Esiste un'immagine di me a tre o quattro anni, l'unica di quel periodo sopravvissuta alle vicissitudini del destino e alla decisione di Paulina del Valle di cancellare le mie origini. Si tratta di un cartoncino consunto in un portafoto da viaggio, uno di quei vecchi astucci di velluto e metallo così di moda nel diciannovesimo secolo che oggi nessuno utilizza più. Nella foto si vede una bambina molto piccola, agghindata nello stile delle spose cinesi, con una lunga tunica di satin ricamato su pantaloni di tono diverso; calza delle fini ciabattine dalla suola di feltro bianco protetta da una sottile lamina di legno; i capelli scuri sono rigonfi in uno chignon troppo alto per la sua statura trattenuto da due spilloni, probabilmente d'oro o d'argento, uniti tra loro da una piccola ghirlanda di fiori. La bambina ha in mano un ventaglio aperto e forse sta ridendo, ma i lineamenti si distinguono a malapena, il viso è semplicemente una luna chiara e gli occhi due macchioline nere. Dietro di lei si intuiscono la grande testa di un drago di carta e le stelle splendenti dei fuochi artificiali. La fotografia fu scattata durante i festeggiamenti per il Capodanno cinese a San Francisco. Non ricordo quel frangente e non riconosco la bimba di quell'unica immagine.
Invece mia madre Lynn Sommers appare in molte fotografie che ho riscattato dall'oblio con tenacia e grazie a buoni contatti. Alcuni anni fa sono stata a San Francisco per conoscere zio Lucky e mi sono dedicata a battere librerie e studi fotografici a caccia dei calendari e delle cartoline per cui aveva posato; me ne arrivano ancora, quando zio Lucky li trova. Mia madre era molto bella, è tutto quel che posso dire, perché non riconosco nemmeno lei in queste immagini. Non me la ricordo, ovviamente, visto che morì quando io sono nata, ma comunque la ragazza dei calendari è un'estranea, non ho niente di lei, non riesco a visualizzarla come madre, ma solo come un gioco di luci e ombre sulla carta. Non sembra neppure sorella di zio Lucky, un cinese tarchiato, dalla testa grande e l'aspetto volgare, ma gran brava persona. Assomiglio di più a mio padre, ho la sua aria spagnola; sfortunatamente ho preso ben poco dalla razza del mio straordinario nonno Tao Chi'en. Se non fosse per quel nonno, che è il ricordo più perseverante e nitido della mia vita, il più antico amore contro il quale si scontrano tutti gli uomini che ho conosciuto perché nessuno è in grado di eguagliarlo, stenterei a credere di avere sangue cinese nelle vene. Tao Chi'en vive sempre con me. Posso vederlo, slanciato, aitante, sempre vestito impeccabilmente, capelli grigi, occhiali rotondi e uno sguardo irrimediabilmente buono negli occhi a mandorla. Nelle mie evocazioni sorride sempre, a volte lo sento cantarmi in cinese. Mi protegge, mi accompagna, mi guida, proprio come disse a nonna Eliza che avrebbe fatto dopo la morte. C'è un dagherrotipo di quei due nonni da giovani, prima del matrimonio: lei seduta su una sedia dallo schienale alto e lui in piedi dietro, entrambi vestiti secondo la moda americana del tempo, che guardano l'obiettivo di fronte a loro con una vaga espressione di timore. Quest'immagine, che ho finalmente riscattato, la tengo sul comodino ed è l'ultima cosa che vedo ogni sera prima di spegnere la luce, ma mi sarebbe piaciuto averla con me durante l'infanzia, quando avevo così bisogno della presenza di quei nonni.
Fin dai miei primi ricordi, mi ha sempre tormentato lo stesso incubo. Le immagini di quel sogno insistente rimangono con me per ore, guastandomi la giornata e l'anima. È sempre la stessa sequenza: cammino per le strade vuote di una città sconosciuta ed esotica, sono per mano a qualcuno il cui viso non riesco a scorgere, vedo solo le sue gambe e la punta di un paio di scarpe luccicanti. All'improvviso ci circondano alcuni bambini in tunica nera che danzano un girotondo feroce. Una macchia scura, forse sangue, si sparge sull'acciottolato, mentre il cerchio dei bambini si chiude inesorabile, sempre più minaccioso, attorno alla persona che mi tiene per mano. Ci accerchiano, ci spingono, ci strattonano, ci separano; cerco la mano amica e trovo il vuoto. Grido senza voce, cado senza rumore e allora mi sveglio col cuore in gola. A volte trascorro diversi giorni in silenzio, consumata dal ricordo del sogno, cercando di penetrare le cappe di mistero che lo avvolgono, di cogliere qualche particolare passato inosservato fino a quel momento che mi offra la chiave del suo significato. In quei giorni mi prende una forma di febbre fredda che induce il mio corpo a ripiegarsi su se stesso e la mente a restare imprigionata in una landa gelida. In quella sorta di paralisi rimasi durante le prime settimane a casa di Paulina del Valle. Avevo cinque anni quando mi portarono alla villa di Nob Hill e nessuno si prese la briga di spiegarmi per quale motivo la mia vita all'improvviso stesse subendo quel drammatico rovescio, dove fossero i miei nonni Tao ed Eliza, chi fosse quella signora monumentale coperta di gioielli che mi osservava da un trono con gli occhi pieni di lacrime. Come mi hanno raccontato in seguito, corsi a nascondermi sotto un tavolo e rimasi lì, come un cane impaurito. A quell'epoca Williams era il maggiordomo dei Rodríguez de Santa Cruz – davvero si stenta a crederlo – e fu lui, il giorno successivo, a farsi venire in mente lo stratagemma di darmi da mangiare su un vassoio legato a una corda; tirarono gradualmente la corda e, quando alla fine non ne potei più dalla fame, cominciai a strisciare dietro il vassoio fino a che non riuscirono a stanarmi dal mio rifugio; ma ogni volta che mi svegliavo da quell'incubo tornavo a nascondermi sotto il tavolo. Andò così per un anno, fino a quando non ci trasferimmo in Cile e nel trambusto del viaggio e della sistemazione a Santiago mi passò quella mania.
Il mio incubo è in bianco e nero, silenzioso e inappellabile, dotato di un'impronta di eternità. Credo ormai di possedere sufficienti elementi per poter scoprire la chiave del suo significato, ma non per questo ha smesso di tormentarmi. Per colpa dei miei sogni sono diversa, come quelle persone che a causa di un parto difficile o di una deformità devono realizzare uno sforzo costante per condurre un'esistenza normale. Loro mostrano segni visibili, il mio non si vede ma esiste, posso paragonarlo a crisi epilettiche che assalgono all'improvviso lasciando dietro di sé una scia di confusione. Di sera vado a letto piena di timori, non so cosa succederà mentre dormo, né come mi sveglierò. Ho provato vari rimedi contro i miei demoni notturni, dal liquore d'arancia con qualche goccia d'oppio, all'ipnosi e altri metodi negromantici, ma niente mi garantisce un sonno tranquillo, se non la buona compagnia. Dormire abbracciata a qualcuno, per ora, è l'unico rimedio sicuro. Dovrei sposarmi, come mi suggeriscono tutti, ma l'ho già fatto una volta ed è andata disastrosamente, non posso tentare di nuovo la sorte. A trent'anni e senza un marito sono praticamente un mostro, le mie amiche mi guardano con aria di compassione, anche se a volte qualcuna invidia la mia indipendenza. Non sono sola, ho un amore segreto, privo di legami e di patti, che sarebbe fonte di scandalo ovunque, e qui dove ci tocca vivere in modo particolare. Non sono né nubile né vedova né divorziata, vivo nel limbo delle "separate", dove vanno a finire le sfortunate che preferiscono il pubblico ludibrio a una vita con un uomo che non amano. Potrebbe forse andare diversamente in Cile, dove il matrimonio è eterno e inesorabile? In alcune straordinarie mattine, quando il mio corpo e quello del mio amante, madidi di sudore e indeboliti dalla notte condivisa, giacciono ancora in quello stato semincosciente di totale tenerezza, felici e fiduciosi come bambini addormentati, cediamo alla tentazione di parlare di matrimonio, di andare a vivere altrove, negli Stati Uniti, ad esempio, dove c'è molto spazio e nessuno ci conosce, per vivere insieme come una qualsiasi coppia normale. Poi però ci svegliamo con il sole che fa capolino alla finestra e smettiamo di parlarne, perché entrambi sappiamo che non riusciremmo a vivere in un luogo che non sia questo Cile di cataclismi geologici e grettezze umane, ma anche di impervi vulcani e di cime innevate, di laghi senza tempo disseminati di smeraldi, di fiumi spumeggianti e boschi odorosi, un paese sottile come un nastro, patria di gente povera e ancora innocente nonostante i tanti e svariati abusi. Né lui potrebbe abbandonarlo, né io potrei stancarmi di fotografarlo. Mi piacerebbe avere dei figli, questo sì, ma alla fine ho accettato l'evidenza che non sarò mai madre; non sono sterile, sono fertile per altri aspetti. Nívea del Valle sostiene che un essere umano non si definisce per la sua capacità di riprodursi, tesi piuttosto ironica se sostenuta da lei, che ha dato alla luce più di una dozzina di ragazzini. Ma sono qui non tanto per parlare dei figli che non avrò o del mio amante, bensì degli eventi che hanno determinato la mia identità. Mi è chiaro che per redigere queste memorie devo tradire qualcuno, è inevitabile. "Ricordati che i panni sporchi si lavano in casa," mi ripete Severo del Valle, che è stato educato, come tutti noi, con questa consegna. "Scrivi con onestà e non preoccuparti dei sentimenti degli altri, tanto, qualunque cosa dirai ti odieranno comunque," mi consiglia, invece, Nívea. Avanti, dunque.
Vista l'impossibilità di sconfiggere i miei incubi, cerco almeno di trarne qualche giovamento. Ho constatato che dopo una notte tormentata rimango in uno stato di allucinazione e con i nervi scoperti, condizione favorevolissima alla creazione. Le mie migliori fotografie sono state scattate in giorni così, quando il mio unico desiderio era nascondermi sotto il tavolo, come facevo nei primi tempi a casa di mia nonna Paulina. È stato il sogno dei bambini con la tunica nera a portarmi alla fotografia, ne sono certa. Quando Severo del Valle mi regalò una macchina fotografica, il mio primo pensiero fu che se fossi riuscita a ritrarre quei demoni, li avrei sconfitti. A tredici anni ci provai diverse volte. Inventai complicati meccanismi di rotelline e corde che facessero scattare una macchina fissa mentre dormivo, ma poi mi fu chiaro che quelle malefiche creature erano invulnerabili alla tecnologia. Un oggetto o un corpo dall'aspetto comune, se osservati con vera attenzione, si trasformano in qualcosa di sacro. La macchina fotografica può rivelare i segreti che l'occhio nudo o la mente non colgono, sparisce tutto tranne quello che viene messo a fuoco con l'obiettivo. La fotografia è un esercizio di osservazione e il risultato è sempre un colpo di fortuna: tra le migliaia di negativi che riempiono diversi cassetti del mio studio quelli eccezionali sono veramente pochi. Mio zio Lucky Chi'en si sentirebbe piuttosto defraudato se sapesse che scarso effetto ha avuto il suo soffio della buona stella sul mio lavoro. La macchina fotografica è uno strumento semplice, anche il più stupido può usarla, la sfida consiste nel creare attraverso di essa quella combinazione tra verità e bellezza chiamata arte. È una ricerca soprattutto spirituale. Cerco verità e bellezza nella trasparenza di una foglia d'autunno, nella forma perfetta di una chiocciola sulla spiaggia, nella curva di una schiena femminile, nella consistenza di un vecchio tronco d'albero e anche in altre sfuggenti forme della realtà. Alcune volte, mentre lavoro su un'immagine nella mia camera oscura, fa la sua comparsa l'anima di una persona, l'emozione di un evento o l'essenza vitale di un oggetto, e allora il cuore mi trabocca di felicità e libero il pianto, non riesco a farne a meno. Sono queste le rivelazioni cui aspira il mio lavoro.
