Sono venuta al mondo un martedì d'autunno dei 1880, nella dimora dei miei nonni materni, a San Francisco. Mentre all'interno di quella labirintica casa di legno mia madre, grondante di sudore, ansimava per aprirmi un varco, il cuore intrepido e le ossa disperate, nella strada ribolliva la vita selvaggia del quartiere cinese con il suo aroma indelebile di cucina esotica, il suo chiassoso torrente di dialetti sbraitati, la sua inestinguibile folla di api umane in un frettoloso andirivieni. Nacqui di buon mattino, ma a Chinatown gli orologi non si attengono ad alcuna regola e a quell'ora prende vita il mercato, il traffico di carretti e i latrati tristi dei cani nelle loro gabbie, in attesa del coltello del cuoco. Solo parecchio tempo dopo sono venuta a conoscenza dei particolari della mia nascita, ma sarebbe stato ancora peggio non averli mai appresi; si sarebbero potuti smarrire per sempre negli impervi sentieri dell'oblio. Nella mia famiglia i segreti sono talmente tanti che probabilmente non avrò tempo sufficiente per svelarli tutti: la verità è fugace e viene lavata via da torrenti di pioggia. I miei nonni materni mi accolsero con commozione – benché, stando a diversi testimoni, fossi una neonata orribile – e mi adagiarono sul petto di mia madre, dove rimasi raggomitolata per alcuni minuti, gli unici che ebbi la possibilità di trascorrere con lei. Poi mio zio Lucky mi alitò sul viso per trasmettermi la sua buona sorte. L'intenzione era generosa e il metodo si è rivelato infallibile, dato che almeno in questi primi trent'anni di vita mi è andata bene. Ma, attenzione, non devo anticipare troppe cose. Questa storia è lunga e ha inizio ben prima della mia nascita; per raccontarla ci vuole pazienza e ce ne vuole ancora di più per ascoltarla. Se durante la strada perdessi il filo, non c'è bisogno che ti disperi, perché con tutta certezza lo ritroverai qualche pagina dopo. E siccome bisogna pur cominciare con una qualche data, fissiamola nel 1862 e diciamo allora, tanto per dare l'avvio, che la storia ha inizio con un mobile dalle proporzioni inverosimili.
Il letto di Paulina del Valle fu commissionato a Firenze, un anno dopo l'incoronazione di Vittorio Emanuele II, quando nel novello Regno d'Italia vibrava ancora l'eco delle pallottole di Garibaldi; smontato, fece la traversata per mare a bordo di una nave genovese, sbarcò a New York nel bel mezzo di uno sciopero sanguinoso e proseguì poi trasportato su uno dei vapori della compagnia di navigazione dei miei nonni paterni, i Rodríguez de Santa Cruz, cileni residenti negli Stati Uniti. Toccò al capitano John Sommers ricevere le casse contrassegnate in italiano con una sola parola: naiadi. Quel robusto marinaio inglese, del quale rimangono unicamente un ritratto sbiadito e un baule di cuoio logorato da infinite traversate marittime colmo di curiosi manoscritti, era il mio bisnonno, come ho da poco appurato, da quando cioè, dopo molti anni di mistero, il mio passato ha finalmente iniziato a schiarirsi. Non ho conosciuto il capitano John Sommers, padre di Eliza Sommers, mia nonna materna, ma da lui ho ereditato una certa propensione all'erraticità. Quell'uomo di mare, orizzonte e sale allo stato puro, dovette addossarsi l'onere di trasportare il letto fiorentino, nella stiva della sua imbarcazione, fino all'altra sponda del continente americano. Dovette schivare il blocco yankee e gli attacchi dei confederati, raggiungere i limiti australi dell'Atlantico, solcare le acque traditrici dello Stretto di Magellano, entrare nell'Oceano Pacifico e, dopo brevi soste in diversi porti sudamericani, orientare la prua verso il Nord della California, l'antica terra dell'oro. Gli ordini ricevuti erano precisi: doveva aprire le casse sul molo di San Francisco, supervisionare il falegname di bordo mentre assemblava le parti di quel rompicapo, badando bene a non sfregiare gli intarsi, sistemarvi sopra il materasso e il copriletto di broccato color rubino, caricare il catafalco su un carretto e farlo condurre a passo d'uomo verso il centro della città. Il postiglione avrebbe dovuto fare due giri intorno a plaza de la Unión e poi altri due suonando una campanella di fronte al balcone della concubina di mio nonno, prima di recapitarlo alla destinazione finale, la casa di Paulina del Valle. Doveva portare a compimento siffatta impresa in piena Guerra civile, mentre gli eserciti yankee e i confederati si massacravano nel Sud del paese e nessuno era certamente dell'umore giusto per scherzi e scampanellate. John Sommers impartì le istruzioni sacramentando, perché durante i mesi di navigazione quel letto era assurto a simbolo di ciò che più detestava nell'esercizio della sua professione: i capricci della sua datrice di lavoro, Paulina del Valle. Quando vide il letto sistemato sul carro tirò un sospiro di sollievo e decise che quella sarebbe stata l'ultima cosa che faceva per lei: era ai suoi ordini da dodici anni e la sua pazienza aveva toccato il limite. Il mobile, ancora in perfette condizioni, è un pesante dinosauro di legno policromo; la testata è sovrastata da un Nettuno circondato da onde spumeggianti e creature marine in bassorilievo, mentre ai piedi giocano delfini e sirene. In poche ore mezza San Francisco ebbe modo di apprezzare quel talamo olimpico; ma la favorita di mio nonno, a cui lo spettacolo era dedicato, si nascose mentre il carretto passava e ripassava con il suo scampanellio.
"Il momento di gloria durò poco," mi confessò Paulina molti anni dopo, quando io insistevo nel voler fotografare il letto e conoscere i particolari della storia. "Lo scherzo mi si ritorse contro. Pensavo che si sarebbero presi gioco di Feliciano e invece risero di me. Sbagliai nel valutare la gente. Chi poteva immaginarsi che fossero così bacchettoni? A quei tempi San Francisco non era altro che un vespaio di politici corrotti, banditi e donne di malaffare."
"Non gradirono il gesto di sfida," suggerii.
"No, infatti. Da noi donne ci si aspetta che vigiliamo sulla reputazione dei nostri mariti, per vili che siano."
"Suo marito non era vile," ribattei.
"No, però commetteva delle stupidaggini. A ogni buon conto non mi pento di quel famoso letto: ci ho dormito per quarant'anni."
"Cosa fece suo marito quando si vide scoperto?"
"Disse che mentre il paese si dissanguava nella Guerra civile io non trovavo di meglio che comprare mobili degni di Caligola. E negò tutto, ovviamente. Nessuno con un briciolo di cervello confessa la propria infedeltà, anche quando viene pizzicato tra le lenzuola."
"Lo dice per esperienza diretta?"
"Magari fosse andata così, Aurora," replicò Paulina del Valle senza esitare.
Nella prima foto che le scattai, quando avevo tredici anni, si vede Paulina nel suo letto mitologico, appoggiata a cuscini di satin ricamato, con una camicia da notte di pizzo e mezzo chilo di gioielli addosso. Così la vidi molte altre volte e così avrei voluto vegliarla quando morì, ma lei desiderava andarsene nella tomba con il triste abito delle carmelitane e che per diversi anni si officiassero messe cantate in suffragio della sua anima. "Ho già dato scandalo a sufficienza, ora è il momento di chinare il capo," fu la spiegazione che diede quando sprofondò nell'invernale malinconia degli ultimi tempi. Sentirsi prossima alla fine la spaventò. Esiliò il letto in cantina e collocò al suo posto una branda con un materasso di crine di cavallo, per morire senza sfarzo, dopo tanto sperpero, così magari san Pietro volta la pagina nel libro dei peccati e ne inizia una nuova, disse. La paura, tuttavia, non fu tale da spingerla a spogliarsi di altri beni materiali e fino all'ultimo respiro strinse tra le mani le redini del suo impero finanziario, a quel tempo già molto meno prospero. Della sfrontatezza della gioventù alla fine le rimase poco, persino l'ironia le venne meno, ma la nonna aveva saputo creare la leggenda di se stessa e nessun materasso di crine, né abito carmelitano, potrebbe intaccarla. Il letto fiorentino, che si era tolta lo sfizio di far passeggiare per le strade principati allo scopo di irritare il marito, rappresentò uno dei suoi momenti di gloria. A quell'epoca la famiglia viveva a San Francisco con un cognome modificato – Cross – perché nessun americano del Nord era in grado di pronunciare il sonoro Rodríguez de Santa Cruz y del Valle, ed è un peccato, perché il cognome originale vibra di antiche risonanze da Inquisizione. Si erano da poco trasferiti nel quartiere di Nob Hill, dove si erano fatti costruire una dimora stravagante, una delle più opulente della città, frutto delirante del lavoro di diversi architetti rivali, assunti e licenziati ogni due per tre. La famiglia non aveva fatto fortuna con la febbre dell'oro del 1849, come sosteneva Feliciano, ma grazie al portentoso fiuto per gli affari di sua moglie, a cui venne l'idea di trasportare prodotti freschi dal Cile alla California adagiandoli su un letto di ghiaccio antartico. In quell'epoca turbolenta, una pesca valeva un'oncia d'oro e lei seppe sfruttare a suo vantaggio tale congiuntura. L'iniziativa ebbe successo e giunsero a disporre, sulla tratta Valparaíso-San Francisco, di una flottiglia di imbarcazioni che il primo anno tornavano vuote, ma che successivamente viaggiavano cariche di farina californiana; così facendo mandarono in rovina diversi agricoltori cileni, tra i quali il padre di Paulina, il temibile Agustín del Valle, il cui grano fece i vermi nelle cantine perché non era in grado di competere con la bianchissima farina degli yankee. Per la rabbia, poi gli fece i vermi anche il fegato. Una volta estinta la febbre dell'oro, migliaia e migliaia di avventurieri ritornarono ai luoghi d'origine più poveri di come erano partiti, dopo essersi rovinati la salute e lo spirito inseguendo un sogno; Paulina e Feliciano, invece, fecero fortuna e, nonostante l'ostacolo quasi insormontabile del loro accento ispanico, entrarono a far parte dell'alta società di San Francisco. "In California sono tutti nuovi ricchi di infimi natali, invece il nostro albero genealogico risale fino alle Crociate," bofonchiava a quei tempi Paulina, prima di darsi per vinta e fare ritorno in Cile. Tuttavia, il lasciapassare che aprì loro tutte le porte non furono semplicemente i titoli nobiliari e i conti in banca, bensì la simpatia di Feliciano, che si fece degli amici tra gli uomini più potenti della città. Risultava invece piuttosto difficile digerire sua moglie, esibizionista, sboccata, irriverente e impetuosa. Bisogna ammetterlo: Paulina all'inizio ispirava quel misto di fascino e trepidazione che si prova al cospetto di un'iguana; solo conoscendola meglio le si scopriva una vena sentimentale. Nel 1862 convinse il marito a lanciarsi nell'impresa commerciale legata alla ferrovia transcontinentale che li rese definitivamente ricchi. Non so spiegarmi da dove quella signora avesse preso il fiuto per gli affari. Proveniva da una famiglia di proprietari terrieri cileni poveri di spirito e dalla mentalità rigida; era cresciuta tra le pareti della casa paterna di Valparaíso sgranando il rosario e ricamando, perché suo padre era convinto che l'ignoranza garantisse la sottomissione delle donne e dei poveri. Padroneggiava a malapena i rudimenti della scrittura e dell'aritmetica, non lesse mai un libro in vita sua e faceva le somme – mai le sottrazioni – con le dita, eppure tutto quello che le sue mani toccavano si trasformava in oro. Se non fosse stato per i figli e i parenti dalle mani bucate, sarebbe morta con il fasto di un'imperatrice. In quegli anni era in costruzione la linea ferroviaria che univa l'Est e l'Ovest degli Stati Uniti. Mentre tutti investivano in azioni delle due compagnie e scommettevano su quella che avrebbe posato più rapidamente i binari, lei, indifferente a quella futile gara, aveva steso una cartina sul tavolo della sala da pranzo e si era studiata con pazienza da topografo il futuro percorso dei treni e i luoghi in cui abbondava l'acqua. Ben prima che gli umili operai cinesi conficcassero l'ultimo chiodo che congiungeva i binari a Promotory, Utah, e che la prima locomotrice attraversasse il continente con il suo assordante sferragliare, la sua vulcanica nuvola di fumo e il suo fragoroso ansimare, convinse il marito a comprare delle terre nei luoghi segnati sulla sua cartina con le croci in rosso.
"È qui che sorgeranno i villaggi, perché c'è acqua, e in ognuno di essi noi avremo uno spaccio," spiegò.
"Ci vogliono un sacco di quattrini," esclamò Feliciano, spaventato.
"Fatteli prestare, che cosa ci stanno a fare le banche? Perché mai dovremmo rischiare i nostri soldi se possiamo disporre di quelli degli altri?" replicò Paulina, con l'argomentazione che adduceva sempre in questi casi.
Nel bel mezzo dell'operazione, mentre stavano negoziando con le banche e comprando terreni lungo la direttrice che tagliava il paese a metà, scoppiò lo scandalo della mantenuta. Si trattava di un'attrice di nome Amanda Lowell, una scozzese appetitosa, dalle carni lattiginose, occhi color menta e fragranza di pesca, stando a quanto assicurava chi l'aveva assaggiata. Cantava e ballava male, ma con brio, recitava in commediole dalle scarse pretese e animava le feste dei magnati. Possedeva un serpente di origine panamense, lungo, grasso e mansueto, ma dall'aspetto raccapricciante, che le si avvolgeva intorno al corpo durante le danze esotiche e che non fece mai sospettare del suo buon carattere fino alla sera sventurata in cui lei si presentò con un diadema di piume tra i capelli e l'animale, confondendo l'acconciatura con un pappagallo distratto, poco mancò che strangolasse la padrona nel tentativo di ingoiarselo. La bella Lowell era lungi dall'essere una tra le migliaia di "colombe infangate" della vita galante californiana; era una cortigiana altezzosa i cui favori non si conquistavano solo con il denaro, ma con il fascino e le belle maniere. Grazie alla generosità dei suoi protettori, oltre a vivere agiatamente disponeva anche di risorse con cui aiutare una caterva di artisti privi di talento; era condannata a morire povera, perché spendeva a più non posso e se le avanzava qualcosa lo regalava. Nel fiore della gioventù, creava scompiglio nel traffico della strada con l'eleganza del suo portamento e la rossa chioma leonina, ma il gusto per lo scandalo aveva pregiudicato la sua fortuna: in un attimo poteva mettere a repentaglio un buon nome e una famiglia. A Feliciano il rischio parve un incentivo ulteriore; la sua era un'anima da corsaro e l'idea di giocare con il fuoco lo sedusse tanto quanto le superbe natiche della Lowell. La sistemò in un appartamento in pieno centro, ma non appariva mai in pubblico con lei, perché conosceva fin troppo bene il carattere della moglie, che in un attacco di gelosia aveva tagliuzzato pantaloni e maniche di tutti i suoi vestiti e li aveva scagliati contro la porta del suo ufficio. Per un uomo elegante come lui, che commissionava gli abiti al sarto del principe Alberto a Londra, era stato un colpo mortale.
A San Francisco, città maschile, la moglie era sempre l'ultima a esser messa al corrente di un'infedeltà coniugale, ma in questo caso era stata la stessa Lowell a divulgare la notizia. Non appena il suo protettore girava le spalle, faceva delle tacche sulla spalliera del letto, una per ogni amante ricevuto. Era una collezionista, non le interessavano gli uomini per le loro particolari virtù, ma il numero di tacche; era intenzionata a oscurare il mito dell'affascinante Lola Montez, la cortigiana irlandese che era passata per San Francisco come una meteora ai tempi della febbre dell'oro. Le chiacchiere sulle tacche della Lowell correvano di bocca in bocca e i gentiluomini facevano a gara per farle visita, sia per le grazie della bella, che molti di loro conoscevano già in senso biblico, sia per il gusto beffardo di andare a letto con la mantenuta di uno dei proceri della città. La notizia raggiunse Paulina del Valle dopo aver fatto il giro completo della California.
"E la cosa più umiliante è che per di più quella schifosa ti cornifica, e così la gente va in giro a dire che sono sposata con un cappone!" rimproverò al marito Paulina con il linguaggio da scaricatore cui era solita ricorrere in queste occasioni.
Feliciano Rodríguez de Santa Cruz non sapeva nulla delle attività della collezionista e dal disappunto per poco non gli venne un colpo. Non si era mai lontanamente immaginato che amici, conoscenti e gente che gli doveva immensi favori si stessero burlando così di lui. Tuttavia non incolpò l'amante, disposto com'era ad accettare con rassegnazione i capricci delle rappresentanti del sesso opposto, creature deliziose, purtroppo prive di struttura morale e sempre pronte a cedere alla tentazione. Mentre le donne appartenevano alla terra, all'humus, al sangue e alle funzioni organiche, loro, gli uomini, erano destinati all'eroismo, alle grandi idee e, benché non fosse il suo caso, alla santità. Messo alle strette dalla moglie, si difese come poté e approfittò di una tregua per rinfacciarle quel chiavistello con cui sbarrava la porta della sua camera. Pretendeva forse che un uomo della sua fatta vivesse in astinenza? Era tutta colpa sua, che lo aveva rifiutato, si difese. La storia del chiavistello era vera; Paulina aveva rinunciato alle intemperanze dei sensi, non tanto per mancanza di appetito, bensì, come mi confessò quarant'anni dopo, per pudore. Le ripugnava la sua immagine allo specchio e ne dedusse che qualsiasi uomo, vedendola nuda, avrebbe provato la stessa sensazione. Ricordava con precisione il momento in cui aveva preso coscienza del fatto che il suo corpo si stava trasformando in un nemico. Alcuni anni prima, al suo ritorno da un lungo viaggio d'affari in Cile, Feliciano l'aveva afferrata per la vita e con il consueto e cristallino buon umore di sempre aveva cercato di sollevarla da terra per condurla sul letto, ma non era riuscito a smuoverla.
"Accipicchia, Paulina! Hai dei sassi nei mutandovi?" aveva detto ridendo.
"È ciccia," aveva sospirato lei tristemente.
"Voglio vederla!"
"Non se ne parla proprio. Da adesso in poi potrai venire in camera mia soltanto di notte e a luce spenta."
Per un certo periodo i due, abituati ad amarsi senza decenza, fecero l'amore al buio. Paulina rimase insensibile alle suppliche e alle scenate del marito, che non si rassegnò mai a incontrarla sotto una montagna di panni nell'oscurità della camera, né ad abbracciarla con fretta da missionario mentre lei gli teneva ferme le mani perché non la palpeggiasse. Il tira e molla li lasciava estenuati e con i nervi a fior di pelle. Infine, con il pretesto del trasloco nella nuova dimora di Nob Hill, Paulina fece installare il marito dall'altra parte della casa e sbarrò la porta della sua camera. La ripugnanza che provava per il proprio corpo superava il desiderio nei confronti del marito. Il collo le spariva nel doppio mento, i seni e la pancia costituivano un'unica prominenza cardinalizia, i piedi non la reggevano più di qualche minuto, non riusciva a vestirsi da sola o ad allacciarsi le scarpe; ma quando, ed era quasi sempre, indossava i suoi vestiti di seta e gli splendidi gioielli, era uno spettacolo strabiliante. La sua più grande preoccupazione era il sudore tra i rotolini di ciccia ed era solita chiedermi, bisbigliando, se non si sentisse cattivo odore, ma non colsi mai altro aroma che non fosse acqua di gardenia e talco. Per nulla persuasa dalla credenza allora tanto diffusa che l'acqua e il sapone danneggiassero i bronchi, passava le ore a galleggiare nella sua vasca da bagno di ferro smaltato, dove tornava a sentirsi leggera come in gioventù. Si era innamorata di Feliciano quando era un giovane attraente e ambizioso, proprietario di alcune miniere d'argento nel Nord del Cile. In nome di questo amore aveva sfidato le ire del padre, Agustín del Valle, che figura nei testi di storia del Cile in qualità di fondatore di un minuscolo e petulante partito politico ultraconservatore, scomparso da più di vent'anni, ma che ogni tanto torna a resuscitare come una spennacchiata e patetica fenice. L'immutato amore per quell'uomo l'aveva sostenuta quando aveva deciso di proibirgli l'ingresso alla sua alcova a un'età in cui la sua natura più che mai reclamava gli abbracci. Diversamente da lei, Feliciano invecchiava con garbo. I capelli gli erano diventati grigi, ma continuava a essere l'omone allegro, appassionato e scialacquone di sempre. Paulina amava la sua vena volgare, l'idea che quel signore dai cognomi altisonanti discendesse da ebrei sefarditi e che sotto le camicie di seta con le iniziali ricamate spiccasse un tatuaggio da delinquente che si era guadagnato nel porto durante una sbronza. Smaniava per sentire di nuovo le oscenità che le sussurrava ai tempi in cui ancora se la spassavano a letto con le luci accese e avrebbe dato qualsiasi cosa per dormire ancora una volta con la testa appoggiata sul drago blu inciso con inchiostro indelebile sulla spalla del marito. Mai avrebbe creduto che lui desiderasse le stesse cose. Per Feliciano lei rimase sempre l'audace fidanzata con cui era fuggito in gioventù, l'unica donna che ammirava e temeva. Sono convinta che, nonostante la forza ciclonica delle loro battaglie, che seminavano il panico fra tutti gli abitanti della casa, quella coppia non smise mai di amarsi. Gli abbracci che una volta li avevano resi così felici si erano trasformati in combattimenti che culminavano in tregue a lunga scadenza e vendette memorabili, come quella del letto fiorentino, ma nessun affronto riuscì a distruggere la loro relazione e fino all'ultimo, quando lui venne stroncato da un colpo apoplettico, rimasero legati da un'invidiabile complicità da impostori.
Una volta accertatosi che il mitico mobile si trovava sul carro e che il conducente aveva inteso le istruzioni, il capitano John Sommers si diresse a piedi verso Chinatown, come faceva a ogni scalo a San Francisco. Questa volta, tuttavia, le forze gli vennero meno e dopo due isolati dovette chiamare una vettura. Vi montò a fatica, comunicò l'indirizzo al vetturino e si accomodò sul sedile, ansimando. Era passato un anno da quando si erano manifestati i primi sintomi, ma nelle ultime settimane si erano acutizzati; le gambe lo sostenevano a malapena, la testa gli si riempiva di nebbia e doveva lottare incessantemente contro la tentazione di abbandonarsi all'ovattata indifferenza che progressivamente gli stava invadendo l'anima. Sua sorella Rose, per prima, aveva intuito che qualcosa non andava ancor prima che lui iniziasse ad avvertire dolore. Pensando a lei sorrise: era la persona che più sentiva vicina e amava, era il punto fisso della sua esistenza vagabonda, più reale nel suo affetto della figlia Eliza o di qualsiasi altra donna abbracciata nel suo lungo pellegrinare di porto in porto.
Rose Sommers aveva trascorso la gioventù in Cile, insieme al fratello maggiore, Jeremy; alla morte di lui, però, era tornata in Inghilterra per invecchiare in patria. Risiedeva a Londra, in una casetta a pochi isolati dai teatri e dall'Opera, in un quartiere un tantino decaduto, dove poteva vivere come meglio credeva. Ormai non era più l'irreprensibile governante del fratello Jeremy, ora poteva sciogliere le briglie alla sua vena eccentrica. Era solita abbigliarsi da attrice passata di moda per prendere il tè al Savoy o da contessa russa per portare a passeggio il cane, era amica di mendicanti e musicisti di strada, spendeva i suoi averi in cianfrusaglie ed elemosine. "Non c'è niente di più liberatorio dell'età," diceva, felice, contandosi le rughe. "Non è l'età, sorella, ma l'agiatezza che ti sei costruita grazie alla tua penna," replicava John Sommers. La sua piccola fortuna, quella venerabile zitellona dai capelli bianchi, l'aveva messa insieme scrivendo opere pornografiche. L'aspetto più comico della faccenda, pensava il capitano, era che proprio adesso che Rose non aveva bisogno di celare la sua identità come quando viveva sotto l'ala protettrice del fratello Jeremy, aveva smesso di scrivere racconti erotici per dedicarsi a sfornare, a un ritmo serratissimo e con successo inusitato, romanzi rosa. Non c'era donna di lingua madre inglese, compresa la regina Vittoria, che non avesse letto almeno una delle storie d'amore della Dama Rose Sommers. L'insigne titolo di fatto aveva legalizzato uno status che Rose si era accaparrata diversi anni prima. Se la regina Vittoria avesse sospettato che alla sua autrice preferita, quella che lei personalmente aveva blasonato con il titolo di Dama, si doveva un ampio repertorio di letteratura indecente firmato Una Dama Anonima, le avrebbe preso un colpo. Il capitano riteneva la sua letteratura pornografica deliziosa, mentre quei romanzi d'amore spazzatura. Per anni si era incaricato di pubblicare e distribuire i racconti proibiti che Rose componeva sotto il naso del fratello maggiore, morto nella convinzione che la sorella fosse una virtuosa signorina, unicamente votata a rendergli gradevole la vita. "Riguardati John, non puoi lasciarmi sola al mondo. Stai dimagrendo e non hai una bella cera," gli aveva ripetuto Rose ogni giorno quando il capitano era andato a Londra a trovarla. Da quel momento un'implacabile metamorfosi lo stava trasformando in una lucertola.
