concluso l'ultima visita in ambulatorio e passava a prenderla. La casa distava solo sette isolati, ma Tao Chi'en solitamente percorreva le due strade principali di Chinatown a quell'ora in cui si accendevano le lampade di carta nelle botteghe, e la gente finiva di lavorare e usciva a procurarsi gli ingredienti per la cena. Passeggiava tenendo per mano la nipotina nei mercati in cui si accatastavano i frutti esotici provenienti da oltremare, le anatre laccate penzolanti dai ganci, i funghi, i molluschi, le viscere di animali e le piante che si potevano trovare solo lì. Siccome a casa sua nessuno aveva il tempo di cucinare, Tao Chi'en sceglieva con cura i piatti per la cena, quasi sempre gli stessi perché Lai Ming era molto viziata in fatto di alimentazione. Il nonno la tentava facendole assaggiare bocconcini delle deliziose pietanze cantonesi vendute sulle bancarelle per la strada, ma in genere scendevano sempre a patti sulle medesime varietà di chow mein e sulle costine di maiale. Quel giorno Tao Chi'en inaugurava un abito nuovo commissionato al miglior sarto cinese della città, che lavorava solo per gli uomini più insigni. Si vestiva all'americana da molti anni, ma da quando aveva ottenuto la cittadinanza cercava di distinguersi per la meticolosa eleganza, un segno di rispetto nei confronti della patria adottiva. Stava molto bene con quel perfetto abito scuro, camicia dal colletto rigido e sparato con il plastron, soprabito di panno inglese, tuba e guanti di capretto color avorio. L'aspetto della piccola Lai Ming contrastava con l'abbigliamento occidentale del nonno: portava dei pantaloni imbottiti e una giacchina di seta trapuntata nei brillanti toni del giallo e dell'azzurro, così ingombranti che la bambina si muoveva meccanicamente, come un orso, i capelli raccolti in una treccia stretta e un cappellino nero ricamato alla moda di Hong Kong. Entrambi richiamavano l'attenzione nell'eterogenea moltitudine, quasi esclusivamente maschile, vestita con i tipici pantaloni e le tuniche nere, così comuni da far sembrare che la popolazione cinese avesse una divisa. La gente si fermava per salutare lo zhong yi; oltre ai suoi pazienti quasi tutti lo conoscevano almeno di vista o di nome e i venditori facevano qualche regalino alla nipote per ingraziarsi il nonno: uno scarabeo fosforescente nella sua piccola gabbia di legno, un ventaglio di carta, una ghiottoneria. All'imbrunire, a Chinatown regnava sempre un'atmosfera festiva, rumore di chiacchiere ad alta voce, di contrattazioni e di banditori; si diffondeva l'odore di frittura, condimenti, pesce e spazzatura perché gli, avanzi si accumulavano in mezzo alla strada. Nonno e nipote passeggiarono per i locali in cui solitamente facevano la spesa, chiacchierarono con gli uomini che giocavano a mah jong seduti sui marciapiedi, si recarono al bugigattolo del venditore di erbe a ritirare delle medicine che lo zhong yi aveva commissionato a Shanghai, si trattennero brevemente a guardare i tavoli di fan tan sulla porta di una bisca perché Tao Chi'en sentiva il fascino delle scommesse che, tuttavia, evitava come la peste. Bevvero anche una tazza di tè verde nel negozio di zio Lucky, dove ebbero modo di ammirare l'ultima fornitura di antichità e mobili intagliati appena arrivata, e poi fecero dietro-front per riprendere la camminata a passo tranquillo verso casa. All'improvviso si avvicinò loro un ragazzo in preda a una grande agitazione che chiese allo zhong yi di recarsi al volo sul luogo di un incidente: un uomo era stato calpestato sul petto da un cavallo e stava sputando sangue. Tao Chi'en lo seguì di corsa, senza abbandonare la mano della nipotina, per una stradina laterale, poi in una successiva e in un'altra ancora, inoltrandosi negli angusti passaggi della sconsiderata topografia del quartiere fino a quando non si ritrovarono soli in un vicolo senza uscita illuminato a stento dalle lampade di carta di qualche finestra che brillavano come lucciole irreali. Tao Chi en realizzò di essere caduto in trappola e cercò di tornare indietro, ma era troppo tardi. Dal buio sorsero svariati uomini armati di bastoni e li circondarono. Lo zhong yi aveva studiato arti marziali in gioventù e portava sempre un coltello alla cintola sotto la giacca, ma non poteva difendersi senza lasciare la mano della bambina. Ebbe il tempo di chiedere cosa volessero, cosa stesse succedendo, e di sentire il nome di Ah Toy mentre gli uomini in tunica nera, i volti coperti da fazzoletti, danzavano intorno a loro, poi ricevette il primo colpo alla schiena. Lai Ming si sentì strattonare all'indietro e cercò di aggrapparsi al nonno, ma la mano amata sciolse la presa. Vide i randelli levarsi e abbattersi sul corpo del nonno, vide un fiotto di sangue schizzargli fuori dalla testa, lo vide cadere bocconi, vide come continuavano a malmenarlo fino a ridurlo a niente più che un fagotto insanguinato sui ciottoli della strada.