Severo del Valle ebbe a disposizione diverse settimane di navigazione per piangere Lynn Sommers e meditare su quel che sarebbe stato del resto della sua vita. Si sentiva responsabile di Aurora, e prima di imbarcarsi aveva redatto un testamento affinché la piccola eredità ricevuta dal padre e i suoi risparmi andassero direttamente a lei nel caso in cui fosse venuto a mancare. Nel frattempo, la bambina avrebbe ricevuto gli interessi mensili. Sapeva che i genitori di Lynn avrebbero avuto cura di lei meglio di chiunque altro e supponeva che, per grande che fosse la sua prepotenza, zia Paulina non avrebbe provato a sottrargliela con la forza, perché il marito non le avrebbe permesso di trasformare la questione in uno scandalo pubblico.
Seduto a prua dell'imbarcazione, con lo sguardo perso nel mare infinito, Severo giunse alla conclusione che non si sarebbe mai consolato della perdita di Lynn. Senza di lei non desiderava vivere. Morire in battaglia era quanto di meglio poteva riservargli il futuro: morire subito e in fretta era tutto ciò che chiedeva. Per mesi l'amore per Lynn e la decisione di aiutarla gli avevano calamitato tempo e attenzione; per questo motivo aveva posticipato di giorno in giorno il rientro, mentre tutti i cileni della sua età si arruolavano in massa per andare a combattere. A bordo si trovavano altri ragazzi guidati dallo stesso proposito di ingrossare le fila dell'esercito – vestire l'uniforme era una questione d'onore – coi quali si riuniva per analizzare le notizie sulla guerra trasmesse via telegrafo. I quattro anni trascorsi da Severo in California avevano finito per sradicarlo dal suo paese, aveva risposto all'appello della guerra per abbandonarsi al suo dolore, ma non provava il minimo ardore bellico. Tuttavia, a mano a mano che la nave si avvicinava al Sud, venne contagiato dall'entusiasmo degli altri. Tornò a pensare di servire il Cile come aveva desiderato fare all'epoca della scuola, quando discuteva di politica con gli altri studenti nei caffè. Immaginava che i suoi antichi compagni stessero già combattendo da mesi, mentre lui aveva gironzolato per San Francisco ingannando il tempo che mancava alle visite a Lynn e alle partite a mah jong. Come avrebbe potuto giustificare simile codardia di fronte ad amici e parenti? L'immagine di Nívea lo assaliva durante quelle elucubrazioni. Sua cugina non avrebbe capito il ritardo con cui tornava a difendere la patria, perché, ne era convinto, se fosse stata un uomo, sarebbe stata la prima a partire per il fronte. Meno male che non ci sarebbero stati chiarimenti con lei, sperava di morire crivellato di colpi prima di rivederla; per affrontare Nívea, dopo che si era comportato così male con lei, c'era bisogno di più coraggio di quello richiesto per combattere il più crudele nemico. La nave avanzava a una lentezza sfibrante, a quel ritmo sarebbe arrivato in Cile a guerra conclusa, calcolava con ansia. Nonostante il vantaggio numerico dell'avversario e l'arrogante inettitudine degli alti ranghi militari cileni, era sicuro che la vittoria sarebbe stata loro. Il comandante supremo dell'esercito e l'ammiraglio della flotta erano un paio di vecchietti che non riuscivano a trovare un accordo sulla più elementare strategia, ma i cileni potevano contare su una maggior disciplina militare rispetto ai peruviani e ai boliviani. "È stato necessario che Lynn morisse per farmi decidere a tornare in Cile a compiere il mio dovere patriottico, faccio schifo," biascicava tra sé e sé, vergognandosi.
Quando il vapore ancorò nella baia, il porto di Valparaíso brillava nella luce radiosa di dicembre. Entrando nelle acque territoriali del Perú e del Cile si erano intraviste alcune navi delle flotte dei due paesi in esercitazione, ma fino a quando non attraccarono a Valparaíso non si respirò aria di guerra. L'aspetto del porto era molto diverso da come Severo lo ricordava. La città era militarizzata, c'erano truppe acquartierate in attesa di trasferimento, la bandiera cilena sventolava sugli edifici e si notava un gran movimento di scialuppe e rimorchiatori attorno a diverse navi dell'armata, mentre scarseggiavano le imbarcazioni civili. Severo aveva annunciato a sua madre la data dell'arrivo ma non si aspettava di trovarla al porto, perché già da un paio d'anni viveva a Santiago con i figli minori e il viaggio dalla capitale era molto faticoso. Per questo motivo non fece nemmeno lo sforzo di scrutare il molo alla ricerca di un conoscente come faceva la maggior parte dei passeggeri. Prese la sua valigetta, diede qualche moneta a un marinaio affinché si occupasse dei suoi bauli e scese lungo la passerella respirando a pieni polmoni l'aria salmastra del paese in cui era nato. Quando mise piede a terra, vacillò come un ubriaco; durante le settimane di navigazione si era abituato al su e giù delle onde e ora faticava a camminare sulla terraferma. Chiamò un facchino con un fischio per farsi aiutare con il bagaglio e si dispose a cercare una vettura che lo portasse a casa di nonna Emilia, dove pensava di fermarsi un paio di notti, il tempo necessario per prendere servizio nell'esercito. In quel momento si sentì toccare un braccio. Si girò sorpreso e si ritrovò faccia a faccia con l'ultima persona al mondo che desiderava vedere: sua cugina Nívea. Ebbe bisogno di un paio di secondi per riconoscerla e per riprendersi dallo choc. La ragazza che aveva lasciato quattro anni prima si era trasformata in una donna sconosciuta, sempre bassa, ma molto più magra e dal corpo ben tornito. L'unico particolare rimasto invariato era l'espressione intelligente e concentrata del suo viso. Indossava un abito estivo di taffettà azzurro e un cappello di paglia con un grande nastro di organza bianco allacciato sotto il mento, a incorniciare il viso ovale dai lineamenti fini in cui gli occhi neri brillavano inquieti e scherzosi. Era sola. Severo non fu in grado di salutarla, rimase a guardarla a bocca aperta finché non riacquistò lucidità e riuscì a chiederle, turbato, se avesse ricevuto la sua ultima lettera, riferendosi a quella in cui le annunciava il suo matrimonio con Lynn Sommers. Siccome da quella volta non le aveva più scritto, immaginò che sua cugina non sapesse nulla della morte di Lynn e della nascita di Aurora, e che quindi non potesse immaginarsi che era diventato vedovo e padre senza essere mai stato marito.
"Di questo parleremo poi, per ora lascia che ti dia il benvenuto. C'è una carrozza che ci aspetta," lo interruppe lei.
Una volta che i bauli furono sistemati, Nívea ordinò al cocchiere di procedere lentamente passando per il lungomare; avrebbero così avuto modo di parlare prima di arrivare a casa, dove lo attendeva il resto della famiglia.
"Mi sono comportato in modo disumano con te, Nívea. L'unica cosa che posso dire a mia discolpa è che non ho mai avuto intenzione di farti soffrire," mormorò Severo senza osare guardarla.
"Non posso negare di essere andata su tutte le furie, Severo, dovevo mordermi la lingua per non maledirti, ma ora non ti serbo più rancore. Credo che tu abbia sofferto più di me. Davvero, mi dispiace molto per quello che è successo a tua moglie."
"Come fai a saperlo?"
"Ho ricevuto un telegramma con la notizia da parte di un certo Williams."
La prima reazione di Severo fu d'ira, come si permetteva il maggiordomo di immischiarsi in questo modo nella sua vita privata, ma poi non riuscì a reprimere un moto di gratitudine perché quel telegramma gli evitava spiegazioni dolorose.
"Non spero che tu mi perdoni, Nívea, ma solo che mi dimentichi. Tu, più di chiunque altro, meriti di essere felice..."
"Chi ti ha detto che desidero essere felice, Severo? È l'ultimo aggettivo che mi verrebbe in mente di usare per definire il futuro al quale aspiro. Voglio una vita interessante, avventurosa, diversa, appassionata, insomma qualsiasi cosa tranne che felice."
"Ah, cugina mia, è fantastico vedere quanto poco tu sia cambiata! A ogni modo, nel giro di un paio di giorni sarò in marcia con l'esercito verso il Perú e spero sinceramente che la morte mi colga in piedi, perché la mia vita non ha più senso."
"E tua figlia?"
"Vedo che Williams ti ha fornito tutti i particolari... Ti ha anche detto che non sono il padre della bambina?" chiese Severo.
"E chi è?"
"Non ha importanza. Agli effetti legati è mia figlia. È affidata ai nonni e non le mancherà nulla, ho ben provveduto a lei."
"Come si chiama?"
"Aurora."
"Aurora del Valle... bel nome. Cerca di ritornare sano e salvo dalla guerra, Severo, perché quando ci sposeremo quella bimba diventerà senz'altro la nostra prima figlia," disse Nívea arrossendo.
"Come hai detto?"
"Ti ho aspettato per tutta la vita e posso tranquillamente continuare ad aspettarti. Non c'è fretta, ho molte cose da fare prima di sposarmi. Sto lavorando."
"Lavorando? Perché?" chiese Severo scandalizzato, dato che nessuna donna della sua famiglia o di qualsiasi altra famiglia che conoscesse lavorava.
"Per imparare. Zio José Francisco mi ha assunto per farmi organizzare la sua biblioteca e ho il permesso di leggere tutto quel che mi pare. Ti ricordi di lui?"
"Lo conosco molto poco; non è quello che ha sposato un'ereditiera e ha un palazzo a Viña del Mar?"
"Proprio lui, è un parente di mia madre. Non ho mai conosciuto un uomo più saggio e più buono, e pure così attraente, anche se non quanto te," rise lei.
"Non prendermi in giro, Nívea."
"Era bella tua moglie?" chiese la ragazza.
"Molto bella."
"Dovrai viverti il tuo dolore, Severo. Magari la guerra ti aiuterà. Si dice che le donne molto belle siano indimenticabili; spero che impari a vivere senza di lei, pur non dimenticandola. Pregherò perché tu possa innamorarti di nuovo e speriamo che sia di me..." sussurrò Nívea prendendogli una mano.
E allora Severo avvertì un dolore terribile al torace, quasi un colpo di lancia che gli trapassava le costole, e gli sfuggì dalle labbra un gemito seguito da un pianto incontrollabile che lo scuoteva interamente, mentre ripeteva singhiozzando il nome di Lynn, Lynn, mille volte Lynn. Nívea lo attirò a sé e lo circondò con le sue braccia minute, dandogli piccole pacche consolatorie sulla schiena, come se fosse un bambino.