Tao Chi'en aveva giusto finito di estrarre dalle orecchie e dalle braccia di un paziente gli strumenti da agopuntore, quando l'aiutante lo avvisò che era appena arrivato suo suocero. Lo zhong yi collocò con cura gli aghi d'oro in alcol puro, si lavò le mani in una bacinella, indossò la giacca e uscì a ricevere l'ospite, domandandosi stupito come mai Eliza non lo avesse avvisato che quel giorno sarebbe arrivato suo padre. Ogni visita del capitano Sommers provocava grande scompiglio. Tutta la famiglia lo attendeva con ansia, soprattutto i bambini, che non si stancavano mai di ammirare i regali esotici e di ascoltare i racconti di mostri marini e pirati malesi di quel nonno colossale. Alto, ben piantato, con la pelle segnata dal sale di tutti i mari, barba selvatica, vocione tonante e innocenti occhi azzurri da neonato, nella sua divisa blu il capitano era una figura imponente, ma l'uomo che Tao Chi'en vide seduto in una poltrona del suo ambulatorio era talmente deperito che fece fatica a riconoscerlo. Lo salutò rispettosamente, non era riuscito a perdere l'abitudine di inchinarsi davanti a lui alla maniera cinese. Aveva conosciuto John Sommers in gioventù, quando lavorava come cuoco sulla sua imbarcazione. "Trattami con rispetto, chiaro, cinese?" gli aveva ordinato la prima volta in cui si erano parlati. A quel tempo avevano entrambi i capelli neri, pensò Tao Chi'en trafitto dall'angoscia per quel presagio di morte. L'inglese si levò in piedi faticosamente, gli diede la mano e poi lo strinse in un rapido abbraccio. Lo zhong yi constatò che ora era lui il più alto e il più robusto dei due.
"Eliza sapeva che sarebbe arrivato oggi, signore?" chiese.
"No. Io e lei dobbiamo parlare da soli, Tao. Sto per morire."
Lo zhong yi l'aveva capito non appena l'aveva visto. Senza dire una parola, lo condusse verso l'ambulatorio, dove lo aiutò a svestirsi e a sdraiarsi su un lettino. La nudità rendeva commovente l'aspetto di suo suocero: la pelle grossa, secca, di un colore cupreo, le unghie gialle, gli occhi iniettati di sangue, il ventre gonfio. Dapprima lo auscultò e poi gli prese il battito ai polsi, al collo e alle caviglie per essere certo di ciò che già sapeva.
"Il suo fegato è a pezzi, signore. Continua a bere?"
"Non può chiedermi di rinunciare a un'abitudine che dura da una vita, Tao. Pensa che si possa sopportare il mestiere di marinaio senza un goccetto di tanto in tanto?"
Tao Chi'en sorrise. L'inglese si scolava mezza bottiglia di gin nei giorni normali e una intera se c'era qualcosa di cui rammaricarsi o da festeggiare, senza che ciò, apparentemente, avesse su di lui la benché minima conseguenza; non sapeva neanche di alcol, perché gli abiti e l'alito erano impregnati dell'odore pungente del tabacco di cattiva qualità.
"E poi, è un po' tardi per pentirmi, non crede?" aggiunse John Sommers.
"Può vivere un po' più a lungo e in condizioni migliori se smette di bere. Perché non si prende un periodo di riposo? Venga a stare da noi per qualche tempo, io ed Eliza ci occuperemo di lei fino a quando non si sarà ristabilito," propose lo zhong yi senza guardarlo, perché non si notasse la sua emozione. Come spesso gli succedeva nell'esercizio della sua professione di medico, doveva combattere contro quella sensazione di terribile impotenza che sempre lo opprimeva allorché constatava quanto fossero scarse le risorse della sua scienza e immensa, invece, la sofferenza delle persone.
"Come le può anche solo venire in mente che io mi consegni volontariamente nelle mani di Eliza per farmi condannare all'astinenza! Quanto tempo mi rimane, Tao?" chiese John Sommers.
"Non posso dirlo con certezza. Dovrei sentire un altro parere."
"Il suo è l'unico parere che merita rispetto. Da quando mi ha estratto un dente senza farmi male a metà strada tra l'Indonesia e le coste africane, nessun altro medico mi ha messo le sue maledette mani addosso. Quanto tempo fa è stato?"
"Una quindicina d'anni. La ringrazio per la fiducia, signore."
"Solo quindici anni? E perché mi sembra, invece, che ci si conosca da sempre?"
"Forse ci siamo conosciuti in un'altra esistenza."
"La reincarnazione mi terrorizza, Tao. Provi a pensare se nella prossima vita mi toccasse di essere musulmano... Lo sapeva che quella povera gente non beve alcolici?"
"Questo è sicuramente il suo karma. A ogni reincarnazione dobbiamo risolvere ciò che abbiamo lasciato incompiuto in quella precedente," lo prese in giro Tao.
"Preferisco l'inferno cristiano, è meno crudele. Be', di tutto ciò non faremo parola con Eliza," concluse John Sommers mentre si rivestiva, lottando con i bottoni che sfuggivano alle sue dita tremanti. "Siccome questa può essere la mia ultima visita, è giusto che lei e i miei nipoti mi ricordino allegro e sano. Me ne vado sereno, Tao, perché nessuno più di lei potrebbe aver maggior cura di mia figlia."
"Nessuno potrebbe amarla più di me, signore."
"Quando non ci sarò più, qualcuno dovrà occuparsi di mia sorella. Lei sa che Rose è stata come una madre per Eliza..."
"Non si preoccupi. Io ed Eliza ce ne occuperemo," gli promise il genero.
"La morte... intendo dire... sarà veloce e dignitosa? Come farò a sapere che sta arrivando la fine?"
"Vomiterà sangue, signore," disse Tao Chi'en tristemente.
Accadde tre settimane dopo. In mezzo al Pacifico, nell'intimità della sua cabina di capitano. Non appena fu in grado di reggersi nuovamente in piedi, il vecchio navigatore ripulì le tracce di vomito, si sciacquò la bocca, si cambiò la camicia insanguinata, accese la pipa e si diresse a prua, dove si sistemò a guardare per l'ultima volta le tremule stelle nel cielo di velluto nero. Diversi marinai lo videro e si tennero a distanza in attesa, con i berretti in mano. Quando il tabacco finì, il capitano John Sommers scavalcò il parapetto e si lasciò cadere silenziosamente in mare.
Severo del Valle conobbe Lynn Sommers durante un viaggio dal Cile alla California, compiuto insieme al padre nel 1872 per far visita agli zii Paulina e Feliciano, i protagonisti dei più succulenti pettegolezzi della famiglia. Severo aveva visto la zia Paulina un paio di volte durante le sue sporadiche apparizioni a Valparaíso, ma fino a quando non l'ebbe conosciuta nel contesto americano, non poté capire i sospiri di cristiana intolleranza della sua famiglia. Lontano dall'ambiente religioso e conservatore del Cile, dal nonno Agustín inchiodato sulla sedia a rotelle, dalla nonna Emilia, dai suoi lugubri pizzi e dai suoi clisteri di olio di semi di lino, dal resto dei parenti invidiosi e bacchettoni, Paulina raggiungeva le sue autentiche proporzioni di amazzone. Durante quel primo viaggio, Severo del Valle era troppo giovane per valutare il potere e la ricchezza di quella celebre coppia di zii; ciò nondimeno non gli sfuggirono le differenze tra loro e il resto della tribù dei del Valle. Solo alcuni anni dopo, tornando da loro, realizzò che erano annoverati tra le famiglie più ricche di San Francisco, insieme ai magnati dell'argento, delle ferrovie, delle banche e dei trasporti. In quel primo soggiorno, ancora quindicenne, seduto ai piedi del letto policromo della zia Paulina, che stava mettendo a punto le strategie delle sue guerre mercantili, Severo decise il proprio futuro.
"Dovresti diventare avvocato, così mi aiuteresti ad annientare i nemici avendo la legge dalla mia," gli consigliò quel giorno Paulina, tra un morso e l'altro a una sfogliatella al latte.
"Sì, zia. Nonno Agustín dice che ogni famiglia rispettabile ha bisogno di un avvocato, di un medico e di un vescovo," confermò il nipote.
"Si ha bisogno anche di un cervello per gli affari."
"Il nonno ritiene che il commercio non sia un'occupazione da gentiluomini."
"Digli che la nobiltà non dà da mangiare e che se la può mettere nel culo."
Il ragazzo aveva sentito quella scurrilità unicamente in bocca al cocchiere di casa, un madrileno evaso da una prigione di Tenerife, che per inspiegabili ragioni ce l'aveva anche con Dio e con qualche mamma.
"Non fare tanto lo schizzinoso, ragazzino; guarda che il culo ce l'abbiamo tutti!" esclamò Paulina, piegata in due dal ridere alla vista dell'espressione di suo nipote.
Quello stesso pomeriggio lo condusse alla pasticceria di Eliza Sommers. San Francisco aveva abbacinato Severo fin dal primo momento, ancora sulla nave: una città luminosa, posta in un verde paesaggio di colline disseminate di alberi che digradavano sinuosamente fino a toccare una baia dalle placide acque. Da lontano sembrava austera, con il suo tracciato spagnolo di strade parallele e trasversali, ma da vicino aveva il fascino della sorpresa. Abituato com'era all'aspetto sonnolento del porto di Valparaíso, in cui era cresciuto, il ragazzo rimase frastornato da quella frenesia di case e palazzi in stili diversi, di lusso e povertà, tutto rimescolato, come se si fosse edificato precipitosamente. Vide un cavallo morto ricoperto di mosche di fronte alla porta di un elegante negozio che offriva violini e pianoforti a coda. Nel traffico rumoroso di animali e vetture si faceva largo una moltitudine cosmopolita: americani, ispanici, francesi, irlandesi, italiani, tedeschi, qualche indio e alcuni ex schiavi neri, ora liberi, ma comunque poveri e reietti. Fecero un giro per Chinatown e in un batter d'occhio si ritrovarono in un paese popolato da celestiali, come venivano chiamati i cinesi, che il cocchiere allontanava con schiocchi di frustino mentre guidava il fiacre verso plaza de la Unión. Si fermò davanti a una casa in stile vittoriano, semplice a confronto dei vaneggiamenti di modanature, rilievi e rosoni che generalmente si vedevano da quelle parti.
"Questa è la sala da tè della signora Sommers ed è l'unica in città," precisò Paulina. "Un caffè te lo puoi prendere dove ti pare, ma per una tazza di tè devi venire qui. Gli yankee aborrono questo nobile intruglio dalla Guerra di indipendenza, che scoppiò proprio quando i ribelli bruciarono il tè degli inglesi a Boston."
"Ma non è successo almeno un secolo fa?"
"Puoi ben vedere, Severo, che livello di stupidità può raggiungere il patriottismo."
Non era il tè il motivo delle frequenti visite di Paulina alla sala, bensì la famosa pasticceria di Eliza Sommers che impregnava l'ambiente di una deliziosa fragranza di zucchero e vaniglia. La casa, una delle molte importate agli albori di San Francisco dall'Inghilterra, insieme a un manuale di istruzioni per il montaggio, come se si fosse trattato di un giocattolo, vantava due piani incoronati da una torre che le dava un tocco da chiesa di campagna. Al primo avevano unito due stanze per ricavare una sala da pranzo più ampia, c'erano varie poltroncine dai piedi ritorti e cinque tavolini tondi con tovaglie bianche. Al secondo piano si vendevano scatole di cioccolatini fatti a mano con il miglior cioccolato belga, marzapane di mandorle e diversi tipi di dolci creoli cileni, i preferiti di Paulina del Valle. Servivano ai tavoli due cameriere messicane dalle lunghe trecce, grembiuli immacolati e cuffiette inamidate, dirette telepaticamente dalla piccola signora Sommers, che dava appena l'impressione di esistere a confronto con l'impetuosa presenza di Paulina. I dettami della moda, vita stretta e spumeggianti crinoline, esaltavano la figura della prima mentre moltiplicavano il volume della seconda; inoltre, Paulina del Valle non risparmiava certo su tessuti, frange, pompon e plissettature. Quel giorno era agghindata da ape regina, in giallo e nero dalla testa ai piedi, con un copricapo guarnito di piume e un corpetto a righe. Molte righe. Invadeva la sala, ingoiava tutta l'aria a disposizione e a ogni suo spostamento le tazze tintinnavano e le fragili pareti in legno gemevano. Quando la videro entrare, le cameriere corsero a sostituire una delle delicate sedie di vimini con una poltrona più solida sulla quale la dama si accomodò con grazia. Si muoveva con circospezione perché riteneva che nulla guastasse quanto la fretta; evitava altresì i rumori della vecchiaia, non si lasciava mai scappare in pubblico sbuffi, colpi di tosse, stridii o sospiri di stanchezza, anche quando i piedi la mettevano in croce. "Non voglio avere la voce da grassa," diceva, e faceva gargarismi quotidiani di succo di limone e miele per mantenere la voce flautata. Eliza Sommers, minuta e dritta come una sciabola, con indosso una gonna blu scuro e una camicetta color melone abbottonata ai polsi e al collo, un sottile filo di perle come unico gioiello, sembrava notevolmente più giovane. Parlava uno spagnolo ossidato dalla mancanza di pratica e un inglese dall'accento britannico, saltando da una lingua all'altra all'interno della stessa frase, esattamente come Paulina. La ricchezza della signora del Valle e il suo sangue aristocratico la collocavano molto al di sopra del livello sociale di Eliza Sommers. Una donna che lavorava per puro piacere poteva essere solamente un maschiaccio, ma Paulina sapeva che Eliza ormai non apparteneva più alla classe sociale in cui era stata educata in Cile e non lavorava per piacere, bensì per necessità. Aveva anche sentito dire che viveva con un cinese, ma la sua incontenibile sfrontatezza non fu mai tale da indurla a chiederglielo direttamente.
"Io e la signora Eliza Sommers ci siamo conosciute in Cile, nel 1840; allora lei aveva otto anni e io ne avevo sedici, ma ora abbiamo la stessa età," spiegò Paulina al nipote.
Mentre le cameriere servivano il tè, Eliza ascoltava divertita l'incessante chiacchiericcio di Paulina, che si interrompeva unicamente per divorare un altro boccone. Severo si dimenticò di loro non appena scorse a un altro tavolo una bambina deliziosa intenta a incollare figurine su un album alla luce delle lampade a gas e del morbido chiarore delle vetrate della finestra che la illuminavano con bagliori dorati. Era Lynn Sommers, figlia di Eliza, creatura di una bellezza talmente rara che già allora, appena dodicenne, diversi fotografi della città la utilizzavano come modella. Il suo viso illustrava cartoline, manifesti e calendari di angeli che suonavano la lira e ninfe monelle in boschi di cartongesso. Severo era ancora nell'età in cui le bambine sono un mistero piuttosto repulsivo per i ragazzini, e tuttavia si arrese al suo fascino; in piedi al suo fianco, la contemplò a bocca aperta senza capire perché gli dolesse il petto e gli venisse da piangere. Eliza Sommers lo scosse da quello stato di trance chiamandoli a bere la cioccolata. La ragazzina chiuse l'album senza prestargli attenzione, come se non lo vedesse, e si alzò con leggerezza, quasi fluttuando. Si insediò di fronte alla sua tazza di cioccolata senza dire una parola né alzare gli occhi, rassegnata agli sguardi impertinenti del giovane e pienamente cosciente del fatto che il suo aspetto la separava dal resto dei mortali. Sopportava la sua bellezza come se si fosse trattato di una deformità, nutrendo la segreta speranza che con il tempo si sarebbe dileguata.
Alcune settimane più tardi, quando Severo si imbarcò con il padre per far ritorno in Cile, la sua memoria si portava via la vastità della California e la visione di Lynn Sommers saldamente infissa nel cuore.
Severo del Valle non rivide Lynn Sommers che diversi anni dopo. Ritornò in California a vivere con la zia Paulina verso la fine del 1876, ma la sua relazione con Lynn iniziò solamente un mercoledì dell'inverno del 1879, quando ormai era già troppo tardi per entrambi. In occasione della sua seconda visita a San Francisco, il ragazzo aveva raggiunto la sua altezza definitiva, ma era ancora secco, pallido, sgraziato e si sentiva a disagio nel suo corpo, come se gomiti e ginocchia fossero di troppo. Tre anni più tardi, quando si piazzò senza voce davanti a Lynn, era già un uomo fatto e finito, con i nobili lineamenti dei suoi avi spagnoli, la costituzione elastica di un torero andaluso e l'espressione ascetica di un seminarista. Molti cambiamenti erano occorsi nella sua vita dalla prima volta che aveva visto Lynn. L'immagine di quella bambina silenziosa, languida come un gatto sornione, l'aveva accompagnato durante i difficili anni dell'adolescenza e nel dolore del lutto. Il padre che adorava era mancato prematuramente in Cile e la madre, disorientata da quel figlio ancora imberbe ma già troppo lucido e irriverente, l'aveva mandato a completare gli studi in un collegio cattolico di Santiago. Ben presto, tuttavia, era stato rispedito a casa insieme a una lettera in cui si spiegava, senza giri di parole, che una mela marcia guasta anche quelle buone, o qualcosa del genere. Allora, con grande abnegazione, la madre aveva compiuto un pellegrinaggio sulle ginocchia presso una grotta miracolosa e la Vergine, sempre molto ingegnosa, le aveva suggerito la soluzione: mandarlo a fare il servizio militare in modo che del problema si facesse carico un sergente. Per un anno Severo aveva marciato con la truppa, sopportato il rigore e la stupidità della vita di reggimento e ne era uscito con il grado di ufficiale di riserva, determinato a non avvicinarsi mai più a una caserma in vita sua. Non fece in tempo a ritrovarsi di nuovo per strada, che tornò alle sue antiche amicizie e ai suoi mutevoli sbalzi d'umore. Questa volta gli zii decisero di intervenire nella questione. In assenza del giovane e della madre, privi del diritto di voto nella tavolata patriarcale, si riunirono in consiglio nell'austera sala da pranzo della casa del nonno Agustín. In quella stessa stanza, trentacinque anni prima, Paulina del Valle, con la testa rasata e una tiara di diamanti, aveva sfidato gli uomini della sua famiglia per sposare Feliciano Rodríguez de Santa Cruz, l'uomo che si era scelta. Ora, in quel luogo, venivano presentate al nonno le prove contro Severo: si rifiutava di confessarsi e di comunicarsi ed erano stati scoperti in suo possesso libri della lista nera; in poche parole, si sospettava che fosse stato reclutato dalla massoneria o, peggio ancora, dai liberali. Il Cile stava attraversando un periodo di conflitti ideologici inconciliabili e l'ira degli ultraconservatori, come i del Valle, imbevuti di fervore messianico e convinti di poter imporre le loro idee a suon di anatemi e proiettili, di poter annientare massoni e anticlericali, e di dover farla finita una volta per tutte con i liberali, cresceva nella misura in cui questi ottenevano posti nel governo.
I del Valle non erano disposti a tollerare in seno alla famiglia un dissidente sangue del loro stesso sangue. L'idea di mandarlo negli Stati Uniti fu del nonno Agustín: "Gli yankee gli faranno passare la voglia di far sempre tanta confusione," pronosticò. Lo imbarcarono, destinazione California, senza chiedere la sua opinione, vestito a lutto, con l'orologio del suo defunto padre nel taschino del gilet e un misero bagaglio, che includeva un grande Cristo coronato di spine e una lettera sigillata per gli zii Feliciano e Paulina.
Le proteste di Severo furono meramente formali, perché quel viaggio si attagliava ai suoi progetti. Gli dispiaceva solamente di doversi separare da Nívea, la ragazza che tutti quanti speravano che un giorno lui prendesse in moglie, nel rispetto dell'antica consuetudine dell'oligarchia cilena di sposarsi tra cugini. In Cile stava soffocando. Era cresciuto prigioniero di un ginepraio di dogmi e pregiudizi, ma il contatto con gli altri studenti del collegio di Santiago aveva aperto gli orizzonti della sua immaginazione e gli aveva risvegliato la scintilla patriottica. Fino ad allora aveva creduto che esistessero solo due classi sociali, la sua e quella dei poveri, separate da un'imprecisa zona grigia di funzionari e di altri "cileni di nessun conto", come li definiva suo nonno Agustín. In caserma si rese conto che di membri della sua classe, pelle bianca e potere economico, ce n'erano appena una manciata; per la stragrande maggioranza si trattava di meticci e di poveri; ma a Santiago scoprì anche l'esistenza di una fiorente e nutrita classe media, dotata di istruzione e ambizioni politiche, che costituiva la vera spina dorsale del paese e che comprendeva immigrati fuggiti da guerre o miserie, scienziati, educatori, filosofi, librai, gente dalle idee innovatrici. Rimase abbacinato dalle doti oratorie dei suoi nuovi amici, come chi si innamora per la prima volta. Desiderava cambiare il Cile, fargli fare un giro completo, purificarlo. Si convinse del fatto che i conservatori – salvo i membri della sua famiglia, i cui comportamenti, ai suoi occhi, non erano dettati da cattiveria, ma dallo stato di errore in cui si trovavano – appartenessero alle milizie di Satana, nel caso ipotetico in cui Satana fosse qualcosa di più di una pittoresca invenzione, e si prefissò, non appena avesse acquisito una propria indipendenza, di partecipare alla vita politica. Sapeva che ci sarebbero voluti ancora diversi anni, e per questo ritenne che il viaggio negli Stati Uniti potesse costituire una boccata di aria fresca; avrebbe potuto osservare quell'invidiabile democrazia e apprendere qualcosa, leggere quel che gli pareva senza doversi preoccupare della censura cattolica ed essere al corrente dei progressi della modernità. Mentre nel resto del mondo si destituivano monarchie, nascevano nuovi stati, si colonizzavano continenti e si inventavano meraviglie, in Cile il parlamento dibatteva circa il diritto degli adulteri di essere tumulati in cimiteri consacrati. Davanti a suo nonno non era permesso menzionare la teoria di Darwin, che stava rivoluzionando le conoscenze umane, ma si poteva invece perdere un pomeriggio a discutere di improbabili miracoli di santi e martiri. Ulteriore incentivo per il viaggio era il ricordo della piccola Lynn Sommers, che intralciava con imbarazzante perseveranza il suo affetto per Nívea, per quanto lui non lo ammettesse nemmeno nel profondo del suo cuore.
