"Si scatenerà una terribile repressione, zia," sentii dire da Severo del Valle. "Vado a nord a combattere. La prego di proteggere Nívea e i bambini, perché io non potrò farlo per chissà quanto tempo..."
"Hai già perso una gamba in guerra, Severo, se perdi anche l'altra sembrerai un nano."
"Non ho alternative, qui a Santiago mi ucciderebbero comunque."
"Non essere melodrammatico, non siamo a teatro!"
Ma Severo del Valle era meglio informato di sua zia, come si constatò di lì a pochi giorni, quando divampò il terrore. La reazione del presidente fu sciogliere il congresso, nominarsi dittatore e designare a capo della repressione un certo Joaquín Godoy, un sadico che credeva che "i ricchi dovevano pagarla perché erano ricchi, i poveri perché poveri e i preti andavano tutti fucilati!". L'esercito si mantenne fedele al governo e dal momento in cui si fronteggiarono i due rami delle forze armate, quella che era iniziata come una rivolta politica si trasformò in una spaventosa guerra civile. Con il determinato appoggio dei capi dell'esercito, Godoy procedette alla carcerazione dei congressisti dell'opposizione su cui riuscì a mettere le mani. I diritti dei cittadini vennero cancellati, cominciarono le perquisizioni domiciliari e la tortura sistematica, mentre il presidente se ne stava rintanato in un palazzo, disgustato da tali metodi, ma convinto che non ve ne fossero altri per piegare i suoi nemici politici. "Vorrei non essere a conoscenza di queste misure," gli sentirono dire più di una volta. Nella strada della libreria Siglo de Oro non si poteva dormire la notte né camminare di giorno a causa degli ululati dei flagellati. Ovviamente, di tutto ciò non si faceva parola ai bambini, ma io ne ero perfettamente informata perché conoscevo ogni angolo della casa e passavo il tempo a origliare le conversazioni degli adulti, visto che in quei mesi non c'era molto altro da fare. Mentre fuori ribolliva la guerra, all'interno vivevamo come in un lussuoso convento di clausura. Nonna Paulina accolse Nívea e il suo reggimento di ragazzini, nutrici e bambinaie e sprangò la porta, certa che nessuno avrebbe osato attaccare una dama della sua posizione sociale sposata con un cittadino britannico. A ogni buon conto, Frederick Williams issò una bandiera inglese sul tetto e tenne le armi ben oliate.
Severo del Valle partì per andare a combattere al Nord giusto in tempo, perché il giorno dopo vi fu un'irruzione in casa sua e, se l'avessero trovato, sarebbe andato a finire nelle celle della polizia politica, dove venivano torturati in egual misura ricchi e poveri. Nívea aveva parteggiato per il regime liberale, come Severo del Valle, ma si era trasformata in acerrima oppositrice quando il presidente aveva voluto imporre il suo successore con i brogli e aveva tentato di schiacciare il congresso. Durante i mesi della rivoluzione, mentre portava in grembo due gemelli e cresceva sei bambini, ebbe tempo e coraggio per fare opposizione in un modo che, se fosse stata scoperta, le sarebbe costato la vita. Agiva all'insaputa di nonna Paulina, che aveva dato ordine tassativo di mantenerci tutti nell'invisibilità per non richiamare l'attenzione delle autorità, ma con il tacito assenso di Williams. La signorina Matilde Pineda si trovava su posizioni diametralmente opposte rispetto a Frederick Williams, lei socialista tanto quanto lui era monarchico, ma l'odio nei confronti del governo li univa. In una delle stanze sul retro, in cui la nonna non entrava mai, installarono con l'aiuto di don Pedro Tey una piccola macchina da stampa, grazie alla quale sfornavano libelli e pamphlet rivoluzionari che poi la signorina Matilde Pineda si portava via nascosti sotto la mantella per distribuirli di casa in casa. Mi fecero giurare di non fare parola con nessuno di quanto succedeva in quella stanza e tenni fede alla promessa perché il segreto mi parve un gioco affascinante, dal momento che non intuivo quale minaccia incombesse sulla nostra famiglia. Alla fine della Guerra civile capii che quel pericolo era stato reale, dato che, nonostante la posizione di Paulina del Valle, nessuno era al riparo dal lungo braccio della polizia politica. La casa della nonna non era il santuario che noi credevamo e il fatto che lei fosse una vedova dotata di patrimonio, relazioni e cognome non le avrebbe evitato una perquisizione e forse la prigione. A nostro favore giocavano la confusione di quei mesi e il fatto che la maggior parte della gente si era rivoltata contro il governo, ed era dunque impossibile controllare tutti. Persino in seno alla polizia c'erano militanti della rivoluzione che aiutavano a fuggire coloro che dovevano imprigionare. In ogni singola casa a cui bussava per distribuire i libelli, la signorina Pineda veniva ricevuta a braccia aperte.
Una volta tanto Severo e i suoi parenti si trovavano dalla stessa parte, perché nel conflitto si unirono i conservatori e alcuni gruppi liberali. Il resto della famiglia del Valle si recluse nelle sue proprietà, il più lontano possibile da Santiago, e i giovani andarono a combattere al Nord, dove si riunì un contingente di volontari appoggiati dalla Marina insorta. L'esercito, fedele al governo, contava di sconfiggere nel giro di pochi giorni tutti quei civili ribelli, non immaginando certo di trovare tanta resistenza. La flotta e i rivoluzionari si diressero a nord per impadronirsi dei giacimenti di salnitro, la maggior fonte di entrate del paese, dove si trovavano acquartierati i reggimenti dell'esercito regolare. Durante il primo scontro serio le truppe governative trionfarono e, terminata la battaglia, diedero il colpo di grazia a feriti e prigionieri, così come avevano fatto spesso dieci anni prima, durante la Guerra del Pacifico. La brutalità di quella carneficina accese a tal punto gli animi dei rivoluzionari che, quando si fronteggiarono nuovamente, questi ultimi ottennero una vittoria schiacciante. E allora venne il loro turno di massacrare i vinti. Verso la metà di marzo i congressisti, come venivano chiamati gli insorti, controllavano cinque province del Nord e avevano formato una giunta di governo, mentre a Sud il presidente Balmaceda perdeva affiliati di minuto in minuto. I sopravvissuti delle truppe regolari del Nord dovettero retrocedere verso sud per ricongiungersi con il grosso dell'esercito; quindicimila uomini attraversarono la cordigliera, entrarono in Bolivia, passarono in Argentina e poi valicarono di nuovo le montagne per arrivare a Santiago. Fecero la loro comparsa nella capitale morti di fatica, barbuti e cenciosi, avevano percorso migliaia di chilometri in una natura inclemente di valli e alture, calure infernali e ghiacciai eterni, mettendo insieme, cammin facendo, lama e vigogne dell'altopiano, zucche e armadilli delle pampas e uccelli delle vette più alte. Furono accolti da eroi. Simile impresa non era più stata ripetuta dai tempi remoti dei feroci conquistatori spagnoli, ma non tutti parteciparono ai festeggiamenti perché l'opposizione era cresciuta come una valanga impossibile da contenere. La nostra casa continuava a rimanere con le imposte chiuse e gli ordini della nonna erano che nessuno doveva mettere il naso fuori dalla finestra; ma io non resistetti alla curiosità e mi arrampicai sul tetto per assistere alla parata.
Le reclusioni, i saccheggi, le torture e le requisizioni mantenevano l'opposizione sui carboni ardenti; in ogni famiglia c'erano divisioni, nessuno poteva permettersi di non avere paura. Le truppe effettuavano retate per reclutare nuove leve, apparivano di sorpresa ai funerali, ai matrimoni, nei campi e nelle fabbriche per coscrivere uomini in età da poter maneggiare un'arma e portarseli via a forza. L'agricoltura e l'industria rimasero paralizzate per mancanza di mano d'opera. La prepotenza dei militari si fece insopportabile e il presidente capì che bisognava cercare una scorciatoia, ma quando alla fin fine decise di agire era già troppo tardi, i soldati si erano insuperbiti e si temeva che lo deponessero per instaurare una dittatura militare, mille volte più temibile della repressione imposta dalla polizia politica di Godoy. "Non c'è niente di più pericoloso del potere che gode di impunità," ci avvertiva Nívea. Domandai alla signorina Matilde Pineda quale fosse la differenza tra i sostenitori del governo e i rivoluzionari e la risposta fu che entrambi lottavano per la legittimità. Quando lo chiesi alla nonna mi rispose "nessuna", erano tutti canaglie, disse.
Il terrore bussò alla nostra porta quando gli sbirri arrestarono don Pedro Tey per condurlo nelle orrende celle di Godoy. Sospettavano, e a ragione, che fosse l'autore dei libelli politici contro il governo che circolavano ovunque. Una sera di giugno, una di quelle sere di pioggia uggiosa e di forte vento traditore, mentre cenavamo nella sala da pranzo di tutti i giorni, si aprì all'improvviso la porta e irruppe senza essere annunciata la signorina Pineda, frastornata, livida e con la mantella fradicia.
"Cosa c'è?" chiese la nonna, seccata dall'impertinenza della maestra.
La signorina Pineda ci spiattellò a bruciapelo che i tirapiedi di Godoy avevano perquisito la libreria Siglo de Oro, avevano malmenato chi si trovava lì e poi si erano portati via don Pedro Tey in una carrozza coperta. La nonna rimase con la forchetta in aria in attesa di qualche informazione supplementare che giustificasse l'inopportuna apparizione della donna; conosceva a malapena il signor Tey e non comprendeva perché comunicare tale notizia fosse tanto urgente. Non sospettava minimamente che il libraio si recava quasi giornalmente lì a casa sua, entrando dalla porta del retro, per editare i suoi pamphlet rivoluzionari con una macchina da stampa nascosta sotto il suo tetto. Nívea, Williams e la signorina Pineda potevano invece intuire quali conseguenze ci sarebbero state una volta che lo sfortunato Tey fosse stato costretto a confessare e sapevano che presto o tardi l'avrebbe fatto, dato che i metodi di Godoy non lasciavano margini al dubbio. Vidi i tre scambiarsi sguardi di disperazione e, per quanto non cogliessi la portata di ciò che stava succedendo, ne immaginai la causa.
"È per via della macchina nella stanza sul retro?"
"Quale macchina?" esclamò la nonna.
"Nessuna macchina," replicai ricordandomi del patto segreto, ma Paulina del Valle non mi lasciò proseguire, mi prese per un orecchio e mi scrollò con una ferocia inusitata in lei.
"Quale macchina, ti ho chiesto, brutta mocciosa!" mi gridò.
"Lasci stare la bambina, Paulina. Lei non c'entra niente. Si tratta di una macchina da stampa..." disse Frederick Williams.
"Una macchina da stampa? Qui in casa mia?" ruggì la nonna.
"Temo di sì, zia," bisbigliò Nívea.
"Maledizione! E ora cosa facciamo?" E la matriarca si lasciò cadere sulla sedia con la testa tra le mani, mormorando che la sua stessa famiglia l'aveva tradita, che avremmo pagato il prezzo di un'imprudenza del genere, che eravamo degli imbecilli, che lei aveva accolto Nívea a braccia aperte e guarda come la ripagava, forse che Frederick non sapeva che questa storia poteva costargli la pelle, non eravamo né in Inghilterra né in California, quando si decideva a capire come funzionavano le cose in Cile, e non voleva vedere più la signorina Pineda, mai più in vita sua, e le proibiva di tornare a metter piede in casa sua e di rivolgere la parola a sua nipote.
Frederick Williams fece preparare la carrozza e annunciò che andava a "risolvere la questione", iniziativa che, lungi dal tranquillizzare la nonna, non fece che aumentarne il panico. La signorina Matilde Pineda mi fece un cenno di commiato, uscì e non la rividi se non molti anni dopo. Williams si diresse alla Delegazione degli Stati Uniti e chiese di parlare con mister Patrick Egon, suo amico e compagno di bridge, che a quell'ora presiedeva un banchetto ufficiale con altri membri del corpo diplomatico. Egon appoggiava il governo, ma era anche profondamente democratico come quasi tutti gli yankee e aborriva i metodi di Godoy. Ascoltò in privato quanto Frederick Williams aveva da dirgli e si mise immediatamente in moto per parlare con il ministro degli Interni, che lo ricevette quella stessa sera, spiegandogli, tuttavia, di essere impossibilitato a intercedere per il prigioniero. Ottenne, a ogni modo, un colloquio con il presidente per il giorno successivo, di primo mattino. Quella fu la notte più lunga mai trascorsa nella casa della nonna. Nessuno andò a letto. Io la passai raggomitolata con Caramello su una poltrona dell'ingresso mentre domestiche e servitori trafficavano con valigie e bauli, le balie e le bambinaie con i bambini di Nívea addormentati in braccio, le cuoche con le ceste delle vettovaglie. Persino un paio di gabbie con gli uccelli preferiti della nonna andarono a finire sulla carrozza. Williams e il giardiniere, uomo di fiducia, smantellarono la macchina da stampa, ne seppellirono i pezzi in fondo al terzo cortile e bruciarono tutte le carte compromettenti. All'alba, le due vetture della famiglia e quattro servitori armati a cavallo erano pronti per condurci fuori Santiago. Il resto del personale di servizio era andato a rifugiarsi nella chiesa più vicina, dove altre carrozze sarebbero passate a prenderli più tardi. Frederick Williams non volle venire con noi.