La Guerra del Pacifico iniziò per mare e proseguì per terra, con combattimenti corpo a corpo, baionette inastate e coltelli curvi, nei più aridi e spietati deserti del mondo, nelle province che attualmente costituiscono il Nord del Cile, ma che prima della guerra appartenevano al Perú e alla Bolivia. Gli eserciti di questi due paesi non erano sufficientemente preparati per simili scontri, erano numericamente scarsi, male armati e il sistema di rifornimento era talmente inadeguato che diverse battaglie e scaramucce si decisero per mancanza d'acqua o perché le ruote dei carri carichi di casse di munizioni si erano arenate nella sabbia. Il Cile era un paese espansionista, con una solida economia, dotato della miglior flotta dell'America del Sud e di un esercito di più di settantamila uomini. Godeva della reputazione di paese dal forte senso civico in un continente di rozzi cacicchi, corruzione sistematica e sanguinose rivoluzioni. L'austerità del carattere cileno e la saldezza delle sue istituzioni erano l'invidia delle nazioni vicine; le sue scuole e le università attiravano professori e studenti stranieri. L'influsso degli immigrati inglesi, tedeschi e spagnoli era riuscito a temperare l'impulsiva natura creda. L'esercito riceveva un addestramento prussiano e non conosceva pace, in quanto durante gli anni precedenti la Guerra del Pacifico si era mantenuto in esercizio combattendo nel Sud del paese gli indigeni di quella zona che veniva chiamata La Frontera perché il braccio civilizzatore era giunto solo fino a lì, e oltre si dispiegava l'ignoto territorio indigeno in cui, fino a poco prima, si erano avventurati solamente i missionari gesuiti. Gli eccezionali guerrieri araucani, che continuavano a lottare senza tregua dai tempi della conquista, non venivano piegati né dai proiettili né dalle peggiori atrocità, ma stavano iniziando a cadere a uno a uno sotto i colpi dell'alcol. Combattendo contro di loro, i soldati si erano allenati alle crudeltà. Ben presto peruviani e boliviani iniziarono a temere i cileni, quei nemici sanguinari capaci di passar a fil di spada e pallottole feriti e prigionieri. Al loro passaggio, i cileni suscitavano tale odio e timore da scatenare violente antipatie internazionali e la conseguente serie interminabile di reclami e contese diplomatiche, ed esacerbarono negli avversari la determinazione di combattere fino alla morte, visto che la resa a poco o nulla serviva. Le truppe peruviane e boliviane erano composte da una manciata di ufficiali, contingenti di soldati mal equipaggiati e masse di indigeni reclutati a forza che a malapena sapevano per quale motivo combattessero e disertavano alla prima occasione. Invece le fila cilene erano formate per la maggior parte da civili, spietati quanto i militari in battaglia, che combattevano per amor di patria e quindi non facili alla resa. Spesso le condizioni erano infernali. Nel corso delle marce nel deserto si trascinavano in una nube di polvere salmastra, morti di sete, con la sabbia fino a mezza coscia, un sole spietato che si rifletteva sulle loro teste e il peso degli zaini e delle munizioni a spalla, aggrappati ai fucili, disperati. Il vaiolo, il tifo e le febbri terzane li decimavano; negli ospedali militari erano più i malati che i feriti in battaglia. Quando Severo del Valle si unì all'esercito, i suoi compatrioti stavano occupando Antofagasta, l'unica provincia marittima della Bolivia, e quelle peruviane di Tarapacá, Arica e Tacna. A metà del 1880, in piena campagna del deserto, il ministro della Guerra e della Marina morì colpito da un ictus, e il governo sprofondò in uno stato di totale smarrimento. Alla fine il presidente nominò in sostituzione un civile, don José Francisco Vergara, lo zio di Nívea, viaggiatore instancabile e lettore vorace, cui, a quarantasei anni, toccò di impugnare la sciabola per dirigere la guerra. Fu uno dei primi a rendersi conto che, mentre il Cile avanzava alla conquista del Nord, a sud l'Argentina gli stava silenziosamente sottraendo la Patagonia, ma nessuno ci fece caso, perché quel territorio era considerato inutile quanto la luna. Vergara era brillante, di modi raffinati e grande memoria, era interessato a tutto, dalla botanica alla poesia, incorruttibile e completamente scevro da ambizioni politiche. Pianificò la strategia bellica con la stessa minuziosità con cui gestiva i suoi affari. Nonostante la diffidenza dei militari di carriera e con grande sorpresa generale, condusse le truppe cilene direttamente a Lima. Come disse sua nipote Nívea, "la guerra è una questione troppo seria per essere affidata ai militari". La frase uscì dall'ambito famigliare e si trasformò in una di quelle sentenze lapidarie che entrano a far parte degli aneddoti della storia di un paese.
Verso la fine dell'anno, i cileni erano pronti a sferrare l'assalto finale a Lima. Severo del Valle combatteva da undici mesi, sprofondato nel sudiciume, nel sangue e nella più spietata barbarie. Durante quel periodo il ricordo di Lynn Sommers si ridusse a brandelli; a riempire i suoi sogni non era più lei, bensì i corpi devastati degli uomini con cui aveva condiviso il rancio il giorno prima. La guerra consisteva più che altro di pazienza e marce forzate; i momenti di combattimento erano quasi un sollievo rispetto al tedio degli spostamenti e delle attese. Quando poteva sedersi a fumare una sigaretta, ne approfittava per scrivere qualche riga a Nívea, con quel tono cameratesco che aveva sempre utilizzato con lei. Non le parlava d'amore, ma a poco a poco cominciò a capire che lei sarebbe stata l'unica donna della sua vita e che Lynn Sommers aveva rappresentato solamente una protratta fantasia. Nívea gli scriveva regolarmente, benché non tutte le sue lettere arrivassero a destinazione, per informarlo sulla famiglia, la vita in città, i suoi rari incontri con lo zio José Francisco e i libri che questi le raccomandava. Gli parlava anche della trasformazione spirituale che la stava scuotendo, di come si stesse progressivamente allontanando da alcuni rituali cattolici che le sembravano manifestazioni di paganesimo, della ricerca delle radici di un cristianesimo più filosofico che dogmatico. La preoccupava che Severo, immerso in un mondo rozzo e crudele, perdesse il contatto con la sua anima e si trasformasse in uno sconosciuto. L'idea che fosse obbligato a uccidere le risultava intollerabile. Cercava di non pensarci, ma era impossibile ignorare le descrizioni di soldati passati a fil di spada, corpi decapitati, donne violentate e bambini infilzati dalle baionette. Anche Severo prendeva parte a queste atrocità? Avrebbe potuto un uomo testimone di tali eventi riadattarsi alla pace e diventare sposo e padre di famiglia? Sarebbe riuscita ad amarlo nonostante tutto ciò? Severo del Valle si poneva gli stessi interrogativi mentre il suo reggimento, a pochi chilometri dalla capitale, si preparava all'attacco. Alla fine di dicembre, il contingente cileno si era appostato in una valle, a sud di Lima, ed era pronto all'azione. Si erano organizzati meticolosamente, contavano su un esercito numeroso, muli e cavalli, munizioni, viveri e acqua, diverse barche a vela per il trasferimento delle truppe, oltre che su quattro ospedali da campo con seicento letti e due imbarcazioni trasformate in ospedali sotto l'egida della Croce Rossa. Uno dei comandanti era giunto a piedi con la sua brigata, incolume, dopo aver attraversato infinite paludi e valichi montani, e si era presentato alla stregua di un principe mongolo con un seguito di millecinquecento cinesi con donne, bambini e animali. Non appena li vide, Severo del Valle si credette vittima di un'allucinazione, come se l'intera Chinatown avesse abbandonato San Francisco per perdersi nella sua stessa guerra. Il pittoresco comandante aveva reclutato i cinesi durante il tragitto; erano immigrati che lavoravano in condizioni di schiavitù e, presi tra due fuochi, senza motivi per schierarsi con gli uni o con gli altri, avevano deciso di unirsi alle forze cilene. Mentre i cristiani assistevano alla messa preliminare al combattimento, gli asiatici organizzarono la loro cerimonia, dopodiché i cappellani militari benedissero tutti con acqua santa. "Sembra un circo," scrisse quel giorno Severo a Nívea, senza sospettare che sarebbe stata la sua ultima lettera. A incoraggiare i soldati e dirigere l'imbarco di migliaia e migliaia di uomini, animali, cannoni e provvigioni era giunto il ministro Vergara in persona, che rimase in piedi dalle sei del mattino, sotto un sole bruciante, fino a notte inoltrata.
I peruviani avevano organizzato due linee di difesa a pochi chilometri dalla città, in punti di difficile accesso per gli assalitori. Ai ripidi e sabbiosi pendii erano stati aggiunti forti, antimuri, batterie e trincee protette da sacchi di sabbia per i tiratori. Inoltre, erano state predisposte mine dissimulate nella sabbia che scoppiavano al contatto con i detonatori. Le due linee di difesa erano unite tra di loro e con la città di Lima grazie a una linea ferroviaria che garantiva il trasporto di truppe, feriti e provvigioni. Come Severo del Valle, anche i suoi commilitoni sapevano fin da prima che si sferrasse l'attacco, a metà del gennaio del 1881, che la vittoria, se ci fosse stata, sarebbe costata molte vite.
Quella sera di gennaio, le truppe erano pronte a marciare sulla capitale del Perú. Dopo che fu servita la cena e smontato l'accampamento, si bruciarono i tavolati che erano serviti da alloggio e i soldati vennero divisi in tre gruppi con l'intenzione di assaltare le difese nemiche di sorpresa, grazie alla complicità della densa foschia. Procedevano in silenzio, ognuno con il pesante equipaggiamento sulle spalle e il fucile pronto, determinati ad attaccare "frontalmente e alla cilena", come avevano deciso i generali, coscienti del fatto che le armi più potenti a loro disposizione erano la temerarietà e la fierezza dei soldati ebbri di violenza. Severo del Valle aveva visto girare le borracce di grappa e polvere da sparo, una miscela esplosiva che riduceva le viscere in fiamme, ma dotava di un coraggio indomabile. L'aveva assaggiata una volta, ma poi aveva trascorso due giorni in preda a vomito e mal di testa e dunque preferiva affrontare il combattimento a secco. La marcia nel silenzio e il nero della pampa gli sembrarono interminabili, nonostante i brevi momenti di pausa. Passata la mezzanotte, l'immensa moltitudine di soldati si fermò per riposare un'ora. Pensavano di piombare su uno stabilimento termale vicino a Lima prima che facesse giorno, ma gli ordini contraddittori e la disorganizzazione dei comandanti mandarono a monte il piano. Si sapeva poco della situazione delle fila in avanscoperta, che sembrava fossero già impegnate in battaglia, e ciò obbligò la truppa sfinita a proseguire comunque. Seguendo l'esempio degli altri, Severo si disfece dello zaino, della coperta e del resto della dotazione, mise la baionetta in canna e prese a correre in avanti alla cieca gridando a pieni polmoni come una belva inferocita, visto che ormai non si trattava più di cogliere il nemico di sorpresa, ma di spaventarlo. I peruviani li stavano aspettando e non appena li ebbero a tiro fecero piovere su di loro una raffica di piombo. Alla nebbia si aggiunsero fumo e polvere fino a celare l'orizzonte dietro una cappa impenetrabile, e l'aria si riempì di terrore, con le cornette che incitavano alla carica, il frastuono e le urla del combattimento, gli ululati dei feriti, i nitriti dei cavalli e il ruggito delle cannonate. Il terreno era minato, ma i cileni avanzavano comunque con il grido selvaggio "a morte!" sulle labbra. Severo del Valle vide saltare in aria, ridotti in brandelli, due suoi compagni che avevano calpestato dell'esplosivo a pochi metri di distanza. Non calcolò nemmeno che la prossima deflagrazione poteva essere la sua, non c'era più tempo di pensare a nulla perché i primi ussari stavano già assaltando le trincee nemiche, avventandosi nei fossati con i coltelli ricurvi tra i denti e le baionette inastate, massacrando e morendo tra pozzanghere di sangue. I peruviani sopravvissuti retrocessero e gli attaccanti iniziarono a scalare la collina, forzando le difese scaglionate sui pendii. Senza sapere cosa stava facendo, Severo del Valle si ritrovò, sciabola alla mano, a fare a pezzi un uomo, e poi a sparare a bruciapelo alla nuca di un altro soldato in fuga. La furia e la barbarie si erano completamente impadronite di lui; come tutti gli altri, si era trasformato in una bestia. Aveva la divisa a brandelli e ricoperta di sangue, parte delle viscere di una vittima gli penzolavano da una manica, dal tanto gridare e imprecare praticamente non gli usciva più la voce, aveva perso la paura e l'identità e ormai era semplicemente una macchina da guerra che distribuiva colpi alla cieca con l'unico obiettivo di arrivare in cima alla collina.