Severo del Valle non sapeva né quando né come l'idea del suo matrimonio con Nívea avesse preso forma; probabilmente a deciderlo non erano stati loro, bensì la famiglia, ma nessuno dei due si era ribellato a tale destino perché si conoscevano e si amavano fin dall'infanzia. Il ramo della famiglia a cui Nívea apparteneva era stato benestante quando il padre era in vita, ma alla sua morte la vedova si era impoverita. Don José Francisco Vergara, uno zio facoltoso, che avrebbe svolto un ruolo di rilievo ai tempi della guerra, contribuì poi all'educazione dei nipoti: "Non c'è povertà peggiore di quella dei decaduti, che debbono fingere di avere quel che non hanno," aveva confessato Nívea al cugino Severo in uno di quei momenti di grande lucidità che la caratterizzavano. Aveva quattro anni meno di lui, ma era molto più matura; era stata lei a modulare quell'affetto infantile che, con mano ferma, aveva poi saputo orientare verso la relazione romantica che li legava quando Severo partì per gli Stati Uniti. Nelle enormi dimore in cui trascorrevano le loro vite, di angoli perfetti per amarsi ce n'erano d'avanzo. A tentoni, nella penombra, i due cugini avevano scoperto con la goffaggine dei cuccioli i segreti dei loro corpi. Si accarezzavano con curiosità, appurando le differenze, senza capire perché lui aveva quella cosa e lei quell'altra, storditi dal pudore e dal senso di colpa, sempre in silenzio, perché ciò che non veniva formulato con le parole era come se non fosse successo e dunque meno peccaminoso. Si esploravano in fretta, spaventati, coscienti che non avrebbero potuto rivelare quei giochi di cugini nemmeno nel confessionale, motivo per cui sarebbero stati condannati all'inferno. Erano mille gli occhi delle spie. Le vecchie domestiche che li avevano visti nascere proteggevano quegli amori innocenti, ma le zie zitelle vigilavano come corvi; nulla scappava a quegli occhi avvizziti la cui unica funzione era registrare ogni istante della vita famigliare, a quelle lingue in declino che divulgavano i segreti e seminavano zizzania, ma sempre all'interno del clan. Niente fuoriusciva dalle mura domestiche. Il primo dovere di tutti era preservare l'onore e il buon nome della famiglia. Nívea si era sviluppata tardi e a quindici anni aveva ancora un corpo da bambina e un viso innocente, niente del suo aspetto rivelava la sua forza di carattere; bassa, cicciottella, con grandi occhi scuri come unico segno distintivo, sembrava insignificante fino a quando non apriva bocca. Mentre le sue sorelle si guadagnavano il paradiso leggendo libri devoti, lei divorava di nascosto gli articoli e i libri che il cugino Severo le passava sottobanco e i classici che le prestava lo zio José Francisco Vergara. Quando praticamente nessuno ne parlava all'interno della sua classe sociale, se n'era uscita con la questione del suffragio femminile. La prima volta che vi accennò, durante un pranzo di famiglia a casa di don Agustín del Valle, si produsse un'esplosione di terrore. "Quando potranno votare le donne e i poveri in questo paese?" chiese Nívea tutto a un tratto, senza ricordare che i ragazzini non aprivano bocca alla presenza degli adulti. Il vecchio patriarca del Valle picchiò un tale pugno sul tavolo da far volare via i bicchieri e le ordinò di andare immediatamente a confessarsi. Nívea si attenne senza protestare alla penitenza impostale dal sacerdote, ma annotò sul diario, con l'abituale passione, che, anche a costo di venire espulsa dalla famiglia, non si sarebbe data pace fino a quando non si fossero ottenuti i diritti elementari per le donne. La sua fortuna era stata di aver trovato una maestra eccezionale, suor María Escapulario, una monaca con un cuore da leonessa celato sotto la veste, che si era accorta dell'intelligenza di Nívea. Davanti a quella ragazzina che assorbiva tutto con avidità, che metteva in discussione ciò che nemmeno lei stessa si era mai chiesta, che la sfidava con ragionamenti impensabili per la sua età e che sembrava voler scoppiare di vitalità e salute dentro l'orrenda divisa, la suora si sentiva realizzata come maestra. Nívea da sola valeva lo sforzo di aver insegnato per anni a una marea di bambine ricche dalla mente povera. Solo per affetto nei suoi riguardi suor María Escapulario violava sistematicamente il regolamento della scuola, stilato con il preciso obiettivo di trasformare le alunne in docili creature. Con lei intavolava conversazioni che avrebbero spaventato la madre superiora e il direttore spirituale del collegio.
"Alla tua età, io avevo solo due alternative: sposarmi o entrare in convento," disse suor María Escapulario.
"Perché scelse la seconda, madre?"
"Perché mi dava maggior libertà. Cristo è uno sposo tollerante..."
"Per noi donne è una fregatura, madre. Avere figli e obbedire, nient'altro," sospirò Nívea.
"Non necessariamente. Tu puoi cambiare le cose," replicò la suora.
"Io da sola?"
"Da sola, no, ma ci sono altre ragazze come te, con un briciolo di sale in zucca. Ho letto su un giornale che ora ci sono anche donne medico, figurati."
"Dove?"
"In Inghilterra."
"Ah, molto lontano."
"Si, ma se loro là ci sono riuscite, un giorno lo si potrà fare anche in Cile. Non scoraggiarti, Nívea."
"Il mio confessore dice che penso molto e prego poco, madre."
"Iddio ti ha dato il cervello per usarlo; ti avviso però che la strada della ribellione è disseminata di pericoli e dolori, ci vuole molto coraggio per percorrerla. Non può che giovarti chiedere alla Divina Provvidenza di aiutarti un poco..." le consigliò suor María Escapulario.
La determinazione di Nívea giunse a un tale grado di fermezza da farle scrivere sul diario che avrebbe rinunciato al matrimonio per dedicarsi completamente alla battaglia per il suffragio femminile. Ignorava che detto sacrificio non sarebbe stato necessario perché si sarebbe sposata per amore con un uomo che avrebbe assecondato i suoi propositi politici.
Severo salì sulla nave con espressione offesa affinché i parenti non sospettassero quanto era contento di andarsene dal Cile – chissà mai che cambiassero idea –, pronto a trarre il massimo profitto da quell'avventura. Si congedò dalla cugina Nívea con un bacio rubato, dopo averle giurato che le avrebbe spedito i libri più interessanti tramite un amico per eludere la censura della famiglia e che le avrebbe scritto ogni settimana. Lei si era rassegnata all'idea di un anno di separazione e non sospettava che lui aveva in progetto di rimanere negli Stati Uniti più tempo possibile. Severo non volle rendere più amaro il commiato rivelandole tale proposito, e decise che glielo avrebbe spiegato per lettera. E comunque erano entrambi troppo giovani per sposarsi. La vide in piedi, sul molo di Valparaíso, circondata dal resto della famiglia, con il vestito e il cappellino color oliva, che lo salutava con la mano, sforzandosi di sorridere. "Non piange e non si lamenta, per questo la amo e l'amerò sempre," disse Severo a voce alta contro il vento, pronto a vincere le velleità del suo cuore e le tentazioni del mondo con la forza della tenacia. "Vergine Santissima, restituiscimelo sano e salvo," supplicò Nívea, mordendosi le labbra, vinta dall'amore, completamente dimentica di aver giurato di rimanere nubile fino a quando non avesse compiuto la sua missione di suffragetta.
Il giovane del Valle palpeggiò la lettera del nonno Agustín da Valparaíso fino a Panama, roso dal desiderio di aprirla, ma senza osare farlo, perché gli era stato inculcato a lettere di fuoco che nessun gentiluomo mette occhio su una lettera, né mano sul denaro. Alla fine la curiosità ebbe la meglio sul senso dell'onore – si trattava del suo destino, considerò – e con un rasoio ruppe con cautela il sigillo, collocò la busta su una teiera fumante e la aprì con mille precauzioni. Fu così che scoprì che i progetti del nonno prevedevano che lo si mandasse a una scuola militare statunitense. Era un vero peccato, aggiungeva il nonno, che il Cile non fosse in guerra con nessun paese vicino, e che il nipote non potesse farsi uomo con le armi in mano, come era giusto che fosse. Severo gettò la lettera in mare e ne scrisse un'altra secondo i suoi desideri, la mise dentro la stessa busta e versò della lacca fusa sul sigillo rotto. A San Francisco, zia Paulina lo attendeva sul molo accompagnata da due lacchè e da Williams, il suo pomposo maggiordomo. Era agghindata con un cappello assolutamente incredibile e con una tale profusione di veli svolazzanti al vento che, se non fosse stata così pesante, l'avrebbero sollevata da terra. Scoppiò in una risata fragorosa vedendo il nipote scendere la passerella con il Cristo tra le braccia e poi se lo strinse contro il petto da soprano, asfissiandolo nella montagna dei suoi seni e nel profumo di gardenia.
"Prima cosa da fare, disfarci di questa mostruosità," disse indicando il Cristo. "E poi bisognerà comprare qualche vestito, nessuno va in giro così da queste parti," aggiunse.
"Quest'abito era di mio padre," precisò Severo, umiliato.
"Si nota, sembri un becchino," commentò Paulina, ma non fece in tempo a terminare la frase e si ricordò che non era da molto che il ragazzo aveva perso il padre. "Scusami, Severo, non volevo offenderti. Tuo padre era il fratello che preferivo, l'unico della famiglia con cui si poteva parlare."
"Mi hanno adattato alcuni dei suoi abiti per non buttarli," spiegò Severo con la voce rotta.
"Abbiamo cominciato male. Mi puoi perdonare?"
"Va bene, zia."
Alla prima occasione buona, il giovane le consegnò la falsa lettera del nonno Agustín. Lei le diede una scorsa piuttosto distratta. "L'altra cosa diceva?" gli chiese.
Con le orecchie paonazze, Severo tentò di negare, ma lei non gli diede il tempo di impelagarsi in bugie.
"Avrei fatto la stessa cosa, nipote. Voglio sapere cosa diceva la lettera di mio padre per rispondergli, non per tenerne conto."
"Di mandarmi a una scuola militare o in guerra, nel caso ce ne sia qualcuna da queste parti."
"Sei arrivato tardi, c'è già stata. Ma ora stanno massacrando gli indiani, casomai ti interessasse. Non si difendono male questi indiani; pensa che hanno appena ammazzato il generale Custer e più di duecento soldati del Settimo Cavalleggeri nel Wyoming. Non si parla d'altro. Dicono che un indiano chiamato Pioggia sul Viso, pensa che bel nome poetico, che aveva giurato di vendicarsi del fratello del generale Custer, in quella battaglia gli abbia strappato il cuore e se lo sia mangiato. Hai ancora voglia di fare il soldato?" disse Paulina del Valle, con una risatina a denti stretti.
"Non ho mai voluto fare la guerra, quelle sono idee del nonno Agustín."
"Nella lettera falsificata si dice che vorresti fare l'avvocato; vedo che il consiglio che ti ho dato tanti anni fa non è caduto nel vuoto. Così mi piace, ragazzo. Le leggi americane non sono come quelle cilene, ma questo è il meno. Farai l'avvocato. Entrerai come tirocinante nel miglior studio della California, a qualcosa serviranno pure le mie influenze," assicurò Paulina.
"Sarò in debito con lei per tutta la vita, zia," disse Severo, emozionato.
"Certo. Spero che non te ne dimentichi, bada che la vita è lunga e chissà quando avrò bisogno di chiederti un favore."
"Conti su di me, zia."
Il giorno successivo, Paulina del Valle si presentò con Severo nell'ufficio dei suoi avvocati, quelli che da oltre venticinque anni le prestavano i loro servigi guadagnando commissioni enormi, e annunciò loro senza preamboli che desiderava vedere suo nipote lavorare lì per imparare la professione a partire dal lunedì successivo. Non poterono rifiutarsi. La zia sistemò il ragazzo in casa sua, in una camera soleggiata al secondo piano, gli comprò un buon cavallo, gli assegnò un mensile, gli procurò un insegnante di inglese e iniziò a presentarlo in società perché, a sentir lei, non c'era miglior capitale delle conoscenze.
"Due cose mi aspetto da te, fedeltà e buon umore."
"Non si aspetta anche che studi?"
"Quello, ragazzo, è un problema tuo. Quel che hai intenzione di fare della tua vita non mi riguarda minimamente."
Ciò nondimeno, nei mesi successivi, Severo appurò che Paulina seguiva da vicino i suoi progressi nello studio degli avvocati, sapeva tutto delle sue amicizie, calcolava le sue spese e conosceva i suoi passi ancora prima che li compisse. Come facesse a essere così informata era un mistero, a meno che Williams, l'impenetrabile maggiordomo, non avesse organizzato una rete di sorveglianza. L'uomo dirigeva un esercito di domestici che svolgevano i loro compiti come ombre silenziose, vivevano in un edificio separato in fondo al parco della casa e avevano il divieto di rivolgere la parola ai signori della famiglia, eccetto quando venivano interpellati. Non potevano parlare nemmeno con il maggiordomo senza prima passare per la governante. Severo faticò a comprendere queste gerarchie perché in Cile le cose erano molto più semplici. I padroni, persino i più dispotici come suo nonno, trattavano i dipendenti con durezza, ma si facevano carico delle loro necessità e li consideravano parte della famiglia. Non aveva mai visto licenziare una domestica; le donne iniziavano a lavorare in casa durante la pubertà e ci rimanevano fino alla morte. La palazzina di Nob Hill era molto diversa da quelle magioni conventuali nelle quali aveva trascorso l'infanzia, dalle grosse pareti di mattoni crudi e dalle lugubri porte rinforzate in ferro battuto, con pochi mobili addossati alle pareti nude. Sarebbe stata un'impresa proibitiva stilare un inventario del contenuto della casa di zia Paulina, dai saliscendi e dalle chiavi dei bagni in argento massiccio, fino alle collezioni di statuine di porcellana, alle scatolette russe laccate, gli avori cinesi, e ogni sorta di oggetto d'arte o di capriccio fosse di moda. Feliciano Rodríguez de Santa Cruz acquistava per fare colpo sui visitatori, ma non era uno zotico come altri magnati amici suoi che compravano i libri a peso e i quadri in base ai colori da abbinare con le poltrone. Dal canto suo, Paulina non aveva nessuna passione per quegli oggetti preziosi; l'unico mobile che aveva commissionato in vita sua era stato il letto, e a ciò l'avevano spinta ragioni che non avevano niente a che vedere con l'estetica o l'ostentazione. Quel che le interessava, molto semplicemente, non erano che i soldi; la sfida consisteva nel guadagnarli con astuzia, accumularli con tenacia e investirli con saggezza. Non faceva caso agli acquisti del marito o a dove li collocasse e il risultato era una dimora sfarzosa in cui gli abitanti si sentivano estranei. I dipinti erano enormi, le comici imponenti, autorevoli i soggetti – Alessandro Magno alla conquista della Persia – ma c'erano anche centinaia di quadri minori organizzati per temi, che davano il nome alle stanze: la sala della caccia, quella delle marine, quella degli acquerelli. Le tende di pesante velluto erano guarnite con frange opprimenti e gli specchi veneziani riflettevano all'infinito le colonne di marmo, gli alti vasi di Sèvres, le statue di bronzo, le vetrinette traboccanti di fiori e di frutta. Benché in famiglia nessuno fosse in grado di suonare e a Paulina la musica provocasse l'emicrania, c'erano due sale da musica dotate di raffinati strumenti italiani e una biblioteca a due piani. A ogni angolo si trovavano sputacchiere d'argento con iniziali d'oro, perché in quella città di frontiera era perfettamente ammissibile lanciare sputacchi in pubblico. Le camere di Feliciano si trovavano nell'ala orientale e quelle della moglie erano sullo stesso piano, ma all'estremità opposta della casa. Tra di esse, collegate mediante un ampio corridoio, si allineavano le stanze dei figli e degli ospiti, tutte vuote salvo quella occupata da Severo e quella di Matías, il figlio maggiore, l'unico che viveva ancora in casa. Severo del Valle, abituato ai disagi e al freddo, che in Cile era considerato giovevole per la salute, impiegò diverse settimane ad abituarsi all'abbraccio opprimente del materasso e dei cuscini di piuma, alla perenne estate delle stufe e alla sorpresa quotidiana di trovare un getto d'acqua calda girando il rubinetto del bagno. Nella casa del nonno i servizi erano casupole maleodoranti in fondo al patio e nelle mattine d'inverno l'acqua per lavarsi nei catini salutava il giorno coperta di un velo di ghiaccio.
L'ora della siesta solitamente coglieva il giovane nipote e l'ineguagliabile zia nel letto mitologico, lei tra le lenzuola, con i registri contabili da una parte e i pasticcini dall'altra, e lui seduto ai piedi tra la naiade e il delfino, intenti a commentare le questioni famigliari e gli affari. Solamente con Severo Paulina si permetteva un tale livello di intimità, pochissimi avevano accesso alle sue stanze private, ma con lui si sentiva perfettamente a suo agio in camicia da notte. Quel nipote le dava le soddisfazioni mai ricevute dai figli. I due minori menavano una vita da ereditieri ricoprendo incarichi simbolici nella direzione delle aziende del clan famigliare, uno a Londra e l'altro a Boston. Matías, il primogenito, era destinato a capitanare la stirpe dei Rodríguez de Santa Cruz y del Valle, ma non ne aveva la minima vocazione; lungi dal seguire le orme degli intraprendenti genitori, dall'interessarsi alle loro società o dal mettere al mondo figli maschi che garantissero l'avvenire della stirpe, aveva fatto dell'edonismo e del celibato una forma d'arte. "Non è che un cretino ben vestito," l'aveva definito una volta Paulina davanti a Severo, ma quando aveva constatato che figlio e nipote andavano molto d'accordo, aveva cercato con impegno di rinsaldare quell'incipiente amicizia. "Mia madre non fa mai niente per niente, probabilmente sta progettando che tu mi riscatti dalla dissipazione," scherzava Matías. Severo non aveva la minima intenzione di accollarsi l'onere di cambiare suo cugino, anzi, gli sarebbe piaciuto assomigliare a lui; al suo confronto si sentiva rigido e funebre. Tutto in Matías suscitava la sua ammirazione, lo stile impeccabile, l'ironia glaciale, la leggerezza con cui scialava senza misura.
"Desidero che tu prenda dimestichezza con i miei affari. Questa è una società materialista e volgare, che ha scarsissimo rispetto per le donne. Qui contano solo i soldi e i contatti, per questo ho bisogno di te: sarai i miei occhi e le mie orecchie," annunciò Paulina al nipote, pochi mesi dopo il suo arrivo.
"Non ci capisco niente di affari."
"Invece io sì. Non ti chiedo di pensare, quello spetta a me. Tu devi solo tacere, osservare, ascoltare e riferirmi. E poi agire come ti indico io senza fare troppe domande, siamo intesi?"
"Non chiedermi di imbrogliare, zia," replicò con dignità Severo.
"Vedo che ti è arrivato all'orecchio qualche pettegolezzo su di me... Vedi, figliolo, le leggi sono state inventate dai forti per dominare i deboli, che sono molti di più. Io non sono tenuta a rispettarle. Ho bisogno di un avvocato di totale fiducia per fare quel che mi pare senza ficcarmi nei pasticci."
"In modo onorevole, spero..." la avvertì Severo.
"Ah, ragazzo mio! Così non andremo da nessuna parte. Il tuo onore sarà salvo, sempre ammesso che non esageri," replicò Paulina.
Così siglarono un patto vincolante quanto i legami di sangue che li univano. Per Paulina, che lo aveva accolto senza nutrire grandi aspettative, convinta che fosse un mascalzone, unica ragione per cui glielo spedivano dal Cile, quel nipote sveglio e dai nobili sentimenti fu una sorpresa positiva. In pochi anni Severo s'impadronì dell'inglese con una facilità mai dimostrata prima da nessun altro membro della famiglia, imparò a conoscere le società della zia come il palmo della sua mano, attraversò due volte gli Stati Uniti in treno – una di esse sotto la minaccia di un attacco di banditi messicani – e trovò persino il tempo di diventare avvocato. Con la cugina Nívea manteneva una corrispondenza settimanale, che con gli anni diventò più intellettuale che romantica. Lei lo ragguagliava sulla famiglia e sulla politica in Cile; lui le comprava libri e ritagliava articoli sulle conquiste delle suffragette in Europa e negli Stati Uniti. La notizia secondo la quale era stato presentato al Congresso degli Stati Uniti un emendamento che autorizzava il voto femminile fu festeggiata a distanza da tutti e due, pur nella condivisa consapevolezza che immaginare che potesse succedere qualcosa di simile in Cile era pura follia. "A cosa mi serve leggere e studiare tanto, cugino, se non c'è spazio per l'azione nella vita di una donna? Mia madre dice che sarà impossibile che io mi sposi perché faccio scappare gli uomini, che devo curare il mio aspetto e chiudere la bocca se desidero un marito. La mia famiglia si esalta al minimo indizio di capacità di intendere dei miei fratelli – e dico minimo perché tu sai che razza di bestie sono – ma quando si tratta di me, allora la si considera vanagloria. L'unico a sopportarmi è zio José Francisco, perché gli offro l'opportunità di parlare di scienza, di astronomia e di politica, temi sui quali gli piace discorrere, per quanto le mie opinioni non gli interessino affatto. Non puoi immaginare quanto invidio gli uomini come te, a cui il mondo si apre davanti," scriveva la ragazza. L'amore non occupava più di due righe nelle lettere di Nívea e un paio di parole in quelle di Severo, come se vigesse il tacito accordo di dimenticare le intense e frettolose carezze degli angoli appartati. Due volte all'anno Nívea gli mandava una sua foto, affinché potesse constatare come si stava trasformando in donna; lui prometteva di fare altrettanto, ma poi se ne dimenticava, così come scordava di dirle che nemmeno quel Natale sarebbe tornato a casa. Una ragazza con più fretta di sposarsi di Nívea avrebbe drizzato le antenne per localizzare un fidanzato meno sfuggente; lei invece non pensò neanche per un momento che Severo del Valle potesse non essere il suo futuro marito. Ne era talmente certa che quella separazione che si trascinava da anni non la preoccupava più di tanto; era disposta ad aspettare fino alla fine dei tempi. Dal canto suo, Severo conservava il ricordo della cugina come simbolo di quanto di buono, di nobile e puro ci potesse essere.
L'aspetto di Matías poteva legittimare l'opinione di sua madre circa il fatto che fosse un cretino ben vestito, ma del cretino non aveva proprio nulla. Aveva visitato tutti i musei più importanti d'Europa, sapeva d'arte, poteva citare qualsiasi poeta classico ed era l'unico a utilizzare la biblioteca di casa. Si dedicava alla cura del suo stile personale, tra il bohémien e il dandy; del primo aveva l'inclinazione per la vita notturna e del secondo la mania per i particolari nell'abbigliamento. Benché lo si considerasse il miglior partito di San Francisco, lui si professava scapolo irriducibile; preferiva una conversazione triviale con il peggiore dei suoi nemici a un appuntamento con la più attraente delle sue spasimanti. L'unica cosa che lo accomunava alle donne era la procreazione, obiettivo di per sé assurdo, sosteneva. Per soddisfare le necessità della natura preferiva una professionista delle tante a portata di mano. Non si concepiva serata tra gentiluomini che non terminasse con un brandy in qualche bar e una capatina a un bordello; c'erano circa duecentocinquantamila prostitute nel paese e proprio a San Francisco una buona percentuale di loro si guadagnava da vivere, dalle misere sing song girls di Chinatown, alle raffinate signorine di buona famiglia degli stati del Sud, spinte dalla Guerra civile a fare la vita. Il giovane ereditiere, così poco indulgente con le debolezze femminili, faceva mostra di grande tolleranza con la grossolanità dei suoi amici bohémien; era un'altra delle sue prerogative, come pure la sua passione per le sottili sigarette di tabacco nero, che ordinava in Egitto, e per i delitti letterari e reali. Viveva nella palazzina paterna di Nob Hill e disponeva di un lussuoso appartamento in pieno centro sovrastato da un'ampia mansarda, che chiamava la garçonnière, dove talvolta dipingeva e spesso organizzava feste. Frequentava il giro dei bohémien, poveri diavoli che sopravvivevano sprofondati in un'indigenza stoica e irrimediabile, poeti, giornalisti, fotografi, aspiranti scrittori e artisti, uomini senza famiglia che passavano la vita sempre mezzi malati, a tossire e conversare, che vivevano a credito e non usavano l'orologio perché il tempo non era stato inventato per loro. Alle spalle dell'aristocratico cileno si burlavano dei suoi abiti e dei suoi modi, ma lo sopportavano perché potevano sempre ricorrere a lui per ottenere qualche dollaro, un sorso di whisky o un posto nella mansarda dove trascorrere una notte di nebbia.
"Hai notato che Matías ha degli atteggiamenti da checca?" commentò Paulina con il marito.
"Come può venirti in mente di dire una stupidaggine del genere su tuo figlio! Non ce n'è mai stata una né nella mia, né nella tua famiglia," replicò Feliciano.
"Conosci qualche uomo normale che coordini il colore della sciarpa con quello della carta da parati?" si irritò Paulina.
"Porca miseria, sei tu sua madre e tocca a te cercargli una fidanzata! Questo ragazzo ha già trent'anni ed è ancora scapolo. Ti conviene trovargliene una in fretta prima che ci diventi un alcolizzato, un tubercolotico o qualcosa di peggio," la ammonì Feliciano senza sapere che ormai era troppo tardi per quei tiepidi tentativi di redenzione.