"Sono il responsabile di quanto è successo e rimarrò qui a proteggere la casa," disse.
"La sua vita vale molto più di questa casa e di tutto quel che ho, per favore, venga con noi," lo implorò Paulina del Valle.
"Non oseranno toccarmi, sono un cittadino inglese."
"Non sia ingenuo, Frederick, mi creda, nessuno è al riparo di questi tempi."
Ma non ci fu modo di convincerlo. Mi stampò un paio di baci sulle guance, trattenne a lungo le mani della nonna tra le sue e si congedò da Nívea, che ansimava come un grongo fuor d'acqua, non so se per la paura o per il pancione. Partimmo quando un sole timido illuminava a fatica le vette innevate della cordigliera, aveva smesso di piovere e il cielo si preannunciava sereno, ma soffiava un forte vento che si intrufolava tra le fessure della carrozza. La nonna mi teneva ben incuneata nel suo grembo, avvolta nella sua pelliccia di volpe, quella stessa le cui code erano state divorate da Caramello in un accesso di lussuria. Aveva la bocca tirata dall'ira e dalla paura, ma non aveva dimenticato le ceste con la merenda e non appena ci ritrovammo fuori Santiago, diretti a sud, le aprì per dare inizio a quell'abbuffata di polli allo spiedo, uova sode, torte di pasta sfoglia, formaggi, pane fatto in casa, vino e orzata che sarebbe durata per il resto del viaggio.
Gli zii del Valle, che si erano rifugiati in campagna quando era iniziato il sollevamento in gennaio, ci ricevettero con entusiasmo perché giungevamo a rompere l'irrimediabile noia di quei sette mesi e portavamo nuove informazioni. Le notizie erano pessime, ma ancora peggio era non averne. Ritrovai i miei cugini e quei giorni, di tanta tensione per gli adulti, per noi bambini furono di vacanza; ci rimpinzavamo di latte appena munto, di formaggini freschi e di conserve messe da parte durante l'estate, andavamo a cavallo, sguazzavamo nel fango sotto la pioggia, giocavamo nelle stalle e nelle mansarde, allestivamo rappresentazioni teatrali e formavamo cori deprimenti, dal momento che nessuno di noi aveva attitudini musicali. Si arrivava alla casa percorrendo una strada tutta curve fiancheggiata da alti pioppi in una valle agreste, in cui l'aratura aveva lasciato pochi solchi e i pascoli sembravano abbandonati; di tanto in tanto vedevamo file di pali secchi e tarlati che, secondo la nonna, erano vigneti. Se strada facendo incappavamo in qualche contadino, questi si levava il cappello di paglia e, guardando a terra, salutava i padroni con un "Sua Grazia". La nonna arrivò in campagna stanca e di cattivo umore, ma nel giro di pochi giorni inalberò un ombrello e, con Caramello alle calcagna, percorse i dintorni con grande curiosità. La vidi esaminare i paletti ritorti delle viti e raccogliere campioni di terra che poi riponeva in misteriosi sacchetti. La casa, a forma di U, in mattoni crudi e tegole, aveva un aspetto pesante e solido, del tutto privo di eleganza, ma possedeva il fascino dei muri che sono stati testimoni di molta storia. D'estate era un paradiso di alberi carichi di dolci frutti, di fragranze floreali, di trilli di uccelli chiassosi e di ronzii di api diligenti, ma in inverno sembrava una vecchia dama brontolona sotto la pioggerellina brumosa e il cielo intabarrato. La giornata iniziava molto presto e terminava al tramonto, ora in cui ci ritiravamo nelle immense camere mal illuminate da candele e lampade a cherosene. Faceva freddo, ma ci sedevamo attorno a tavoli rotondi ricoperti da un panno spesso sotto i quali venivano collocati dei bracieri accesi, in modo da scaldarci i piedi; bevevamo vino rosso, fatto bollire con zucchero, bucce d'arancia e cannella, perché diversamente sarebbe risultato impossibile mandarlo giù. Gli zii del Valle producevano quel vino grezzo per il consumo della famiglia, ma la nonna sosteneva che più che per gole umane, era fatto per dissolvere la vernice. Ogni tenuta che si rispettasse aveva le sue vigne e produceva il suo vino, più o meno buono, ma quello era particolarmente aspro. Sui soffitti a cassettoni di legno i ragni tessevano delicate tovaglie di pizzo e i topi correvano a cuor leggero perché i gatti di casa non riuscivano ad arrampicarsi fin lì. Le pareti imbiancate a calce o dipinte di color indaco, brillavano nella loro nudità, ma ovunque si trovavano statuette di santi e immagini di Cristo crocifisso. All'ingresso si ergeva un manichino con testa, mani e piedi di legno, occhi di vetro azzurro e capelli umani, che rappresentava la Vergine, sempre ornato da fiori freschi e da una candela accesa davanti alla quale, passando, tutti ci facevamo il segno della croce; non si poteva né entrare né uscire senza salutare la Madonna. Una volta alla settimana le venivano cambiati i vestiti – aveva un armadio pieno di abiti in stile rinascimentale – e per le processioni le venivano messi i gioielli e una cappa d'ermellino resa opaca dagli anni. Mangiavamo quattro volte al giorno con lunghe cerimonie che finivano giusto quando iniziava la successiva, dimodoché la nonna si alzava da tavola solo per andare a letto o nella cappella. Alle sette di mattina facevamo la comunione durante la messa officiata da padre Teodoro Riesco, un sacerdote piuttosto anziano che viveva con gli zii, provvisto della virtù della tolleranza; ai suoi occhi, fatta eccezione per il tradimento di Giuda, non c'erano peccati imperdonabili; persino l'orrendo Godoy, secondo lui, poteva trovare consolazione tra le braccia del Signore. "Ah no, questo no, padre; se c'è perdono per Godoy, allora preferisco andarmene all'inferno con Giuda e con tutti i miei figli," gli ribatteva Nívea. Dopo il tramonto, la famiglia si riuniva per pregare con i bambini, i dipendenti e i fittavoli della tenuta. Con una candela accesa in mano, marciavamo tutti in fila verso la rustica cappella, all'estremità della casa che volgeva a sud. Presi gusto a questi rituali quotidiani che segnavano il calendario, le stagioni e le vite, mi dilettavo a sistemare i fiori dell'altare e a lucidare le pissidi d'oro. Le parole sacre erano poesia:
Non mi muove ad amarti, o mio Signore,
la promessa del Ciel, che tu mi festi;
né, perché di tue offese il corso arresti,
dell'Inferno mi muove il tetro orrore.
Tu mi movi, Signor, movonmi il core
la tua Croce, gli obbrobri il sangue, e questi
chiodi; di cui trafitto esser volesti:
movonmi la tua morte, ed il tuo Amore.
Mi muovon sì, che al par ti temerei
ancor che Inferno non vi fosse, e ancora
che non vi fosse Ciel, io t'amerei.
Il ben che dar mi puoi; l'alma innamora;
pur non sperando ciò che spero,
avrei lo stesso amar che per te sento ogn'ora.
Credo che anche il burbero cuore della nonna si ammorbidì, e non poco, perché a partire da quel soggiorno in campagna iniziò ad avvicinarsi piano piano alla religione, cominciò ad andare in chiesa per piacere e non solo per farsi vedere, smise di maledire il clero per abitudine, come faceva prima, e quando tornammo a Santiago fece costruire una bella cappella dalle vetrate multicolori nella casa di via Ejército Libertador, nella quale pregava a modo suo. Il cattolicesimo le andava stretto e quindi lo accomodava a sua misura. Dopo la preghiera serale, tornavamo nel grande salone per prendere il caffellatte, mentre le donne lavoravano a maglia o ricamavano e noi bambini ascoltavamo terrorizzati i racconti degli spiriti che ci narravano gli zii. Niente ci spaventava più dell'imbunche, lo stregone, una creatura malefica della mitologia indigena. Ci raccontavano che gli indios rapivano i neonati per trasformarli in imbunches, cucivano loro le palpebre e l'ano, li allevavano in caverne, li alimentavano con il sangue, gli spezzavano le gambe, gli giravano la testa all'indietro e gli passavano un braccio sotto la pelle della schiena per far loro acquisire ogni sorta di poteri soprannaturali. Per paura di finire in pasto a un imbunche, noi bambini non mettevamo il naso fuori di casa dopo il tramonto e alcuni, come me, dormivano con la testa sotto le coperte tormentati da incubi raccapriccianti. "Come sei superstiziosa, Aurora! Gli imbunches non esistono. Credi che un bambino potrebbe sopravvivere a simili torture?" mi diceva la nonna provando a farmi ragionare, ma non c'era argomentazione capace di bloccare il battere dei miei denti.
Siccome passava la vita incinta, Nívea si preoccupava poco di fare i conti e calcolava l'approssimarsi del parto dal numero di volte che ricorreva al vaso da notte. Quando si alzò tredici volte per due notti di seguito, all'ora di colazione annunciò che era venuto il momento di cercare un medico ed effettivamente quello stesso giorno cominciarono le contrazioni. Siccome non c'erano dottori da quelle parti, qualcuno suggerì di chiamare la levatrice del villaggio più vicino, che risultò essere una pittoresca meica, un'india mapuche senza età, tutta dello stesso colore scuro: la pelle, le trecce e persino gli abiti tinti con colori vegetali. Arrivò a cavallo, con una borsa contenente piante, oli e sciroppi medicinali, avvolta in un mantello fissato all'altezza del petto da un'enorme spilla d'argento fatta con antiche monete coloniali. Le zie si spaventarono alla vista di quella meica, che sembrava appena spuntata dalla più profonda Araucania, ma Nívea la ricevette senza dar mostra di diffidenza; il frangente non la spaventava, c'era già passata sei volte. L'india parlava a stento il castigliano, ma sembrava conoscere la sua professione e una volta che si fu tolta il mantello ci fu modo di vedere che era pulita. Per tradizione, le donne che non avevano ancora concepito non entravano nella camera della partoriente e quindi le giovani si diressero con i bambini all'altro capo della casa, mentre gli uomini si riunirono nella sala da biliardo a giocare, bere e fumare. Nívea fu condotta nella camera principale dall'india e dalle donne anziane della famiglia che a turno pregavano e aiutavano. Per preparare un brodo sostanzioso in grado di fortificare la madre prima e dopo il parto, vennero messe sul fuoco due galline nere e si fece bollire della borragine per le infusioni, nell'eventualità che si verificassero rantoli o affaticamenti cardiaci. La curiosità ebbe la meglio sulla minaccia della nonna di darmi una sculacciata se mi avesse pescato a gironzolare intorno a Nívea e me la svignai nelle stanze di servizio per spiare. Vidi passare le domestiche con panni bianchi, catini d'acqua calda e olio di camomilla con cui massaggiare il ventre, e coperte e carbone per i bracieri, perché niente era più temuto del gelo della pancia o di un raffreddamento durante il parto. Si sentiva un brusio incessante di conversazioni e risate; non mi sembrò che dall'altro lato della porta regnasse un clima di angoscia o sofferenza, al contrario, tutto risuonava di donne in festa. Siccome dal mio nascondiglio non vedevo nulla e il soffio spettrale dei corridoi bui mi faceva venire la pelle d'oca, mi annoiai in fretta e tornai a giocare con i miei cugini, ma sul far della sera, dopo che la famiglia si era riunita nella cappella, tornai ad avvicinarmi. A quel punto le voci si erano placate e si percepivano nitidamente gli affaticati gemiti di Nívea, il mormorio delle preghiere e il picchiettare della pioggia sulle tegole del tetto. Rimasi accovacciata in una rientranza del corridoio a tremare dalla paura perché ero certa che potessero arrivare gli indios a rapire il bambino di Nívea... E se la meica era una di quelle streghe che trasformavano i neonati in imbunches? Come aveva fatto Nívea a non pensare a questa terribile possibilità? Ero sul punto di mettermi a correre per tornare alla cappella, illuminata e piena di gente, ma in quel momento uscì una delle donne a cercare qualcosa lasciando la porta socchiusa ed ebbi modo di sbirciare cosa succedeva nella camera. Nessuno mi vide perché il corridoio era al buio, mentre nella stanza regnava il chiarore delle due lampade a sego e delle candele distribuite ovunque. Tre bracieri accesi, posti agli angoli, mantenevano la temperatura molto più alta rispetto a quella del resto della casa e la pentola in cui bollivano foglie di eucalipto impregnava l'aria di un fresco aroma di bosco. Con indosso un camiciotto, un gilet e grossi calzettoni di lana, Nívea era accovacciata su una coperta, le mani aggrappate a due grosse corde che pendevano dalle travi del soffitto, sostenuta da dietro dalla meica, che borbottava a bassa voce parole in un'altra lingua. Il ventre voluminoso e rigato di vene blu della futura madre, alla luce tremolante delle candele, pareva una deformità, un qualcosa di tanto estraneo al corpo da non sembrare nemmeno umano. Nívea spingeva, fradicia di sudore, i capelli incollati alla fronte, gli occhi chiusi e circondati da cerchi scuri, le labbra gonfie. Una delle zie pregava in ginocchio di fianco a un tavolino su cui era stata collocata una piccola statua di san Ramón Nonato, patrono delle partorienti, l'unico santo che non era nato naturalmente, ma che era stato estratto grazie a un taglio sul ventre della madre; un'altra zia rimaneva vicino all'india con una catinella di acqua calda e una pila di panni puliti. Ci fu una breve pausa durante la quale Nívea prese fiato e la meica le si mise davanti per massaggiarle la pancia con le sue pesanti mani, quasi a sistemarle il bimbo dentro di lei. All'improvviso un fiotto di liquido sanguinolento bagnò la coperta. La meica arrestò il flusso con un panno, che si inzuppò immediatamente, poi con un altro e un altro ancora. "Benedizione, benedizione, benedizione," sentii dire all'india in spagnolo. Nívea si aggrappò alle corde e spinse con tanta forza che i tendini del collo e le vene delle tempie sembrarono sul punto di scoppiare. Un sordo ruggito le uscì dalle labbra e allora tra le sue gambe spuntò qualcosa che la meica prese dolcemente e sostenne per un istante, fino a quando Nívea non ebbe ripreso fiato, spinse di nuovo, e il bimbo uscì del tutto. Mi sentii sul punto di svenire per il terrore e la ripugnanza e retrocedetti vacillando per il lungo e sinistro corridoio.