Alle sette di mattina, dopo due ore di combattimento, la prima bandiera cilena sventolava su una delle cime e Severo, in ginocchio sulla collina, vide una massa di soldati peruviani allo sbando ritirarsi per poi riunirsi immediatamente nell'aia di una fattoria e ricevere in formazione la carica frontale della cavalleria cilena. In pochi minuti il luogo diventò un inferno. Severo del Valle, che lo stava raggiungendo di corsa, poteva vedere il luccichio delle sciabole e udire gli echi della sparatoria e le grida di dolore. Quando raggiunse la tenuta, i nemici stavano già fuggendo, nuovamente inseguiti dalle truppe cilene. In quel momento lo raggiunse la voce del suo comandante a ordinargli di raggruppare gli uomini del suo distaccamento per attaccare il centro abitato. La breve pausa durante la quale si riorganizzarono le fila gli concesse un momento di tregua; si lasciò cadere a terra bocconi, ansante, tremante, con le mani avvinghiate alla sua arma. Valutò che l'avanzata era pura follia, perché il suo reggimento non avrebbe potuto far fronte da solo alle numerose truppe nemiche asserragliate nelle case e negli edifici, e avrebbe dovuto combattere porta a porta; ma suo compito non era pensare, bensì obbedire agli ordini del suo superiore e ridurre il villaggio peruviano a macerie, cenere e morte. Qualche minuto dopo trottava alla testa dei compagni, mentre i proiettili gli passavano accanto fischiando. Entrarono su due colonne, lungo i lati della strada principale. La maggior parte degli abitanti era fuggita al grido di "arrivano i cileni!", ma quelli rimasti erano intenzionati a combattere con tutto ciò che si ritrovavano a portata di mano, dai coltelli da cucina alle padelle di olio bollente che venivano rovesciate dai balconi. Il reggimento di Severo aveva avuto l'ordine di andare di casa in casa fino all'evacuazione totale, compito piuttosto arduo visto che il villaggio era pieno di soldati peruviani barricati dietro ai tetti, gli alberi, le finestre e le soglie delle case. Severo, la gola secca e gli occhi infiammati, vedeva a malapena a un metro di distanza; l'aria, densa di fumo e di polvere, si era fatta irrespirabile e la confusione era tale che nessuno sapeva come procedere e si limitava a imitare chi gli era davanti. Improvvisamente sentì intorno a sé una gragnola di pallottole e comprese che non era possibile continuare ad avanzare, bisognava cercarsi un riparo. Con il calcio dell'arma aprì la porta più vicina e irruppe nella casa con la sciabola in alto, accecato dal contrasto tra il sole che bruciava fuori e la penombra interna. Aveva bisogno di alcuni minuti per caricare il fucile, ma non gli furono concessi: un urlo straziante lo paralizzò per la sorpresa e scorse una figura accovacciata in un angolo che ora si apprestava a balzare su di lui brandendo un'ascia. Fece in tempo a proteggersi la testa con le braccia e a buttarsi all'indietro. L'ascia cadde come un fulmine sul suo piede sinistro, inchiodandolo a terra. Severo del Valle non si rese conto di quel che era successo, reagì solo d'istinto. Spinse il fucile con la baionetta inastata con tutto il peso del corpo, la infilzò nel ventre dell'aggressore e poi la estrasse con uno sforzo brutale. Un fiotto di sangue lo colpì in pieno volto. E solo allora si rese conto che il nemico era una ragazza. L'aveva sventrata e lei, in ginocchio, si teneva le viscere che iniziavano a riversarsi sul pavimento di assi. I loro occhi si incrociarono e si fissarono per un'eternità, sorpresi, desiderosi di sapere nel silenzio interminabile di quell'istante chi fossero, perché si stessero fronteggiando a quel modo, perché si dissanguassero, perché dovessero morire. Severo tentò di sorreggerla, ma non riuscì a muoversi e per la prima volta sentì il terribile dolore al piede, che gli saliva come una lingua di fuoco dalla gamba al petto. In quel momento, un altro soldato cileno irruppe nella casa, valutò la situazione con un'occhiata e senza esitare sparò a bruciapelo alla ragazza, che era comunque già morta; poi impugnò l'ascia e con uno strappo sovrumano liberò Severo. "Andiamocene, tenente, bisogna allontanarsi da qui, l'artiglieria sta per iniziare a sparare!" gli ingiunse, ma Severo perdeva sangue a fiotti, sveniva, riprendeva conoscenza per qualche istante e poi tornava a circondarlo l'oscurità. Il soldato gli avvicinò la sua borraccia alla bocca e lo obbligò a bere un lungo sorso di acquavite; poi con un fazzoletto improvvisò un laccio emostatico, glielo legò sotto il ginocchio, si mise il ferito sulle spalle e lo trascinò fuori. Altre mani poi lo aiutarono e quaranta minuti dopo, mentre l'artiglieria cilena spazzava via a cannonate quel paesino, riducendo a macerie e sfasciume ciò che un tempo erano pacifiche terme, Severo aspettava nel cortile dell'ospedale, insieme a centinaia di cadaveri massacrati e migliaia di feriti ammassati nelle pozzanghere e tormentati dalle mosche, che arrivasse la morte o un miracolo a salvarlo. Il dolore e la paura lo intontivano, di tanto in tanto colava a picco in un misericordioso svenimento e quando resuscitava vedeva il cielo volgere al nero. Al calore bruciante del giorno seguì il freddo umido della camanchaca, la densa nebbia invernale che avvolgeva la notte nel suo spesso mantello. Nei momenti di lucidità si ricordava delle orazioni imparate durante l'infanzia e pregava per una morte rapida, mentre l'immagine di Nívea gli appariva come un angelo e credeva di vederla china su di lui, per sorreggerlo, pulirgli la fronte con un fazzoletto bagnato e rivolgergli parole d'amore. Ripeteva il nome di Nívea supplicando senza voce un bicchiere d'acqua.
La battaglia per la conquista di Lima si concluse alle sei del pomeriggio. Nei giorni successivi, quando fu possibile computare il numero di morti e feriti, calcolarono che in quelle ore un venti per cento dei combattenti di ambedue gli eserciti aveva perso la vita. Molti altri sarebbero morti poi, in seguito all'infezione delle ferite. Improvvisarono ospedali da campo in una scuola e in tendoni disseminati nelle vicinanze. Il vento trasportava il fetore di cadaveri decomposti a chilometri di distanza. Medici e infermieri, stremati, si occupavano di chi arrivava secondo le loro possibilità, ma c'erano più di duemilacinquecento feriti tra le fila cilene e se ne calcolavano almeno settemila tra i sopravvissuti delle truppe peruviane. I feriti si accumulavano nei corridoi e nei cortili, riversi per terra, in attesa del loro turno. I più gravi venivano assistiti per primi e siccome Severo del Valle ancora non agonizzava, nonostante la terribile emorragia di forze, sangue e speranza, i barellieri lo lasciarono da parte diverse volte per dare la precedenza ad altri. Quello stesso soldato che se l'era caricato in spalla per condurlo all'ospedale lo liberò dallo stivale con il coltello, gli tolse la camicia zuppa e improvvisò così un tampone per il piede lacerato, dato che a portata di mano non c'erano né bende, né medicamenti, né fenolo per disinfettare, né oppio, né cloroformio, era andato tutto esaurito o disperso nella confusione del combattimento. "Allenti di tanto in tanto il laccio, che non le vada in cancrena la gamba, tenente," gli raccomandò il soldato. Prima di congedarsi gli augurò buona fortuna e gli regalò i suoi averi più preziosi: una scatola di tabacco e la borraccia con l'acquavite avanzata. Severo del Valle non riuscì a capire quanto tempo rimase in quel cortile, un giorno, forse due. Quando alla fine lo vennero a prendere per condurlo dal medico era privo di conoscenza e disidratato, ma muovendolo gli provocarono un dolore talmente insopportabile che si risvegliò con un ululato. "Tenga duro, tenente, il peggio deve ancora venire," disse uno dei barellieri. Si ritrovò in una grande sala con il pavimento coperto di sabbia, su cui due attendenti di tanto in tanto vuotavano nuovi secchi di sabbia per assorbire il sangue, per poi portarsi via, negli stessi contenitori, le membra amputate da bruciare all'esterno, su un'enorme pira che impregnava la valle di odore di carne abbrustolita. I soldati feriti venivano operati su quattro tavoli di legno coperti da lastre metalliche. Per terra giacevano bacinelle piene d'acqua rossastra in cui venivano sciacquate le spugne con cui si arrestava il flusso di sangue dei tagli, e mucchi di stracci ridotti in strisce da usare come bende. Tutto era sporco e schizzato di sabbia e segatura. Su un tavolo laterale erano dispiegati spaventosi strumenti di tortura – tenaglie, forbici, seghe, aghi – macchiati di sangue rappreso. Le urla degli operati riempivano la stanza e l'odore di decomposizione, vomito ed escrementi rendeva l'aria irrespirabile. Il medico risultò essere un immigrato balcanico con quell'aria di severità, sicurezza e rapidità propria di un chirurgo esperto. Aveva una barba di due giorni, gli occhi arrossati dalla fatica e indossava un grosso grembiule di cuoio coperto di sangue fresco. Tolse dal piede di Severo la fasciatura improvvisata, sciolse il laccio e gli bastò un'occhiata per capire che era già infetto e bisognava amputarlo. In quei giorni sicuramente doveva aver eseguito parecchie amputazioni, perché non batté ciglio.
"Ha del liquore, soldato?" domandò con evidente accento straniero.
"Acqua..." implorò Severo del Valle con la lingua asciutta.
"Dopo berrà dell'acqua. Adesso ha bisogno di qualcosa che la stordisca un po', ma non abbiamo più nemmeno una goccia d'alcol," disse il medico.
Severo indicò la borraccia. Il dottore lo obbligò a bere tre lunghe sorsate mentre gli spiegava che non potevano contare su nessun anestetico; usò l'acquavite rimasta per impregnare qualche straccio e pulire i suoi strumenti e poi fece un segnale agli attendenti che si piazzarono ai due lati del letto per tenere fermo il paziente. Questo è il mio momento della verità, riuscì a pensare Severo e cercò di figurarsi Nívea per non morire con l'immagine della ragazza che aveva sventrato con un colpo di baionetta impressa nel cuore. Un infermiere gli mise un nuovo laccio e bloccò saldamente la gamba all'altezza della coscia. Il chirurgo prese uno scalpello, lo affondò venti centimetri sotto il ginocchio e grazie a un abile movimento circolare tagliò la carne fino a tibia e a perone. Severo del Valle ruggì di dolore e immediatamente perse conoscenza; gli attendenti non allentarono comunque la presa, al contrario, lo immobilizzarono al tavolo con più forza, mentre il medico, con le dita, tirava indietro la pelle e i muscoli per scoprire le ossa; subito dopo prese una sega e con tre colpi sicuri le recise. L'infermiere estrasse dal moncherino i vasi sezionati, il dottore cominciò a legarli con incredibile destrezza, poi allentò gradualmente il laccio per coprire con la carne e la pelle l'osso amputato e iniziò a ricucire. Severo venne bendato in fretta e poi trasportato a spalle in un angolo della sala per far posto a un altro ferito che arrivò urlando sul tavolo del chirurgo. L'intera operazione era durata meno di sei minuti.
Nei giorni successivi alla battaglia, le truppe cilene entrarono a Lima. Stando ai bollettini ufficiali pubblicati sui giornali cileni, tutto si svolse in modo ordinato; quel che registrò la memoria dei limegni fu invece una carneficina che andò a sommarsi alle angherie dei soldati peruviani sconfitti e furiosi che si erano sentiti traditi dai loro capi. Una parte della popolazione civile era fuggita e le famiglie che potevano permetterselo avevano trovato rifugio nelle imbarcazioni del porto, nei consolati e in una spiaggia protetta dalla marina straniera dove il corpo diplomatico aveva montato alcune tende da campo in cui accogliere i rifugiati sotto bandiere neutrali. Quanti rimasero a difendere i propri beni avrebbero ricordato per il resto della loro vita le scene infernali di quella soldatesca ubriaca e ottenebrata dalla violenza. Saccheggiarono e bruciarono case, violentarono, colpirono e assassinarono chiunque gli si parasse davanti, donne, bambini e anziani compresi. Alla fine, una parte dei reggimenti peruviani depose le armi e si arrese, ma molti soldati fuggirono allo sbando verso le montagne. Due giorni dopo il generale peruviano Andrés Cáceres usciva dalla città occupata con una gamba a pezzi, aiutato dalla moglie e da un paio di fedeli ufficiali, per andare a disperdersi nelle impervietà della montagna. Aveva giurato che fino a quando gli fosse rimasto un soffio di vita avrebbe continuato a combattere.