In una di quelle notti di vento gelido tipiche dell'estate di San Francisco, Williams, il maggiordomo in tight, bussò alla porta della camera di Severo del Valle.
"Scusi il disturbo, signore," mormorò schiarendosi discretamente la voce, mentre entrava reggendo un candelabro a tre bracci con la mano inguantata.
"Che cosa succede, Williams?" chiese Severo allarmato, perché in quella casa era la prima volta che qualcuno interrompeva il suo sonno.
"Temo che ci sia un piccolo inconveniente. Si tratta di don Matías," disse Williams con quella pomposa deferenza britannica, sconosciuta in California, che suonava sempre più ironica che ossequiosa.
Spiegò che a quell'ora inoltrata era pervenuto a casa un messaggio inviato da una signora di dubbia reputazione, una tale Amanda Lowell che il signorino era solito frequentare, gente di "un altro ambiente", come spiegò. Severo lesse il biglietto alla luce delle candele: tre righe stringate in cui si chiedeva aiuto immediato per Matías.
"Dobbiamo avvisare gli zii, Matías potrebbe essere vittima di un incidente," si allarmò Severo del Valle.
"Dia un'occhiata all'indirizzo, signore; è in piena Chinatown. Mi sembra preferibile che i signori non vengano messi al corrente," sostenne il maggiordomo.
"Diamine! Pensavo che lei non avesse segreti per zia Paulina."
"Cerco di evitarle dei dispiaceri, signore."
"Che cosa suggerisce di fare?"
"Se non è una richiesta eccessiva, che lei si vesta, prenda con sé le sue armi e mi accompagni."
Williams aveva svegliato uno stalliere perché preparasse una delle carrozze, ma desiderando che della faccenda non si sapesse nulla impugnò egli stesso le redini e si inoltrò senza esitare per strade buie e vuote in direzione del quartiere cinese, guidato unicamente dall'istinto dei cavalli, perché il vento spegneva in continuazione i fanali della vettura. Severo ebbe l'impressione che non fosse la prima volta che l'uomo si aggirava per quei vicoli. Poco dopo abbandonarono la carrozza e si addentrarono a piedi per un passaggio che sfociava in un patio buio in cui regnava uno strano aroma dolce, come di noci tostate. Non si vedeva anima viva, non si udiva suono alcuno al di fuori del vento e l'unica luce filtrava attraverso le fessure di un paio di finestrucole al livello della strada. Williams accese un cerino, lesse ancora l'indirizzo sul pezzo di carta e poi, senza tante cerimonie, spinse una delle porte che davano sul patio. Severo lo seguì, la mano sul calcio dell'arma. Entrarono in una piccola stanza, senza ventilazione ma pulita e ordinata, dove si riusciva a malapena a respirare a causa del denso aroma di oppio. Attorno a un tavolo centrale si trovavano scomparti di legno allineati contro le pareti, uno sopra l'altro come le cuccette di una nave, ricoperti con una stuoia e con un pezzo di legno incavato a mo' di cuscino. Erano occupati da cinesi, a volte due per cubicolo, coricati sul fianco di fronte a vassoietti contenenti una scatola con un impasto nero e un lumino acceso. Era notte inoltrata e la droga aveva già sortito effetto sulla maggior parte di loro; gli uomini giacevano assopiti, vagando nei loro sogni, e solo due o tre avevano ancora la forza di intingere un bastoncino di metallo nell'oppio, scaldarlo sulla fiammella, caricare il minuscolo fornello della pipa e aspirare attraverso un tubicino di bambù.
"Dio mio," mormorò Severo, che di tale pratica aveva solo sentito parlare, senza mai averla vista da vicino.
"È meglio dell'alcol, se mi è consentito dirlo," replicò Williams. "Non induce alla violenza e non arreca danno, se non a chi fuma. Non le sembra che qui sia tutto molto più tranquillo e pulito rispetto a una taverna?"
Un vecchio cinese vestito con una tunica e ampi pantaloni di cotone si diresse verso di loro zoppicando. I piccoli occhi rossi facevano appena capolino tra le profonde rughe del volto, i baffi erano avvizziti e grigi, come la treccia sottile che gli pendeva sulla schiena, le unghie, salvo quelle del pollice e dell'indice, erano talmente lunghe da arrotolarsi su se stesse, come code di qualche preistorico mollusco, la bocca sembrava una nera cavità e i pochi denti superstiti erano macchiati dal tabacco e dall'oppio. Il matusalemme sciancato si rivolse ai nuovi arrivati in cinese e, con grande stupore di Severo, il maggiordomo inglese replicò con un paio di latrati nella stessa lingua. Ci fu una pausa lunghissima durante la quale nessuno si mosse. Il cinese sostenne lo sguardo di Williams, come se lo stesse studiando, e alla fine allungò la mano, dove il maggiordomo depositò diversi dollari; il vecchio se li nascose vicino al petto sotto la tunica, poi prese un mozzicone di candela e fece loro segno di seguirlo. Attraversarono una seconda stanza, e poi una terza e una quarta, tutte simili alla prima, camminarono lungo un passaggio pieno di svolte, scesero qualche scalino e imboccarono un altro corridoio. La guida fece loro cenno di aspettare e sparì per alcuni minuti, che sembrarono interminabili. Madido di sudore, Severo manteneva il dito sul grilletto dell'arma priva di sicura, vigile e senza osare dire neanche mezza parola. Alla fine il nonnetto tornò e li condusse attraverso un labirinto fino ad arrivare di fronte a una porta chiusa, che si fermò a contemplare con incomprensibile concentrazione, come chi decifri una mappa, fino a quando Williams non gli ebbe allungato un paio di dollari supplementari, e che solo allora aprì. Entrarono in una stanza ancora più piccola delle altre, più buia, più carica di fumo e più opprimente, perché si trovava sono il livello del suolo ed era priva di ventilazione, ma per il resto identica alle altre. Sulle cuccette di legno c'erano cinque americani bianchi, quattro uomini e una donna non più giovane, ma ancora splendida, con una cascata di capelli rossi sparsi intorno come uno scandaloso mantello. A giudicare dall'abbigliamento raffinato, si trattava di clientela solvente. Si trovavano tutti nel medesimo stato di felice rapimento, fatta eccezione per uno, che giaceva supino e respirava a malapena, con la camicia lacerata, le braccia spalancate come sulla croce, la pelle color gesso e gli occhi rivoltati all'indietro. Era Matías Rodríguez de Santa Cruz.
"Coraggio, signore, mi aiuti," ordinò Williams a Severo del Valle.
Unendo le forze, a fatica, lo sollevarono; si passarono ognuno un braccio intorno al collo e così lo trasportarono, come un crocifisso, la testa a penzoloni, il corpo floscio, i piedi che si trascinavano sul pavimento di terra battuta. Rifecero a ritroso il lungo cammino per gli angusti corridoi e attraversarono a una a una le stanze soffocanti, fino a quando non si ritrovarono di nuovo all'aria aperta, nella strabiliante purezza della notte, dove poterono respirare profondamente, affannati e storditi. Sistemarono Matías alla bell'e meglio nella carrozza e Williams si diresse alla garçonnière, la cui esistenza, secondo Severo, il dipendente della zia doveva ignorare. Ancor più grande fu la sua sorpresa quando Williams estrasse una chiave, aprì il portone principale dell'edificio e ne tirò poi fuori un'altra per aprire la porta dell'attico.
"Questa non è la prima volta che riscatta mio cugino, vero Williams?"
"Diciamo che non sarà l'ultima," rispose lui.
Adagiarono Matías sul letto che si trovava in un angolo, dietro a un paravento giapponese, poi Severo prese ad applicargli dei panni bagnati e a scuoterlo affinché facesse ritorno dal paradiso in cui aveva trovato alloggio, mentre Williams andava alla ricerca del medico di famiglia, non senza aver prima avvertito che non era opportuno informare gli zii di quel che era successo.
"Ma mio cugino potrebbe morire!" esclamò Severo ancora tremante.
"In quel caso sì che sarà necessario avvertire i signori," concesse cortesemente Williams.
Intossicato fino al midollo, Matías si dibatté per cinque giorni in spasmi d'agonia. Williams condusse un infermiere nell'attico perché si prendesse cura di lui e riuscì a sistemare la faccenda in modo che l'assenza di Matías non fosse motivo di scandalo in casa. L'incidente creò uno strano vincolo tra Severo e Williams, una tacita complicità che non si traduceva mai in gesti o parole. Con un altro individuo meno ermetico del maggiordomo, Severo avrebbe pensato di essere legato da qualcosa di simile all'amicizia, o quanto meno da una reciproca simpatia, ma intorno a Williams si ergeva un'impenetrabile muraglia di riservatezza. Cominciò a osservarlo. Trattava i dipendenti ai suoi ordini con la stessa fredda e impeccabile cortesia che usava per rivolgersi ai padroni, ottenendo così la loro soggezione. Non sfuggiva nulla al suo controllo, né la lucentezza delle posate di argento lavorato né i segreti di ogni abitante di quell'immensa casa. Era impossibile fare valutazioni sulla sua età o sulla sua provenienza: sembrava essersi fermato per sempre ai quarant'anni e, salvo l'accento britannico, non offriva indizi circa il suo passato. Si cambiava i guanti bianchi trenta volte al giorno, l'abito di panno nero sembrava sempre stirato di fresco, l'immacolata camicia del miglior lino olandese era tanto inamidata da sembrare di cartoncino e le scarpe luccicavano come specchi. Succhiava caramelline di menta per l'alito e si profumava con acqua di colonia, ma in modo talmente discreto che l'unica volta in cui Severo colse l'aroma di menta e lavanda fu quando si sfiorarono nella fumeria d'oppio per sollevare Matías in stato d'incoscienza. In quell'occasione poté anche notare i muscoli duri come legno sotto la giacca, i tendini del collo tesi, la forza e l'elasticità, particolari che non quadravano per niente con quel suo aspetto da lord inglese caduto in disgrazia.
I cugini Severo e Matías avevano in comune solamente i lineamenti patrizi e la passione per gli sport e la letteratura, ma per il resto non sembravano discendere dallo stesso sangue; tanto era gentiluomo, temerario e ingenuo il primo, tanto cinico, indolente e libertino era il secondo, ma a dispetto dei loro opposti temperamenti e degli anni che li separavano strinsero amicizia. Matías fece del suo meglio per insegnare a tirare di scherma a Severo, che era privo dell'eleganza e della rapidità indispensabili in tale arte, e per iniziarlo ai piaceri di San Francisco, ma il giovane risultò essere un cattivo compagno di baldoria perché si addormentava sempre in piedi; d'altronde, passava quattordici ore al giorno a lavorare nello studio legale e nel tempo rimanente leggeva e studiava. Erano soliti nuotare nudi nella piscina di casa e sfidarsi in tornei di lotta libera. Danzavano uno intorno all'altro, indugiando nella preparazione dell'assalto e alla fine si attaccavano, intrecciandosi nei balzi, rotolando, fino a quando uno riusciva a soggiogare l'altro, schiacciandolo a terra. Si ritrovavano madidi di sudore, ansimanti, eccitati. Con uno spintone, Severo si allontanava confuso, quasi quell'incontro di pugilato fosse stato un inconfessabile abbraccio. Parlavano di libri e commentavano i classici. Matías amava la poesia e quando erano soli recitava versi a memoria, commuovendosi a tal punto per la loro bellezza che le guance gli si rigavano di lacrime. Anche in quelle occasioni Severo rimaneva turbato, perché l'intensa emozione del cugino gli sembrava una forma di intimità proibita agli uomini. Il suo chiodo fisso erano i progressi scientifici e i viaggi d'esplorazione, di cui parlava a Matías nel vano tentativo di interessarlo, ma le uniche notizie in grado di intaccare l'armatura di indifferenza del cugino erano quelle della cronaca nera locale. Matías aveva uno strano rapporto, basato su litri di whisky, con Jacob Freemont, un vecchio giornalista senza scrupoli, sempre a corto di soldi, con cui condivideva la medesima morbosa fascinazione per il crimine. Freemont riusciva ancora a pubblicare reportage polizieschi sui giornali, ma aveva definitivamente rovinato la propria reputazione alcuni anni prima, ai tempi della febbre dell'oro, quando si era inventato la storia di Joaquín Murieta, fantomatico bandito messicano. Con i suoi articoli aveva creato un personaggio mitico che aveva esaltato l'odio della popolazione bianca contro gli ispanici. Per sedare gli animi, le autorità avevano offerto una ricompensa a un certo capitano Harry Love purché desse la caccia a Murieta. Dopo tre mesi di battute in California, il capitano aveva optato per una rapida soluzione: uccidere sette messicani in un'imboscata e far ritorno con una testa e una mano. Nessuno era stato in grado di identificare le spoglie, ma l'impresa di Love aveva placato i bianchi. I macabri trofei continuavano a essere esposti in un museo, anche se ormai si concordava sul fatto che Joaquín Murieta era stata una mostruosa creazione della stampa in generale e di Jacob Freemont in particolare. Questo e altri episodi in cui la penna fallace del giornalista ingarbugliò arbitrariamente la realtà finirono per fargli conquistare una ben meritata fama di impostore che gli chiuse le porte in faccia. Grazie al suo strano rapporto con Jacob Freemont, giornalista di nera, Matías poteva vedere le vittime assassinate prima che venissero trasferite dal luogo del delitto e assistere alle autopsie all'obitorio, spettacoli che ripugnavano alla sua sensibilità, ma che parimenti la eccitavano. Da queste incursioni nel microcosmo del crimine usciva ebbro di orrore, quindi si recava direttamente al bagno turco a trascorrere ore intere a sudare l'odore di morte che gli impregnava la pelle, dopodiché si rinchiudeva nella sua garçonnière a dipingere orribili scene di gente squartata a coltellate.
"Che cosa significa tutto ciò?" chiese Severo la prima volta che vide quei quadri danteschi.
"Non ti affascina l'idea della morte? L'omicidio è una grande avventura, il suicidio una pratica soluzione. Io gioco con entrambe le idee. Ci sono persone che meritano di essere assassinate, non ti pare? E per quanto mi riguarda, caro cugino, non penso di morire di vecchiaia, preferisco pensare che metterò fine al miei giorni con la stessa accuratezza con cui mi scelgo i vestiti; per questo studio i delitti, per allenarmi."
"Sei pazzo e per di più non hai alcun talento," concluse Severo.
"Non c'è bisogno di talento per essere artisti, ma solo di audacia. Hai sentito parlare degli impressionisti?"
"No, ma se dipingono cose del genere, quei poveri diavoli non arriveranno molto lontano. Non potresti cercare un soggetto più piacevole? Una ragazza carina, per esempio?"
Matías scoppiò a ridere e gli annunciò che il mercoledì successivo nella sua garçonnière ci sarebbe stata una ragazza davvero carina, anzi, la più bella di San Francisco, come era stata proclamata dal popolo, aggiunse. Si trattava di una modella che i suoi amici si disputavano per poterla immortalare nella creta, su tele e lastre fotografiche, con la speranza aggiuntiva di arrivare a fare l'amore con lei. Si accavallavano le scommesse su chi sarebbe stato il primo, ma per il momento nessuno era riuscito nemmeno a toccarle una mano.
"Soffre di una detestabile malattia: la virtù. È l'unica vergine rimasta in California, ma per fortuna il rimedio è semplice. Ti piacerebbe conoscerla?"
E fu così che Severo del Valle rivide Lynn Sommers. Fino a quel giorno si era limitato a comprare segretamente, nei negozi per turisti, cartoline che la ritraevano e a nasconderle tra le pagine dei suoi libri di diritto, come un riprovevole tesoro. Aveva fatto diverse volte la ronda nei pressi della sala da tè di plaza de la Unión per vederla da lontano, aveva ottenuto un discreto numero di informazioni grazie al cocchiere che giornalmente andava a ritirare i dolci per zia Paulina, ma non aveva mai osato presentarsi dignitosamente davanti a Eliza Sommers per chiederle il permesso di far visita a sua figlia. Qualsiasi azione diretta gli sembrava un irreparabile tradimento nei confronti di Nívea, la sua dolce fidanzata di sempre; diverso, tuttavia, sarebbe stato incontrare Lynn casualmente, decise, perché in tal caso si sarebbe trattato di uno scherzo del destino di cui nessuno avrebbe potuto rimproverarlo. Non immaginava neanche lontanamente che l'avrebbe vista nello studio del cugino in circostanze così singolari.
Lynn Sommers risultò essere un fortunato frutto di mescolanza razziale. Avrebbe dovuto chiamarsi Lin Chi'en, ma i genitori avevano deciso di anglicizzare i nomi dei propri figli e di dar loro il cognome della madre, Sommers, per rendere più semplice la loro vita negli Stati Uniti, dove i cinesi erano trattati come cani. Il nome del primogenito era Ebanizer, in onore di un vecchio amico del padre, ma tutti lo chiamavano Lucky – fortunato – perché a Chinatown non si era mai visto un ragazzino con una buona stella come la sua. La figlia, nata sei anni dopo, venne chiamata Lin, in omaggio alla prima moglie del padre, che era stata sepolta a Hong Kong parecchi anni prima, ma al momento della registrazione il nome fu trascritto con ortografia inglese: Lynn. La prima moglie di Tao Chi'en, che trasmise il nome alla bambina, era stata una fragile creatura dai minuscoli piedi fasciati, adorata dal marito e stroncata dalla consunzione in giovanissima età. Eliza Sommers aveva imparato a convivere con il pervicace ricordo di Lin e aveva finito per considerarla un membro in più della famiglia, una sorta di invisibile protettrice che vegliava sulla tranquillità del focolare. Vent'anni prima, quando aveva scoperto di essere nuovamente incinta, aveva pregato Lin di aiutarla a portare a termine la gravidanza, perché aveva già avuto diversi aborti e non c'erano molte speranze che il suo fisico stremato riuscisse a trattenere la creatura. Questa fu la spiegazione che diede a Tao Chi'en, che ogni volta, oltre ad aver messo al servizio della moglie le sue risorse di zhong yi, l'aveva portata dai migliori specialisti di medicina occidentale della California.
"Questa volta nascerà una bambina sana," gli garantì Eliza.
"Come lo sai?" domandò il marito
"Perché l'ho chiesto a Lin."
Eliza non dubitò mai che era stata la prima moglie a sostenerla durante la gravidanza, a darle la forza di mettere al mondo la figlia, e poi, come una fatina, a chinarsi sulla culla per offrire alla neonata il dono della bellezza. "Si chiamerà Lin," annunciò prostrata la madre quando alla fine poté stringere sua figlia tra le braccia; ma Tao Chi'en si spaventò: non gli sembrava una buona idea darle il nome di una donna morta così giovane. Alla fine pattuirono che, per non tentare la malasorte, avrebbero modificato l'ortografia. "Si pronuncia allo stesso modo, che è l'unica cosa importante," concluse Eliza.
Da parte di madre, Lynn Sommers ereditò sangue inglese e cileno, da quella paterna, invece, i geni dei cinesi alti del Nord. Il nonno di Tao Chi'en, un umile guaritore, aveva trasmesso ai discendenti maschi le sue conoscenze in materia di piante medicinali e di magici scongiuri contro i più svariati mali del corpo e della mente. Tao Chi'en, l'ultimo della stirpe, aveva accresciuto l'eredità paterna sia facendo pratica come zhong yi presso un saggio di Canton, sia grazie a una vita dedicata allo studio, non solo della medicina cinese tradizionale, ma di tutto ciò che gli capitava tra le mani inerente alla scienza medica occidentale. A San Francisco si era costruito un solido prestigio, i dottori americani lo consultavano e aveva pazienti di tutte le razze, ma non gli veniva permesso di lavorare in ospedale e poteva esercitare la sua professione esclusivamente nel quartiere cinese, dove si era comprato una grande casa che fungeva da ambulatorio al primo piano e da abitazione al secondo. La sua reputazione lo proteggeva: nessuno interferiva nella sua attività con le sing song girls, come venivano chiamate a Chinatown le tristi schiave del traffico sessuale, tutte bambine nel fiore degli anni. Tao Chi'en si era prefisso il compito di riscattarne dai bordelli quante più poteva. I tongs – le bande che controllavano, sorvegliavano e vendevano protezione nella comunità cinese – sapevano che comprava le piccole prostitute per dar loro una nuova opportunità lontano dalla California. Lo avevano minacciato un paio di volte, ma non erano ricorsi a misure più drastiche perché sapevano che presto o tardi chiunque di loro avrebbe potuto aver bisogno dei servigi del celebre zhong yi. Fino a quando Tao Chi'en non si fosse rivolto alle autorità americane, avesse agito senza destare clamore e avesse salvato le ragazze a una a una, con un paziente lavoro da formica, potevano tollerare quella situazione che non pregiudicava comunque gli enormi profitti dell'affare. L'unica persona che trattava Tao come se fosse un pericolo pubblico era Ah Toy, la mezzana di maggior successo di San Francisco, proprietaria di varie case chiuse specializzate in adolescenti asiatiche. Lei da sola importava annualmente centinaia di ragazzine, sotto gli occhi impassibili dei funzionari yankee debitamente corrotti. Ah Toy odiava Tao Chi'en e, come aveva dichiarato in più d'una occasione, preferiva morire piuttosto che tornare a farsi visitare da lui. Si era rivolta a lui una sola volta, vinta dalla tosse, ma in quella occasione, senza bisogno di dichiararselo verbalmente, entrambi avevano capito che sarebbero stati nemici mortali per sempre. Ogni sing song girl riscattata da Tao Chi'en era una spina nel fianco per Ah Toy, anche quando non si trattava di una delle sue ragazze. Per lei, esattamente come per lui, era una questione di principio.
Tao Chi'en si alzava prima dell'alba e si recava in giardino a eseguire gli esercizi di arti marziali per mantenere la forma del corpo e la lucidità della mente. Subito dopo meditava per mezz'ora e poi accendeva il fuoco sotto la teiera. Svegliava Eliza con un bacio e una tazza di tè verde che lei sorbiva lentamente a letto. Per loro rappresentava un momento sacro: la tazza di tè bevuta insieme sigillava la notte trascorsa in uno stretto abbraccio. Quel che accadeva tra di loro oltre la porta chiusa della loro camera compensava tutti gli sforzi del giorno. Per entrambi l'amore era cominciato come una dolce amicizia tessuta sottilmente in mezzo a un ginepraio di ostacoli, dal bisogno di comprendersi in inglese e di vincere i pregiudizi culturali e razziali, agli anni di età che li separavano. Avevano vissuto e lavorato insieme, sotto lo stesso tetto, per più di tre anni prima di osare oltrepassare l'invisibile frontiera che li separava. Era stato necessario che Eliza girasse e rigirasse per migliaia di miglia in un viaggio interminabile a caccia di un ipotetico amante che le sfuggiva tra le dita come un fantasma, che strada facendo riducesse in brandelli il suo passato e la sua innocenza e che affrontasse le sue ossessioni al cospetto della testa mozzata e macerata nel gin del leggendario bandito Joaquín Murieta per capire che il suo destino era a fianco di Tao Chi'en. Lo zhong yi, invece, aveva compreso ciò molto prima e l'aveva attesa con la silenziosa tenacia degli amori maturi.
La notte in cui, infine, Eliza aveva osato percorrere gli otto metri di corridoio che separavano la sua camera da quella di Tao Chi'en, le loro vite erano cambiate completamente, come se un colpo d'ascia avesse reciso il passato alle radici. A partire da quella notte di fuoco, non ci fu più posto per la minima possibilità o tentazione di ripensamento, ma solo la sfida per costruirsi uno spazio in un mondo che non tollerava la mescolanza di razze. Eliza era arrivata a piedi nudi, in camicia da notte, a tentoni nel buio, aveva spinto la porta di Tao Chi'en, sicura di trovarla aperta perché intuiva che lui la desiderava tanto quanto lei, ma nonostante tale certezza era spaventata dalle irreparabili conseguenze della sua decisione. Era stata molto combattuta prima di compiere quel passo, perché per lei quello zhong yi era un tutore, un padre, un fratello, il suo migliore amico, tutta la sua famiglia in quella terra estranea. Temeva di poter perdere tutto diventando la sua amante; ma ormai si trovava già sulla soglia e la smania di toccarlo aveva avuto la meglio sulle sottigliezze della ragione. Entrò nella camera e, alla luce di una candela collocata sul tavolo, lo vide seduto, con le gambe incrociate sul letto, vestito con la tunica e i pantaloni di cotone bianco, lì ad aspettarla. Eliza non riuscì nemmeno a chiedersi quante notti lui poteva aver trascorso così, attento al rumore dei passi in corridoio, perché era stordita dalla sua stessa audacia e tremava per la timidezza e per ciò che la attendeva. Tao Chi'en non le diede il tempo di ripensarci. Le andò incontro, a braccia aperte, e lei avanzò alla cieca fino a sbattere contro il petto in cui sprofondò il viso per aspirare l'aroma a lei così noto, un profumo salino d'acqua di mare, le mani aggrappate alla sua tunica perché le ginocchia le cedevano, mentre un fiume di spiegazioni le sgorgava incontenibile dalle labbra e si mescolava alle parole d'amore che lui sussurrava in cinese. Sentì le braccia che la sollevavano da terra e la depositavano con tenerezza sul letto, sentì il suo respiro tiepido sul collo e le mani che la sostenevano, e allora un'incontenibile angoscia la invase e iniziò a tremare, pentita e spaventata.