Un'ora dopo, mentre le domestiche raccoglievano gli stracci sporchi e tutto quel che era stato usato durante il parto per bruciarlo – così si sarebbero evitate emorragie, secondo la credenza – e la meica avvoltolava la placenta e il cordone ombelicale che andavano sotterrati sotto un fico, come era consuetudine da quelle parti, il resto della famiglia si era riunito nella sala intorno a padre Teodoro Riesco per rendere grazie a Dio della nascita di due gemelli, due maschi che, come disse il sacerdote, avrebbero portato con onore il cognome del Valle. Due zie tenevano in braccio i neonati, ben avvolti in copertine di lana, con cuffiette lavorate a maglia in testa, mentre ogni membro della famiglia si avvicinava a loro per baciarli in fronte dicendo "Dio ti protegga" allo scopo di evitare un accidentale malocchio. Io non riuscii a dare il benvenuto ai miei cugini come fecero gli altri perché mi parvero due orrendi vermiciattoli e la visione del ventre azzurrognolo di Nívea che espelleva quella massa sanguinolenta mi avrebbe angosciato in eterno.
La seconda settimana d'agosto venne a prenderci Frederick Williams, elegantissimo, come sempre, e molto tranquillo, come se il rischio di finire nelle mani della polizia politica fosse stato semplicemente un'allucinazione collettiva. La nonna ricevette il marito come una sposina, con gli occhi brillanti e le guance rosse dall'emozione, gli tese le mani e lui le baciò in un modo che andava oltre la deferenza; mi resi conto per la prima volta che quella singolare coppia era unita da qualcosa di molto simile all'affetto. A quei tempi la nonna aveva circa sessantacinque anni, un'età in cui le altre donne non erano che anziane sconfitte dai lutti ripetuti e dalle disgrazie della vita; Paulina del Valle invece sembrava invulnerabile. Si tingeva i capelli, civetteria che nessuna signora del suo ambiente si concedeva, e rendeva l'acconciatura più voluminosa grazie ai toupet; nonostante l'obesità, si vestiva con la vanità di sempre e si truccava con tanta grazia che nessuno sospettava del rossore delle sue guance o del nero delle ciglia. Frederick Williams era notevolmente più giovane e a quanto pareva le donne lo trovavano molto attraente, visto che in sua presenza non facevano che agitare i ventagli e lasciar cadere i fazzoletti. Non lo vidi mai ricambiare queste attenzioni, anzi, sembrava assolutamente devoto alla moglie. Mi sono domandata diverse volte se il rapporto tra Frederick Williams e Paulina del Valle fosse solo un accordo di convenienza, se fosse così platonico come tutti credono o se tra loro ci fosse una certa attrazione. Arrivarono ad amarsi? Nessuno lo saprà mai perché lui non ha mai toccato l'argomento e la nonna, che alla fine giunse a rivelarmi le cose più intime, si portò la risposta all'altro mondo.
Da zio Frederick venimmo a sapere che, grazie all'intervento personale del presidente, don Pedro Tey era stato rilasciato prima che Godoy riuscisse a strappargli una confessione e che, quindi, potevamo tornare a casa a Santiago perché il nome della nostra famiglia non era mai arrivato fino alle liste della polizia. Nove anni dopo, quando nonna Paulina morì e rividi la signorina Matilde Pineda e don Pedro Tey, venni a conoscenza dei particolari dell'accaduto, che quell'anima buona di Frederick Williams aveva preferito risparmiarci. Dopo aver fatto irruzione nella libreria, aver picchiato i dipendenti e aver impilato centinaia di libri a cui poi era stato dato fuoco, avevano trascinato il libraio catalano nelle sinistre caserme, dove gli era stato riservato il trattamento usuale. Siccome alla fine della tortura Tey aveva perso conoscenza senza aver detto una sola parola, gli avevano vuotato addosso un secchio di acqua ed escrementi, lo avevano legato a una sedia e lasciato così per il resto della notte. Il giorno successivo, quando stavano per condurlo di nuovo dai suoi seviziatori, era arrivato il delegato statunitense Patrick Egon con un ausiliare del presidente a reclamare la liberazione del prigioniero. Lasciarono andare don Pedro Tey dopo averlo avvertito che se avesse detto una sola parola circa l'accaduto avrebbe affrontato un plotone d'esecuzione. Venne caricato, grondante di sangue e merda, sulla vettura dell'ambasciatore, dove lo attendevano Frederick Williams e un medico, e venne condotto alla legazione degli Stati Uniti in qualità di rifugiato. Un mese dopo cadde il governo e don Pedro Tey lasciò l'ambasciata per far posto alla famiglia del presidente deposto, che trovò rifugio sotto la stessa bandiera. Il libraio trascorse diversi mesi di dolorosa convalescenza fino a quando le ferite delle frustate non si furono rimarginate e le articolazioni delle spalle non ebbero recuperato la loro mobilità, solo allora poté tornare a metter piede nel suo negozio di libri. Le atrocità patite non lo intimorirono, non gli passò nemmeno per la testa l'idea di tornare in Catalogna e continuò a militare all'opposizione, indipendentemente da quale fosse il governo di turno. Quando molti anni dopo lo ringraziai per avere sopportato quel terribile supplizio pur di proteggere la mia famiglia, mi rispose che non l'aveva affrontato per noi, ma per la signorina Matilde Pineda.
Nonna Paulina avrebbe voluto rimanere in campagna fino al termine della rivoluzione, ma Frederick Williams la convinse che il conflitto poteva durare anni e che non dovevamo abbandonare la posizione di cui godevamo a Santiago; la verità è che la tenuta, con i suoi umili contadini, le sieste eterne e le stalle piene di letame e mosche, gli sembrava un destino ben peggiore di una cella carceraria.
"La Guerra civile è durata quattro anni negli Stati Uniti; qui può succedere la stessa cosa," disse.
"Quattro anni? Ma allora non rimarrà un solo cileno vivo. Mio nipote Severo dice che in pochi mesi si è già arrivati a diecimila morti in combattimento e a più di mille assassinii a tradimento," replicò la nonna.
Nonostante fosse ancora provata dal duplice parto, Nívea voleva tornare a Santiago con noi e tanto insistette che alla fine la nonna si arrese. Nei primi tempi non aveva rivolto la parola a Nívea per via della macchina da stampa, ma quando vide i gemelli la perdonò di tutto. Presto ci ritrovammo in viaggio verso la capitale con lo stesso bagaglio che avevamo trasportato alcune settimane prima, con due neonati in più e con gli uccelli, morti soffocati dallo spavento lungo il viaggio d'andata, in meno. Trasportavamo anche una gran quantità di ceste con le vettovaglie e una brocca con il beverone che Nívea doveva prendere per prevenire l'anemia, un intruglio nauseabondo di vino vecchio e sangue fresco di torello. Erano mesi che Nívea non aveva notizie del marito e, come ci confidò in un momento di debolezza, iniziava a deprimersi. Non dubitò mai che Severo del Valle sarebbe tornato al suo fianco sano e salvo dalla guerra, possiede una sorta di chiaroveggenza che le permette di vedere il suo destino. Persino quando lui le aveva annunciato di essersi sposato con un'altra a San Francisco, era rimasta assolutamente sicura del fatto che sarebbe diventata sua moglie e ora, con la stessa certezza, sa che moriranno insieme in un incidente. Gliel'ho sentito dire diverse volte, la frase è diventata una battuta in famiglia. Aveva paura a rimanere in campagna perché lì, per il marito, sarebbe stato più difficile mettersi in comunicazione con lei, visto che con la confusione della rivoluzione la posta generalmente veniva persa, soprattutto nelle zone rurali.
Fin dall'inizio della sua storia d'amore con Severo, quando fu evidente la sua incontenibile fertilità, Nívea capì che, se avesse ottemperato alle norme abituali del decoro e si fosse reclusa in casa a ogni gravidanza e parto, avrebbe trascorso il resto della vita imprigionata; allora aveva deciso di non fare mistero della maternità e, allo stesso modo in cui si pavoneggiava con il pancione come una contadina impudente, con grande orrore della società "bene", partoriva senza fare tante storie, rimaneva confinata solo tre giorni – saltando la quarantena imposta dal medico – e se ne andava ovunque, persino agli incontri di suffragette, con il suo seguito di creature e bambinaie. Queste ultime erano adolescenti reclutate in campagna e destinate a rimanere a servizio per il resto della loro vita, a meno che non restassero incinte o si sposassero, eventualità assai remote. Queste fanciulle votate al sacrificio crescevano, avvizzivano e morivano nella casa, dormivano in stanze lerce e prive di finestre e mangiavano gli avanzi dei pasti dei padroni; adoravano i bambini che toccava loro crescere, soprattutto i maschi, e quando le femmine della famiglia si sposavano le seguivano, come parte del corredo, per continuare a occuparsi della seconda generazione. In tempi in cui tutto quanto concerneva la maternità rimaneva nascosto, la mia convivenza con Nívea, a undici anni, mi rese edotta di questioni che qualsiasi mia coetanea certamente ignorava. In campagna, quando gli animali si accoppiavano o partorivano, obbligavano noi bambine a rimanere in casa con le imposte chiuse, perché si partiva dal presupposto che tali funzioni offendessero il nostro animo sensibile e instillassero idee perverse nella nostra mente. Avevano ragione, perché il lussurioso spettacolo di un puledro indomito che montava una giumenta, cui presenziai casualmente nella tenuta dei miei cugini, mi infiamma ancora i sensi. Adesso, in pieno 1910, ora che i vent'anni di differenza tra me e Nívea sono spariti e lei rappresenta un'amica più che una zia, sono venuta a sapere che i parti annuali non hanno mai costituito un ostacolo serio per lei: incinta o meno, aveva sempre continuato a dedicarsi a impudiche capriole con il marito. In una di quelle conversazioni confidenziali le ho chiesto perché avesse avuto tanti figli – quindici, dei quali undici vivi – e lei mi ha risposto che non era riuscita a evitarli, che nessuno dei saggi consigli delle matrone francesi aveva dato risultati. L'hanno preservata da un tremendo logoramento una forza fisica indomabile e un cuore leggero che non si è mai ingarbugliato in intrichi sentimentali. Nívea cresceva i figli con lo stesso metodo con cui si occupava delle faccende domestiche: delegando. Non appena aveva partorito, si fasciava stretti i seni e consegnava il neonato a una nutrice; in casa sua c'erano quasi tante bambinaie quanti erano i bambini. La facilità con cui Nívea partoriva, la sua buona salute e la capacità di distaccarsi dai figli preservarono la sua relazione intima con Severo, e si intuisce facilmente l'appassionato affetto che ancora li unisce. Mi ha raccontato che i libri proibiti della biblioteca di suo zio, studiati così minuziosamente, la istruirono sulle fantastiche possibilità dell'amore, persino su quelle più tranquille adatte ad amanti limitati nelle capacità acrobatiche, com'era il loro caso: lui per via della gamba amputata e lei del pancione delle gravidanze. Non so quali siano le contorsioni preferite da quei due, ma immagino che i momenti di maggior piacere siano ancora quelli in cui giocano al buio, senza fare il minimo rumore, come se nella camera ci fosse una suora che si dibatte tra il dormiveglia di una cioccolata alla valeriana e la voglia di peccare.