Nel porto di Callao i capitani peruviani ordinarono agli equipaggi di abbandonare le navi e di dar fuoco alla polveriera, così da affondare l'intera flotta. Le esplosioni svegliarono Severo del Valle che si ritrovò in un angolo, sulla sabbia immonda della sala operatoria, insieme ad altri uomini che come lui erano appena passati per il supplizio dell'amputazione. Qualcuno gli aveva messo addosso una coperta e gli aveva lasciato di fianco una borraccia d'acqua; allungò la mano, ma tremava a tal punto che non riuscì a stapparla e rimase lì a stringersela al petto, gemendo, fino a quando non si avvicinò una giovane cantiniera che gliela aprì e l'aiutò a portarla alla bocca riarsa. Bevve tutto d'un fiato, poi, seguendo le istruzioni della donna, che per mesi aveva combattuto insieme agli uomini e su come curare le ferite ne sapeva quanto i medici, si mise in bocca una manciata di tabacco e la masticò avidamente per attenuare gli spasmi dello choc operatorio. "Uccidere non costa molto, ma sopravvivere sì, figliolo. Se ti distrai, la morte ti porta via a tradimento," lo avvertì l'ostessa. "Ho paura," cercò di dire Severo e probabilmente lei, pur non sentendolo, intuì il suo terrore dal momento che si tolse una medaglietta d'argento dal collo e gliela mise tra le mani. "Che la Vergine ti aiuti," mormorò e, chinandosi, gli posò lievemente la bocca sulle labbra prima di andarsene. Severo rimase con quell'accenno di bacio e la medaglia stretta in pugno. Aveva i brividi, gli battevano i denti e bruciava di febbre; di tanto in tanto si addormentava o sveniva e quando riprendeva conoscenza il dolore lo intontiva. Alcune ore dopo ritornò l'ostessa dalle trecce scure e gli diede qualche panno umido con cui pulirsi il sudore e il sangue rappreso e un piatto di ottone con una pappina di mais, un tozzo di pane duro e una scodella di caffè di cicoria, un liquido tiepido e scuro che non tentò nemmeno di assaggiare perché la debolezza e la nausea glielo impedirono. Nascose la testa sotto la coperta, abbandonandosi alla sofferenza e alla disperazione, gemendo e piangendo come un bimbo finché non si addormentò di nuovo. "Hai perso molto sangue, figlio mio, se non mangi morirai," lo risvegliò un cappellano che girava dispensando consolazione ai feriti ed estreme unzioni ai moribondi. In quel momento Severo del Valle rammentò di essere andato in guerra per morire. Quello era stato il suo proposito quando aveva perso Lynn Sommers, ma ora che la morte era a un passo, china su di lui come un avvoltoio, in attesa del momento buono per allungare l'artigliata finale, l'istinto di conservazione lo scosse. Il desiderio di salvarsi era più grande del bruciante dolore che lo trapassava dalla gamba fino all'ultima fibra del corpo, più forte dell'angoscia, dell'incertezza e del terrore. Capì che non voleva affatto abbandonarsi alla morte, anzi, bramava disperatamente di restare al mondo, vivere in qualsiasi stato e condizione, in qualunque modo, zoppo, sconfitto, non importava, pur di continuare a esistere sulla faccia della Terra. Come ogni soldato, sapeva che un solo amputato su dieci riusciva ad avere la meglio sull'emorragia e la cancrena, non ci si poteva far niente, era tutta questione di fortuna. Decise che lui sarebbe stato quell'uno destinato a sopravvivere. Pensò che la sua meravigliosa cugina Nívea si meritava un uomo intero e non un mutilato, non voleva che lo vedesse trasformato in un relitto umano, non avrebbe potuto tollerare la sua compassione. Tuttavia, non appena chiuse gli occhi la ragazza tornò ad apparire al suo fianco, la vide incontaminata dalla violenza della guerra o dall'abiezione del mondo, china su di lui con quel viso intelligente, gli occhi neri e il sorriso birichino e allora il suo orgoglio si sciolse come neve al sole. Non ebbe dubbi: lei l'avrebbe amato con mezza gamba in meno esattamente come l'aveva amato prima. Prese il cucchiaio con le dita irrigidite, cercò di controllare i brividi, si obbligò ad aprire la bocca e inghiottì una cucchiaiata di quell'orribile pappina di mais, ormai fredda e ricoperta di mosche.
I reggimenti cileni entrarono trionfalmente a Lima nel gennaio del 1881 e da quel momento cercarono di imporre al Perú la pace forzata della sconfitta. Una volta sedato il barbaro scompiglio delle prime settimane, i superbi vincitori lasciarono un contingente di diecimila uomini a controllare la nazione occupata, mentre gli altri intrapresero il viaggio verso sud per andare a ricevere i ben meritati allori, ignorando bellamente le migliaia di soldati sconfitti che erano riusciti a scappare sulle montagne e che da li pensavano di continuare a combattere. La vittoria era stata talmente schiacciante che i generali non potevano sospettare che i peruviani avrebbero continuato a osteggiarli per tre lunghi anni. L'anima di quella caparbia resistenza fu il leggendario generale Cáceres, che sfuggì miracolosamente alla morte e partì, nonostante una ferita spaventosa, verso le montagne per far resuscitare il seme pertinace dell'eroismo in un esercito straccione di soldati fantasma e leve di indios, grazie al quale portò a termine una cruenta contesa di guerriglie, imboscate e scaramucce. I soldati di Cáceres, con le divise a brandelli, spesso scalzi, denutriti e disperati, combattevano con coltelli, lance, bastoni, pietre e uno scarso numero di fucili antiquati, ma con il vantaggio di conoscere il territorio. Avevano scelto bene il campo di battaglia su cui affrontare un nemico disciplinato e armato, anche se non sempre dotato delle sufficienti provvigioni, perché l'accesso a quei ripidi pendii era un compito da condor. Si nascondevano tra i picchi innevati, in grotte e gole, su alti ghiacciai, dove l'atmosfera era talmente rarefatta e la solitudine così immensa che solo loro, uomini di montagna, potevano sopravvivere. I soldati cileni si ritrovavano le orecchie scoppiate e insanguinate, svenivano per la mancanza d'ossigeno e si congelavano nelle gole ghiacciate delle Ande. Mentre questi ultimi riuscivano a malapena a salire perché il cuore non consentiva loro un tale sforzo, gli indios dell'altopiano si arrampicavano come lama con un carico equivalente al loro stesso peso sulle spalle, senz'altro nutrimento che la carne amara delle aquile e una pallottola verde di foglie di coca secche da rigirarsi in bocca. Furono tre anni di guerra senza tregue né prigionieri, con migliaia di morti. Le forze peruviane vinsero un solo scontro frontale in un villaggio privo di valore strategico, difeso da settantasette soldati cileni, alcuni dei quali malati di tifo. I difensori disponevano solo di cento pallottole per uomo, ma combatterono con tale coraggio tutta la notte contro centinaia di soldati e di indios, che all'alba sconsolata, quando ormai non restavano che tre tiratori, gli ufficiali peruviani li supplicarono di arrendersi perché pareva loro un'ignominia ucciderli. Quelli non lo fecero, continuarono a guerreggiare e morirono, la baionetta in mano, gridando il nome della loro patria. Con loro c'erano tre donne, che le turbe indigene trascinarono in mezzo alla piazza insanguinata, violentarono e fecero a pezzi. Una di loro aveva partorito durante la notte in chiesa, mentre fuori il marito si batteva; anche il neonato fu straziato. Mutilarono i cadaveri, aprirono loro i ventri e li vuotarono delle viscere che, stando a quanto raccontavano a Santiago, gli indios poi mangiarono arrostite. Quella brutalità non fu un episodio isolato, la barbarie pervase i due schieramenti in quegli scontri fra truppe di guerriglieri. La resa finale e la firma del trattato di pace vennero raggiunte nell'ottobre del 1883, dopo che le truppe di Cáceres furono vinte in uno scontro finale, un massacro a filo di coltelli e baionette che lasciò sul campo più di mille morti. Il Cile sottrasse al Perú tre province. La Bolivia perse l'unico sbocco sul mare e fu obbligata a siglare una tregua indefinita, che si sarebbe protratta per venti anni, sino alla firma di un trattato di pace.
Insieme a migliaia di altri feriti, Severo del Valle fu trasportato in Cile via mare. Mentre nelle improvvisate ambulanze militari molti morivano di cancrena o per le epidemie di tifo e dissenteria, lui poté riprendersi grazie a Nívea, che non appena fu informata di quanto era successo, si mise in contatto con lo zio, il ministro Vergara, e non gli diede tregua fino a quando lui non fece cercare Severo, lo prelevò da un ospedale, dove non era che un numero in più tra migliaia di malati in condizioni gravissime, e lo fece trasferire col primo mezzo disponibile a Valparaíso. Stilò anche un permesso speciale affinché la nipote potesse entrare nel recinto militare del porto e le assegnò un tenente di supporto. Quando sbarcarono Severo del Valle su una lettiga, lei non lo riconobbe, aveva perso venti chili, era sporchissimo, sembrava un cadavere giallognolo e irsuto, con una barba di diverse settimane e gli occhi impauriti e deliranti di un pazzo. Nívea si riprese dallo spavento con quella stessa ferrea volontà che la sosteneva in tutti gli altri aspetti della sua vita e lo salutò con un allegro "Ciao, cugino, che piacere vederti!" al quale Severo non poté rispondere. Fu tale il conforto provato vedendola che si coprì il volto con le mani perché non lo vedesse piangere. Il tenente aveva predisposto il trasferimento e, nel rispetto degli ordini ricevuti, condusse Nívea e il ferito direttamente al palazzo del ministro a Viña del Mar, dove la moglie di quest'ultimo aveva preparato una sistemazione. "Mio marito ha detto che ti fermerai qui fino a quando potrai camminare, figliolo," gli annunciò. Il medico della famiglia Vergara utilizzò tutte le risorse della scienza per guarirlo, ma quando, un mese più tardi, la ferita non si era ancora cicatrizzata e Severo continuava a dibattersi in accessi di febbre, Nívea capì che la sua anima si era ammalata per gli orrori della guerra, che l'unico rimedio contro simili tormenti era l'amore e decise quindi di ricorrere agli estremi rimedi.
"Chiederò il permesso ai miei genitori per sposarmi con te," annunciò a Severo.
"Sto per morire, Nívea," sospirò lui.
"Hai sempre qualche scusa pronta, Severo! L'agonia non è mai stato un impedimento per contrarre matrimonio."
"Vuoi trasformarti in vedova senza essere stata moglie? Non voglio che ti capiti quello che è successo a me con Lynn."
"Non resterò vedova perché non morirai. Potresti umilmente chiedere la mia mano, cugino? E dimmi, ad esempio, che sono la donna della tua vita, il tuo angelo, la tua musa o qualcosa del genere? Inventati qualcosa, insomma! Dimmi che non puoi vivere senza di me, almeno questo è vero, no? Devo ammettere che non è che mi piaccia così tanto fare la romantica da sola."
"Sei pazza, Nívea. Non sono nemmeno un uomo intero, sono un misero invalido."
"Ti manca qualcos'altro oltre a quel pezzo di gamba?" chiese lei allarmata.
"Ti sembra poco?"
"Se tutto il resto è al suo posto, non mi sembra che tu abbia perso granché," rise lei.
"Allora sposami, per favore," mormorò lui, con profondo sollievo e con un singhiozzo che gli moriva in gola, troppo debole per abbracciarla.
"Non piangere, cugino, baciami; per questo non hai bisogno della gamba," replicò lei chinandosi sul letto nello stesso modo in cui lui l'aveva vista tante volte nel suo delirio.
Tre giorni dopo si sposarono con una breve cerimonia in uno dei bei saloni della residenza del ministro, alla presenza delle due famiglie. Viste le circostanze, fu un matrimonio privato, ma solo tra parenti intimi si riunirono in novantaquattro. Severo si presentò pallido e smunto, con un taglio di capelli alla Byron, le guance rasate e l'abito di gala, camicia dal colletto rigido, bottoni d'oro e cravatta di seta, su una sedia a rotelle. Non ci fu tempo per preparare un vestito da sposa né un corredo adatto per Nívea, ma sorelle e cugine riempirono due bauli con la biancheria da casa che avevano ricamato per anni per farne la loro dote. Nívea indossò un vestito di satin bianco e una tiara di perle e diamanti prestatale dalla moglie dello zio. Nella fotografia delle nozze appare radiosa in piedi, vicino alla sedia del marito. Quella sera ci fu una cena in famiglia alla quale Severo del Valle non partecipò perché le emozioni del giorno lo avevano sfinito. Dopo che gli invitati si furono ritirati, Nívea fu accompagnata dalla zia alla camera che le avevano preparato. "Mi dispiace molto che la tua prima notte di nozze vada così..." balbettò la buona signora arrossendo. "Non si preoccupi, zia, mi consolerò recitando il rosario," replicò la ragazza. Attese che la casa si addormentasse e quando fu certa che, salvo il vento salino del mare tra gli alberi del giardino, non c'erano altri segni di vita, Nívea si alzò e, percorrendo in camicia da notte i lunghi corridoi di quel palazzo estraneo, entrò nella camera di Severo. La suora incaricata di vegliare il sonno del malato, sprofondata in una poltrona, dormiva profondamente, ma Severo era sveglio e la stava aspettando. Lei si portò un dito alle labbra per indicargli di fare silenzio, spense le lampade a gas e si introdusse nel letto.