Da quando era morta la moglie a Hong Kong, Tao Chi'en si era consolato di tanto in tanto con gli abbracci precipitosi di qualche donna a pagamento. Non faceva l'amore con amore da più di sei anni, ma non permise alla fretta di fargli perdere il controllo. Aveva percorso mentalmente il corpo di Eliza così tante volte e la conosceva talmente bene, che avanzare per i suoi morbidi avvallamenti e le piccole colline fu come procedere con una mappa. Lei credeva di aver conosciuto l'amore tra le braccia del suo primo amante, ma l'intimità con Tao Chi'en mise in evidenza le dimensioni della sua ignoranza. La passione che l'aveva frastornata a sedici anni e le aveva fatto attraversare mezzo mondo e rischiare più volte la vita era stata un gioco di specchi che ora le sembrava assurdo; a quel tempo si era innamorata dell'amore e si era accontentata delle briciole concessele da un uomo più interessato ad andarsene che a stare con lei. L'aveva cercato per quattro anni, convinta che il giovane idealista conosciuto in Cile, in California si fosse trasformato in un fantomatico bandito chiamato Joaquín Murieta. Per tutto quel tempo Tao Chi'en l'aveva aspettata con la sua calma proverbiale, certo che prima o poi lei avrebbe varcato la soglia che li separava. Era toccato a lui accompagnarla quando la testa di Joaquín Murieta era stata esposta per il piacere degli americani e come monito per gli ispanici. Aveva temuto che Eliza non avrebbe retto alla vista di quel ributtante trofeo, ma lei si era piantata davanti all'ampolla di vetro che conteneva la testa del presunto criminale e lo aveva guardato impassibile, come se si trattasse di un cavolo marinato, fino a quando non era stata ben sicura che non si trattava dell'uomo che aveva inseguito per anni. In realtà, la sua identità non aveva importanza, perché nel corso del lungo viaggio sulle tracce di una storia d'amore impossibile, Eliza aveva conquistato un bene prezioso quanto l'amore: la libertà. "Adesso sono libera..." fu tutto quel che disse davanti alla testa. Tao Chi'en comprese che finalmente si era sbarazzata dell'antico amante, che per lei non faceva nessuna differenza che fosse morto o stesse cercando l'oro nelle falde della Sierra Nevada; in ogni caso non l'avrebbe più cercato e se l'uomo un bel giorno fosse ricomparso, sarebbe stata in grado di vederlo nella sua dimensione reale. Tao Chi'en la prese per mano e uscirono dalla lugubre sala d'esposizione. Fuori respirarono l'aria fresca e presero a camminare serenamente, pronti ad affrontare una nuova tappa delle loro vite.
La notte in cui Eliza era entrata nella camera di Tao Chi'en le cose andarono diversamente rispetto agli abbracci clandestini e frettolosi del suo primo amante in Cile. Quella notte scoprì alcune delle molteplici possibilità del piacere e fu iniziata alla profondità di un amore che sarebbe rimasto l'unico per il resto della sua vita. Con infinita pazienza Tao Chi'en la spogliò a poco a poco degli strati di timore accumulati e degli inutili ricordi, la accarezzò con infaticabile perseveranza fino a quando lei smise di tremare e aprì gli occhi, fino a quando si rilassò sotto le sue dita esperte, fino a quando la sentì fluttuare, aprirsi, illuminarsi; la sentì gemere, chiamarlo, supplicarlo; la vide arresa e umida, disposta a consegnarsi e a riceverlo con pienezza: fino a quando nessuno dei due fu più in grado di sapere dove si trovava, chi era, dove finiva uno e cominciava l'altra. Tao Chi'en la condusse oltre l'orgasmo, in una dimensione misteriosa in cui l'amore e la morte si assomigliano. Sentirono che i loro spiriti si espandevano, che i desideri e la memoria scomparivano, che si abbandonavano in un'unica immensa chiarità. Si abbracciarono in quello spazio straordinario riconoscendosi, perché forse erano già stati lì insieme nelle vite precedenti e ci sarebbero tornati più e più volte nelle vite future, come aveva suggerito Tao Chi'en. Erano amanti eterni, continuare a cercarsi e ritrovarsi era il loro karma, disse emozionato; ma Eliza replicò ridendo che non si trattava di niente di tanto solenne come il karma, quanto di semplice desiderio di fornicare e che, a onor del vero, erano parecchi anni che moriva dalla voglia di farlo con lui e che sperava che da quel momento in poi a Tao non venisse meno l'entusiasmo, perché questa era diventata una priorità nella sua vita. Se la spassarono tutta la notte e buona parte del giorno dopo, fino a quando la fame e la sete non li obbligarono a uscire incespicando dalla camera, ebbri e felici, continuando a tenersi per mano per paura di risvegliarsi all'improvviso e scoprire che avevano vagato persi in un'allucinazione.
La passione che da quella notte li unì e che alimentavano con straordinaria dedizione li sostenne e li protesse negli inevitabili momenti di fortuna avversa. Con il tempo quel furore si adattò alla tenerezza e al riso, smisero di esplorare i duecentoventidue modi di fare l'amore perché con tre o quattro ne avevano abbastanza e non c'era più bisogno di sorprendersi reciprocamente. A mano a mano che si conoscevano, cresceva anche l'armonia che li legava. Da quella prima notte d'amore, dormirono avvinghiati in un nodo, respirando la stessa aria e sognando le stesse cose; le loro vite, tuttavia, non erano facili, vivevano insieme da trent'anni in un mondo che non offriva spazi a una coppia come loro. Con il passare del tempo quella minuta donna bianca e quel cinese alto riuscirono a diventare un'immagine familiare a Chinatown, ma non furono mai accettati del tutto. Impararono a non toccarsi in pubblico, a sedere lontani a teatro e a camminare per strada a diversi passi di distanza l'uno dall'altra. In alcuni hotel e in certi ristoranti non potevano entrare insieme e quando si recarono in Inghilterra, lei a visitare la madre adottiva, Rose Sommers, e lui a tenere alcune conferenze sull'agopuntura nella clinica Hobbs, non poterono viaggiare sulla nave in prima classe né condividere la cabina, anche se lei, di notte, se la svignava con circospezione per andare a dormire con lui. Si sposarono discretamente secondo il rito buddhista, ma la loro unione non aveva alcun valore legale. Lucky e Lynn vennero registrati come figli illegittimi riconosciuti dal padre. Dopo infinite pratiche burocratiche e bustarelle, Tao Chi'en aveva ottenuto la cittadinanza ed era uno dei pochi a essere riuscito a farla in barba all'Atto di esclusione dei cinesi, una delle tante leggi discriminatorie in vigore in California. L'ammirazione e la lealtà verso la patria d'adozione erano incondizionate, come ebbe modo di dimostrare durante la Guerra civile, allorché attraversò il continente per presentarsi al fronte come volontario e lavorare come aiutante dei medici yankee per i quattro anni del conflitto, ma ciò nonostante si sentiva profondamente estraneo e, anche se la sua vita fosse trascorsa interamente in America, desiderava che il suo corpo venisse sepolto a Hong Kong.
La famiglia di Eliza Sommers e Tao Chi'en risiedeva in una casa spaziosa e confortevole, più solida e meglio costruita rispetto alle altre dimore di Chinatown. Intorno a loro si parlava fondamentalmente il cantonese e tutto, dal cibo ai giornali, era cinese. Ad alcuni isolati di distanza si trovava La Misión, il quartiere ispanico, in cui Eliza Sommers era solita girovagare per il gusto di parlare spagnolo, anche se la sua giornata trascorreva tra gli americani nei pressi di plaza de la Unión, dove si trovava la sua elegante sala da tè. Con i suoi dolci aveva contribuito fin dall'inizio al mantenimento della famiglia, perché buona parte delle entrate di Tao Chi'en finivano in altre tasche: quel che non veniva destinato al sostegno dei poveri giornalieri cinesi nei periodi di malattia o di disgrazia, andava a finire nelle aste clandestine di piccole schiave. Salvare quelle creature da una vita ignominiosa era diventata la sacra missione di Tao Chi'en, come Eliza aveva compreso fin dall'inizio, accettando tale realtà come una delle prerogative del marito, una delle molte ragioni per cui lo amava. Aveva messo in piedi la sua attività di pasticceria per non tormentarlo con richieste di denaro: aveva bisogno di indipendenza economica per poter dare ai suoi figli la miglior educazione americana, dal momento che desiderava che si integrassero completamente negli Stati Uniti e non fossero sottoposti alle limitazioni cui dovevano sottostare i cinesi e gli ispanici. Con Lynn ce la fece, ma i progetti che aveva per Lucky fallirono, perché il ragazzo era orgoglioso delle sue origini e non aveva intenzione di uscire da Chinatown.
Lynn adorava il padre – come non amare quell'uomo dolce e generoso – ma si vergognava della sua razza. Fin da piccola si rese conto che l'unico spazio consentito ai cinesi era il loro quartiere, nel resto della città erano detestati. Lo sport preferito dei ragazzi bianchi era prendere a sassate i celestiali o tagliar loro la treccia dopo avergliele date di santa ragione. Come sua madre, anche Lynn viveva con un piede in Cina e l'altro negli Stati Uniti; entrambe parlavano solamente inglese e si pettinavano e vestivano secondo la moda americana, per quanto, in casa, indossassero generalmente tunica e pantaloni di seta. Lynn aveva preso poco dal padre, salvo le lunghe ossa e gli occhi orientali, e ancor meno dalla madre: nessuno sapeva da dove le venisse la sua rara bellezza. Non le permisero mai di giocare per strada, come faceva suo fratello Lucky, perché a Chinatown le donne e le bambine delle famiglie benestanti vivevano in totale reclusione. Nelle rare occasioni in cui girava per il quartiere, andava per mano a suo padre e camminava con gli occhi fissi a terra, per non provocare la popolazione, quasi esclusivamente maschile. Entrambi richiamavano l'attenzione, lei per la bellezza e lui perché vestiva come uno yankee. Tao Chi'en aveva rinunciato alcuni anni prima al tipico codino della sua gente e portava i capelli corti, imbrillantinati e pettinati all'indietro, un impeccabile abito nero, camicia dal colletto rigido e tuba. Fuori da Chinatown, invece, Lynn si muoveva in assoluta libertà, come una qualsiasi ragazza bianca. Era stata educata in una scuola presbiteriana in cui aveva appreso i rudimenti del cristianesimo, che sommati alle pratiche buddhiste del padre, avevano finito per convincerla che Cristo fosse la reincarnazione di Buddha. Da sola andava a far compere, alle lezioni di piano e a trovare le compagne di scuola; di pomeriggio si installava nella sala da tè della madre, svolgeva i compiti di scuola e passava il tempo rileggendo i romanzi d'amore che comprava per dieci centesimi o che le spediva Rose da Londra. Furono vani gli sforzi di Eliza Sommers di interessarla alla cucina o a qualsiasi altra attività domestica: sua figlia non sembrava fatta per i lavori di casa.
Crescendo, Lynn conservò quel viso da angelo forestiero e il corpo le si arricchì di curve conturbanti. Per anni erano circolate sue fotografie senza nessuna particolare conseguenza, ma tutto cambiò quando in Lynn, quindicenne, fecero la loro comparsa le forme definitive e lei divenne cosciente della devastante attrazione che esercitava sugli uomini. La madre, terrorizzata dalle possibili ripercussioni di quel terribile ascendente, cercò di mortificare l'istinto di seduzione della figlia, inculcandole norme di modestia e insegnandole a camminare come un soldatino, senza muovere né le spalle né i fianchi, ma fu tutto inutile: gli uomini di qualsiasi età, razza e condizione si voltavano per ammirarla. Quando realizzò quali vantaggi le arrecasse la bellezza, Lynn smise di maledirla, come aveva fatto da piccola, e decise che avrebbe posato come modella per gli artisti per un breve periodo, fino a quando non fosse arrivato un principe su un cavallo alato per condurla verso le gioie del matrimonio. Durante l'infanzia i genitori avevano tollerato le foto delle fate e delle altalene considerandole un capriccio innocente, ma ritenevano estremamente rischioso lo sfoggio della sua nuova immagine di donna davanti alle macchine fotografiche. "Posare non è un mestiere decente: è pura perdizione," concluse tristemente Eliza Sommers, allorché si rese conto che non sarebbe riuscita a distogliere la figlia dalle sue fantasie né a proteggerla dalle trappole della bellezza. Espose le sue inquietudini a Tao Chi'en in uno di quei momenti perfetti in cui riposavano dopo aver fatto l'amore, e lui le spiegò che ognuno ha il suo karma e non è possibile orientare le vite degli altri, a volte è concesso solo di correggere la rotta della propria; ma Eliza non era disposta a permettere che una disgrazia la cogliesse di sorpresa. Aveva sempre accompagnato Lynn quando posava per i fotografi, vigilando sul suo decoro – i polpacci nudi con pretesti artistici erano fuori discussione – e ora che la ragazza aveva diciannove anni era disposta a raddoppiare la scrupolosa sorveglianza.
"C'è un pittore che sta dietro a Lynn. Vuole che posi per un quadro di Salomè," annunciò un giorno al marito.
"Di chi?" chiese Tao Chi'en alzando di poco lo sguardo dall'Enciclopedia medica.
"Salomè, quella dei sette veli, Tao. Leggi la Bibbia."
"Se c'entra la Bibbia non dovrebbero esserci problemi, immagino," mormorò distrattamente.
"Sai com'era la moda ai tempi di Giovanni Battista? Se mi distraggo un attimo dipingeranno tua figlia coi seni all'aria!"
"E allora non distrarti," sorrise Tao cingendo la moglie per la vita, facendola sedere sul librone che teneva aperto sulle ginocchia e raccomandandole di non lasciarsi intimorire dalle trappole dell'immaginazione.
"Oh, Tao... Cosa faremo con Lynn?"
"Niente, Eliza; si sposerà e ci darà dei nipotini."
"Ma è ancora una bambina!"
"In Cina sarebbe già troppo vecchia per trovarsi un fidanzato."
"Siamo in America e non sposerà un cinese," stabilì Eliza.
"Perché? Non ti piacciono i cinesi?" la prese in giro lo zhong yi.
"Non esiste al mondo un altro uomo come te, Tao, ma credo che Lynn sposerà un bianco."
"Stando a quanto mi dicono, gli americani non sanno fare l'amore."
"Potresti sempre insegnarglielo," arrossì Eliza, con il naso nel collo del marito.
Lynn posò per il quadro di Salomè con un costume di seta color carne sotto i veli, sorvegliata dallo sguardo infaticabile della madre, ma Eliza Sommers non poté impuntarsi con la medesima fermezza quando offrirono alla figlia l'immenso onore di fare da modella per la statua della Repubblica, che sarebbe stata innalzata in mezzo a plaza de la Unión. La campagna per raccogliere fondi era durata mesi, la gente contribuiva con quel che poteva, gli scolari con qualche centesimo, le vedove con qualche dollaro e i magnati come Feliciano Rodríguez de Santa Cruz con assegni sostanziosi. I giornali pubblicarono quotidianamente l'importo raggiunto il giorno prima, fino a quando non venne raccolta la somma sufficiente per affidare l'incarico del monumento a un famoso scultore venuto appositamente da Filadelfia per quell'ambizioso progetto. Le famiglie più in vista della città facevano a gara con balli e feste per dare modo all'artista di scegliere le loro figlie; si sapeva già che la modella della repubblica sarebbe diventata il simbolo di San Francisco e tutte le ragazze aspiravano a un simile privilegio. Lo scultore, uomo moderno dalle idee disinvolte, cercò la ragazza ideale per settimane, ma nessuna lo soddisfece. Per rappresentare la florida nazione americana, costituita da valorosi immigrati giunti dai quattro punti cardinali, desiderava qualcuno di razza mista, annunciò. I finanziatori del progetto e le autorità cittadine si spaventarono; i bianchi non riuscivano a immaginare che le persone di un altro colore fossero da ritenere completamente umane e nessuno fu disposto a prendere in considerazione l'ipotesi che a presiedere la città, in cima all'obelisco di plaza de la Unión, fosse una mulatta come voleva quell'uomo. La California era all'avanguardia in fatto d'arte, si ragionava sui giornali, ma la questione della mulatta era davvero troppo. Lo scultore era sul punto di cedere alla pressione e di optare per una discendente di danesi quando, per casualità, entrò nella pasticceria di Eliza Sommers, con l'intenzione di consolarsi con un éclair al cioccolato e vide Lynn. Era la donna che tanto aveva cercato per la sua statua: alta, ben formata, dalla corporatura perfetta, non solo aveva la dignità di un'imperatrice e un viso dai lineamenti classici, ma possedeva anche la cifra esotica che desiderava. In lei c'era qualcosa che andava oltre l'armonia, qualcosa di particolare, un misto di Oriente e Occidente, di sensualità e innocenza, di forza e delicatezza, che lo sedusse completamente. Quando informò la madre di aver scelto la figlia come modella, convinto di fare un immenso onore a quella modesta famiglia di pasticcieri, incontrò una ferma resistenza. Eliza Sommers non ne poteva più di perdere tempo a vegliare su Lynn negli studi dei fotografi, il cui unico lavoro consisteva nel premere un bottone con un dito. L'idea di doverlo fare per quell'ometto che aveva progettato una statua in bronzo di diversi metri d'altezza le risultava insopportabile; ma la prospettiva di rappresentare la repubblica inorgogliva talmente Lynn, che non ebbe il coraggio di rifiutare. Lo scultore faticò non poco a convincere la madre che una tunica corta era la tenuta più appropriata per quell'occasione, perché lei non vedeva alcuna relazione tra la repubblica statunitense e l'abbigliamento dei greci, ma alla fine delle negoziazioni fu stabilito che Lynn avrebbe posato a braccia e gambe nude, ma con i seni coperti.
Incurante delle preoccupazioni della madre per salvaguardare la sua virtù, Lynn viveva persa in un mondo di romantiche fantasie. Salvo il conturbante aspetto fisico, non aveva nulla di particolare; era una ragazza come tutte le altre, che copiava versi su quaderni dalle pagine rosate e collezionava miniature di porcellana. La sua languidezza doveva più alla pigrizia che all'eleganza e la sua malinconia non celava misteri, bensì vacuità. "Lasciatela in pace; fino a quando ci sarò io, a Lynn non mancherà niente," aveva promesso diverse volte Lucky, l'unico a essersi reso conto sul serio di quanto fosse sciocca la sorella.
Maggiore di alcuni anni, Lucky era cinese in tutto e per tutto. Fatta eccezione per le rare occasioni in cui doveva sbrigare qualche pratica legale o farsi fare una fotografia, portava blusa, pantaloni ampi, una fascia in vita e ciabattine dalla suola in legno, sempre accompagnati però da un cappello da cowboy. Non aveva nulla del portamento distinto del padre, della delicatezza della madre o della bellezza della sorella; era basso, tarchiato, con la testa quadrata e la pelle verdognola, ma ciò nonostante risultava attraente per l'irresistibile sorriso e l'ottimismo contagioso che gli derivavano dalla certezza di essere stato segnato dalla buona sorte. Non gli poteva capitare niente di male, pensava, felicità e fortuna gli erano garantite fin dalla nascita. Aveva scoperto quel dono a nove anni, giocando a fan tan per strada con gli altri ragazzini; quel giorno, rincasando, aveva annunciato che da quel momento in poi il suo nome sarebbe stato Lucky – e non Ebanizer – e non si era più girato a rispondere a chi lo chiamava in altro modo. La buona sorte lo seguiva ovunque, vinceva a tutti i giochi d'azzardo del mondo e, benché ribelle e imprudente, non ebbe mai problemi con i tongs o con le autorità dei bianchi. Persino i poliziotti irlandesi si arrendevano davanti alla sua simpatia e, mentre i suoi complici le buscavano, lui si tirava fuori dai guai con una barzelletta o uno dei tanti giochi di prestigio che sapeva fare con le sue prodigiose mani da giocoliere. Tao Chi'en non si rassegnava alla fatuità del suo unico figlio maschio e malediceva quella buona stella che gli permetteva di scansare le fatiche dei comuni mortali. Ciò che desiderava per lui non era felicità, bensì trascendenza. Lo angosciava vederlo transitare per la vita come un uccellino allegro, perché un simile atteggiamento gli avrebbe guastato il karma. Era convinto che l'anima proceda verso il cielo attraverso la compassione e la sofferenza, superando con nobiltà e generosità gli ostacoli, ma se la strada di Lucky era sempre spianata, come avrebbe potuto progredire? Temeva che in futuro si potesse reincarnare in un vermiciattolo. Tao Chi'en avrebbe voluto che il suo primogenito, colui che doveva assisterlo nella vecchiaia e onorare la sua memoria dopo la morte, proseguisse nella nobile tradizione famigliare di guaritore, sognava persino di vederlo diventare il primo medico cinese-americano diplomato; ma Lucky provava avversione per le tisane maleodoranti e gli strumenti dell'agopuntura, non c'era cosa che gli ripugnasse tanto quanto le malattie e non riusciva a comprendere come il padre potesse trarre piacere da una vescica infiammata o da un volto costellato di pustole. Fino a quando non ebbe compiuto i sedici anni e poté tuffarsi nelle strade, dovette assistere nell'ambulatorio Tao Chi'en, che lo perseguitava con i nomi dei rimedi e delle loro applicazioni nel tentativo di insegnargli quell'arte indefinibile di prendere i polsi, equilibrare le energie e identificare gli umori, raffinatezze che gli entravano da un orecchio per uscirgli dall'altro, ma che almeno non lo traumatizzavano come i testi scientifici di medicina occidentale che suo padre studiava con impegno. Gli facevano orrore le immagini dei corpi privi di epidermide, con i muscoli, le vene e le ossa all'aria ma con i mutandoni, così come le operazioni chirurgiche descritte nei più crudi dettagli. Le scuse per allontanarsi dall'ambulatorio non gli mancavano mai, ma era sempre disponibile quando si trattava di nascondere qualcuna delle povere sing song girls che suo padre era solito portare a casa. Questa attività segreta e pericolosa era fatta su misura per Lucky. Nessuno meglio di lui era in grado di trasportare le ragazze esanimi sotto il naso dei tongs, nessuno era più abile nel sottrarle al quartiere non appena si erano riprese a sufficienza, nessuno tanto ingegnoso nel farle sparire nel nulla sulle ali della libertà. Non agiva vinto dalla compassione, come Tao Chi'en, ma esaltato dalla brama di sfidare il rischio e mettere alla prova la sua buona sorte.
Prima di raggiungere i diciannove anni, Lynn Sommers aveva già rifiutato diversi pretendenti e si era abituata agli omaggi maschili che accettava con sdegno regale, dal momento che nessuno dei suoi ammiratori rispondeva all'immagine del principe romantico, nessuno pronunciava le parole che Rose Sommers scriveva nei suoi romanzi, e le sembravano tutti mediocri e indegni di lei. Si convinse di essersi imbattuta nell'eccelso destino che le spettava quando conobbe l'unico uomo che non la guardò una seconda volta, Matías Rodríguez de Santa Cruz. Lo aveva visto da lontano in qualche occasione, per strada o in carrozza con Paulina del Valle, ma non si erano mai rivolti la parola, lui era parecchio più grande, frequentava circoli a cui Lynn non aveva accesso e se non fosse stato per la statua della Repubblica forse non si sarebbero mai incrociati.