Le notizie sulla rivoluzione venivano rigidamente censurate dal governo, ma si sapeva qualsiasi cosa ancor prima che succedesse. Venimmo a sapere della cospirazione perché ce la annunciò uno dei miei cugini maggiori, quando, in segreto, fece la sua comparsa in casa accompagnato da un fittavolo, servitore e guardaspalle. Dopo cena si rinchiuse a lungo nello studio con Frederick Williams e la nonna, mentre io, fingendo di leggere in un angolo, non mi perdevo una parola di quanto dicevano. Mio cugino era un ragazzone biondo, di bell'aspetto, con ricci e occhi femminei, impulsivo e simpatico; era cresciuto in campagna e aveva un buon polso nel domare i cavalli. Sono le uniche cose che ricordo di lui. Spiegò che alcuni ragazzi, tra i quali lui, avevano intenzione di far saltare dei ponti come gesto di provocazione nei confronti del governo.
"A chi è venuta un'idea così brillante? Avete un capo?" domandò sarcastica la nonna.
"Ancora no; lo eleggeremo una volta riuniti."
"Quanti siete, figliolo?"
"Un centinaio, ma non so quanti verranno. Non tutti conoscono il motivo della convocazione, gli verrà detto dopo, per ragioni di sicurezza, capisce, zia?"
"Capisco. Sono tutti signorini come te?" volle sapere la nonna, sempre più alterata.
"Ci sono artigiani, operai, gente di campagna e anche alcuni miei amici."
"Come siete armati?" chiese Frederick Williams.
"Sciabole, coltelli e penso che ci sarà qualche carabina. Dovremo procurarci della polvere da sparo, ovvio."
"Mi sembra una sublime corbelleria!" esplose la nonna.
Cercarono di dissuaderlo e lui li ascoltò con simulata pazienza, ma era evidente che la decisione era già stata presa e che non era il momento per cambiare opinione. Andandosene, portò con sé, in una borsa di cuoio, alcune delle armi da fuoco della collezione di Frederick Williams. Due giorni dopo venimmo a sapere cosa era successo nel podere della cospirazione, a pochi chilometri da Santiago. Durante il giorno, i ribelli avevano progressivamente raggiunto una capanna di bovari in cui si credevano al sicuro; avevano passato ore e ore a discutere, ma constatato che erano ben poche le armi a disposizione e che il piano faceva acqua da tutte le parti, avevano deciso di rimandare, di trascorrere lì la notte, da allegra brigata, e di disperdersi il giorno successivo. Non sospettavano di essere stati denunciati. Alle quattro di mattina, si ritrovarono addosso novanta cavallerizzi e quaranta fanti delle truppe governative; la manovra era stata talmente rapida e sicura che gli assediati non avevano avuto modo di difendersi e si erano arresi, convinti tuttavia di non correre pericoli, dal momento che non avevano ancora commesso alcun crimine, salvo l'essersi riuniti clandestinamente. Il tenente colonnello a capo del distaccamento nella confusione del momento perse la testa e, accecato dalla collera, trascinò un prigioniero davanti ai suoi e lo fece massacrare a furia di pallottole e colpi di baionetta, poi ne scelse altri otto e li fucilò alle spalle; le percosse e il massacro proseguirono in questo modo fino a quando, al sorgere del sole, i cadaveri dilaniati erano sedici. Il colonnello aprì le cantine della tenuta e consegnò le donne dei contadini alla truppa ebbra e imbaldanzita dall'impunità. Incendiarono la casa e torturarono l'amministratore così selvaggiamente che poi dovettero fucilarlo seduto. Nel frattempo gli ordini da Santiago andavano e venivano, ma l'attesa non mitigò l'animo della soldatesca, anzi, ne aumentò la sete di violenza. Il giorno successivo, dopo molte ore di inferno, arrivarono le istruzioni scritte di proprio pugno da un generale: "Esecuzione immediata per tutti". E così fu. Dopodiché i cadaveri vennero caricati su cinque carri per essere gettati in una fossa comune, ma fu tale lo scandalo che alla fine vennero consegnati alle famiglie.
Al crepuscolo portarono il corpo di mio cugino, che la nonna, avvalendosi della sua posizione sociale e delle sue conoscenze, aveva reclamato; era avvolto in una coperta insanguinata e venne portato con cautela in una stanza affinché lo si potesse sistemare prima che la madre e le sorelle lo vedessero. Spiando dalle scale, vidi apparire un gentiluomo in finanziera nera con una valigetta che si rinchiuse con il cadavere, mentre le domestiche commentavano che si trattava di un maestro imbalsamatore capace di eliminare i segni della fucilazione grazie a cerone, imbottitura e un ago da materassaio. Frederick Williams e la nonna avevano trasformato il salone dorato in una camera ardente improvvisando un altare e sistemando dei ceri gialli in alti candelabri. Quando all'alba iniziarono ad arrivare le carrozze con la famiglia e gli amici, la casa era piena di fiori e mio cugino, pulito, ben vestito e senza tracce del martirio, riposava in una splendida bara di mogano dalle rifiniture in argento. Le donne, a lutto stretto, si erano accomodate in una doppia fila di sedie a piangere e pregare mentre gli uomini pianificavano la vendetta nel salone accanto, le cameriere servivano panini come se si trattasse di un pic-nic e noi bambini, vestiti anche noi di nero, giocavamo, spanciandoci dal ridere, a fucilarci l'un l'altro. Mio cugino e diversi suoi compagni vennero vegliati per tre giorni nelle loro case, mentre le campane rintoccavano senza posa per i ragazzi morti. Le autorità non osarono intervenire. Nonostante la rigida censura, tutto il paese venne informato dell'accaduto, la notizia esplose come una polveriera e l'onore scosse allo stesso modo sostenitori del governo e rivoluzionari. Il presidente non volle conoscere i particolari e declinò ogni responsabilità, esattamente come aveva fatto per le infamie perpetrate da altri militari e dal temibile Godoy.
"Li hanno uccisi a man salva, con ferocia, come bestie. Non ci si può aspettare niente di diverso, siamo un paese sanguinario," commentò Nívea, molto più furibonda che triste, continuando ad argomentare che avevamo combattuto cinque guerre nell'arco del secolo in corso; noi cileni sembriamo inoffensivi e godiamo della reputazione di timidi, parliamo persino a suon di diminutivi (un piacerino, mi dia un bicchierino d'acquetta) ma alla prima occasione ci trasformiamo in cannibali. Per comprendere la nostra predisposizione alla brutalità, era necessario sapere da chi discendevamo, disse: i nostri avi erano stati i più crudeli e agguerriti conquistatori spagnoli, gli unici che avessero osato arrivare a piedi fino in Cile, con le armature arroventate dal sole del deserto, vincendo i peggiori ostacoli della natura. Si erano mescolati con gli araucani, selvaggi quanto loro, l'unico popolo del continente che non era mai stato soggiogato. Gli indios si mangiavano i prigionieri e i loro capi, i toquis, usavano maschere da cerimonia fatte con la pelle seccata dei loro oppressori, preferibilmente di quelli con barba e baffi, essendo loro imberbi; questo era il loro modo di vendicarsi dei bianchi, che a loro volta li bruciavano vivi, li impalavano, tagliavano loro le braccia e gli strappavano gli occhi. "Basta! Ti proibisco di parlare di simili barbarie davanti a mia nipote," la interruppe la nonna.
La mattanza dei giovani cospiratori fu il detonatore delle battaglie finali della Guerra civile. Nei giorni successivi, i rivoluzionari fecero sbarcare un esercito di novemila uomini appoggiati dall'artiglieria navale e avanzarono verso il porto di Valparaíso a tutta velocità e in apparente disordine, come un'orda di unni, ma quel caos era diretto invece da un piano chiarissimo, tant'è che in poche ore annientarono il nemico. Le riserve governative persero tre uomini su dieci, l'esercito rivoluzionario occupò Valparaíso e da lì si preparò ad avanzare su Santiago e dominare il resto del paese. Nel frattempo il presidente soprintendeva al conflitto dal suo ufficio, via telefono e telegrafo, ma i rapporti che gli arrivavano erano falsi e i suoi ordini si perdevano nella nebulosa delle onde radio, dato che la maggior parte dei telefonisti apparteneva allo schieramento rivoluzionario. Il presidente ricevette la notizia della disfatta all'ora di cena. Terminò impassibile di mangiare, poi ordinò alla famiglia di rifugiarsi nella legazione degli Stati Uniti, prese sciarpa, soprabito e cappello, e si diresse a piedi, accompagnato da un amico, all'ambasciata argentina, che si trovava a pochi isolati dal palazzo presidenziale. Lì si era rifugiato anche uno dei congressisti dell'opposizione e per poco non si incrociarono sulla porta colui che entrava da sconfitto e chi usciva da trionfatore. Il persecutore si era trasformato in perseguitato.
I rivoluzionari marciarono sulla capitale in mezzo alle acclamazioni della stessa gente che mesi prima aveva applaudito le truppe del governo; in poche ore gli abitanti di Santiago si riversarono per le strade con nastri rossi al braccio, i più per festeggiare, gli altri per nascondersi, visto che si temeva il peggio dalla soldatesca e dal popolino imbaldanzito. Le autorità fecero un appello affinché tutti cooperassero per l'ordine e la pace, ma la turba lo interpretò a suo modo. Si formarono bande agli ordini di un capo, che percorsero la città con le liste delle case da saccheggiare, ognuna delle quali era segnata su una cartina, con l'indirizzo esatto. Si disse poi che le liste fossero state stilate con astio e spirito di vendetta da signore dell'alta società. Può darsi, ma per quanto ne so io, nonostante l'odio nei confronti del governo rovesciato, Paulina del Valle e Nívea erano incapaci di abbassarsi a tali meschinerie; al contrario, nascosero in casa un paio di famiglie perseguitate in attesa che si placasse il furore popolare e tornasse la calma noiosa dei tempi precedenti la rivoluzione, di cui tutti sentivamo la mancanza. Il saccheggio di Santiago fu un'azione metodica e persino divertente, se guardata da lontano, ovvio. Alla testa della "commissione", eufemismo per designare le bande, c'era un capo che suonava una campanella e dava istruzioni: "Qui potete rubare, ma non rompetemi nulla, ragazzi", "qui conservate i documenti e poi incendiatemi la casa", "qui potete prendervi quel che volete e rompere tutto senza riguardi". La "commissione" eseguiva scrupolosamente le istruzioni e se i padroni erano presenti li salutavano con modi cortesi per poi procedere all'allegra cuccagna del saccheggio come bambini in festa. Aprivano gli scrittoi, estraevano le carte e i documenti privati da consegnare al capo e poi spaccavano i mobili a colpi d'ascia, si prendevano quel che gli piaceva e alla fine cospargevano le pareti di paraffina per dargli fuoco. Dalla sua stanza nell'ambasciata argentina, il deposto presidente Balmaceda sentì i fragori dei disordini nelle strade e, dopo aver redatto il suo testamento politico, per paura che la sua famiglia pagasse il prezzo dell'odio, si sparò un colpo alla tempia. La cameriera che gli aveva portato la cena alla sera fu l'ultima a vederlo in vita; alle otto di mattina venne ritrovato sul letto, vestito di tutto punto, con il capo sul cuscino insanguinato. Quel proiettile lo trasformò immediatamente in un martire e negli anni a venire sarebbe diventato un simbolo della libertà e della democrazia, rispettato anche dai suoi più acerrimi nemici. Come disse la nonna, il Cile è un paese dalla memoria corta. Durante i pochi mesi della rivoluzione morirono più cileni di quanti avessero perso la vita nei quattro anni della Guerra del Pacifico.