Nívea era stata educata dalle suore e proveniva da una famiglia all'antica, in cui non venivano mai menzionate le funzioni del corpo e men che meno quelle relative alla riproduzione, ma aveva vent'anni, un cuore appassionato e buona memoria. Ricordava molto bene i giochi clandestini con il cugino negli angoli bui, la forma del corpo di Severo, l'ansia del piacere sempre insoddisfatto, la fascinazione del peccato. A quell'epoca, il pudore e il senso di colpa li inibivano ed entrambi si allontanavano dagli angoli proibiti tremando, estenuati e con la pelle in fiamme. Durante gli anni in cui erano stati lontani, Nívea aveva avuto tempo di ripassare ogni istante condiviso con il cugino e trasformare la curiosità dell'infanzia in un amore profondo. Inoltre aveva divorato da cima a fondo la biblioteca dello zio José Francisco Vergara, uomo dalla mente liberale e moderna, che non accettava limite alcuno alla sua curiosità intellettuale e ancor meno tollerava la censura religiosa. Mentre classificava i libri di scienze, arte e guerra, Nívea aveva casualmente scoperto il modo di aprire uno scomparto segreto in cui aveva rinvenuto una raccolta di tutto rispetto di romanzi inclusi nella lista nera della Chiesa, di testi erotici e persino una divertente collezione di disegni giapponesi e cinesi con amanti a gambe all'aria, in posizioni anatomicamente impraticabili, e tuttavia in grado di ispirare anche il più ascetico lettore e a maggior ragione una persona fantasiosa come lei. I testi più istruttivi erano comunque i romanzi pornografici, pessimamente tradotti dall'inglese allo spagnolo, di una certa Dama Anonima, che la ragazza aveva trafugato a uno a uno nascosti nella borsa, letto attentamente e ricollocato con cautela nel medesimo luogo, precauzione inutile, dal momento che lo zio era impegnato nella campagna bellica e nessun altro entrava nella biblioteca. Guidata da quei testi, aveva esplorato il proprio corpo, appreso i rudimenti dell'arte più antica dell'umanità e si era preparata per il giorno in cui avrebbe applicato la teoria alla pratica. Era cosciente, ovviamente, di commettere un orribile peccato – il godimento è sempre peccaminoso – ma si era astenuta dal discutere l'argomento con il suo confessore, avendo considerato che il piacere che provava e che avrebbe provato in futuro valevano il rischio dell'inferno. Pregava perché la morte non la cogliesse all'improvviso senza darle tempo, prima di esalare l'ultimo respiro, di confessare le ore di diletto che i libri le offrivano. Non le era mai passato per la testa che quel solitario addestramento le sarebbe servito per restituire la vita all'uomo che amava e, men che meno, che si sarebbe cimentata in quell'impresa a tre metri da una suora addormentata. A partire da quella prima notte con Severo, quando andava a congedarsi dal marito, prima di dirigersi in camera sua, Nívea fece in modo di portare una tazza di cioccolata calda con dei biscotti alla monaca. La cioccolata conteneva una dose di valeriana in grado di addormentare un cammello. Severo del Valle non avrebbe mai potuto supporre che la casta cugina fosse in grado di misurarsi in tante e così straordinarie prodezze. La ferita alla gamba, che gli procurava fitte di dolore, la febbre e la debilitazione lo relegavano a un ruolo passivo, ma quel che mancava a lui in vigore metteva lei in intraprendenza ed erudizione. Severo non avrebbe mai immaginato che simili acrobazie fossero possibili ed era certo che non avessero nulla di cristiano, ma ciò non gli impedì di goderne con pienezza. Se non fosse stato per il fatto che conosceva Nívea dall'infanzia, avrebbe pensato che la cugina si fosse allenata in un serraglio turco, ma pur inquietandolo l'idea di come quella pulzella avesse appreso quei trucchi da meretrice, ebbe l'intelligenza di non domandarglielo. La seguì docilmente nel viaggio dei sensi fin dove il corpo glielo permise, consegnando lungo la strada fino all'ultimo spiraglio dell'anima. Sotto le lenzuola si cercarono secondo le descrizioni dei pornografi della biblioteca del rispettabile ministro della Guerra e in modi nuovi che inventarono di volta in volta spronati dal desiderio e dall'amore, se pur limitati dal moncherino avvolto nelle bende e dalla suora che russava in poltrona. L'alba li sorprendeva palpitanti in un nodo di abbracci, con le bocche unite che respiravano all'unisono e non appena si insinuava il primo bagliore del giorno dalla finestra, lei scivolava via come un'ombra per tornare nella sua camera. I giochi dei vecchi tempi si erano trasformati in autentiche maratone di concupiscenza; si accarezzavano con appetito vorace, si baciavano, si leccavano e si penetravano ovunque, il tutto al buio e nel più completo silenzio, ingoiando i sospiri e mordendo i cuscini per soffocare la gioiosa lussuria che più e più volte li elevava alla gloria durante quelle notti troppo brevi. Il tempo volava: Nívea non faceva in tempo ad apparire nella camera come uno spirito per introdursi nel letto di Severo che già era mattina. Nessuno dei due chiudeva occhio, non potevano perdersi nemmeno un minuto di quei fausti incontri. Il giorno dopo lui dormiva come un neonato fino a mezzogiorno, mentre lei si alzava presto con l'aria confusa di una sonnambula ed espletava le faccende quotidiane. Di pomeriggio Severo del Valle riposava su una sedia a rotelle sulla terrazza godendosi il tramonto sul mare, mentre la moglie si addormentava al suo fianco ricamando tovagliette. Davanti agli altri si comportavano come fratelli, non si toccavano e quasi non si guardavano, ma l'aria intorno a loro era carica d'ansia. Passavano la giornata a contare le ore, aspettando con delirante frenesia che arrivasse il momento di tornare ad abbracciarsi nel letto. Ciò che facevano di notte avrebbe inorridito il medico, le due famiglie, la società intera, per non parlare della suora. Nel frattempo parenti e amici commentavano l'abnegazione di Nívea, una ragazza così pura e cattolica condannata a un amore platonico, e la forza morale di Severo, che aveva perso una gamba e si era rovinato la vita per difendere la patria. La congiura delle comari aveva diffuso la voce che in guerra, oltre alla gamba, fossero andati persi anche gli attributi virili. Poveretti, mormoravano sospirando, senza sospettare quanto se la spassasse quella coppia di dissipati. Dopo una settimana di anestesie alla suora e di imprese amatorie degne di due egizi, la ferita dell'amputazione si era cicatrizzata e la febbre era sparita. Nel giro di due mesi Severo del Valle camminava con le stampelle e iniziava a parlare di una gamba di legno, mentre Nívea vomitava l'anima nei ventitré bagni del palazzo dello zio. Quando non fu più possibile occultare alla famiglia che Nívea era in attesa, la sorpresa generale fu di tali proporzioni che si arrivò a dire che quella gravidanza era un miracolo. La più scandalizzata fu senz'altro la suora, ma Severo e Nívea avevano sempre sospettato che, nonostante le incredibili dosi di valeriana, la santa donna avesse avuto occasione di apprendere molto; fingeva di dormire per non privarsi del piacere di spiarli. L'unico che immaginò come potevano essere andate le cose e che festeggiò l'ingegnosità della coppia ridendo a crepapelle fu il ministro Vergara. Quando Severo riuscì a fare i primi passi con la gamba artificiale e il ventre di Nívea non fu più mimetizzabile, li aiutò a sistemarsi in un'altra casa e diede un lavoro a Severo del Valle. "Il paese e il partito liberale hanno bisogno di uomini audaci come te," disse, anche se, a onor del vero, fra i due l'audace era Nívea.
Non ho conosciuto mio nonno Feliciano Rodríguez de Santa Cruz, che morì qualche mese prima che io arrivassi a casa sua. Lo colse un colpo apoplettico mentre sedeva a capotavola durante un banchetto nella villa di Nob Hill e si strozzò con un pasticcio di cacciagione e con del vino rosso francese. Diversi ospiti lo risollevarono da terra e lo adagiarono, moribondo, su un divano, posando la sua bella testa da principe arabo in grembo a Paulina del Valle che, per incoraggiarlo, gli ripeteva: "Non morire, Feliciano, lo sai che le vedove non le invita nessuno... Su, respira! Se respiri, ti giuro che oggi, parola d'onore, tolgo il chiavistello alla porta di camera mia". Si narra che Feliciano fece un sorriso prima che il cuore gli scoppiasse. Ci sono innumerevoli ritratti di quel cileno robusto e allegro ed è facile immaginarlo da vivo perché non appare mai in posa per il pittore o il fotografo: in tutti dà l'impressione di essere stato sorpreso con un'espressione spontanea sul volto. Rideva con denti da pescecane, gesticolava mentre parlava e si muoveva con la sicurezza e l'arroganza di un pirata. Quando morì, Paulina del Valle crollò; si depresse a tal punto che non poté partecipare al funerale, né a nessuno dei molti omaggi che la città gli rese. Siccome i tre figli erano lontani, toccò al maggiordomo Williams e agli avvocati della famiglia farsi carico delle esequie. I due figli minori giunsero una settimana dopo, ma Matías, che si trovava in Germania, con la scusa della sua salute non giunse per consolare la madre. Per la prima volta in vita sua, Paulina perse la civetteria, l'appetito e l'interesse per i libri contabili; si rifiutava di uscire e passava giornate intere a letto. Non permise a nessuno di vederla in simili condizioni e gli unici informati dei suoi pianti erano le domestiche e Williams, che fingeva di non accorgersi di nulla, limitandosi a vigilare a prudente distanza per aiutarla se lei glielo chiedeva. Un pomeriggio Paulina del Valle si fermò casualmente di fronte al grande specchio dorato che occupava mezza parete del suo bagno e vide il risultato della sua trasformazione: una strega grassa e trasandata, con una testolina da tartaruga coronata da un cespuglio di cernecchi grigi. Lanciò un grido di raccapriccio. Nessun uomo al mondo – e men che meno Feliciano – si meritava tanta abnegazione, concluse. Aveva toccato il fondo, era ora di darsi una spinta per ritornare di nuovo in superficie. Suonò il campanello per chiamare le domestiche e ordinò loro di aiutarla a fare il bagno e di chiamare il suo parrucchiere. A partire da quel giorno si riprese dal dolore con volontà di ferro, supportata unicamente da montagne di dolci e da lunghi bagni nella tinozza. La sera la sorprendeva solitamente con la bocca piena, immersa nell'acqua, ma non pianse più. Per Natale uscì dalla sua reclusione con diversi chili di troppo, perfettamente ricomposta, e allora verificò con sorpresa che in sua assenza la Terra aveva continuato a girare e che nessuno aveva sentito la sua mancanza, incentivo ulteriore per rimettersi definitivamente in piedi. Non avrebbe permesso a nessuno di ignorarla, decise; aveva appena compiuto sessant'anni e pensava di vivere perlomeno altri trenta per mortificare i suoi simili. Avrebbe portato il lutto per qualche mese, era il minimo che potesse fare per rispetto verso Feliciano, ma a lui non sarebbe piaciuto vederla trasformata in una di quelle vedove greche che si seppelliscono in panni neri per il resto dei loro giorni. Si accinse a progettare un nuovo guardaroba dai colori pastello per l'anno successivo, oltre a un viaggio di piacere in Europa. Aveva sempre desiderato andare in Egitto, ma Feliciano obiettava che era un paese di sabbia e di mummie in cui le cose interessanti erano successe tremila anni prima. Adesso che era sola avrebbe potuto realizzare quel sogno. Ben presto, tuttavia, si rese conto di quanto fosse cambiata la sua vita e di quanto poco la stimasse la società di San Francisco; nemmeno tutta la sua fortuna era sufficiente a far sì che le perdonassero l'origine ispanica e l'accento da cuoca. Proprio come aveva detto per scherzo, nessuno la cercava, non era più la prima invitata alle feste, non le si chiedeva di inaugurare un ospedale o un monumento, il suo nome non veniva più citato nelle cronache mondane e giusto giusto la si salutava all'opera. Era esclusa. D'altro canto, le risultava anche molto difficile incrementare il suo giro d'affari perché, priva del marito, non aveva chi la rappresentasse negli ambienti finanziari. Fece un calcolo dettagliato dei suoi beni e si rese conto che i suoi tre figli ci mettevano meno tempo a far uscire i soldi di quanto ne impiegasse lei a guadagnarli, erano spuntati debiti ovunque e prima di mancare Feliciano aveva fatto dei pessimi investimenti senza consultarla. Non era ricca come pensava, ma era lungi dal sentirsi sull'orlo del baratro. Chiamò Williams e gli ordinò di assumere un decoratore che rimodernasse i saloni, uno chef con cui pianificare la serie di banchetti che avrebbe offerto per l'Anno Nuovo, un agente di viaggio per parlare dell'Egitto e un sarto per approntare i vestiti nuovi. Era intenta in queste attività per riprendersi dallo sgomento della vedovanza con misure d'emergenza, quando si presentò in casa sua una bambina vestita in popeline bianco, con un cappellino di pizzo e scarpette di vernice, tenuta per mano da una donna vestita a lutto. Erano Eliza Sommers e la nipote Aurora, che Paulina del Valle non vedeva da cinque anni.