Con il pretesto di supervisionare il costoso progetto, nello studio dello scultore si davano appuntamento politici e magnati che avevano contribuito a finanziare la statua. L'artista amava la gloria e la bella vita; mentre lavorava, apparentemente concentrato sul nascente stampo in cui sarebbe stato versato il bronzo, si deliziava della vigorosa compagnia maschile, di bottiglie di champagne, di ostriche fresche e sigari di buona qualità portati dai visitatori. Su una pedana, illuminata da un lucernario del tetto attraverso il quale filtrava la luce naturale, Lynn Sommers si teneva in equilibrio sulle punte dei piedi con le braccia alzate, in una posizione impossibile da mantenere per più di qualche minuto, con una corona d'alloro in una mano e una pergamena con la costituzione americana nell'altra, vestita di una leggera tunica plissettata che le pendeva da una spalla fino alle ginocchia, che le copriva il corpo rivelandolo al contempo. San Francisco era una buona piazza per il nudo femminile; in tutte le taverne erano esposti quadri che raffiguravano odalische tondeggianti, fotografie di cortigiane con il posteriore all'aria e affreschi su gesso con ninfe inseguite da infaticabili satiri; una modella completamente nuda avrebbe risvegliato meno curiosità di quella ragazza che si rifiutava di spogliarsi e non si separava dall'occhio guardingo della madre. Eliza Sommers, vestita di scuro, seduta rigidamente su una sedia vicino alla pedana su cui posava la figlia, la piantonava senza accettare né le ostriche né lo champagne con cui cercavano di distrarla. Quei vecchiardi si recavano lì spinti dalla lussuria e non certo dall'amore per l'arte, questo era chiaro come il sole. Non aveva sufficiente potere per proibire la loro presenza, ma almeno poteva esser certa che la figlia non accettasse inviti e, per quanto era possibile, non ridesse delle loro facezie né rispondesse alle loro assurde domande. "Al mondo nessuno ti dà niente per niente. Per quelle cianfrusaglie pagheresti un prezzo molto alto," la ammoniva quando la ragazza metteva il broncio dopo essere stata obbligata a rifiutare un regalo. Posare per la statua si rivelò un impegno interminabile e noioso da cui Lynn usciva con i crampi alle gambe e intorpidita dal freddo. Erano i primi di gennaio e le stufe negli angoli non riuscivano a riscaldare quello spazio dagli alti soffitti attraversato da correnti d'aria. Lo scultore procedeva con il cappotto indosso a una lentezza sconcertante, disfacendo un giorno il lavoro fatto quello precedente, come se, nonostante le centinaia di bozzetti della Repubblica appesi alle pareti, non avesse un'idea ben chiara.
Un infausto martedì apparve Feliciano Rodríguez de Santa Cruz accompagnato dal figlio Matías. Gli era giunta notizia dell'esotica modella e aveva intenzione di conoscerla prima che venisse eretto il monumento nella piazza e il nome della ragazza apparisse sui giornali trasformandola così in una preda inaccessibile, sempre ammesso che la statua venisse davvero inaugurata. Visti i ritmi, poteva benissimo darsi che, prima di procedere alla colata in bronzo, gli oppositori del progetto vincessero la loro battaglia e tutto si risolvesse in un nulla di fatto; erano in molti a disapprovare l'idea di una Repubblica che non fosse anglosassone. Il vecchio cuore truffaldino di Feliciano, che si agitava ancora sentendo profumo di conquista, si trovava lì per questo. Aveva più di sessant'anni, e il fatto che la modella non ne avesse nemmeno venti non gli sembrava un ostacolo insormontabile; era convinto che fossero ben poche le cose che non si potevano comprare con i soldi. Vedendo Lynn sulla pedana, gli bastò un istante per valutare la situazione, così giovane e vulnerabile, tremante sotto la tunica indecente, in uno studio colmo di uomini pronti a divorarla; ma non fu compassione per la ragazza o paura della concorrenza tra antropofagi a trattenere il suo impulso iniziale di farla innamorare, bensì Eliza Sommers. La riconobbe immediatamente nonostante l'avesse vista pochissime volte. Non sospettava che la modella di cui tanto aveva sentito parlare fosse la figlia di una conoscente di sua moglie.
Lynn Sommers non si rese conto della presenza di Matías fino a mezz'ora dopo, quando lo scultore dichiarò conclusa la sessione e lei poté disfarsi della corona d'alloro e della pergamena e scendere dalla pedana. La madre le mise una coperta sulle spalle e le versò una tazza di cioccolata, accompagnandola al paravento dietro al quale si doveva vestire. Matías si trovava vicino alla finestra, intento a osservare la strada, assorto nei suoi pensieri; i suoi erano gli unici occhi che in quel momento non stessero inchiodati su di lei. Lynn notò immediatamente la bellezza virile, la giovane età e la buona condizione sociale di quell'uomo, il suo abbigliamento raffinatissimo, il portamento altezzoso, la ciocca di capelli castani che lasciava cadere con voluto disordine sulla fronte, le mani perfette con gli anelli d'oro ai mignoli. Stupita dal suo evidente disinteresse, finse di inciampare per richiamare la sua attenzione. Diverse mani si protesero a sostenerla, ma non quelle del dandy alla finestra, che a malapena la spolverò con lo sguardo, totalmente indifferente, come se lei avesse fatto parte della mobilia. E allora Lynn, con la fantasia al galoppo, decise, senza nessuna buona ragione alla quale appigliarsi, che quell'uomo era il cavaliere che da anni i romanzi d'amore le annunciavano: finalmente aveva trovato il suo destino. Mentre si vestiva dietro al paravento i suoi capezzoli erano duri come sassolini.
L'indifferenza di Matías era autentica, non si era accorto davvero della ragazza, si trovava lì per ragioni molto lontane dalla concupiscenza: doveva parlare di soldi con il padre e non aveva trovato altra occasione per farlo. Aveva l'acqua alla gola e necessitava urgentemente di un assegno con cui coprire i debiti di gioco in una bisca di Chinatown. Suo padre lo aveva avvertito che non aveva intenzione di continuare a finanziare tali divertimenti e, se non si fosse trattato di una questione di vita o di morte, come gli avevano fatto chiaramente sapere i creditori, si sarebbe arrangiato prelevando a poco a poco il necessario dalla madre. Questa volta, tuttavia, i celestiali non erano disposti ad attendere e Matías aveva supposto, a ragione, che la visita allo studio dello scultore avrebbe messo suo padre di buon umore e che pertanto sarebbe stato più facile ottenere da lui ciò che desiderava. Solo diversi giorni dopo, mentre faceva baldoria con i suoi amici bohémien, venne a sapere di essere stato in presenza di Lynn Sommers, la ragazza più ambita del momento. Dovette fare uno sforzo per ricordarla e giunse persino a chiedersi se sarebbe stato in grado di riconoscerla incontrandola per strada. Quando si scatenarono le scommesse su chi sarebbe stato il primo a sedurla, puntò per indolenza e poi, con la sua tipica arroganza, annunciò che ci sarebbe riuscito in tre mosse. Il primo passo, disse, sarebbe stato ottenere da Lynn che si recasse da sola alla garçonnière in modo da presentarla ai suoi compari, il secondo, convincerla a posare nuda davanti a loro, e il terzo, fare l'amore con lei, tutto nel giro di un mese. Quando invitò il cugino Severo del Valle a conoscere la donna più bella di San Francisco quel mercoledì pomeriggio, stava tenendo fede al primo punto della scommessa. Era stato facile chiamare Lynn con un cenno discreto dalla finestra della sala da tè della madre, attenderla all'angolo e quando lei, dopo aver inventato qualche pretesto, era uscita, camminare insieme per strada per un paio di isolati, farle qualche complimento che avrebbe provocato l'ilarità di una qualsiasi donna con maggiore esperienza e darle appuntamento nello studio, raccomandandole di presentarsi da sola. Si sentì frustrato perché si era immaginato che la sfida fosse più interessante. Prima del mercoledì dell'appuntamento non dovette nemmeno sforzarsi troppo per sedurla: bastò rivolgerle qualche occhiata languida, sfiorarle la guancia con le labbra, sospirare di tanto in tanto e mormorare un paio delle solite frasette all'orecchio per disarmare la ragazzina che tremava davanti a lui, pronta per l'amore. A Matías quel desiderio tutto femminile di consegnarsi e soffrire risultava patetico, era esattamente ciò che più detestava nelle donne, per questo si trovava così bene con Amanda Lowell, che in comune con lui aveva un atteggiamento di sfrontatezza nei confronti dei sentimenti e di riverenza davanti al piacere. Lynn, ipnotizzata come un topolino davanti al cobra, aveva finalmente trovato un destinatario per l'arte retorica delle epistole amorose e per le sue illustrazioni di donzelle malinconiche e cavalieri impomatati. Non sospettava che Matías mettesse a parte la sua combriccola di quelle romantiche missive. Quando Matías fece per mostrarle a Severo del Valle, questi si rifiutò. Ignorava ancora che la mittente fosse Lynn Sommers, ma l'idea di farsi gioco dell'innamoramento di una candida giovanetta lo ripugnava. "A quanto pare continui a essere un galantuomo, cugino mio; ma non preoccuparti: come per la verginità, anche in questo caso il rimedio è semplice," commentò Matías.
Severo del Valle accettò l'invito del cugino per quel memorabile mercoledì in cui avrebbe conosciuto la ragazza più bella di San Francisco, come gli era stato annunciato, e scoprì di non essere l'unico convocato per l'occasione; c'erano per lo meno una mezza dozzina di bohémien che bevevano e fumavano nella garçonnière insieme alla donna dai capelli rossi che aveva visto per qualche secondo un paio di anni prima, quando si era recato con Williams a riscattare Matías dalla fumeria d'oppio. Sapeva di chi si trattava perché il cugino gli aveva parlato di lei e il suo nome circolava nel mondo degli spettacoli leggeri e della vita notturna. Era Amanda Lowell, grande amica di Matías, con cui era solita ridere all'unisono ripensando allo scandalo che aveva scatenato ai tempi in cui era amante di Feliciano Rodríguez de Santa Cruz. Matías le aveva promesso che alla morte dei genitori le avrebbe regalato il letto di Nettuno che Paulina aveva ordinato a Firenze per dispetto. Della vocazione da cortigiana era rimasto ben poco alla Lowell, che nella maturità aveva scoperto quanto petulante e noiosa fosse la maggior parte degli uomini, ma, nonostante le sostanziali differenze, a Matías era legata da una profonda affinità. Quel mercoledì si mantenne in disparte, sdraiata sul divano a bere champagne, consapevole che una volta tanto il centro dell'attenzione non era lei. Era stata invitata affinché Lynn Sommers non si ritrovasse sola tra uomini al primo appuntamento, circostanza che avrebbe potuto farla recedere intimidita.
Dopo pochi minuti si sentì bussare alla porta e fece il suo ingresso la famosa modella della Repubblica avvolta in una cappa di lana pesante e con un cappuccio calato sulla testa. Quando si tolse la mantella apparve un viso virginale coronato da una chioma nera divisa nel mezzo con una riga e raccolta in un semplice chignon. Severo del Valle sentì il cuore sobbalzare e tutto il sangue affluirgli alla testa, rimbombandogli nelle tempie come il tamburo di un reggimento. Mai avrebbe potuto immaginare che la vittima della scommessa del cugino fosse Lynn Sommers. Non riuscì a spiccicare parola né a salutarla come fecero gli altri; retrocedette in un angolo e lì rimase per tutta l'ora in cui durò la visita della ragazza, con lo sguardo fisso su di lei, paralizzato dall'angoscia. Non poteva avere il minimo dubbio circa il prosieguo della scommessa di quel gruppo di uomini. Vide Lynn Sommers come l'agnello sulla pietra sacrificale, ignaro del suo destino. Una vampata d'odio nei confronti di Matías e della sua combriccola gli salì dalle estremità, mista a una rabbia sorda contro Lynn. Non riusciva a capacitarsi di come la ragazza non si rendesse conto di ciò che stava succedendo, di come non vedesse la trappola di quelle lusinghe dal doppio senso, del bicchiere di champagne che continuavano a riempirle, della perfetta rosa rossa che Matías le fissava ai capelli, tutto così scontato e volgare da nauseare. "Deve essere completamente stupida," pensò disgustato da lei come da tutti gli altri, ma vittima di un amore ineludibile che per anni aveva atteso l'occasione per germogliare e che ora esplodeva frastornandolo.
"Qualcosa non va, cugino?" gli chiese Matías in tono canzonatorio allungandogli un bicchiere.
Non riuscì a rispondere e dovette distogliere il viso per dissimulare le sue intenzioni omicide, ma l'altro, che aveva indovinato i suoi sentimenti, decise di spingere oltre il gioco. Quando Lynn Sommers, dopo aver promesso che sarebbe tornata la settimana successiva per posare davanti alle macchine fotografiche di quegli "artisti", annunciò che doveva lasciarli, Matías chiese al cugino di accompagnarla. E fu così che Severo del Valle si ritrovò da solo con la donna che era riuscita a rintuzzare il caparbio amore per Nívea. Percorse con Lynn i pochi isolati che separavano lo studio di Matías dalla sala da tè di Eliza Sommers in un tale stato di scombussolamento da non riuscire nemmeno a intavolare una banale conversazione. Era tardi per rivelarle della scommessa, sapeva che Lynn era innamorata di Matías con lo stesso terribile ottenebramento con cui lui lo era di lei. Non gli avrebbe creduto, si sarebbe sentita insultata e, anche se le avesse spiegato che per Matías lei non era che un giocattolo, sarebbe comunque andata dritta al macello, accecata dall'amore. Fu lei a rompere l'imbarazzante silenzio chiedendogli se era lui il cugino cileno di cui Matías aveva parlato. Severo capì perfettamente che la ragazza non serbava il benché minimo ricordo del loro incontro di alcuni anni prima, quando lei incollava figurine su un album alla luce delle vetrate di una finestra, non sospettava che lui la amasse da quel giorno con la tenacia del primo amore, non si era nemmeno accorta che faceva la ronda nei pressi della pasticceria e che si incrociavano spesso per la strada. Gli occhi di lei, molto semplicemente, non l'avevano registrato. Congedandosi le diede il suo biglietto da visita, si chinò accennando un baciamano e balbettò che se per caso avesse avuto bisogno di lui, per favore non esitasse a farglielo sapere. A partire da quel giorno evitò Matías e si immerse nello studio e nel lavoro per allontanare dalla mente Lynn Sommers e la vergognosa scommessa. Quando il cugino lo invitò per il mercoledì successivo alla seconda riunione, in cui era previsto che la ragazza si spogliasse, lo insultò. Per diverse settimane non riuscì a scrivere nemmeno una riga a Nívea e neanche a leggere le sue lettere, che conservava sigillate, oppresso dal senso di colpa. Si sentiva abietto, come se anche lui stesse svolgendo un qualche ruolo nella spacconata di disonorare Lynn.
Matías Rodríguez de Santa Cruz vinse la scommessa senza sforzi, ma strada facendo gli venne meno il cinismo e senza volerlo si ritrovò coinvolto in ciò che più temeva al mondo: un legame sentimentale. Non giunse al punto di innamorarsi della bella Lynn Sommers, ma l'amore incondizionato e l'innocenza con cui gli si consegnò, riuscirono a commuoverlo. La ragazza si mise nelle sue mani con totale fiducia, disposta a fare tutto ciò che le veniva chiesto, senza mettere in dubbio le sue intenzioni o calcolarne le conseguenze. Matías ebbe modo di soppesare il potere assoluto che esercitava su di lei quando la vide nuda nella sua mansarda, rossa per l'imbarazzo, coprirsi il pube e i seni con le braccia, in mezzo al cerchio dei suoi compari che fingevano di fotografarla senza celare l'eccitamento che quella crudele carognata risvegliava in loro. Il corpo di Lynn non aveva la forma a clessidra così di moda allora, né fianchi né seni opulenti separati da un vitino impossibile, era magra e sinuosa, aveva gambe lunghe e seni rotondi dai capezzoli scuri, pelle del colore della frutta estiva e un manto di capelli neri e lisci che le ricadevano fino a metà schiena. Matías la ammirò come uno dei tanti oggetti d'arte che collezionava, gli parve deliziosa, ma con soddisfazione verificò che su di lui non esercitava nessuna attrazione. Senza pensare a lei, solo per farsi bello davanti agli amici e per far mostra della sua spietatezza, la invitò di scostare le braccia. Lynn lo guardò per qualche secondo e poi lentamente obbedì, mentre lacrime di vergogna le scorrevano sulle guance. Davanti a quel pianto inatteso nella stanza si produsse un gelido silenzio, gli uomini distolsero lo sguardo e attesero con le macchine fotografiche in mano senza sapere cosa fare per un lasso di tempo che sembrò lunghissimo. Allora Matías, a disagio per la prima volta nella sua vita, prese un soprabito e coprì Lynn, circondandola con le braccia. "Andatevene. La sessione è conclusa," ordinò ai suoi ospiti, che iniziarono a ritirarsi a uno a uno, sconcertati.
Rimasto solo con lei, Matías la fece sedere sulle sue ginocchia e iniziò a cullarla come un neonato, chiedendole scusa mentalmente perché era incapace di formulare le parole, mentre la ragazza continuava a piangere in silenzio. Alla fine la guidò con dolcezza dietro il paravento, verso il letto, e si sdraiò insieme a lei come un fratello, accarezzandole la testa, baciandola sulla fronte, turbato da un sentimento sconosciuto e potentissimo cui non sapeva dare un nome. Non la desiderava, voleva solo proteggerla e restituirle intatta la sua innocenza, ma l'inusitata morbidezza della pelle di Lynn, la sua chioma viva che lo avvolgeva e il suo aroma di mela lo sconfissero. Quel corpo immacolato che gli si consegnava senza riserve aprendosi al contatto con le sue mani riuscì a incantarlo e, senza sapere come, si ritrovò a esplorarla, a baciarla con una trepidazione che mai nessuna donna gli aveva provocato, a introdurre la sua lingua nella bocca, nelle orecchie di lei, ovunque, schiacciandola, penetrandola in un baratro di passione irrefrenabile, cavalcandola senza pietà, accecato, sfrenato, fino a esplodere dentro di lei in un orgasmo devastante. Per un brevissimo istante si trovarono in un'altra dimensione, privi di difese, nudi nel corpo e nello spirito. Matías riuscì a raggiungere la rivelazione di un'intimità che fino ad allora aveva evitato senza nemmeno sapere che fosse possibile, valicò una frontiera estrema e si ritrovò dall'altra parte, privo di volontà. Tra donne e uomini, aveva avuto più amanti di quanto è opportuno ricordare, ma non aveva mai perso in quella maniera il controllo, l'ironia, la distanza, la nozione della sua intangibile individualità, per fondersi semplicemente con un altro essere umano. In un certo modo, anche lui in quell'abbraccio aveva consegnato la sua verginità. Il viaggio non era durato nemmeno un millesimo di secondo, ma era stato sufficiente a terrorizzarlo; ritornò al suo corpo esausto e immediatamente si barricò nell'armatura dell'usuale sarcasmo. Quando Lynn aprì gli occhi, non era più l'uomo con cui aveva fatto l'amore, era tornato quello di prima, ma lei non aveva sufficiente esperienza per rendersene conto. Dolorante, insanguinata e felice, si abbandonò al gioco di specchi di un amore illusorio, mentre Matías continuava a tenerla abbracciata nonostante il suo spirito fosse già lontano. Rimasero così fino a quando la luce alla finestra non svanì completamente e lei realizzò che doveva tornare da sua madre. Matías la aiutò a vestirsi e la accompagnò fino quasi alla sala da tè. "Aspettami, domani verrò alla stessa ora," gli sussurrò congedandosi.
Severo del Valle venne a conoscenza di quanto era successo quel giorno e dei fatti che seguirono solo tre mesi dopo. Nell'aprile del 1879 il Cile aveva dichiarato guerra ai suoi vicini, Perú e Bolivia, per una questione di terre, giacimenti di salnitro e iattanza. Era scoppiata la Guerra del Pacifico. Quando la notizia arrivò a San Francisco, Severo si presentò davanti agli zii e annunciò che andava a combattere.
"Non avevi detto che non ti saresti mai più fatto vedere in una caserma?" gli ricordò zia Paulina.
"Adesso è diverso, la mia patria è in pericolo."
"Tu sei un civile."
"Sono un sergente di riserva," spiegò lui.
"Prima che tu riesca a raggiungere il Cile, la guerra sarà già finita. Vediamo cosa dicono i giornali e cosa pensano in famiglia. Non correre troppo," consigliò la zia.
"È mio dovere," replicò Severo pensando al nonno, il patriarca Agustín del Valle, morto di recente, ridotto alla dimensione di uno scimpanzé, ma con il caratteraccio inalterato.
"Il tuo dovere è qui, con me. La guerra favorisce gli affari. Questo è il momento di speculare sullo zucchero," replicò Paulina.
"Sullo zucchero?"
"Nessuno di quei tre paesi lo produce e in tempi difficili la gente mangia più dolci," garantì Paulina.
"E come lo sa?"
"Per esperienza diretta, ragazzo mio."
Severo si diresse a fare le valigie, ma non si imbarcò sulla nave diretta a sud che salpò alcuni giorni dopo, come aveva progettato, perché partì solo alla fine di ottobre. Quella sera la zia gli annunciò che dovevano ricevere una strana visita e che sperava che lui fosse presente, perché suo marito era in viaggio e la questione poteva rendere necessari gli accorti consigli di un avvocato. Alle sette di sera Williams, con l'aria sdegnata che sfoderava quando si vedeva obbligato a servire persone di condizione sociale inferiore, fece entrare un cinese alto, dai capelli grigi, vestito rigorosamente di nero, e una donnina dall'aspetto giovanile e insignificante, ma altezzosa quanto lo stesso Williams. Tao Chi'en ed Eliza Sommers si ritrovarono nel salone delle fiere, come veniva chiamato, circondati da leoni, elefanti e altre bestie africane che li osservavano dalle cornici dorate appese alle pareti. Paulina vedeva spesso Eliza nella pasticceria, ma non si erano mai incontrate altrove, appartenevano a mondi separati. Il celestiale non lo conosceva nemmeno, e a giudicare dal modo in cui questi la teneva sottobraccio, doveva essere il marito o l'amante. Si sentì ridicola nel suo palazzo di quarantacinque stanze, vestita di raso nero e coperta di diamanti, davanti a quella coppia modesta che la salutava con semplicità, mantenendo le distanze. Notò che il figlio Matías li riceveva turbato, chinando il capo senza tendere loro la mano, e si manteneva lontano dal gruppo dietro a uno scrittoio di palissandro, apparentemente concentrato nella pulizia della pipa. Da parte sua, Severo del Valle indovinò senza ombra di dubbio il motivo della presenza dei genitori di Lynn Sommers in quella casa e desiderò trovarsi a mille leghe di distanza. Incuriosita e con le antenne ben tese, Paulina non perse tempo a offrire qualcosa da bere e fece un cenno a Williams perché si ritirasse e chiudesse le porte. "Che cosa posso fare per voi?" chiese. Allora Tao Chi'en procedette a spiegare, senza scomporsi, che sua figlia Lynn era incinta, che l'autore dell'offesa era Matías e che si aspettava che riparasse a ciò nell'unico modo possibile. Una volta tanto nella vita, la matriarca dei del Valle perse il dono della parola. Rimase seduta, boccheggiando come una balena incagliata, e quando alla fine le uscì la voce fu per emettere un gracchio.
"Madre, non ho niente a che vedere con queste persone. Non le conosco e non so di cosa parlino," disse Matías dallo scrittoio di palissandro, la pipa di avorio intagliato in mano.
"Lynn ci ha raccontato tutto," lo interruppe Eliza alzandosi in piedi, con la voce rotta, ma senza piangere.
"Se quel che volete sono soldi..." iniziò a dire Matías, ma sua madre lo bloccò con uno sguardo feroce.
"Vi prego di perdonarlo," disse rivolgendosi a Tao Chi'en e a Eliza Sommers. "Mio figlio è sorpreso quanto me. Sono sicura che riusciremo a risolvere questa situazione con decoro, come si conviene..."
"Lynn vuole sposarsi, naturalmente. Ci ha detto che vi amate," disse Tao Chi'en, anche lui in piedi, rivolgendosi a Matías, il quale rispose con una breve sghignazzata che suonò come un latrato.
"Mi sembrate persone rispettabili," disse Matías. "Purtroppo vostra figlia non lo è, come qualunque amico mio può testimoniare. Non so chi di loro sia responsabile di questa disgrazia, ma certamente non io."