In mezzo a quella bagarre, fece la sua apparizione in casa Severo del Valle, barbuto e infangato, venuto a prendere la moglie che non vedeva da gennaio. Fu un'enorme sorpresa ritrovarla con due figli in più, ma nel subbuglio della rivoluzione, lei si era dimenticata di dirgli che quando se ne era andato era incinta. I gemelli iniziavano a fiorire; in un paio di settimane avevano assunto un aspetto più o meno umano e non erano più i topolini rugosi e bluastri di quando erano nati. Nívea saltò al collo del marito e allora, per la prima volta nella mia vita, mi toccò assistere a un lungo bacio di quelli veri. La nonna, confusa, cercò di distrarmi, ma non ci riuscì e ricordo ancora l'incredibile effetto che mi provocò: quel bacio segnò l'inizio della vulcanica metamorfosi dell'adolescenza. Nel giro di pochi mesi divenni una sconosciuta, non riuscivo a riconoscermi nella ragazza introversa in cui mi stavo trasformando e mi ritrovai prigioniera in un corpo ribelle ed esigente, che cresceva e si affermava, soffriva e palpitava. Mi sembrava di essere unicamente un'estensione del mio ventre, quella caverna che immaginavo come una cavità sanguinante in cui fermentavano umori e si sviluppava una flora estranea e terribile. Non riuscivo a dimenticare l'allucinante scena di Nívea che partoriva accovacciata alla luce delle candele, l'enorme pancia coronata da un ombelico sporgente, le sue magre braccia appese alle corde che pendevano dal soffitto. Piangevo all'improvviso senza nessun motivo apparente, così come potevo essere vittima di incontenibili attacchi d'ira o svegliarmi talmente stanca da non riuscire ad alzarmi. I sogni con i bambini in tunica nera si ripresentarono con maggiore intensità e frequenza; sognavo anche un uomo dolce e dall'aroma marino che mi cingeva tra le sue braccia e mi risvegliavo avvinghiata al cuscino desiderando disperatamente che qualcuno mi baciasse come Severo del Valle aveva baciato sua moglie. Esternamente scoppiavo di calore, ma dentro gelavo, mi mancava la serenità necessaria per leggere o studiare, mi mettevo a correre tutt'intorno al giardino come un'indemoniata per contenere la voglia di ululare, mi buttavo vestita nel laghetto schiacciando le ninfee e spaventando i pesci rossi, orgoglio della nonna. Presto scoprii i punti più sensibili del mio corpo e iniziai ad accarezzarmi di nascosto, senza comprendere perché ciò che era considerato peccato mi calmasse. Sto impazzendo, come tutte quelle ragazze che finiscono per diventare isteriche, conclusi terrorizzata, ma non osai parlarne con la nonna. Anche Paulina del Valle stava cambiando; mentre il mio corpo sbocciava il suo avvizziva, afflitto da misteriosi dolori di cui non parlava con nessuno, nemmeno con il medico, fedele alla sua teoria che era sufficiente camminare dritta e non fare rumori da vecchia per tenere alla larga la decrepitezza. L'obesità le pesava, aveva le vene varicose, le facevano male le ossa, le mancava l'aria e perdeva gocce di pipì, miserie che decifrai da piccoli segnali, che lei, tuttavia, manteneva nel più stretto riserbo. La signorina Matilde Pineda mi avrebbe aiutato molto nella fase dell'adolescenza, ma era sparita completamente dalla mia vita, estromessa dalla nonna. Anche Nívea se ne andò con il marito, i figli e le bambinaie, spensierata e allegra come era arrivata, lasciando un vuoto incolmabile in casa. C'era abbondanza di camere e mancavano i rumori: senza di lei e senza i bambini la dimora della nonna si era trasformata in un mausoleo.
Santiago festeggiò il rovesciamento del governo con interminabili ritornelli di parate, feste, cotillon e banchetti; la nonna non rimase indietro, aprì di nuovo i battenti della casa e cercò di dare nuovo corso alla vita sociale e ai suoi incontri, ma regnava un'aria opprimente che il mese di settembre, con la sua splendida primavera, non riusciva a mitigare. Le migliaia di morti, i tradimenti, i saccheggi pesavano in egual misura sul cuore di vincitori e vinti. Provavamo vergogna: la Guerra civile era stata un'orgia di sangue.
Quella fu un'epoca strana della mia vita, il mio corpo si modificò, l'anima si dilatò e cominciai a domandarmi sul serio chi ero e da dove provenivo. La miccia fu l'arrivo di Matías Rodríguez de Santa Cruz, mio padre, anche se allora non sapevo ancora che lo fosse. Lo ricevetti come lo zio conosciuto anni prima in Europa. Già allora mi era parso fragile, ma rivedendolo non lo riconobbi, era poco più di un uccellino denutrito su una sedia a rotelle. Lo accompagnava una bella signora matura, formosa, dalla carnagione perlacea, vestita con un semplice abito di popeline color senape e uno scialle sbiadito sulle spalle, il cui tratto più saliente era la massa di capelli crespi, arruffati e grigi, raccolti sulla nuca da un nastro sottile. Sembrava un'antica regina scandinava in esilio, era facile immaginarsela sulla poppa di un'imbarcazione vichinga a navigare tra lastroni di ghiaccio.
Quando Paulina del Valle ricevette il telegramma in cui si annunciava che il suo primogenito sarebbe sbarcato a Valparaíso, si mise immediatamente in moto per recarsi al porto con me, zio Frederick e il resto del seguito abituale. Per andare ad accoglierlo viaggiammo su un vagone speciale che il direttore inglese delle ferrovie aveva messo a nostra disposizione. Era rivestito di legno lucido con rivetti di bronzo brunito e sedili di velluto color sangue di bue, e disponeva di due inservienti in divisa che ci servivano come se fossimo membri della famiglia reale. Prendemmo alloggio in un hotel di fronte al mare e rimanemmo in attesa della nave, che doveva arrivare il giorno successivo. Ci presentammo sul molo vestiti con la stessa eleganza con cui si va a un invito a nozze; posso affermarlo con tanta baldanza perché possiedo uno foto scattata nella piazza poco prima che la nave attraccasse. Paulina del Valle veste di seta chiara, con molti volant, drappeggi e fili di perle, porta un monumentale cappello dalle ampie tese sovrastato da una cascata di piume che le ricadono sulla fronte e un parasole aperto per proteggersi dalla luce. Suo marito Frederick Williams sfoggia abito nero, tuba e bastone; io sono tutta in bianco, con un nastro di organza sulla testa, come un regalo di compleanno. Quando la passerella della nave venne stesa, il capitano in persona ci invitò a salire a bordo e ci scortò con grandi cerimonie fino alla cabina di don Matías Rodríguez de Santa Cruz.
L'ultima cosa che la nonna si aspettava era ritrovarsi all'improvviso di fronte ad Amanda Lowell. La sorpresa a quella vista per poco non la annichilì dal disappunto; la presenza dell'antica rivale la turbò molto più del penoso aspetto del figlio. Ovviamente a quell'epoca non avevo informazioni sufficienti per poter interpretare la reazione della nonna, e pensai che le fosse venuto un mancamento per il caldo. Il flemmatico Frederick Williams, invece, non si scompose minimamente alla vista della Lowell, la salutò con un cenno breve ma gentile e poi si premurò di far accomodare la nonna su una poltrona e di darle dell'acqua, mentre Matías osservava la scena con un certo divertimento.
"Cosa ci fa qui questa donna!" balbettò la nonna quando fu in grado di respirare.
"Immagino che desideriate conversare in famiglia, andrò a prendere una boccata d'aria," disse la regina vichinga uscendo con inalterata dignità.
"La signorina Lowell è mia amica, diciamo pure che è la mia unica amica, madre. Mi ha accompagnato fino a qui, senza di lei non avrei potuto viaggiare. È stata lei a insistere perché tornassi in Cile, ritiene che per me sia meglio morire a casa mia piuttosto che abbandonato in un ospedale parigino," disse Matías in uno spagnolo lambiccato e con uno strano accento franco-sassone.
Allora Paulina del Valle per la prima volta lo guardò e si rese conto che di suo figlio rimaneva solo uno scheletro ricoperto di pelle squamosa, che gli occhi vitrei erano sprofondati nelle orbite e le guance erano così scarne che sotto la pelle si indovinava la forma dei denti. Era adagiato su una poltrona, sostenuto da cuscini, con le gambe ricoperte da uno scialle. Anche se non doveva avere più di quarant'anni, pareva un vecchio disorientato e triste.
"Mio Dio, Matías, cos'hai?" chiese la nonna sgomenta.
"Niente che si possa curare, madre. Avrà capito che ho ragioni più che valide per tornare qui."
"Quella donna..."
"Conosco tutta la storia di Amanda Lowell con mio padre; è successa trent'anni fa, all'altro capo del mondo. Non può mettere da parte il rancore? Abbiamo già tutti l'età in cui buttare a mare i sentimenti che non ci servono e rimanere solo con quelli che ci aiutano a vivere. La tolleranza è uno di questi, madre. Debbo molto alla signorina Lowell, è la mia compagna da più di quindici anni..."
"Compagna? Cosa significa?"
"Quello che ho detto: compagna. Non è la mia infermiera, non è mia moglie e non è più la mia amante. Mi accompagna durante i viaggi, nella vita e, adesso, come può vedere, verso la morte."
"Non parlare così! Non morirai, figlio mio, qui ti cureremo come si deve e presto ritornerai sano come un pesce e in forma..." promise Paulina del Valle, ma la voce le si incrinò e non riuscì a proseguire.
Erano trascorsi tre decenni da quando mio nonno, Feliciano Rodríguez de Santa Cruz, aveva avuto una relazione amorosa con Amanda Lowell, ma la nonna, pur avendola vista solo un paio di volte e da lontano, l'aveva immediatamente riconosciuta. Non erano passate invano tutte le notti in cui aveva dormito in quel letto teatrale commissionato a Firenze per sfidarla; probabilmente in ognuna di esse aveva continuato a ricordare la rabbia provata nei confronti della scandalosa favorita di suo marito. Quando si materializzò davanti ai suoi occhi una donna invecchiata e priva di vastità, che in nulla assomigliava alla stupenda puledra che riusciva a bloccare il traffico di San Francisco dimenando il posteriore per la strada, Paulina scorse la pericolosa rivale dei tempi andati, senza riuscire a vederla per quel che era. La rabbia nei confronti di Amanda Lowell era rimasta sopita in attesa del momento in cui riaffiorare; eppure, dopo le parole del figlio, Paulina la cercò negli anfratti del suo cuore senza riuscire a scovarla. Trovò invece un istinto materno che in lei non era mai stato spiccato, ma che ora la pervadeva di un'assoluta e opprimente compassione. Provava compassione non solo per il figlio moribondo, ma anche per la donna che l'aveva accompagnato per anni, che gli aveva voluto bene con lealtà, che l'aveva accudito nella disgrazia della malattia e che aveva attraversato il mondo per restituirglielo nell'ora della morte. Paulina del Valle rimase seduta sulla poltrona con lo sguardo fisso sullo sventurato figlio e le lacrime che le correvano silenziose sulle guance, improvvisamente rimpicciolita, anziana e fragile, mentre io le davo piccole pacche consolatorie sulla schiena senza capire bene cosa stesse succedendo. Frederick Williams doveva conoscere molto bene la nonna, perché uscì silenziosamente, andò a cercare Amanda Lowell e la condusse di nuovo nel salottino.
"Mi perdoni, signorina Lowell," mormorò la nonna dalla sua poltrona.
"Mi perdoni lei, signora," replicò l'altra avvicinandosi con timidezza fino a ritrovarsi di fronte a Paulina del Valle.
Si strinsero le mani, una in piedi e l'altra seduta, entrambe con gli occhi pieni di lacrime, per un momento che mi parve eterno, ma a un tratto notai che le spalle della nonna tremavano e mi resi conto che stava ridacchiando sotto i baffi. Anche l'altra sorrideva, prima coprendosi la bocca, sconcertata, ma poi, alla vista della rivale che sogghignava, scoppiò in una allegra risata che si intrecciò con quella della nonna e così, nel giro di pochi istanti, le due donne si stavano sbellicando, contagiandosi reciprocamente con una sfrenata e isterica allegria che spazzava via con omeriche risate gli anni di inutile gelosia, i livori andati in frantumi, il tradimento del marito e altri obbrobriosi ricordi.
La casa di via Ejército Libertador aveva ospitato molte persone durante i turbolenti anni della rivoluzione, ma per me niente era stato così complicato ed eccitante come il soggiorno di mio padre, venuto ad aspettare la morte. La situazione politica si era tranquillizzata dopo la Guerra civile, che aveva messo fine a molti anni di governo liberale. I rivoluzionari avevano ottenuto i cambiamenti per cui tanto sangue era stato versato; prima il governo imponeva il suo candidato mediante la subornazione e l'intimidazione, con l'appoggio delle autorità civili e militari; ora la corruzione veniva praticata allo stesso modo da padroni, preti e partiti; il meccanismo tuttavia era più giusto, perché quel che si prendeva da una parte lo si compensava dall'altra e le bustarelle non si pagavano con i fondi pubblici. Questo sistema venne definito libertà elettorale. I rivoluzionari introdussero anche un regime parlamentare simile a quello inglese che, tuttavia, non sarebbe durato molto. "Siamo gli inglesi d'America," disse una volta la nonna e Nívea replicò immediatamente che erano gli inglesi i cileni d'Europa. A ogni modo, l'esperimento parlamentare non poteva avere lunga vita in una terra di caudillos; i ministri cambiavano così spesso che era impossibile tenergli dietro; alla fine, il ballo di San Vito della politica perse interesse per tutti in famiglia, fatta eccezione per Nívea, che per attirare l'attenzione sul problema del suffragio femminile si incatenava piuttosto spesso alle inferriate del congresso con due o tre signore infervorate quanto lei, suscitando lo scherno dei passanti, la collera della polizia e la mortificazione dei rispettivi mariti.