"Le ho portato la bambina come desiderava, Paulina," disse Eliza tristemente.
"Dio mio! Cosa è successo?" chiese Paulina del Valle colta di sorpresa.
"Mio marito è morto."
"Siamo tutte e due vedove allora..." mormorò Paulina.
Eliza Sommers spiegò che non poteva prendersi cura della nipote perché doveva portare il corpo di Tao Chi'en in Cina, come gli aveva sempre promesso. Paulina del Valle chiamò Williams e gli ordinò di condurre la bambina in giardino e mostrarle i pavoni mentre loro due parlavano.
"Quando pensa di tornare, Eliza?" chiese Paulina.
"Può darsi che sia un viaggio lungo."
"Non voglio affezionarmi alla bambina e nel giro di qualche mese dovergliela restituire. Mi si spezzerebbe il cuore."
"Le prometto che non succederà, Paulina. Lei può offrire a mia nipote una vita molto migliore di quella che posso garantirle io. Non appartengo a nessun luogo. Senza Tao non ha senso continuare a vivere a Chinatown, non ho nulla da spartire con gli americani e non ho niente da fare in Cile. Sono straniera ovunque, ma desidero che Lai Ming abbia delle radici, una famiglia e una buona educazione. Spetterebbe a Severo del Valle, suo padre legale, farsi carico di lei, ma è molto lontano e adesso ha altri figli. Siccome lei aveva tanto desiderato avere la bambina, ho pensato..."
"Ha fatto benissimo, Eliza!" la interruppe Paulina.
Paulina del Valle ascoltò sino alla fine il racconto della tragedia che si era abbattuta su Eliza Sommers e si informò circa tutti i particolari relativi ad Aurora, incluso il ruolo che Severo del Valle giocava nel suo destino. Senza sapere come, a mano a mano il rancore e l'orgoglio evaporarono e si ritrovò ad abbracciare con commozione quella donna che fino a pochi minuti prima aveva considerato la sua peggior nemica, a ringraziarla per l'incredibile generosità con cui le affidava la nipote e a giurarle che sarebbe stata una vera nonna, certo non all'altezza sua e di Tao Chi'en, ma sicuramente disposta a dedicare il resto della sua vita a prendersi cura di Aurora e a renderla felice. Quello sarebbe stato il suo unico scopo nella vita.
"Lai Ming è una ragazzina sveglia. Presto chiederà chi è suo padre. Fino a poco tempo fa credeva che suo padre, suo nonno, il suo migliore amico e Dio fossero la stessa persona: Tao Chi'en," disse Eliza.
"Che cosa vuole che le dica se me lo domanda?" volle sapere Paulina.
"Le dica la verità, è sempre la cosa più facile da capire," le suggerì Eliza.
"Che mio figlio Matías è il suo padre biologico e mio nipote Severo il padre legale?"
"Perché no? E le dica anche che sua madre si chiamava Lynn Sommers ed era una ragazza bella e buona," mormorò Eliza con la voce rotta.
Le due nonne stabilirono poi che, per evitare di confondere ancora di più la nipote, era meglio che si separasse definitivamente dalla famiglia materna, che non parlasse più cinese né avesse alcun contano con il suo passato. A cinque anni non si ha l'uso della ragione, conclusero; con il tempo, la piccola Lai Ming avrebbe dimenticato le sue origini e il trauma dei recenti trascorsi. Eliza Sommers si impegnò a non tentare in nessun modo di mettersi in contatto con la bambina, e Paulina del Valle ad adorarla come avrebbe fatto con quella figlia che aveva tanto desiderato e non aveva avuto. Si congedarono con un breve abbraccio ed Eliza uscì da una porta di servizio perché la nipote non la vedesse allontanarsi.
Mi dispiace davvero che quelle due buone signore, le mie nonne Eliza Sommers e Paulina del Valle, quel giorno abbiano deciso del mio destino senza permettermi di avere la minima voce in capitolo. Con la stessa titanica determinazione con cui, a diciotto anni, era scappata da un convento con la testa rapata per fuggire con il fidanzato e a ventotto aveva accumulato una fortuna trasportando ghiaccio preistorico su una barca, mia nonna Paulina si dedicò a cancellare le mie origini. E se non fosse stato per uno scherzo del destino, che all'ultimo momento le scombussolò i piani, ci sarebbe riuscita. Ricordo molto bene la prima impressione che mi fece. Mi rivedo entrare in un palazzo inerpicato su una collina, attraversare giardini con specchi d'acqua e arbusti potati, vedo i gradini di marmo con la coppia di leoni di bronzo a grandezza naturale sui due lati, la doppia porta di legno scuro e l'immenso atrio illuminato dalle vetrate colorate di una maestosa cupola che sormontava il soffitto. Non ero mai stata in un posto del genere e ne ero tanto affascinata quanto impaurita. Subito dopo mi ritrovai davanti a una poltrona dorata di quelle con un medaglione sulla spalliera su cui sedeva Paulina del Valle, regina sul suo trono. Siccome in seguito l'ho vista spesso su quella stessa poltrona, non faccio fatica a immaginare il suo aspetto quella prima volta: agghindata con una profusione di gioielli e stoffa in quantità tale da poterci fare delle tende, imponente. Di fianco a lei il resto del mondo scompariva. Aveva una voce piacevole, una notevole eleganza naturale, denti bianchi e regolari, risultato di una perfetta protesi dentaria di porcellana. A quei tempi sicuramente aveva già i capelli grigi, ma li tingeva dello stesso colore castano che avevano avuto in gioventù e ne aumentava il volume con una serie di toupet abilmente collocati in modo da far somigliare il suo chignon a una torre. Io non avevo mai visto prima una creatura di tali proporzioni, così perfettamente in armonia con la dimensione e la sontuosità della sua dimora. Adesso che finalmente so cosa era successo nei giorni precedenti a quel momento, mi rendo conto che non è giusto attribuire il mio sgomento solamente a quella formidabile nonna; quando mi portarono a casa sua, il terrore era parte del mio bagaglio, come la piccola valigia e la bambola cinese che tenevo ben strette. Dopo avermi fatto passeggiare per il giardino e avermi fatto sedere in un'immensa sala da pranzo vuota di fronte a una coppa di gelato, Williams mi condusse nella sala degli acquerelli, dove pensavo di trovare nonna Eliza ad aspettarmi; mi imbattei invece in Paulina del Valle, che mi si avvicinò con cautela, come se stesse cercando di acchiappare un gatto ritroso, dicendomi che mi voleva molto bene e che sarei vissuta in quella grande casa e avrei avuto molte bambole, e anche un pony e un calessino.
"Io sono tua nonna," specificò.
"Dov'è la mia nonna vera?" dicono che domandai.
"Sono la tua nonna vera, Aurora. L'altra nonna è andata a fare un lungo viaggio," mi spiegò Paulina.
Presi a correre, attraversai l'atrio con la cupola, mi persi nella biblioteca, mi ritrovai nella sala da pranzo e mi nascosi sotto il tavolo dove mi rannicchiai, ammutolita dal senso di smarrimento. Era un mobile gigantesco, con il ripiano di marmo verde e con figure di cariatidi intagliate in corrispondenza delle gambe, impossibile da spostare. Immediatamente arrivarono Paulina del Valle, Williams e un paio di domestici intenzionati a prendermi con le blandizie, ma io sgattaiolavo via come una donnola non appena qualche mano riusciva ad avvicinarsi. "La lasci stare, signora, uscirà da sola," suggerì Williams, ma siccome trascorsero diverse ore e io continuavo a stare asserragliata sotto il tavolo, mi portarono dell'altro gelato, un cuscino e una coperta. "Quando si sarà addormentata, la tireremo fuori," aveva detto Paulina del Valle; io, però, invece di addormentarmi, mi accovacciai e feci pipì, perfettamente cosciente della trasgressione che stavo commettendo, ma troppo spaventata per cercare un bagno. Rimasi sotto la tavola persino durante la cena di Paulina; dalla mia trincea vedevo le sue grosse gambe, le minute scarpe di satin traboccanti di ciccia, e i pantaloni neri dei camerieri che passavano a servirla. Morivo di fame, di stanchezza e dalla voglia di andare in bagno, ma ero superba quanto la stessa Paulina del Valle e non mi arresi facilmente. Poco dopo Williams fece scivolare sotto il tavolo un vassoio con il terzo gelato, biscotti e una gran fetta di torta al cioccolato. Attesi che si allontanasse e quando mi sentii sicura decisi di iniziare a mangiare, ma quanto più allungavo la mano, più si allontanava il vassoio, che il maggiordomo tirava con una corda. Quando finalmente riuscii a prendere un biscotto, ero già fuori dal mio rifugio, ma siccome non c'era nessuno nella sala da pranzo, potei divorarmi in pace le leccornie e precipitarmi sotto il tavolo non appena sentii un rumore. La stessa storia si ripeté qualche ora dopo, sul far del giorno, fino a quando, seguendo il vassoio mobile, non mi ritrovai sulla soglia della porta, dove mi aspettava Paulina del Valle, con un cucciolo fulvo che mi mise in braccio.
"Prendi, è per te, Aurora. Anche questo cagnolino si sente solo e intimorito," mi disse.
"Il mio nome è Lai Ming."
"Il tuo nome è Aurora del Valle," replicò lei categorica.
"Dov'è il bagno?" mormorai, tenendo le gambe incrociate.