Eliza Sommers aveva perso completamente colore, era bianca come il gesso, tremava ed era sul punto di svenire. Tao Chi'en la prese con fermezza sottobraccio e, sostenendola come un'invalida, la guidò fino alla porta. Severo del Valle credette di morire per l'angoscia e la vergogna, come se il vero colpevole di tutta la faccenda fosse lui. Si fece avanti per aprire loro la porta e li accompagnò all'uscita, dove li attendeva una vettura a pagamento. Non gli venne in mente niente da dire. Quando tornò nel salone fece in tempo a sentire la fine della discussione.
"Non intendo tollerare che ci siano bastardi del mio sangue sparpagliati qua e là!" gridò Paulina.
"Scelga da che parte stare, madre. A chi crede, a suo figlio o a una pasticciera e a un cinese?" replicò Matías mentre usciva sbattendo la porta.
Quella sera Severo del Valle affrontò Matías. Possedeva informazioni sufficienti per intuire come si fossero svolti i fatti e aveva intenzione di disarmare il cugino con un interrogatorio pressante, che tuttavia non fu necessario perché questi sciorinò immediatamente tutta la storia. Si sentiva intrappolato in una situazione assurda della quale non era responsabile, disse; Lynn Sommers gli era corsa dietro e gli si era consegnata su un piatto d'argento; lui non aveva mai avuto realmente intenzione di sedurla, la scommessa era stata solo una smargiassata. Da due mesi cercava di liberarsi di lei senza portarla alla disperazione, temeva che commettesse qualche sciocchezza, era una di quelle ragazze isteriche capaci di buttarsi in mare per amore, spiegò. Ammise che Lynn era poco più che una bambina e che era arrivata vergine nelle sue braccia, con la testa piena di poesie zuccherose e completamente ignara dei rudimenti del sesso, ma ripeté che non aveva nessun obbligo nei suoi confronti, che non le aveva mai parlato d'amore e men che meno di matrimonio. Le ragazze come lei erano sempre fonte di problemi, aggiunse, per questo le evitava come la peste. Non avrebbe mai immaginato che il breve incontro con Lynn potesse portare a tali conseguenze. Erano stati insieme pochissime volte, disse, e si era sempre raccomandato che poi facesse delle lavande con aceto e senape, non poteva supporre che fosse così spaventosamente fertile. A ogni modo era disposto a farsi carico delle spese del bambino, i soldi erano l'ultimo dei problemi, ma non pensava di dargli il suo cognome, perché non c'era nessuna prova che il padre fosse lui. "Non mi sposerò né ora né mai, Severo. Conosci qualcuno con meno propensioni borghesi di me?" concluse.
Una settimana dopo, Severo del Valle si presentò all'ambulatorio di Tao Chi'en, dopo aver pensato e ripensato mille volte alla scabrosa missione che il cugino gli aveva affidato. Lo zhong yi aveva appena finito di occuparsi dell'ultimo paziente del giorno e lo ricevette da solo nel salottino d'attesa dell'ambulatorio al primo piano. Ascoltò impassibile la proposta di Severo.
"Lynn non ha bisogno di soldi, ci sono i suoi genitori," disse senza lasciar trapelare la minima emozione. "A ogni modo, la ringrazio per il suo interessamento, signor del Valle."
"Come sta la signorina Sommers?" chiese Severo, umiliato dalla dignità di Tao Chi'en.
"Mia figlia pensa ancora che ci sia stato un equivoco. È sicura che presto il signor Rodríguez de Santa Cruz verrà a chiederla in sposa, non per dovere, ma per amore."
"Signor Chi'en, non sa cosa darei per poter cambiare le circostanze. La verità è che mio cugino non gode di buona salute, non può sposarsi. Mi dispiace infinitamente..." mormorò Severo del Valle.
"Dispiace più a noi. Per suo cugino, Lynn è solamente uno svago; per Lynn, lui è tutta la sua vita," disse dolcemente Tao Chi'en.
"Mi piacerebbe dare una spiegazione a sua figlia, signor Chi'en. Posso vederla, per favore?"
"Devo chiederlo a Lynn. Al momento non desidera vedere nessuno, ma se cambia opinione glielo farò sapere," replicò lo zhong yi, accompagnandolo alla porta.
Severo del Valle attese per tre settimane senza ricevere una sola parola da parte di Lynn e alla fine, quando non riuscì più a resistere all'impazienza, si diresse alla sala da tè per supplicare Eliza Sommers di permettergli di parlare con la figlia. Si aspettava di doversi scontrare con un'impenetrabile resistenza e invece lei lo ricevette avvolta nel suo aroma di zucchero e vaniglia con la stessa serenità con cui lo aveva accolto Tao Chi'en. All'inizio Eliza si era colpevolizzata per quanto era accaduto; si era distratta, non era stata capace di proteggere la figlia e ora la sua vita era rovinata. Pianse tra le braccia del marito, finché lui non le ricordò che a sedici anni anche lei aveva sofferto per un'esperienza simile: lo stesso amore smisurato, l'abbandono da parte dell'amato, la gravidanza e il terrore; la differenza era che Lynn non era sola, che non avrebbe dovuto scappare di casa e attraversare mezzo mondo nella stiva di una nave alla caccia di un uomo indegno, come aveva dovuto fare Eliza. Lynn si era rivolta ai suoi genitori e loro avevano la straordinaria fortuna di poterla aiutare, aveva detto Tao Chi'en. In Cina o in Cile, la loro figlia sarebbe stata perduta, la società non l'avrebbe perdonata, ma in California, terra senza tradizioni, c'era spazio per tutti. Lo zhong yi riunì la piccola famiglia e spiegò che il bambino era un regalo del cielo e che dovevano attenderlo con allegria; le lacrime nuocevano al karma, danneggiavano la creatura nel ventre della madre e la destinavano a una vita di incertezza. Quel bambino o bambina, sarebbe stato il benvenuto; lo zio Lucky e lui stesso, il nonno, sarebbero stati degni sostituti del padre assente. E quanto all'amore frustrato di Lynn, be', ci avrebbero pensato più avanti, disse. Sembrava così entusiasta alla prospettiva di diventare nonno che Eliza si vergognò delle sue considerazioni perbeniste, si asciugò le lacrime e non recriminò mai più. Se per Tao Chi'en la tenerezza per la figlia contava più dell'onore famigliare, sarebbe stato così anche per lei, decise; suo compito era proteggere Lynn e tutto il resto non aveva importanza. Quel giorno nella sala da tè spiegò tutto ciò amabilmente a Severo del Valle. Non comprendeva il motivo per cui il cileno insistesse per parlare con la figlia, ma intercedette per lui e alla fine la ragazza accettò di vederlo. Lynn lo ricordava appena, ma lo ricevette con la speranza che venisse in qualità di emissario di Matías.
Nei mesi successivi le visite di Severo del Valle a casa dei Chi'en si trasformarono in un'abitudine. Arrivava all'imbrunire, dopo aver finito di lavorare, lasciava il cavallo legato alla porta e si presentava col cappello in una mano e dei regali nell'altra, così la camera di Lynn si riempì a poco a poco di giocattoli e di vestitini da neonato. Tao Chi'en gli insegnò a giocare a mah jong e, con Eliza e Lynn, trascorsero molte ore a muovere le belle tessere d'avorio. Lucky non partecipava perché gli sembrava una perdita di tempo giocare senza scommettere; Tao Chi'en invece giocava solamente con i suoi famigliari da quando, in gioventù, si era ripromesso di non farlo più per soldi ed era certo che, se fosse venuto meno al patto, gli sarebbe capitata qualche disgrazia. I Chi'en si erano talmente abituati alla presenza di Severo che, quando ritardava, consultavano l'orologio disorientati. Eliza Sommers ne approfittava per tenere allenato il suo spagnolo e rinfrescare i ricordi del Cile, il lontano paese in cui da trent'anni non metteva piede ma che continuava a considerare la sua patria. Commentavano insieme i particolari della guerra e i cambiamenti politici; dopo alcuni decenni di governi conservatori, avevano trionfato i liberali e la battaglia per piegare il potere del clero e attuare le riforme aveva diviso tutte le famiglie cilene. La maggior parte degli uomini, benché cattolica, anelava a modernizzare il paese, ma le donne, molto più religiose, si rivoltavano contro genitori e mariti in difesa della Chiesa. Come spiegava Nívea nelle sue lettere, per quanto liberale fosse il governo la sorte dei poveri era sempre la stessa, e aggiungeva che, così come era sempre stato, le donne dei ceti alti e il clero continuavano a manovrare i fili del potere. Separare la Chiesa dallo Stato era senz'altro un grande passo avanti, scriveva la ragazza di nascosto dal clan dei del Valle, che non tollerava quel tipo di idee, ma a controllare la situazione erano sempre le stesse famiglie. "Fondiamo un altro partito, Severo. Un partito che persegua la giustizia e l'uguaglianza," scriveva, esaltata dalle conversazioni clandestine con suor María Escapulario.
A sud del continente proseguiva la Guerra del Pacifico, sempre più cruenta, mentre gli eserciti cileni si apprestavano a iniziare la campagna militare nel deserto del Nord, un territorio selvaggio e desolato quanto la luna, in cui rifornire le truppe era un'impresa titanica. L'unico modo per trasferire i soldati nei punti in cui si sarebbero ingaggiate le battaglie era via mare, ma la flotta peruviana non era disposta a permetterlo. Severo del Valle riteneva che si andasse profilando una vittoria a favore dell'esercito cileno, imbattibile per organizzazione e ferocia. A determinare l'esito del conflitto non sarebbe stata solo una questione di armamenti e di temperamento bellico, spiegava a Eliza Sommers, ma l'esempio di un manipolo di uomini eroici che era riuscito a infiammare l'anima della nazione.
"Credo che la guerra abbia preso una piega definitiva in maggio, signora, in un combattimento navale di fronte al porto di Iquique. Una decrepita fregata cilena ha combattuto contro un'unità peruviana di molto superiore. Al comando si trovava Arturo Prat, un giovane capitano molto religioso e piuttosto timido, estraneo alle baldorie e alle sfrenatezze dell'ambiente militare, così poco in evidenza che i suoi superiori non confidavano nel suo coraggio. Quel giorno si è trasformato invece nell'eroe che ha galvanizzato lo spirito di tutti i cileni."
Eliza conosceva i particolari, li aveva letti su una vecchia copia del "Times" di Londra, in cui l'episodio era stato descritto come "...uno dei combattimenti più gloriosi che abbiano mai avuto luogo; una vecchia nave di legno, ridotta quasi a pezzi, ha sopportato per quasi tre ore e mezzo l'azione di una batteria di terra e di una potente corazzata giungendo alla fine dello scontro con la bandiera issata". La nave peruviana al comando dell'ammiraglio Miguel Grau, anch'egli un eroe del suo paese, aveva investito la fregata cilena in piena velocità, trapassandola con il rostro, momento di cui aveva approfittato il capitano Prat per andare all'arrembaggio, seguito da uno dei suoi uomini. Entrambi erano morti qualche minuto dopo, colpiti dalle pallottole sulla coperta nemica. Con il secondo speronamento erano saltati molti altri uomini, emulando il loro superiore e morendo anch'essi crivellati di colpi; alla fine, tre quarti dell'equipaggio aveva perso la vita prima che la fregata colasse a picco. Tale sconfinato eroismo aveva trasmesso coraggio ai compatrioti e impressionato a tal punto i nemici che l'ammiraglio Gran aveva ripetuto attonito: "Come si battono questi cileni!".
"Grau è un gentiluomo. Ha raccolto personalmente la spada e gli abiti di Prat e li ha restituiti alla vedova," raccontò Severo e aggiunse che, da quella battaglia, la consegna solenne in Cile era "combattere fino alla vittoria o alla morte" come quei valorosi.
"E lei, Severo, non pensa di andare in guerra?" chiese Eliza.
"Sì, lo farò molto presto," replicò il ragazzo vergognandosi, senza sapere cosa stava aspettando per andare a compiere il proprio dovere. Nel frattempo Lynn iniziò a ingrassare senza perdere una briciola della sua grazia e bellezza. Smise di usare gli indumenti che non le stavano più e indossò comode e allegre tuniche di seta comprate a Chinatown. Usciva molto di rado, nonostante i genitori insistessero perché camminasse. A volte Severo del Valle passava a prenderla in carrozza e la portava a passeggiare al Parque Presidio o sulla spiaggia, dove si sistemavano su uno scialle a fare merenda e a leggere, lui i suoi giornali e i testi giuridici, lei i romanzi d'amore alle cui trame non credeva più ma che le servivano ancora da rifugio. Severo viveva le sue giornate in funzione delle visite a casa dei Chi'en, senza altro obiettivo che vedere Lynn. Ormai non scriveva più a Nívea. Molte volte aveva preso in mano la penna per confessarle che amava un'altra, ma poi aveva distrutto le lettere prima di spedirle perché non trovava le parole giuste per rompere con la fidanzata senza ferirla a morte. Peraltro Lynn non gli aveva mai dato segnali che potessero costituire punti saldi su cui fantasticare un futuro insieme. Non parlavano di Matías, come peraltro lui non si riferiva mai a Lynn, ma la domanda rimaneva sempre in sospeso nell'aria. Severo fece ben attenzione a non parlare della sua nuova amicizia con i Chi'en in casa degli zii e immaginò che nessuno ne avesse sospetto, fatta eccezione per il sussiegoso maggiordomo Williams, a cui non c'era stato bisogno di dirlo, perché l'era venuto a sapere esattamente come veniva a sapere tutto quello che succedeva in quella palazzina. Erano ormai due mesi che Severo arrivava tardi e con un sorriso idiota incollato sulla faccia, quando Williams lo aveva condotto in soffitta e alla luce di una lampada ad alcol gli aveva mostrato una sagoma avvolta in un lenzuolo. Scoprendola, era emersa una culla rilucente.
"È d'argento cesellato, argento delle miniere dei signori in Cile. Ci hanno dormito tutti i bambini di questa famiglia. Se vuole, la prenda," fu tutto quel che disse.
Per la vergogna, Paulina non si fece più vedere nella sala da tè, incapace com'era di rimettere insieme i cocci del suo lungo legame ormai distrutto con Eliza Sommers. Dovette rinunciare ai dolci cileni, che per anni erano stati la sua debolezza, e rassegnarsi alla pasticceria francese del suo cuoco. La sua forza impetuosa, così efficace nello spazzare via gli ostacoli e raggiungere gli obiettivi, ora si ritorceva contro di lei; condannata alla paralisi, si consumava nell'impazienza con il cuore che le sobbalzava in petto. "I nervi mi stanno uccidendo, Williams," si lamentava, costretta per la prima volta nella parte di donna malaticcia. Era certa che, con un marito infedele e tre figli svitati, la cosa più probabile era che ci fosse un buon numero di figli illegittimi con il loro sangue sparsi per il mondo e che quindi non ci fosse ragione di tormentarsi a quel modo; quegli ipotetici bastardi, tuttavia, non avevano né volto né nome, mentre invece questo se lo ritrovava sotto al naso. Se almeno non si fosse trattato di Lynn Sommers! Non poteva dimenticare la visita di Eliza e di quel cinese il cui nome non riusciva a ricordare; l'immagine di quella coppia dignitosa nel suo salone la affliggeva. Matías aveva sedotto la ragazza, nessuna sofisticheria della logica o della convenienza poteva invalidare quella verità che il suo intuito le aveva rivelato fin dal primo momento. I dinieghi del figlio e i suoi sarcastici commenti sulla scarsa virtù di Lynn avevano solo rinsaldato la sua convinzione. Il bambino che quella ragazza portava in grembo provocava in lei un uragano di sentimenti contrastanti; da una parte un'ira sorda nei confronti di Matías, e dall'altra un'inevitabile tenerezza per quel primo nipotino o nipotina. Non appena Feliciano fu tornato dal viaggio, gli raccontò l'accaduto.
"Sono cose che succedono ogni due per tre, Paulina, non c'è bisogno di farne una tragedia. La metà dei ragazzini californiani sono bastardi. L'importante è evitare lo scandalo e serrare le fila intorno a Matías. La famiglia viene per prima," fu l'opinione di Feliciano.
"Quel bambino appartiene alla nostra famiglia," argomentò Paulina.
"Non è ancora nato e già lo annoveri! Conosco quella tal Lynn Sommers. L'ho vista posare mezza nuda nello studio di uno scultore, esibendosi in mezzo a una cerchia di uomini, chiunque di loro può essere il suo amante. Non ci arrivi?"
"Sei tu che non ci arrivi, Feliciano."
"Questa storia si può trasformare in un ricatto perpetuo. Ti proibisco di avere il benché minimo contatto con quella gente e se si avvicinano da queste parti, mi assumo io il compito di sistemare le cose," ratificò Feliciano in un battibaleno.
A partire da quel giorno Paulina non tornò più a parlare della questione davanti al figlio o al marito, ma non riusciva a contenersi e finì per confidarsi con il fedele Williams, che possedeva la virtù di saperla ascoltare sino alla fine senza esprimere la propria opinione se non quando gli veniva richiesta. Se avesse potuto aiutare Lynn Sommers si sarebbe sentita un po' meglio, pensava, ma quella volta la sua ricchezza non poteva nulla.
Quei mesi furono disastrosi per Matías; non solo la storia con Lynn gli faceva ribollire la bile, ma il dolore alle articolazioni gli si acuì a tal punto che dovette smettere di tirare di scherma e rinunciare anche ad altri sport. Si svegliava sempre in preda a uno stato di tale malessere che si chiedeva se non fosse ormai giunto il momento di contemplare il suicidio, idea che accarezzava da quando aveva saputo il nome della sua malattia, ma non appena si alzava dal letto e iniziava a muoversi si sentiva meglio e allora gli tornava con rinnovato entusiasmo la voglia di vivere. Gli si gonfiavano polsi e ginocchia, gli tremavano le mani e l'oppio smise di rappresentare un divertimento delle serate a Chinatown per trasformarsi in una necessità. Era stata Amanda Lowell, la sua buona compagna di baldorie e unica confidente, a spiegargli i vantaggi delle iniezioni di morfina, più efficaci, pulite ed eleganti di una pipa d'oppio: una dose minima, e immediatamente l'angoscia spariva per far posto alla pace. Lo scandalo del bastardo in arrivo finì per guastargli l'animo e a metà estate annunciò all'improvviso che nei giorni a venire sarebbe partito per l'Europa, per vedere se il cambiamento d'aria, le acque termali italiane e i medici inglesi potevano alleviargli i sintomi. Non aggiunse che pensava di ritrovarsi con Amanda Lowell a New York per proseguire insieme la traversata, perché il suo nome non si pronunciava mai in quella casa in cui il ricordo della scozzese dai capelli rossi causava dolori di stomaco a Feliciano e risvegliava la rabbia sorda di Paulina. Oltre agli acciacchi e al desiderio di allontanarsi da Lynn Sommers, ciò che spinse Matías a intraprendere il precipitoso viaggio furono anche nuovi debiti di gioco, come si venne a sapere poco dopo la sua partenza, quando un paio di cinesi guardinghi apparvero nell'ufficio di Feliciano per avvertirlo, con estrema cortesia che, o pagava l'importo dovuto dal figlio, con gli interessi del caso, o qualcosa di francamente sgradevole sarebbe capitato a qualche membro della sua onorevole famiglia. Per tutta risposta il magnate li fece portar fuori di peso dal suo ufficio e buttare per strada e poi chiamò Jacob Freemont, il giornalista esperto di bassifondi della città. L'uomo lo ascoltò con simpatia perché era un caro amico di Matías, e immediatamente lo accompagnò dal capo della polizia, un australiano di dubbia reputazione che gli doveva alcuni favori e a cui chiese di risolvere la questione a modo suo. "L'unico metodo che conosco è sborsare," replicò l'ufficiale prima di accingersi a spiegare che nessuno si metteva contro i tongs di Chinatown. Gli era toccato raccogliere corpi sventrati dalla testa ai piedi, con le viscere accuratamente impacchettate in scatole al loro fianco. Erano vendette tra celestiali, ovviamente, aggiunse; con i bianchi almeno cercavano di simulare un incidente. Non aveva notato quanta gente moriva bruciata in inspiegabili incendi, massacrata da zoccoli di cavallo in una strada solitaria, affogata nelle tranquille acque della baia o schiacciata da mattoni che cadevano in modo inspiegabile da edifici in costruzione? Feliciano Rodríguez de Santa Cruz pagò.
Quando Severo del Valle rese noto a Lynn Sommers che Matías era partito per l'Europa e non progettava di fare ritorno in un futuro prossimo, lei scoppiò a piangere e non smise nei cinque giorni successivi nonostante i tranquillanti che Tao Chi'en le somministrava, fino a quando la madre non decise di mollarle due ceffoni in viso per obbligarla ad affrontare la realtà. Aveva commesso un'imprudenza e ora non poteva che pagarne le conseguenze; non era più una bambina, stava per diventare madre e doveva essere grata di avere una famiglia disposta ad aiutarla, perché altre ragazze nella sua condizione finivano in strada a guadagnarsi da vivere nel peggiore dei modi, mentre i loro figli bastardi andavano a finire negli orfanotrofi; era giunta l'ora di accettare che il suo amante aveva preso il largo, avrebbe dovuto fare da madre e da padre al neonato e maturare una buona volta, perché in quella casa ne avevano già abbastanza di sopportare i suoi capricci; da vent'anni riceveva a piene mani; che non pensasse di poter passare la vita sdraiata su un letto a lamentarsi; forza, che si soffiasse il naso e andasse a vestirsi, visto che sarebbero andate a camminare e, crollasse il mondo, così avrebbero fatto due volte al giorno, piovesse o tuonasse, era stata chiara? Sì, Lynn l'aveva ascoltata sino alla fine con gli occhi fuori dalle orbite per la sorpresa e le guance in fiamme per i primi due schiaffi della sua vita. Si vestì e obbedì, ammutolita. A partire da quel momento, in men che non si dica, venne investita dalla saggezza, si adattò al suo destino con sorprendente serenità, non si lagnò più, ingurgitò i medicamenti di Tao Chi'en, fece lunghe camminate con la madre e fu persino capace di ridere a crepapelle quando venne a sapere che il progetto della statua della Repubblica era andato a monte, come le aveva spiegato il fratello Lucky, e non solo per la mancanza della modella, ma perché lo scultore se l'era svignata in Brasile con i soldi.
Alla fine di agosto, Severo del Valle osò finalmente parlare dei suoi sentimenti a Lynn Sommers. A quell'epoca, lei si sentiva pesante come un pachiderma e non riconosceva la sua faccia allo specchio, ma agli occhi di Severo era più bella che mai. Stavano tornando, accaldati, da una passeggiata quando lui estrasse il suo fazzoletto per tergerle la fronte e il collo senza riuscire a portare a termine il gesto. Senza sapere come, si ritrovò chino su di lei, a sostenerla con fermezza per le spalle e a baciarla sulla bocca in mezzo alla strada. Le chiese di sposarlo e lei gli spiegò con tutta la semplicità del mondo che non avrebbe mai amato un altro uomo oltre a Matías Rodríguez de Santa Cruz.
"Non le chiedo di amarmi, Lynn, l'affetto che io provo per lei basta per entrambi," replicò Severo con il tono un tantino cerimonioso con cui sempre le si rivolgeva. "Il bimbo ha bisogno di un padre. Mi dia la possibilità di proteggere tutti e due e le prometto che con il tempo arriverò a essere degno del suo affetto."
"Mio padre dice che in Cina ci si sposa senza conoscersi e che si impara ad amarsi dopo, ma sono sicura che non sarebbe il mio caso, Severo. Mi dispiace molto..." aggiunse lei.
"Non dovrà vivere con me, Lynn. Non appena avrà partorito me ne andrò in Cile. Il mio paese è in guerra e ho rimandato fin troppo a compiere il mio dovere."
"E se non tornasse dalla guerra?"
"Perlomeno suo figlio avrà il mio cognome e l'eredità di mio padre, che ancora conservo. Non è molto, ma sarà sufficiente per provvedere alla sua educazione. E lei, cara Lynn, avrà rispettabilità..."