"Quando le donne potranno votare, lo faranno in modo unanime. Avremo tanta forza da poter far pendere la bilancia del potere e cambiare questo paese," diceva.
"Ti sbagli, Nívea, voteranno per chi verrà loro imposto dal marito o dal prete, le donne sono molto più stupide di quanto immagini. E poi alcune di noi sono state in grado di regnare da dietro il trono, hai visto come abbiamo rovesciato il governo precedente. Io non ho bisogno del suffragio per fare quello che mi pare," ribatteva la nonna.
"Perché lei possiede ricchezza ed educazione, zia. Quante donne ci sono come lei? Dobbiamo lottare per il voto, è questa la priorità."
"Hai perso la testa, Nívea."
"Non ancora, zia, non ancora..."
Mio padre venne sistemato al pianterreno, in uno dei saloni trasformati in camera da letto, perché non poteva salire le scale, e fu affidato a una domestica fissa, la sua ombra, che si occupava di lui giorno e notte. Il medico di famiglia fornì una diagnosi poetica, "turbolenza inveterata del sangue", disse alla nonna, preferendo non metterla di fronte alla realtà, ma credo che a tutti fosse evidente che mio padre era consumato da una malattia venerea. Si trovava nella fase finale, quando ormai non c'erano cataplasmi, né impiastri né sublimati corrosivi in grado di aiutarlo, quella fase che si era ripromesso di evitare a qualsiasi costo; ma dovette sopportare tutto ciò perché non aveva avuto il coraggio di suicidarsi prima, come aveva progettato per anni. Riusciva a stento a muoversi per il dolore alle ossa; non poteva camminare e la mente iniziava a vacillare. C'erano giorni in cui rimaneva imbrigliato negli incubi senza mai svegliarsi del tutto e mormorava storie incomprensibili, ma godeva anche di momenti di grande lucidità e quando la morfina attenuava la sofferenza riusciva a ridere e a ricordare. Allora mi chiamava perché mi sistemassi al suo fianco. Passava la giornata su una poltrona a guardare il giardino, sostenuto dai cuscini e circondato da libri, giornali e vassoi di medicamenti. La domestica si sedeva a lavorare a maglia a breve distanza, sempre attenta ai suoi bisogni, silenziosa e cupa come un nemico, unica persona che lui tollerasse al suo fianco perché non lo trattava con compassione. La nonna aveva cercato di far sì che il figlio vivesse in un ambiente allegro: aveva fatto montare tende di chintz e rivestito le pareti di carta da parati nei toni del giallo, collocava mazzi di fiori freschi del giardino sui tavoli e aveva ingaggiato un quartetto d'archi che si presentava diverse volte alla settimana per eseguire le melodie classiche da lui preferite; ma niente riusciva a neutralizzare l'odore dei farmaci e la certezza che in quella stanza qualcuno si stesse decomponendo. All'inizio provavo ripugnanza per quel cadavere vivente, ma quando riuscii a superare la paura e, obbligata dalla nonna, iniziai a fargli visita, la mia esistenza cambiò. Matías Rodríguez de Santa Cruz arrivò nella casa proprio quando mi stavo risvegliando all'adolescenza a darmi ciò di cui più avevo bisogno: memoria. In uno di quei momenti di lucidità, quando si trovava sotto l'effetto delle droghe, mi annunciò di essere mio padre e la rivelazione fu talmente casuale da non riuscire a sorprendermi.
"Lynn Sommers, tua madre, era la donna più avvenente che io abbia mai visto. Sono felice che tu non abbia ereditato la sua bellezza," disse.
"Perché, zio?"
"Non chiamarmi zio, Aurora. Sono tuo padre. La bellezza in genere è una maledizione perché risveglia negli uomini le peggiori passioni. Una donna troppo bella non può sfuggire al desiderio che scatena."
"Ma è vero che lei è mio padre?"
"Certo."
"Ma pensa! Credevo che mio padre fosse zio Severo."
"Severo sarebbe dovuto essere tuo padre, è un uomo molto migliore di me. Tua madre meritava un marito come lui. Io sono sempre stato una testa calda, per questo mi sono ridotto così, come uno spaventapasseri. A ogni modo, lui può parlarti di tua madre molto più di quanto possa fare io," mi spiegò.
"Mia madre l'amava?"
"Sì, ma io non sapevo che farmene di quell'amore e fuggii. Sei troppo giovane per capire queste cose, figlia mia. È sufficiente che tu sappia che tua madre era meravigliosa e che è un peccato che sia morta così giovane."
Io ero d'accordo, mi sarebbe piaciuto conoscere mia madre, ma nutrivo una curiosità maggiore nei confronti di altri personaggi della mia prima infanzia che mi comparivano in sogno o in vaghi ricordi impossibili da focalizzare. Durante le conversazioni con mio padre iniziò a profilarsi la sagoma del nonno Tao Chi'en, che Matías aveva visto solo una volta. Bastò che ne facesse il nome per intero e mi dicesse che era un cinese alto e di bell'aspetto perché i miei ricordi si liberassero goccia a goccia, come pioggia. Una volta dato un nome a quella presenza invisibile che mi accompagnava sempre, il nonno smise di essere un parto della mia fantasia per trasformarsi in un fantasma, reale quanto una persona in carne e ossa. Fu un sollievo verificare che quell'uomo dolce dal sapore di mare che sognavo, non solo era esistito, ma mi aveva amato e se era sparito all'improvviso non era stato per il desiderio di abbandonarmi.
"Voglio dire che Tao Chi'en morì," specificò mio padre.
"In che modo?"
"Mi sembra che si sia trattato di un incidente, ma non ne sono sicuro."
"E cosa è accaduto a mia nonna Eliza Sommers?"
"Se n'è andata in Cina. Riteneva che tu saresti stata meglio con la mia famiglia e non si sbagliava. Mia madre aveva sempre desiderato una figlia e ti ha cresciuta dandoti più affetto di quello che ha dedicato a me e ai miei fratelli," mi garantì.
"Cosa vuol dire Lai Ming?"
"Non ne ho idea, perché?"
"Perché a volte mi sembra di sentire questa parola..."
Matías aveva le ossa distrutte dalla malattia, si stancava in fretta e non era facile carpirgli informazioni; era solito perdersi in eterne divagazioni che non avevano nulla a che vedere con ciò che mi interessava, ma a poco a poco riuscii a mettere insieme i tasselli del mio passato, punto per punto, sempre all'insaputa della nonna, che mi era grata per quelle visite al malato che lei non aveva il coraggio di fare; entravo in camera di suo figlio un paio di volte al giorno, gli davo un bacio veloce sulla fronte e uscivo incespicando con gli occhi pieni di lacrime. Non chiese mai di cosa parlassimo e, ovviamente, non glielo dissi. Non osai nemmeno accennare all'argomento con Severo e Nívea del Valle; temevo che la minima indiscrezione da parte mia potesse siglare il punto finale alle conversazioni con mio padre. Senza esserci messi d'accordo, entrambi sapevamo che i nostri colloqui dovevano rimanere segreti, questo ci vincolò in una strana complicità. Non posso dire che arrivai a voler bene a mio padre, perché non ci fu abbastanza tempo, ma durante i brevi mesi in cui vivemmo insieme mi mise fra le mani un tesoro offrendomi i particolari della mia storia, soprattutto riguardo a mia madre, Lynn Sommers. Mi ripeté molte volte che nelle mie vene scorreva sangue legittimo dei del Valle, particolare che sembrava molto importante per lui. Come poi venni a sapere, su suggerimento di Frederick Williams, che esercitava una grande influenza su ogni abitante di quella casa, mi aveva nominata erede della parte che gli spettava dell'eredità famigliare, messa in salvo su diversi conti correnti e sotto forma di azioni di Borsa, con enorme frustrazione di un sacerdote che gli faceva quotidianamente visita nella speranza di ottenere qualcosa per la Chiesa. Si trattava di un uomo brontolone e in odore di santità – non faceva un bagno né si cambiava la veste talare da anni – famoso per la sua intolleranza religiosa e per il suo talento nel fiutare i moribondi danarosi, che cercava di convincere a destinare i loro patrimoni in opere di bene. Le famiglie agiate lo vedevano apparire con vero terrore perché preannunciava la morte, ma nessuno osava sbattergli la porta in faccia. Quando mio padre comprese che stava arrivando la fine fece chiamare Severo del Valle, con il quale praticamente non si parlava, per mettersi d'accordo su ciò che riguardava il mio futuro. Venne convocato un notaio ed entrambi firmarono un documento nel quale Severo del Valle rinunciava alla paternità e Matías Rodríguez de Santa Cruz mi riconosceva come figlia. Così facendo mi protesse dagli altri due figli di Paulina, i suoi fratelli minori, che alla morte della nonna, nove anni dopo, si impadronirono di tutto quello su cui riuscirono a mettere le mani.
La nonna si aggrappò ad Amanda Lowell con un affetto superstizioso, nella convinzione che, fino a quando gli fosse stata accanto, Matías sarebbe vissuto. Paulina non dava confidenza a nessuno se non, qualche volta, a me; riteneva infatti la maggior parte delle persone inguaribilmente incivili e dichiarava apertamente a tutti tale convinzione, sistema non proprio opportuno per stringere amicizie, ma la cortigiana scozzese riuscì a penetrare la corazza con cui la nonna si difendeva. Non si potevano immaginare due donne più diverse, la Lowell non aspirava a niente, viveva alla giornata, con distacco, libera, senza paure; non temeva la povertà, la solitudine o la decrepitezza, accettava tutto di buon grado, l'esistenza per lei era un piacevole viaggio che conduceva inevitabilmente alla vecchiaia e alla morte; non c'era motivo di accumulare beni materiali perché comunque alla tomba ci si andava nudi, sosteneva. Si era lasciata alle spalle la giovane seduttrice che aveva disseminato San Francisco di così tanti amori, la fascinosa che aveva conquistato Parigi era un ricordo; adesso era una donna sulla cinquantina, senza nessuna frivolezza né rimorso. La nonna non si stancava mai di sentirla parlare del suo passato, della gente famosa che aveva conosciuto e di sfogliare l'album di ritagli di giornali e fotografie, in molte delle quali appariva giovane, raggiante e con un boa constrictor arrotolato intorno al corpo. "Quel poveretto morì di mal di mare durante un viaggio; i serpenti non sono grandi viaggiatori," ci raccontò. Grazie alla sua cultura cosmopolita e al suo fascino – in grado di superare, pur senza volerlo, quello di donne molto più giovani e belle – divenne l'anima degli incontri della nonna, che seppe allietare con il suo pessimo spagnolo e il suo francese dall'accento scozzese. Non c'era argomento su cui non fosse in grado di discutere, libro che non avesse letto, importante città europea in cui non fosse stata. Mio padre, che le voleva bene e le doveva molto, diceva che era una dilettante, che sapeva un po' di tutto e molto di niente, ma che la sua generosa immaginazione le permetteva di supplire a ciò che le mancava in conoscenza o esperienza. Per Amanda Lowell non c'era città più galante di Parigi né società più pretenziosa di quella francese, l'unica in cui il socialismo, con la sua rovinosa mancanza di eleganza, non aveva la minima opportunità di trionfare. A questo riguardo Paulina del Valle era completamente d'accordo. Le due donne scoprirono che non solo ridevano delle stesse sciocchezze, persino del letto mitologico, ma che concordavano su quasi tutte le questioni fondamentali. Un giorno, mentre prendevano il tè su un tavolino di marmo nella veranda di vetrate e ferro battuto, si ritrovarono a rimpiangere di non essersi conosciute prima. Con o senza Feliciano e Matías di mezzo, sarebbero state ottime amiche, conclusero. Paulina fece tutto il possibile per trattenerla in casa sua, la ricoprì di regali e la presentò in società come se fosse stata un'imperatrice, ma Amanda Lowell era un uccello incapace di vivere in cattività. Si fermò per un paio di mesi, ma alla fine confessò in privato alla nonna di non avere abbastanza cuore per fermarsi ad assistere al deterioramento di Matías e che, in tutta franchezza, Santiago le sembrava una città provinciale, nonostante il lusso e l'ostentazione delle classi alte, paragonabili a quelli della nobiltà europea. Si annoiava, il suo posto era a Parigi, dove aveva trascorso i momenti migliori della sua esistenza. La nonna organizzò un ballo di congedo che passasse alla storia di Santiago, al quale sarebbe intervenuta la crème della società, perché nessuno avrebbe osato rifiutare un suo invito, a dispetto delle voci che circolavano sul nebuloso passato della sua ospite, ma Amanda Lowell la convinse che Matías era troppo ammalato e dare una festa in quella circostanza sarebbe stato di pessimo gusto; tra l'altro non avrebbe saputo cosa indossare per un'occasione del genere. Paulina le offrì i suoi vestiti animata dalle migliori intenzioni, senza immaginare quanto offendesse la Lowell insinuare che portassero la medesima taglia.