"Quando portarono Tao su una barella improvvisata e vidi cosa gli avevano fatto, qualcosa dentro di me andò in mille pezzi, come un bicchiere di vetro, e la mia capacità d'amare fuoriuscì, disperdendosi per sempre. Intimamente mi seccai. Non sono mai più stata quella di prima. Nutro affetto per te, Lai Ming, e anche per Lucky e per i suoi figli, l'ho nutrito per miss Rose, ma amore posso provarne solamente per Tao. Senza di lui niente mi interessa davvero; ogni giorno vissuto è un giorno in meno nella lunga attesa di potermi ricongiungere di nuovo a lui," mi confessò la nonna Eliza Sommers. Aggiunse che provò una gran pena per me, che a cinque anni avevo dovuto presenziare al martirio della persona che più amavo, ma immaginò che il tempo avrebbe cancellato quel trauma. Pensò che la mia vita insieme a Paulina del Valle, lontano da Chinatown, sarebbe bastata a farmi dimenticare Tao Chi'en. Non poteva immaginare che la scena del vicolo sarebbe rimasta impressa per sempre nei miei incubi, e che l'aroma, la voce e il tocco lieve delle mani di mio nonno avrebbero continuato a seguirmi da sveglia.
Tao Chi'en arrivò vivo tra le braccia di sua moglie, diciotto ore dopo riprese conoscenza e nel giro di pochi giorni fu in grado di parlare. Eliza Sommers aveva chiamato due medici americani che in diverse occasioni erano ricorsi alle conoscenze dello zhong yi. Lo visitarono con tristezza: gli avevano spezzato la colonna vertebrale e nel caso improbabile in cui fosse sopravvissuto sarebbe rimasto paralizzato per metà del corpo. La scienza non poteva fare niente per lui, dissero. Si limitarono a pulirgli le ferite, sistemare in qualche modo le ossa rotte, dargli dei punti sulla testa e lasciargli dosi massicce di narcotici. Nel frattempo la nipote, dimenticata da tutti, si era rannicchiata in un angolo vicino al letto del nonno e lo chiamava senza voce "oi goa!, oi goa!..." senza capire perché non le rispondesse, perché non le fosse permesso avvicinarsi, perché non potesse dormire cullata tra le sue braccia, come sempre. Eliza Sommers somministrò le droghe all'ammalato con la medesima pazienza con cui cercò di fargli inghiottire della zuppa da un imbuto. Non si lasciò trascinare dalla disperazione, tranquilla e con gli occhi asciutti vegliò il marito per giorni, fino a quando lui non fu in grado di parlarle attraverso le labbra tumefatte e i denti spezzati. Lo zhong yi non aveva dubbi sul fatto che in quelle condizioni non poteva né desiderava vivere e mise a parte di tale certezza la moglie, chiedendole di non dargli da bere né da mangiare. L'amore profondo e l'assoluta intimità che condividevano da più di trent'anni consentivano loro di intuire i pensieri dell'altro; non ci vollero molte parole. Se anche Eliza ebbe la tentazione di implorare il marito di condurre una vita da invalido in un letto solo per non abbandonarla, ricacciò indietro quelle parole perché lo amava troppo per chiedergli un simile sacrificio. Dal canto suo, Tao Chi'en non dovette dare molte spiegazioni perché sapeva che la moglie avrebbe fatto tutto il possibile per aiutarlo a morire con dignità, esattamente come lui avrebbe fatto con lei se le cose fossero andate in modo diverso. Pensò che non valeva nemmeno la pena di insistere perché il suo corpo fosse riportato in Cina, ormai non gli sembrava più così importante e non desiderava gravare ulteriormente sulle spalle di Eliza, ma lei aveva comunque deciso di farlo. Nessuno dei due aveva cuore di discutere ciò che risultava evidente. Eliza disse semplicemente che non poteva lasciarlo morire di fame e di sete, ciò avrebbe richiesto molti giorni, forse settimane, e nemmeno consentire che soffrisse un'agonia così lunga. Tao Chi'en le indicò la soluzione. Le disse di recarsi nel suo ambulatorio, cercare in un certo stipo e portargli una boccetta blu. Lei lo aveva aiutato nel suo lavoro durante i primi anni della loro relazione e lo faceva ancora quando mancava l'assistente, sapeva decifrare i segni in cinese dei recipienti e fare un'iniezione. Lucky entrò nella stanza per ricevere la benedizione dal padre e uscì immediatamente, scosso dai singhiozzi. "Né tu né Lai Ming dovete preoccuparvi, Eliza, perché non sto per lasciarvi nell'abbandono, sarò sempre vicino a voi per proteggervi, non potrà succedere niente di male a nessuna delle due," mormorò Tao Chi'en. Lei sollevò la nipote tra le braccia e la avvicinò al nonno affinché potessero dirsi addio. La bambina vide il viso tumefatto e si ritirò spaventata, ma poi notò le pupille nere che la guardavano con lo stesso amore sicuro di sempre e lo riconobbe. Si afferrò alle spalle del nonno e lo baciò e lo chiamò disperata, inzuppandolo di lacrime calde, fino a quando non venne separata con uno strattone, e venne condotta fuori dove atterrò tra le braccia di zio Lucky. Eliza Sommers tornò in quella camera dove era stata così felice con il marito e si chiuse dolcemente la porta alle spalle.
"E poi cosa accadde, oi poa?" le chiesi.
"Feci quel che dovevo, Lai Ming. Mi sdraiai subito vicino a Tao e lo baciai a lungo. Il suo ultimo respiro rimase con me..."