Quella stessa notte Severo del Valle scrisse a Nívea la lettera che non era riuscito a scriverle prima. Le disse tutto in quattro frasi, senza scuse né preamboli, perché capì che lei non avrebbe tollerato una maniera diversa. Non osò nemmeno chiederle perdono per averle fatto sprecare tempo e amore nei quattro anni di quel fidanzamento epistolare, perché simili meschini conteggi erano in degni del cuore generoso di sua cugina. Chiamò un domestico incaricandolo di spedire la lettera il giorno successivo e poi si sdraiò vestito sul letto, esausto. Dormì senza sognare per la prima volta da molto tempo. Un mese dopo Severo del Valle e Lynn Sommers si sposarono con una breve cerimonia, in presenza della famiglia di lei e di Williams, l'unico membro della casa che Severo aveva invitato. Sapeva che il maggiordomo l'avrebbe riferito a zia Paulina e decise di attendere che fosse lei a compiere il primo passo rivolgendogli qualche domanda. Non lo annunciò a nessuno perché Lynn aveva chiesto la massima discrezione fino a quando non fosse nato il bambino e lei avesse recuperato il suo aspetto normale; non osava presentarsi con quella pancia che sembrava una zucca e la faccia costellata di macchie, disse. Quella sera Severo si congedò dalla splendida moglie baciandola sulla fronte e si diresse come sempre a dormire nella sua stanza di celibe.
Quella stessa settimana nelle acque del Pacifico era stata ingaggiata un'ulteriore battaglia navale e la flotta cilena aveva messo fuori uso le due corazzate nemiche. L'ammiraglio peruviano, Miguel Grau, il gentiluomo che qualche mese prima aveva restituito la spada del capitano Prat alla vedova, era morto in modo altrettanto eroico. Per il Perú era stata una catastrofe, perché la perdita del controllo marittimo aveva provocato l'interruzione delle comunicazioni e le truppe si erano ritrovate frazionate e isolate. I cileni, impadronitisi del mare, avevano potuto trasferire i battaglioni nei punti nevralgici del Nord, e avevano centrato l'obiettivo di avanzare sul territorio nemico fino a occupare Lima. Severo del Valle seguiva le notizie con la stessa passione dei suoi compatrioti negli Stati Uniti, ma il suo amore per Lynn superava di gran lunga il patriottismo e il viaggio di ritorno non venne anticipato.
La mattina del secondo lunedì d'ottobre Lynn si destò con la camicia da notte fradicia e lanciò un grido di orrore perché credeva di essersi fatta la pipì addosso. "Male. Il sacco si è rotto troppo presto," disse Tao Chi'en a sua moglie, ma alla figlia si presentò sorridente e tranquillo. Dieci ore dopo, quando le contrazioni erano appena percettibili e tutti i membri della famiglia non ne potevano più di giocare a mah jong per distrarre Lynn, Tao Chi'en decise di ricorrere alle sue erbe. La futura madre scherzava con tono di sfida: erano quelli i dolori del parto circa i quali l'avevano tanto messa in guardia? Risultavano più sopportabili dei crampi alla pancia provocati dai cibi cinesi, disse. Più che infastidita era annoiata e aveva fame, ma il padre le permise solo di bere acqua e tisane di erbe medicinali e le praticò l'agopuntura per accelerare il parto. La combinazione di droghe e aghi d'oro fece effetto e al calar della sera, quando Severo del Valle si presentò per la visita quotidiana, trovò Lucky sulla porta, irriconoscibile, e la casa scossa dai gemiti di Lynn e dallo schiamazzare di una levatrice cinese, che si esprimeva a grida e correva con panni e brocche d'acqua. Tao Chi'en tollerava la levatrice perché in quel campo aveva più esperienza di lui, ma non le aveva permesso di torturare Lynn sedendosi su di lei o dandole pugni sul ventre, com'era sua intenzione. Severo del Valle rimase nella sala, schiacciato contro la parete nel tentativo di rendersi invisibile. Ogni gemito di Lynn gli trapanava il cuore; desiderava fuggire il più lontano possibile, ma non riusciva a muoversi dal suo angolino né ad articolare parola. In quel mentre vide apparire Tao Chi'en, impassibile, vestito con l'abituale cura.
"Posso attendere qui? Non disturbo? Come posso aiutare?" balbettò Severo, tergendosi il sudore che gli scorreva sul collo.
"Non disturba affatto, ragazzo, ma non può aiutare Lynn, che deve fare il suo lavoro da sola. Invece può aiutare Eliza che è un po' scossa."
Eliza Sommers era passata attraverso la fatica del parto e sapeva, come ogni donna, che quella era la soglia della morte. Conosceva il viaggio coraggioso e misterioso grazie al quale il corpo si apre per far strada a una nuova vita; ricordava il momento in cui si inizia a rotolare senza freni lungo una discesa, premendo e spingendo in maniera incontrollata, il terrore, la sofferenza e l'incredibile stupore quando, alla fine, il bambino si separa e viene alla luce. Tao Chi'en, con tutta la sua saggezza di zhong yi, ci mise comunque più tempo di lei ad accorgersi che qualcosa andava storto nel caso di Lynn. Le risorse della medicina cinese avevano provocato forti contrazioni, ma la creatura si presentava male ed era bloccata dalle ossa della madre. Era un parto asciutto e difficile, come aveva spiegato Tao Chi'en, ma sua figlia era forte e si trattava solo di farle mantenere la calma e non farla stancare più del necessario; era una gara di resistenza, non di velocità, spiegò. Durante una pausa, Eliza Sommers, sfinita quanto Lynn, uscì dalla stanza e si ritrovò Severo nel corridoio. Gli fece un cenno e lui la seguì, sconcertato, nella cameretta dell'altare, dove non era mai entrato prima. Su un tavolino c'erano una semplice croce, una piccola statua di Kuan Yin, la divinità cinese della compassione, e in mezzo il mediocre disegno a inchiostro di una donna con una tunica verde e due fiori alle orecchie. Vide un paio di candele accese e piattini con acqua, riso e petali di fiori. Eliza si inginocchiò davanti all'altare su un cuscino di seta arancione e chiese a Cristo, a Buddha e allo spirito di Lin, la prima moglie, di intervenire per aiutare la figlia nel parto. Severo rimase in piedi, più indietro, a mormorare, senza rendersene conto, le preghiere cattoliche imparate durante l'infanzia. Rimasero lì per parecchio tempo, uniti dalla paura e dall'amore per Lynn, fino a quando Tao Chi'en chiamò la moglie ad aiutarlo, perché aveva mandato via la levatrice ed era pronto a girare il neonato e tirarlo fuori con le mani. Severo rimase a fumare sulla porta con Lucky mentre Chinatown si risvegliava lentamente.
All'alba del martedì nacque la creatura. La madre, zuppa di sudore e tremante, combatteva per partorire, ma non gridava più, si limitava ad ansimare, prestando attenzione alle indicazioni di suo padre. Alla fine strinse i denti, si aggrappò alle sbarre del letto, spinse con feroce determinazione, e allora spuntò una ciocca di capelli scuri. Tao Chi'en prese la testa e tirò con decisione e dolcezza fino a quando non uscirono le spalle, girò il corpicino e lo estrasse rapidamente con un solo movimento, mentre con l'altra mano liberava il collo dal cordone violetto. Eliza Sommers ricevette un piccolo fagotto insanguinato, una bambina minuscola, con il viso schiacciato e la pelle bluastra. Mentre Tao Chi'en tagliava il cordone e si dava da fare per la seconda fase del parto, la nonna lavò la nipotina con una spugna e le diede qualche pacca sulla schiena fino a quando iniziò a respirare. Quando udì il pianto che annunciava il suo ingresso nel mondo ed ebbe verificato che stava prendendo un colore normale, la posò sul ventre di Lynn. Esausta, la madre si appoggiò su un gomito per accoglierla, mentre il suo corpo continuava a pulsare, e l'accomodò sul seno, baciandola e dandole il benvenuto in un misto di inglese, spagnolo, cinese e qualche parola inventata. Un'ora dopo Eliza chiamò Severo e Lucky a vedere la bambina. La trovarono che dormiva placidamente nella culla di argento cesellato appartenuta ai Rodríguez de Santa Cruz, vestita di seta gialla, con un berrettino rosso che le dava l'aspetto di un minuscolo folletto. Lynn sonnecchiava, pallida e tranquilla, tra lenzuola pulite, e Tao Chi'en, seduto al suo fianco, le controllava il battito.
"Che nome le darete?" chiese Severo del Valle, commosso.
"Lo dovete decidere lei e Lynn," replicò Eliza.
"Io?"
"Non è forse il padre?" chiese Tao Chi'en ammiccando con fare burlone.
"Si chiamerà Aurora perché è nata all'alba," mormorò Lynn senza aprire gli occhi.
"Il suo nome in cinese è Lai Ming, che vuoi dire alba," disse Tao Chi'en.
"Benvenuta al mondo Lai Ming, Aurora del Valle..." sorrise Severo, baciando la neonata in fronte, nella convinzione che quello era il giorno più felice della sua vita e che quella creatura rugosa vestita da bambola cinese era figlia sua, come se avesse il suo sangue. Lucky prese la nipotina in braccio e si dispose a soffiarle sul viso con quel suo alito che sapeva di tabacco e salsa di soia.
"Ma cosa fai!" esclamò la nonna, cercando di strappargliela dalle braccia.
"Le soffio il mio alito per trasmetterle la mia buona stella. Quale altro regalo di valore posso fare a Lai Ming?" rise lo zio.
All'ora di cena, quando Severo del Valle arrivò alla magione di Nob Hill recando la notizia che si era sposato con Lynn Sommers una settimana prima e che quel giorno era nata la loro figlia, gli zii rimasero sconcertati come se avesse depositato un cane morto sul tavolo da pranzo.
"E tutti a dare la colpa a Matías! Lo sapevo io che non era il padre, ma non avrei mai immaginato che fossi tu," sbottò Feliciano non appena si fu riavuto dalla sorpresa.
"Non sono il padre biologico, sono il padre legale. La bambina si chiama Aurora del Valle," chiarì Severo.
"È stata una sfrontatezza imperdonabile! Hai tradito questa famiglia che ti ha accolto come un figlio!" ruggì lo zio.
"Non ho tradito nessuno. Mi sono sposato per amore."
"Ma non era innamorata di Matías quella donna?"
"Quella donna si chiama Lynn ed è mia moglie, pretendo che sia trattata con il debito rispetto," replicò Severo seccamente, alzandosi in piedi.
"Sei un idiota, Severo, un idiota fatto e finito!" lo insultò Feliciano uscendo a grandi falcate furiose dalla sala da pranzo.
L'impenetrabile Williams, che stava entrando in quel momento per sovrintendere al servizio dei dessert, non riuscì a reprimere un rapido sorriso di complicità prima di ritirarsi discretamente. Paulina ascoltò incredula ciò che Severo le comunicava a proposito della sua intenzione di partire nel giro di qualche giorno, per andare a combattere in Cile; Lynn sarebbe rimasta a vivere con i suoi genitori a Chinatown e, se le cose andavano bene, lui sarebbe poi tornato per assumersi il suo ruolo di marito e di padre.
"Siediti, nipote, parliamone da persone normali. Matías è il padre della bambina, vero?"
"Lo chieda a lui."
"Già, già... Ti sei sposato per salvare la faccia a Matías. Mio figlio è un cinico e tu sei un romantico... Certo che rovinarti la vita per un gesto nobile e insensato..." esclamò Paulina.
"Si sbaglia zia. Non mi sono rovinato la vita, al contrario, credo che questa sia la mia unica opportunità di essere felice."
"Con una donna che ama un altro? Con una figlia che non è tua?"
"Il tempo è galantuomo. Se tornerò dalla guerra, Lynn imparerà ad amarmi e la bambina crederà che io sia suo padre."
"Matías potrebbe tornare prima di te," fece notare lei.
"Questo non cambierebbe niente."
"A Matías basterebbe una sola parola perché Lynn lo seguisse in capo al mondo."
"È un rischio inevitabile," replicò Severo.
"Hai perso la testa, nipote. Quella gente non appartiene alla nostra classe sociale," decretò Paulina del Valle.
"È la famiglia più decorosa che conosco, zia," le assicurò Severo.
"Vedo che con me non hai imparato niente. Per avere successo nella vita bisogna fare due conti prima di agire. Sei un avvocato con un brillante futuro e porti uno dei cognomi più antichi del Cile. Credi che la società accetterà tua moglie? E tua cugina Nívea, non ti sta forse aspettando?" chiese Paulina.
"Con lei è finita," disse Severo.
"Bene, bene, ti sei scavato la fossa, Severo, ma mi sembra che sia tardi per i pentimenti. Cerchiamo di ricomporre la situazione per quel che si può. Il denaro e la posizione sociale contano molto, qui come in Cile. Ti aiuterò come potrò, non per niente sono la nonna di quella bambina; come hai detto che si chiama?"
"Aurora, ma i nonni la chiamano Lai Ming."
"Porta il cognome del Valle, è mio dovere aiutarla, visto che Matías se n'è lavato le mani di questa deplorevole situazione."
"Non sarà necessario, zia. Ho disposto tutto affinché Lynn riceva i soldi della mia eredità."
"Di denaro non ce n'è mai troppo. Potrò almeno vedere mia nipote, vero?"
"Lo chiederemo a Lynn e ai suoi genitori," promise Severo del Valle.
Si trovavano ancora nella sala da pranzo quando apparve Williams con un messaggio urgente in cui si annunciava che Lynn aveva avuto un'emorragia e si temeva per la sua vita, che si recasse da lei immediatamente. Severo si diresse a Chinatown come un fulmine. Quando giunse a casa Chi'en trovò i membri della piccola famiglia riuniti intorno al capezzale di Lynn, così immobili da sembrare in posa per un quadro funebre. Vedendo tutto pulito e ordinato, senza tracce del parto, nessun panno sporco né odore di sangue, per un istante lo pervase una folle speranza, ma poi vide l'espressione di dolore sui visi di Tao, Eliza e Lucky. Nella camera l'aria era diventata rarefatta; Severo respirò profondamente e si sentì mancare l'ossigeno, come se si fosse trovato in cima a una montagna. Si avvicinò tremando al letto di Lynn distesa con le mani sul petto, le palpebre chiuse e i lineamenti trasparenti; una bella statua d'alabastro color cenere. Le prese una mano, dura e fredda come il ghiaccio, si chinò su di lei e notò che il suo respiro era a malapena percettibile e che aveva le labbra e le dita blu, le baciò il palmo, in un gesto interminabile, bagnandolo con le sue lacrime, sopraffatto dalla disperazione. Lei riuscì a balbettare il nome di Matías, subito dopo sospirò un paio di volte e se ne andò con la stessa levità con cui era transitata fluttuando nella vita. Un silenzio totale accolse il mistero della morte e per un lasso di tempo impossibile da misurare attesero immobili, mentre lo spirito di Lynn terminava di elevarsi. Severo sentì un urlo prolungato sprigionarsi dal fondo della terra e trapassarlo dalla punta dei piedi alla bocca senza riuscire a venirgli fuori dalle labbra. Il grido lo invase dentro, si impadronì interamente di lui e gli scoppiò nella testa con una silenziosa esplosione. Rimase così, inginocchiato di fianco al letto, a chiamare Lynn senza voce, incredulo davanti a un destino che all'improvviso gli aveva strappato la donna che aveva sognato per anni, e se la portava via proprio quando credeva di averla conquistata. Un'eternità dopo sentì che gli toccavano la spalla e incrociò gli occhi spiritati di Tao Chi en, "su, coraggio" gli sembrò che mormorasse; più indietro vide Eliza Sommers e Lucky singhiozzare abbracciati e capì di essere un intruso nel dolore di quella famiglia. Allora si ricordò della bambina. Si diresse verso la culla d'argento ondeggiando come un ubriaco, prese la piccola Aurora in braccio, la portò vicino al letto e la avvicinò al viso di Lynn, perché dicesse addio a sua madre. Poi si sedette, adagiandosela in grembo per cullarla sconsolato.
Quando Paulina del Valle venne a sapere che Lynn Sommers era morta, ebbe un moto di allegria e giunse persino a emettere un grido di trionfo, prima che la vergogna per un sentimento tanto spregevole la facesse tornare in sé. Aveva sempre desiderato una figlia. Fin dalla prima gravidanza aveva sognato la bambina che avrebbe portato il suo nome, Paulina, e che sarebbe stata la sua migliore amica e compagna. Con ognuno dei tre maschi che aveva partorito si era sentita truffata, ma ora, nella maturità della sua esistenza, le pioveva tra le braccia questo regalo: una nipote che avrebbe potuto crescere come una figlia, qualcuno a cui offrire tutte le possibilità che l'affetto e il denaro potevano garantire, pensava, qualcuno che la accompagnasse nella vecchiaia. Con Lynn Sommers fuori dal gioco, avrebbe potuto ottenere la creatura in nome di Matías. Stava festeggiando quell'incredibile colpo di fortuna con una tazza di cioccolata e tre pasticcini alla crema, quando Williams le ricordò che legalmente la piccina risultava figlia di Severo del Valle, l'unica persona autorizzata a decidere del suo futuro. Meglio ancora, concluse lei, perché almeno il nipote si trovava lì, mentre far tornare Matías dall'Europa e convincerlo a reclamare la figlia sarebbe stata un'impresa dai tempi molto lunghi. Non aveva minimamente previsto la reazione di Severo quando gli spiegò i suoi progetti.
"Agli effetti legali sei tu il padre e quindi puoi portare qui la bambina anche domani," disse Paulina.
"Non lo farò, zia. I genitori di Lynn rimarranno con la nipotina mentre sarò in guerra; vogliono allevarla loro e io sono d'accordo," replicò il nipote con un tono categorico che lei non gli aveva mai sentito usare.
"Sei impazzito? Non possiamo lasciare mia nipote nelle mani di Eliza Sommers e di quel cinese!" esclamò Paulina.
"E perché no? Sono i suoi nonni."
"Vuoi che cresca a Chinatown? Noi possiamo darle un'educazione, possibilità, lusso, un cognome rispettabile. Non possono darle niente del genere, loro."
"Le daranno amore," replicò Severo.
"Anch'io posso dargliene! Ricordati che mi devi molto, nipote. Questa è la tua opportunità per saldare il debito e fare qualcosa per quella bimba."
"Mi dispiace, zia, è già deciso. Aurora rimarrà con i nonni materni."
Paulina del Valle fece una delle tante scenate della sua vita. Non riusciva a credere che quel nipote che riteneva un suo incondizionato alleato, che per lei era diventato come uno dei suoi figli, potesse tradirla in modo così vile. Tanto gridò, insultò, argomentò inutilmente e si adirò, che Williams dovette chiamare un medico che le somministrò una dose di tranquillanti adeguata alla sua stazza per farla dormire un bel pezzo. Quando si risvegliò, trenta ore dopo, il nipote si trovava già a bordo del vapore che l'avrebbe condotto in Cile. Tra il marito e il fedele Williams riuscirono a convincerla che non era il caso di ricorrere alla violenza, come pensava, dal momento che, per quanto la giustizia a San Francisco fosse molto corrotta, non c'era appiglio legale per sottrarre la neonata ai nonni materni, visto che il presunto padre aveva stabilito per iscritto che così doveva essere. Le suggerirono di non ricorrere nemmeno al metodo così triviale di offrire dei soldi in cambio della bambina, perché le si sarebbe potuto ritorcere contro, dandosi la zappa sui piedi. Fino a quando non fosse tornato Severo del Valle e si fosse trovato un accordo, l'unica strada percorribile era la diplomazia, le consigliarono, ma lei non volle sentire ragioni e due giorni dopo si presentò nella sala da tè di Eliza Sommers con una proposta che, ne era cena, l'altra nonna non avrebbe potuto rifiutare. Eliza la ricevette vestita a lutto per la figlia, ma illuminata dalla consolazione di quella nipotina che dormiva placidamente al suo fianco. Alla vista della culla d'argento che era stata dei suoi figli vicino alla finestra, Paulina trasalì, ma immediatamente ricordò di aver dato il permesso a Williams di consegnarla a Severo e si morse le labbra, perché non era lì a combattere per una culla, per quanto preziosa, ma per negoziare per sua nipote. "Non vince chi ha ragione, ma chi contratta meglio," era solita dire. E in quel caso non solo le sembrava evidente che la ragione stava dalla sua, ma anche che nessuno poteva batterla nell'arte del mercanteggiare.
Eliza sollevò la neonata dalla culla e gliela porse. Paulina prese quel minuscolo involto, talmente leggero da sembrare un fagottino di panni, e credette che il cuore fosse sul punto di scoppiarle per via di quel sentimento completamente nuovo. "Dio mio, Dio mio," ripeté spaventata da quell'ignota vulnerabilità che le rammolliva le ginocchia mentre un singulto le trapassava il petto. Si sedette sulla poltrona, con la nipotina spersa nel suo enorme grembo si mise a cullarla, mentre Eliza Sommers ordinava il tè e i dolci che le serviva una volta, ai tempi in cui era la più assidua cliente della sua pasticceria. In quei minuti, Paulina del Valle riuscì a riprendersi dall'emozione e a sistemare l'artiglieria in posizione di sparo. Iniziò porgendole le condoglianze per la morte di Lynn e proseguì ammettendo che suo figlio Matías era indubbiamente il padre di Aurora, bastava vederla per capirlo: era identica a tutti i Rodríguez de Santa Cruz y del Valle. Le dispiaceva molto, aggiunse, che Matías si trovasse in Europa per motivi di salute e non potesse ancora reclamare la bambina. Poi manifestò il desiderio di tenere con sé la nipotina, alla luce del fatto che Eliza lavorava molto, aveva a disposizione poco tempo e pochi mezzi, e senz'altro le sarebbe stato impossibile offrire ad Aurora lo stesso tenore di vita di cui poteva godere nella casa di Nob Hill. Disse tutto ciò col tono di chi concede un favore, cercando di dissimulare l'ansia che le serrava la gola e il tremito delle mani. Eliza Sommers rispose che la ringraziava per la proposta tanto generosa, ma era certa che lei e Tao Chi'en si sarebbero potuti far carico di Lai Ming come Lynn aveva chiesto prima di morire. Naturalmente, aggiunse, Paulina sarebbe sempre stata la benvenuta nella vita della bambina.
"Non dobbiamo creare confusione a proposito del padre di Lai Ming," aggiunse Eliza Sommers. "Come ci avete assicurato lei e suo figlio qualche mese fa, lui non ha avuto niente a che fare con Lynn. Ricorderà che suo figlio affermò chiaramente che il padre della bambina poteva essere uno qualunque dei suoi amici."
"Sono cose che si dicono quando in una disputa ci si accalora, Eliza. Matías lo ha detto senza pensarci..." balbettò Paulina.
"Il fatto che Lynn abbia sposato il signor Severo del Valle prova che suo figlio diceva la verità, Paulina. Mia nipote non ha legami di sangue con lei, ma le ripeto che la potrà vedere tutte le volte che vuole. Più persone le vogliono bene, meglio sarà per lei."
Nella mezz'ora successiva, le due donne si affrontarono come gladiatori, ognuna con il suo stile. Paulina del Valle passò dai salamelecchi alle staffilate, dalle preghiere all'extrema ratio della corruzione e, quando tutto risultò inutile, alle minacce, senza che l'altra nonna si smuovesse dalla sua posizione di mezzo centimetro, salvo per prendere delicatamente la piccola e restituirla alla sua culla. Paulina non avrebbe saputo dire in che momento la rabbia aveva iniziato ad annebbiarle il cervello e lei aveva perso completamente il controllo della situazione finendo con l'urlare che Eliza Sommers si sarebbe resa conto di chi erano i Rodríguez de Santa Cruz, di quanto potere godevano in quella città e di come avrebbe potuto rovinare lei, quello stupido negozio di pasticcini e pure quel cinese, perché a nessuno conveniva farsi nemica Paulina del Valle, e che presto o tardi le avrebbe sottratto la bambina, poteva starne certa, perché non era ancora nato chi poteva metterle i bastoni tra le ruote. Con una manata spazzò via le delicate tazze di porcellana e i dolcetti cileni che atterrarono al suolo in una impalpabile nube di zucchero e uscì sbuffando come un toro da combattimento. Una volta in carrozza, con il sangue che le affluiva alle tempie e il cuore che scalpitava sotto gli strati di ciccia imprigionati nel corsetto, scoppiò a piangere a dirotto, come non faceva da quando aveva messo il chiavistello alla porta della sua camera ed era rimasta sola nel grande letto mitologico. Proprio come allora, le era venuta meno la sua arma migliore: quella capacità di negoziare come un mercante levantino, che tanti successi le aveva arrecato in altri settori della vita. Per eccesso di ambizione, aveva perso tutto.