Tre settimane dopo la partenza di Amanda Lowell, l'inserviente che si occupava di mio padre lanciò il grido d'allarme. Fu chiamato immediatamente il medico: in un batter d'occhio la casa si riempì di persone, si succedettero amici della nonna, membri del governo, famigliari, un'infinità di frati e suore, compreso il cencioso prete cacciatore di patrimoni che aveva iniziato a fare la ronda alla nonna nella speranza che il dolore per la perdita del figlio la spedisse alla svelta a miglior vita. Paulina, tuttavia, non aveva intenzione di lasciare questo mondo, si era rassegnata da tempo alla tragedia del suo primogenito e credo che accolse il sopraggiungere della fine con sollievo, perché essere testimone del suo lento calvario era molto più doloroso che doverlo seppellire. Non mi consentirono di vedere mio padre perché ritennero che l'agonia non fosse uno spettacolo adatto a una ragazzina e che io fossi già sufficientemente afflitta per via dell'assassinio di mio cugino e delle altre recenti violenze, ma riuscii a congedarmi brevemente da lui grazie a Frederick Williams, che mi aprì la porta in un momento in cui non c'era nessuno in giro. Mi condusse per mano fino al letto su cui giaceva Matías Rodríguez de Santa Cruz, del quale non rimaneva più nulla di tangibile se non un involto di ossa trasparenti sepolte tra cuscini e lenzuola ricamate. Respirava ancora, ma la sua anima vagava già per altri lidi. "Addio, papà," gli dissi. Era la prima volta che lo chiamavo così. Agonizzò per altri due giorni e all'alba del terzo morì come un pulcino.
Avevo tredici anni quando Severo del Valle mi regalò una macchina fotografica moderna che utilizzava carta al posto delle vecchie lastre e che probabilmente era una delle prime arrivate in Cile. Mio padre era morto da poco e gli incubi mi tormentavano a tal punto che non volevo andare a letto e di notte vagabondavo come uno spettro senza meta per la casa, seguita passo passo da Caramello, che era sempre stato un cane sciocco e pauroso, fino a quando nonna Paulina non si impietosiva e ci accettava nel suo immenso letto dorato. Occupava metà letto con il suo grande corpo, morbido, profumato e io mi rannicchiavo dalla parte opposta, tremante per la paura, con Caramello ai piedi. "Come farò con voi due?" sospirava la nonna mezza addormentata. Era una domanda retorica perché né il cane né io avevamo un futuro: a questo proposito in famiglia c'era consenso generale circa il fatto "che sarei finita male". A quell'epoca si era laureata la prima donna medico in Cile e altre avevano iniziato l'università. A Nívea venne dunque l'idea che potessi fare altrettanto, anche solo per sfidare la famiglia e la società, ma era evidente che non avevo la benché minima attitudine allo studio. Allora apparve Severo del Valle con la macchina fotografica e me la mise in grembo. Era una bella Kodak, raffinatissima anche nei particolari di ogni singola vite, elegante, delicata, perfetta, fatta per mani da artista. La uso ancora; non mi ha mai tradito. Nessuna ragazzina della mia età possedeva un giocattolo del genere. La presi in mano con soggezione e rimasi a guardarla senza aver la minima idea di come utilizzarla. "Vediamo se riesci a fotografare le tenebre dei tuoi incubi," mi disse scherzando Severo del Valle, senza sospettare che quello sarebbe stato il mio unico obiettivo per mesi e che nel tentativo di svelare quell'incubo avrei finito con l'innamorarmi del mondo. La nonna mi condusse a plaza de Armas nello studio di don Juan Ribero, il miglior fotografo di Santiago, un uomo apparentemente asciutto come il pane secco, ma in realtà generoso e sentimentale.
"Le ho portato mia nipote a fare apprendistato," disse la nonna, depositando sullo scrittoio dell'artista un assegno, mentre io mi aggrappavo al suo vestito con una mano e con l'altra stringevo la mia fiammante macchina fotografica.
Don Juan Ribero, che era una spanna più basso della nonna e pesava la metà, si aggiustò gli occhiali sul naso, lesse con attenzione l'importo scritto sull'assegno e poi glielo restituì, guardandola dal basso in alto con un disprezzo infinito.
"La cifra non è un problema... Stabilisca lei il prezzo," tentennò la nonna.
"Non è una questione di prezzo, ma di talento, signora," replicò guidando Paulina verso la porta.
In quel mentre avevo avuto modo di buttare un'occhiata intorno. Il suo lavoro ricopriva le pareti: centinaia di ritratti di persone di tutte le età. Ribero era il preferito dall'alta società, il fotografo delle pagine di cronaca mondana, ma a guardarmi dai muri del suo studio non erano conservatori degli ambienti altolocati, né leggiadre debuttanti, bensì indios, minatori, pescatori, lavandaie, bambini poveri, anziani e molte donne di quelle cui la nonna prestava soccorso con i finanziamenti del Club de las Damas. Su quelle pareti era rappresentato il volto multiforme e tormentato del Cile. I visi di quei ritratti mi scossero intimamente, provai il desiderio di conoscere la storia di ognuna di quelle persone, sentii un senso di oppressione al petto, come un pugno, e una voglia incontenibile di mettermi a piangere, ma ricacciai indietro l'emozione e seguii la nonna a testa alta. In carrozza cercò di consolarmi: non mi dovevo preoccupare, disse, avremmo trovato qualcun altro che mi insegnasse a usare la macchina fotografica, di fotografi ce n'erano da vendere; chi si credeva di essere quel disgraziato straccione, rivolgersi a lei con quel tono arrogante, a Paulina del Valle in persona. E continuò con la tiritera, ma io non la ascoltavo perché avevo deciso che don Juan Ribero sarebbe stato il mio maestro. Il giorno dopo uscii di casa prima che la nonna si alzasse, indicai al cocchiere di condurmi allo studio e mi piazzai sulla strada, disposta ad attendere per tutta la vita. Don Juan Ribero arrivò verso le undici, mi trovò davanti alla sua porta e mi ordinò di tornare a casa. Allora ero timida – lo sono ancora – e molto orgogliosa, non ero abituata a dover chiedere essendo stata riverita come una regina fin dalla nascita, ma la mia determinazione doveva essere molto forte. Non mi smossi dalla porta. Un paio d'ore dopo il fotografo uscì, mi lanciò un'occhiata furiosa e si diresse giù per la strada. Quando tornò dal pranzo mi ritrovò ancora inchiodata lì, con la mia macchina fotografica stretta contro il petto. "Va bene," mormorò sconfitto, "ma l'avviso, signorina, che non avrò nessun riguardo particolare per lei. Qui si viene per obbedire in silenzio e per cercare di imparare in fretta, chiaro?" Assentii con il capo, perché non mi uscì la voce. La nonna, abituata a negoziare, accettò di assecondare la mia passione per la fotografia a patto che dedicassi un pari numero di ore alle materie di studio di prammatica nelle scuole maschili, compresi latino e teologia, perché a suo parere non erano le facoltà mentali a mancarmi, ma il rigore.
"Perché non mi mandi in una scuola pubblica?" le chiesi, entusiasta dalle chiacchiere sull'educazione laica impartita alle ragazze, motivo di panico tra le mie zie.
"È per gente di un'altra classe, non lo consentirò mai," concluse la nonna.
E quindi iniziarono nuovamente a sfilare per casa i precettori, alcuni dei quali erano sacerdoti disposti a istruirmi in cambio delle succulente donazioni che la nonna elargiva alle loro congregazioni. Ebbi fortuna, mi trattarono generalmente con indulgenza, perché non pensavano che il mio cervello potesse apprendere come quello di un maschio. Don Juan Ribero, invece, era molto esigente, soprattutto perché sosteneva che una donna deve faticare mille volte più di un uomo per ottenere rispetto intellettuale o artistico. È stato lui a insegnarmi tutto quel che so di fotografia, dalla scelta di una lente al laborioso processo di sviluppo; non ho mai avuto altro maestro. Quando, due anni dopo, lasciai il suo studio, ormai eravamo amici. Adesso ha settantaquattro anni e non lavora da diverso tempo perché è cieco, ma guida ancora i miei vacillanti passi e mi aiuta. Serietà è il suo motto. La vita lo appassiona e la cecità non gli ha impedito di continuare a guardare il mondo. Ha sviluppato una forma di chiaroveggenza. Come alcuni ciechi si avvalgono di qualcuno che legga per loro, così lui conta su persone che osservano e riferiscono. I suoi discepoli, i suoi amici e i suoi figli lo vanno a trovare ogni giorno e fanno a turno per descrivergli ciò che hanno contemplato: un paesaggio, una scena, un viso, un effetto di luce. Devono imparare a osservare con molta attenzione per superare il minuzioso interrogatorio di don Juan Ribero; le loro vite di conseguenza cambiano, non possono più muoversi per il mondo con l'abituale levità, perché debbono vedere con gli occhi del maestro. Anch'io gli faccio spesso visita. Mi riceve nell'eterna penombra del suo appartamento in via Monjitas, seduto su una poltrona di fronte alla finestra, con il gatto sulle ginocchia, sempre ospitale e saggio. Lo mantengo informato sui progressi tecnici nell'ambito della fotografia, gli descrivo in modo circostanziato ogni immagine dei libri che commissiono a New York e Parigi, gli espongo i miei dubbi. È aggiornato su tutto ciò che riguarda questa professione, si infervora per le diverse tendenze e teorie, conosce di nome i maestri di spicco d'Europa e degli Stati Uniti. Si è sempre opposto ferocemente alle pose artificiali, alle scene approntate in studio, alle stampe pasticciate ottenute dalla sovrapposizione di vari negativi, così di moda qualche anno fa. Crede nella fotografia come testimonianza personale, come modo di vedere il mondo, e crede che questo modo debba essere onesto e che il ricorso alla tecnologia debba essere un mezzo per restituire la realtà, non per distorcerla. Quando attraversai una fase in cui mi era venuto il pallino di fotografare ragazze all'interno di enormi recipienti di vetro, mi chiese quale fosse lo scopo con un tale disprezzo che abbandonai subito quella strada, ma quando gli descrissi il ritratto che avevo fatto a una famiglia di artisti di un circo miserabile, nudi e vulnerabili, se ne interessò immediatamente. Avevo già scattato varie fotografie di quella famiglia in posa davanti a uno sconquassato carrozzone che serviva loro da mezzo di trasporto e da alloggio, quando ne era uscita una bambinetta di quattro o cinque anni, completamente nuda. Allora mi era venuta l'idea di chieder loro di spogliarsi. Avevano acconsentito senza malizia e avevano posato con la stessa intensa concentrazione di quando erano vestiti. È una delle mie migliori fotografie, una delle poche ad avere vinto qualche premio. Ben presto fu evidente che mi attiravano più le persone che non gli oggetti o i paesaggi. Scattando un ritratto, si stabilisce una relazione con il modello che, pur nella sua brevità, è comunque un contatto. La lastra sviluppa non solo l'immagine, ma anche i sentimenti che intercorrono tra le due persone. A don Juan Ribero piacevano i miei ritratti, così diversi dai suoi. "Lei entra in empatia con i suoi modelli, Aurora, non cerca di dominarli, ma di comprenderli ed è per questo che riesce a far affiorare la loro anima," diceva. Mi incitava a lasciare le mura sicure dello studio e a uscire per strada, a spostarmi con la macchina fotografica, a guardare con gli occhi ben aperti, a vincere la mia timidezza, a perdere la paura, ad avvicinarmi alla gente. Mi resi conto che in generale venivo accolta bene e che le persone posavano con molta serietà nonostante fossi poco più che una bambina: la macchina fotografica ispirava rispetto e fiducia, la gente si apriva, si consegnava. La mia giovane età mi poneva dei limiti; per molti anni ancora non avrei potuto viaggiare per il paese, introdurmi nelle miniere, negli scioperi, negli ospedali, nelle stamberghe dei poveri, nelle misere scuole, nelle pensioni da due soldi, nelle piazze impolverate dove languivano i pensionati, nei campi, nei villaggi di pescatori. "La luce è la lingua della fotografia, l'anima del mondo. Non c'è luce senz'ombra, come non c'è gioia senza dolore," mi disse don Juan Ribero diciassette anni fa, durante la lezione che mi impartì quel primo giorno nel suo studio in plaza de Armas. Non l'ho dimenticato. Ma non devo fare nessuna anticipazione. Mi sono ripromessa di raccontare questa storia passo per passo, parola per parola, come è giusto che sia.
Mentre vivevo l'entusiasmo per la fotografia e lo sconcerto per i cambiamenti del mio corpo, che andava acquisendo proporzioni inusitate, nonna Paulina, che certo non passava il tempo a rimirarsi l'ombelico, meditava nuove attività con la sua testa da commerciante fenicio. Ciò la aiutò a riprendersi dalla perdita del figlio Matías e l'ambizione agì da sprone a un'età in cui generalmente si ha già un piede nella tomba. Ringiovanì, le si illuminò lo sguardo e le si svelti il passo, presto smise il lutto e mandò il marito in missione segreta in Europa. Il fido Frederick Williams rimase all'estero sette mesi e fece ritorno carico di regali per lei e per me, e di buon tabacco per lui, l'unico suo vizio. Nel bagaglio viaggiarono di contrabbando migliaia di bastoncini secchi, lunghi una quindicina di centimetri e apparentemente inservibili, che si rivelarono vitigni di Bordeaux che la nonna aveva intenzione di piantare sul suolo cileno per produrre un vino decente. "Faremo concorrenza ai vini francesi," aveva spiegato al marito prima del viaggio. Fu inutile che Frederick ribattesse che i francesi rispetto a noi hanno secoli di vantaggio, che le loro condizioni sono paradisiache mentre il Cile è un paese di catastrofi atmosferiche e politiche, e che un progetto di tale portata avrebbe richiesto anni di lavoro.
"Né io né lei abbiamo l'età per poter attendere i risultati di questo esperimento," commentò con un sospiro.
"Con ragionamenti come questo non si va da nessuna parte, Frederick. Sa quante generazioni di artigiani erano necessarie per la costruzione di una cattedrale?"
"Paulina, a noi le cattedrali non interessano. Uno qualsiasi di questi giorni ce ne andremo all'altro mondo."
"Questo non sarebbe il secolo della scienza e della tecnologia se ogni inventore pensasse alla propria mortalità, non le pare? Voglio capeggiare una dinastia e voglio che il nome del Valle sopravviva in questo mondo, foss'anche in fondo al bicchiere di ogni ubriacone che comprerà il mio vino," replicò la nonna.
E dunque il povero inglese partì rassegnato per quel safari in Francia, mentre Paulina del Valle tesseva la fila del progetto in Cile. Le prime vigne cilene erano state piantate dai missionari ai tempi della colonia per la produzione di un vino locale che risultò piuttosto buono, talmente buono, a dir la verità, che la Spagna lo proibì per evitare che facesse concorrenza a quelli della madrepatria. Dopo l'indipendenza, l'industria del vino decollò. Paulina non era l'unica intenzionata a produrre vino di qualità, ma mentre gli altri compravano appezzamenti nei dintorni di Santiago per non doversi spostare a più di un giorno di cammino, lei cercò terre più lontane, non solo perché risultavano più economiche, ma perché erano più adatte. Senza rivelare a nessuno cosa avesse in mente, fece analizzare la composizione della terra, i capricci dell'acqua e la costanza dei venti, iniziando dai campi di proprietà della famiglia del Valle. Pagò una miseria vasti terreni abbandonati che nessuno prendeva in considerazione, perché erano irrigati unicamente dalla pioggia. L'uva più gustosa, quella che produce i vini dalla consistenza e dall'aroma migliori, la più dolce e generosa, non cresce nell'abbondanza, ma nel terreno pietroso; la pianta, con la caparbietà di una madre, vince gli ostacoli per arrivare in profondità con le radici e approfittare di ogni singola goccia d'acqua, è così che si concentrano i sapori dell'uva, mi spiegò la nonna.
"I vigneti sono come le persone, Aurora, più le circostanze sono difficili, migliori sono i frutti. È un peccato che io abbia scoperto questa verità così tardi, perché se ne fossi stata a conoscenza prima avrei usato una mano più ferma con i miei figli e con te."
"Con me ci ha provato, nonna."
"Sono stata molto tenera con te. Avrei dovuto mandarti dalle suore."
"Per farmi imparare a ricamare e pregare? La signorina Matilde..."
"Ti proibisco di nominare quella donna in questa casa!"
"Va bene, nonna, però almeno sto imparando a fotografare. Mi potrò guadagnare da vivere."
"Come ti può venire in mente una stupidaggine del genere!" esclamò Paulina del Valle. "Una mia nipote non dovrà mai guadagnarsi da vivere. Quel che Ribero ti insegna è un passatempo, non certo un futuro per una del Valle. Il tuo destino non è di diventare un fotografo di professione, ma di sposarti con qualcuno della tua classe e sparpagliare figli sani per il mondo."
"Lei ha fatto più di questo, nonna."
"Io mi sono sposata con Feliciano, ho avuto tre figli e una nipote. Il resto delle cose che ho fatto sono state un di più."
"Non si direbbe proprio, onestamente."
In Francia Frederick Williams assunse un esperto che arrivò poco dopo a offrire la propria consulenza per le questioni tecniche. Era un ometto ipocondriaco che percorreva i terreni della nonna in bicicletta con un fazzoletto legato a coprire la bocca e il naso, convinto com'era che l'odore del letame e la polvere cilena causassero il cancro ai polmoni, ma non lasciò alcun dubbio circa le sue profonde conoscenze in fatto di viticoltura. I contadini osservavano esterrefatti quel signore in abiti da città che sgusciava sul suo velocipede tra le rupi e che di tanto in tanto si fermava per annusare il terreno come un cane da fiuto. Siccome non capivano una parola delle sue lunghe dissertazioni nella lingua di Molière, la nonna in persona, in pantofole e ombrellino, dovette seguire per settimane la bicicletta del francese per fare da traduttrice. La prima cosa che colpì Paulina fu che non tutte le piante erano uguali, ce n'erano almeno tre classi diverse mischiate assieme. L'esperto francese le spiegò che alcune maturavano prima di altre, dimodoché, se il clima distruggeva le più delicate, le altre avrebbero comunque dato i loro frutti. Confermò anche che l'impresa avrebbe richiesto anni, visto che non si trattava semplicemente di vendemmiare uva migliore, ma anche di produrre un vino raffinato e di commercializzarlo all'estero, dove avrebbe dovuto competere con quelli francesi, italiani e spagnoli. Paulina apprese tutto quello che il consulente poté insegnarle e quando si sentì sicura lo rimandò al suo paese. Era sfinita e aveva compreso che il progetto richiedeva qualcuno più giovane e leggero di lei, qualcuno come Severo del Valle, il nipote preferito su cui poteva fare affidamento. "Se continui a mettere al mondo bambini avrai bisogno di parecchi soldi per mantenerli. Come avvocato non ce la farai, a meno che tu non decida di estorcere il doppio degli altri, ma il vino, invece, ti renderà ricco," lo tentò. Proprio in quell'anno a Severo e Nívea del Valle era nato un angioletto, come diceva la gente, una bimba bella come una fata in miniatura che chiamarono Rosa. Nívea pensò che tutti i figli precedenti erano stati semplicemente un allenamento al parto finale di quella creatura perfetta. Forse adesso Dio si sarebbe ritenuto soddisfatto e avrebbe smesso di mandar loro dei figli, visto che già ne avevano una schiera. A Severo l'impresa dei vini francesi sembrò assurda, ma aveva imparato a rispettare il fiuto commerciale della zia e pensò che valeva sicuramente la pena di tentare; non sapeva che nel giro di pochi mesi le vigne gli avrebbero cambiato la vita. Non appena la nonna ebbe verificato che Severo del Valle era ormai ossessionato dal vino quanto lei, decise di prenderlo in società, lasciargli la responsabilità dei campi e partire con me e Williams per l'Europa, perché ormai avevo quasi sedici anni, l'età giusta per acquisire uno smalto cosmopolita e un corredo matrimoniale, come disse.
"Non ho intenzione di sposarmi, nonna."
"Per il momento no, ma dovrai farlo prima dei vent'anni o rimarrai zitella," concluse perentoriamente.
La vera ragione del viaggio non la confessò a nessuno. Era ammalata e pensava che in Inghilterra potessero operarla. Lì la chirurgia aveva fatto grandi progressi dopo la scoperta dell'anestesia e dell'asepsi. Negli ultimi mesi aveva perso l'appetito e per la prima volta nella sua vita soffriva di nausee e di crampi alla pancia dopo un pasto pesante. Non mangiava più carne, preferiva alimenti teneri, pappine zuccherate, zuppe e pasticcini, ai quali non rinunciava anche se poi le pesavano come pietre nello stomaco. Aveva sentito parlare della celebre clinica fondata da un certo dottor Ebanizer Hobbs, morto una decina d'anni prima, in cui lavoravano i migliori medici d'Europa, e quindi, non appena finì l'inverno e la strada attraverso la cordigliera delle Ande tornò a essere transitabile, partimmo per Buenos Aires, dove ci saremmo imbarcati su un transatlantico per Londra. Viaggiavano con noi, come sempre, un seguito di domestici, una tonnellata di bagagli e diverse guardie annate che dovevano proteggerci dai banditi che si appostavano in quei luoghi desolati, ma questa volta il mio cane Caramello non poté accompagnarci perché aveva le zampe indebolite. La traversata delle montagne in carrozza, a cavallo e alla fine a dorso di mulo, sui crinali dei burroni che si aprivano su entrambi i lati come profondissime fauci pronte a divorarci, fu indimenticabile. Il sentiero sembrava un sottile e interminabile serpente che si snodava tra quelle montagne imponenti, colonna vertebrale dell'America. Tra le pietre cresceva solo qualche arbusto flagellato dal rigore del clima. C'era acqua ovunque, cascate, ruscelli, neve sciolta: gli unici suoni erano quelli dell'acqua e degli zoccoli degli animali contro la dura crosta delle Ande. Quando ci fermavamo, un silenzio abissale ci avvolgeva come un pesante mantello, eravamo intrusi che violavano la perfetta solitudine di quelle alture. La nonna, lottando contro le vertigini e gli acciacchi che iniziarono ad assalirla non appena intraprendemmo la salita, procedeva sostenuta dalla sua volontà di ferro e dalle premure di Frederick Williams, che faceva il possibile per aiutarla. Indossava un pesante soprabito da viaggio, guanti di pelle e un cappello da esploratore con fitti veli, perché mai raggio di sole, per pavido che fosse, aveva sfiorato la sua pelle, sistema grazie al quale pensava di raggiungere la tomba senza rughe. Io ero abbacinata. Avevamo già compiuto quel viaggio quando ci eravamo trasferiti in Cile, ma allora ero troppo giovane per apprezzare la maestosità di quella natura. Passo dopo passo gli animali procedevano sospesi tra burroni a picco e alte pareti di roccia nuda pettinata dal vento, levigata dal tempo. L'aria era lieve come un velo chiaro e il cielo un mare turchese attraversato ogni tanto da un condor che veleggiava sulle splendide ali, signore assoluto di quei regni. Non appena il sole tramontò, il paesaggio si trasformò completamente; la pace azzurra di quella scabra e solenne natura sparì per far posto a un universo di forme geometriche che si muovevano minacciose intorno a noi, assediandoci, avvolgendoci. Un passo falso e i muli sarebbero rotolati, con noi in groppa, nel baratro di quelle voragini, ma la guida aveva calcolato bene le distanze e la notte ci colse in un desolato bivacco di legno, rifugio dei viaggiatori. Una volta liberati gli animali del carico, ci accomodammo sui finimenti di pelle di capra e sulle coperte, alla luce dei lumi a petrolio cosparsi di resina, anche se di fatto non ce n'era bisogno perché nella profonda volta celeste regnava una luna incandescente affacciata, come una torcia siderale, al di sopra delle alte rupi. Avevamo portato della legna con la quale accendemmo un fuoco per scaldarci e far bollire l'acqua del mate; ben presto l'infusione di erba verde e amara passava di mano in mano, e tutti sorbivamo con la stessa cannuccia. La bevanda restituì spirito e colorito alla povera nonna che, dopo aver ordinato di portarle le ceste, prese a distribuire le vettovaglie con cui ingannare la fame, come una fruttivendola al mercato. Fecero la loro comparsa bottiglie di acquavite e champagne, aromatici formaggi della campagna, delicati insaccati di maiale fatti in casa, pane e torte avvolte in bianchi tovaglioli di lino, ma notai che lei mangiò pochissimo e non toccò alcol. Nel frattempo gli uomini, abili con i coltelli, uccisero un paio di capre che avevamo legato dietro ai muli, le scuoiarono e le misero ad arrostire in croce tra due bastoni. Non so come passò la notte, caddi in un sonno simile alla morte e non mi svegliai che all'alba, quando già era ora di ravvivare i tizzoni per preparare il caffè e dare il colpo di grazia agli avanzi delle capre. Prima di partire lasciammo legna, un sacco di fagioli e qualche bottiglia di liquore per i viaggiatori che sarebbero passati dopo di noi.