E così iniziò la mia relazione con quella colossale nonna che il destino mi aveva tenuto in serbo. Mi sistemò in una camera vicino alla sua e mi autorizzò a dormire con il cucciolo, che chiamai Caramello perché era di quel colore. A mezzanotte mi svegliò l'incubo dei bambini con la tunica nera e senza pensarci su due volte sfrecciai nel letto leggendario di Paulina del Valle, come prima mi infilavo tutte le mattine in quello del nonno, per farmi coccolare. Ero abituata a essere accolta dalle salde braccia di Tao Chi'en, niente mi confortava più del suo profumo di mare e delle cantilene dalle dolci parole cinesi che mi ripeteva mezzo addormentato. Non sapevo che i bambini normalmente non varcavano la soglia delle camere dei grandi e che tantomeno entravano nei loro letti; ero cresciuta in stretto contatto fisico, sbaciucchiata e cullata all'infinito dai miei nonni materni, e non conoscevo altro modo di trovare pace o consolazione se non in un abbraccio. Vedendomi, Paulina del Valle mi respinse scandalizzata, io mi misi a piagnucolare sottovoce all'unisono con il povero cagnolino: la nostra condizione dovette risultare talmente pietosa che ci fece segno di avvicinarci. Saltai nel letto e mi coprii la faccia con le lenzuola. Credo che mi addormentai immediatamente, e a ogni modo mi svegliai raggomitolata vicino ai suoi grandi seni che sapevano di gardenia, con il cucciolo ai piedi. La prima cosa che feci al mio risveglio tra delfini e naiadi fiorentini fu chiedere dei miei nonni, Eliza e Tao. Li cercai per tutta la casa e nei giardini, poi mi piazzai di fianco alla porta in attesa che venissero a prendermi. La stessa scena si ripeté per il resto della settimana, nonostante i regali, le passeggiate e le coccole di Paulina. Il sabato scappai. Non mi ero mai trovata da sola per strada e non ero in grado di orientarmi, ma l'istinto mi indicò che dovevo scendere la collina e così raggiunsi il centro di San Francisco, dove girovagai per diverse ore, terrorizzata, fino a quando intravidi un paio di cinesi con un carretto carico di biancheria da lavare e li seguii, a prudente distanza, perché assomigliavano a mio zio Lucky. Si dirigevano a Chinatown – si trovavano lì tutte le lavanderie della città – e non appena misi piede in quel quartiere a me così noto, mi sentii al sicuro, anche se ignoravo i nomi delle strade o l'indirizzo dei miei nonni. Ero timida e troppo spaventata per chiedere aiuto e quindi continuai a camminare senza meta, guidata dagli aromi delle cucine, dal suono della lingua e dall'aspetto delle centinaia di piccoli negozi che tante volte avevo visitato per mano a mio nonno Tao Chi'en. A un certo punto mi vinse la stanchezza, mi sistemai sulla soglia di un antico edificio e mi addormentai. Mi risvegliarono uno scrollone e i mugugni di una vecchia con sottili sopracciglia dipinte a carboncino in mezzo alla fronte, che le conferivano l'aspetto di una maschera. Lanciai un urlo terrorizzato, ma era troppo tardi per filarmela, perché mi aveva già imprigionato con entrambe le mani. Mentre scalciavo a vuoto, mi condusse in uno stambugio putrido, nel quale mi rinchiuse. La stanza puzzava e probabilmente mi sentii male per la paura e la fame, perché iniziai a vomitare. Non avevo la più pallida idea di dove mi trovavo. Appena mi ripresi dalla nausea, mi misi a chiamare il nonno a pieni polmoni e allora tornò la donna e mi appioppò un paio di ceffoni che mi tolsero il fiato; non mi aveva mai picchiato nessuno e credo che la sorpresa fosse più grande del dolore. Mi ordinò in cantonese di chiudere il becco o mi avrebbe frustato con una canna di bambù, poi mi denudò, mi esaminò da capo a piedi, con speciale attenzione alla bocca, alle orecchie e ai genitali, mi mise una camicia pulita e si portò via i miei indumenti macchiati. Rimasi un'altra volta sola nello stanzino che sprofondava nella penombra a mano a mano che diminuiva la luce proveniente dall'unico foro di ventilazione.
Credo che quell'avventura mi abbia marchiato perché sono passati venticinque anni e tremo ancora al ricordo di quelle ore interminabili. A quei tempi non si vedevano mai bambine sole per Chinatown, le famiglie le sorvegliavano gelosamente perché bastava una minima distrazione per farle sparire nei tentacoli inaccessibili della prostituzione infantile. Io ero troppo piccola per tutto ciò, ma spesso le bambine della mia età venivano rapite o comprate per essere allenate fin dall'infanzia a ogni sorta di depravazione. La donna tornò svariate ore dopo, quando ormai era completamente buio, accompagnata da un uomo più giovane. Mi osservarono alla luce di una lampada e iniziarono a discutere concitatamente nella loro lingua ma io, pur conoscendola, non capii molto perché ero estenuata e morta di paura. Mi sembrò di sentire diverse volte il nome di mio nonno Tao Chi'en. Se ne andarono e rimasi nuovamente sola, a tremare dal freddo e dalla paura, non so per quanto tempo. Quando la porta si aprì ancora, la luce della lampada mi accecò, sentii pronunciare il mio nome cinese, Lai Ming, e riconobbi la voce inconfondibile di zio Lucky. Le sue braccia mi sollevarono e poi non mi resi conto più di nulla perché il sollievo mi stordì. Non ricordo il viaggio in carrozza né il momento in cui mi ritrovai nella villa di Nob Hill di fronte a nonna Paulina. Non ricordo nemmeno quanto accadde nelle settimane successive, perché presi la varicella e mi ammalai seriamente; fu un'epoca confusa, densa di cambiamenti e contraddizioni.
Ora che sto mettendo insieme i tasselli del mio passato, posso affermare senza tema di smentita che a salvarmi fu la buona stella di zio Lucky. La donna che mi aveva rapita per strada si era rivolta a un rappresentante del suo tong, perché a Chinatown non si muoveva filo senza che quelle bande ne fossero informate e dessero la loro approvazione. Tutta la comunità era suddivisa nei diversi tongs. Consorterie chiuse e gelose che radunavano attorno a sé i propri membri esigendo lealtà e commissioni in cambio di protezione, contatti per poter lavorare e la promessa di riportare i corpi degli affiliati in Cina, qualora fossero morti sul suolo americano. L'uomo mi aveva vista per mano al nonno molte volte e, per una fortunata coincidenza, apparteneva allo stesso tong di Tao Chi'en. Fu lui a chiamare lo zio. Il primo impulso di Lucky fu di portarmi a casa perché la sua nuova moglie, da poco commissionata su catalogo in Cina, si facesse carico di me, ma poi capì che le istruzioni dei suoi genitori andavano rispettate. Dopo avermi consegnata nelle mani di Paulina del Valle, nonna Eliza era partita con il corpo del marito per dargli sepoltura a Hong Kong. Sia lei, sia Tao Chi'en avevano sempre sostenuto che il quartiere cinese di San Francisco era un mondo troppo piccolo per me, e desideravano che io facessi parte degli Stati Uniti. Per quanto non condividesse questa posizione, Lucky Chi'en non poteva disobbedire alla volontà dei genitori e quindi pagò ai rapitori la somma convenuta e mi riportò a casa di Paulina del Valle. Non l'avrei più rivisto se non dopo vent'anni, quando andai a cercarlo per appurare gli ultimi particolari della mia storia.
L'orgogliosa famiglia dei miei nonni paterni visse a San Francisco per trentasei anni senza lasciare grossi segni. Sono andata in cerca delle loro tracce. La villa di Nob Hill oggi è un hotel e nessuno ricorda chi furono i primi proprietari. Passando in rassegna vecchi quotidiani in biblioteca, ho rinvenuto molteplici riferimenti alla famiglia nelle pagine di cronaca, come pure la storia della statua della Repubblica e il nome di mia madre. C'è anche una breve notizia relativa alla morte del nonno Tao Chi'en, un annuncio mortuario molto encomiastico redatto da un tale Jacob Freemont, e un necrologio della Società medica in cui si ringrazia per i contributi apportati dallo zhong yi Tao Chi'en alla medicina occidentale. È un caso eccezionale, perché allora la popolazione cinese era quasi invisibile, nasceva, viveva e moriva ai margini della realtà americana, ma il prestigio di Tao Chi'en aveva oltrepassato i confini di Chinatown e della California, lo aveva portato alla notorietà persino in Inghilterra, dove aveva tenuto diverse conferenze sull'agopuntura. Senza quelle testimonianze stampate, la maggior parte dei protagonisti di questa storia sarebbe sparita, spazzata via dal vento della fallace memoria.
La mia fuga a Chinatown alla ricerca dei nonni materni si aggiunse ad altri motivi che indussero Paulina del Valle a ritornare in Cile. Capì che non ci sarebbero state feste sontuose né sperperi di sorta in grado di restituirle la posizione sociale di cui godeva quando il marito era in vita. Stava invecchiando da sola, lontana dai figli, dai parenti, dalla sua lingua e dalla sua terra. I soldi rimasti non erano sufficienti per mantenere il tenore di vita abituale nella palazzina di quarantacinque camere, ma costituivano un capitale immenso in Cile, dove qualsiasi cosa risultava molto più economica. Inoltre le era piovuta tra le braccia una nipote sconosciuta che riteneva necessario sradicare completamente dal suo passato cinese se si voleva fare di lei una signorina cilena. Paulina non poteva tollerare l'idea che fuggissi di nuovo e assunse una bambinaia inglese per farmi sorvegliare notte e giorno. Annullò i progetti per il viaggio in Egitto e i banchetti di Capodanno, ma fece accelerare la confezione del suo nuovo guardaroba e poi iniziò a suddividere metodicamente i soldi tra gli Stati Uniti e l'Inghilterra, inviando in Cile solo l'importo indispensabile per la nostra sistemazione, perché la situazione politica le pareva instabile. Scrisse una lunga lettera al nipote Severo del Valle per riconciliarsi con lui, raccontargli quanto era successo a Tao Chi'en e comunicargli la decisione di Eliza di affidarle la bambina, spiegandogli minuziosamente i vantaggi che derivavano dal fatto che fosse lei a crescerla. Severo del Valle comprese le sue ragioni e accettò la situazione, visto che aveva già due figli e la moglie era in attesa del terzo, ma si rifiutò di rinunciare alla tutela legale come lei desiderava.
Gli avvocati di Paulina la aiutarono a sistemare la situazione finanziaria e a vendere la villa, mentre il maggiordomo Williams si faceva carico delle questioni pratiche relative al trasloco della famiglia nel Sud del planisfero e dell'imballaggio di tutti i beni della sua padrona, perché lei non voleva vendere nulla, non fosse mai che le malelingue dicessero che lo faceva per necessità. Stando ai programmi, Paulina doveva imbarcarsi su una nave da crociera con me, la bambinaia inglese e diversi dipendenti di fiducia, mentre Williams, una volta spedito in Cile il bagaglio e dopo aver ricevuto una succulenta gratifica in sterline, avrebbe potuto considerarsi libero. Quella sarebbe stata l'ultima incombenza al servizio della padrona. Una settimana prima della partenza, il maggiordomo chiese il permesso di parlarle in privato.
"Mi scusi signora, posso chiederle perché è declinata la sua considerazione nei miei riguardi?"
"Ma di cosa parla, Williams! Lei sa quanto io la stimi e quanto le sia grata per i suoi servigi."
"Tuttavia non desidera portarmi in Cile..."
"Santo cielo! Non mi è nemmeno passato per la testa. Che cosa ci farebbe un maggiordomo britannico in Cile? Non ce l'ha nessuno. Riderebbero di lei e di me. Ha guardato una cartina? Quel paese è molto lontano e nessuno parla inglese, la sua vita lì sarebbe ben poco piacevole. Non ho il diritto di chiederle un simile sacrificio, Williams."
"Se mi permette di dirlo, separarmi da lei sarebbe un sacrificio maggiore."
Paulina del Valle rimase a guardare il dipendente con gli occhi spalancati per la sorpresa. Per la prima volta si rese conto che Williams era qualcosa di più di un automa in tight nero e guanti bianchi. Vide un uomo sulla cinquantina, dalle spalle ampie e il viso gradevole, con abbondanti capelli color pepe e occhi penetranti; notò anche le sue mani rozze da scaricatore e i denti gialli per la nicotina, anche se non l'aveva mai visto fumare o masticare tabacco. Rimasero in silenzio per una pausa interminabile, lei a osservarlo e lui a sostenere il suo sguardo senza dar mostra di disagio.
"Signora, non ho potuto non notare le difficoltà che la vedovanza le ha arrecato," disse alla fine Williams nel linguaggio mediato che utilizzava sempre.
"Mi sta prendendo in giro?" sorrise Paulina.
"Niente è più distante dalle mie intenzioni, signora."
"Ehm, ehm," si schiarì la voce lei nella lunga pausa che aveva seguito la risposta del maggiordomo.
"Si starà domandando dove voglia andare a parare," proseguì lui.
"Diciamo che è riuscito a intrigarmi, Williams."
"Stavo pensando che, data l'impossibilità di venire in Cile come suo maggiordomo, forse non sarebbe del tutto una cattiva idea se ci venissi come marito."
Paulina credette che il pavimento si fosse squarciato, e che lei e la sua sedia stessero per sprofondare fino al centro della Terra. Il suo primo pensiero fu che a quell'uomo avesse dato di volta il cervello, non c'era altra spiegazione, ma constatati il contegno dignitoso e la calma del maggiordomo, ingoiò gli insulti che aveva già sulla punta della lingua.
"Mi consenta di spiegarle il mio punto di vista, signora," aggiunse Williams. "Non ho pretese, evidentemente, circa l'esercizio della funzione di marito sul versante sentimentale. Non aspiro nemmeno al suo patrimonio, che rimarrebbe completamente in salvo se a tale scopo lei si tutelasse con le misure legali del caso. Il mio ruolo al suo fianco rimarrebbe praticamente quello di sempre: aiutarla in tutto ciò che mi è possibile con la massima discrezione. Immagino che in Cile, come nel resto del mondo, una donna sola si trovi ad affrontare molti inconvenienti. Per me sarebbe un onore rispondere di lei in prima persona."
"E lei cosa ci guadagna con questo curioso accomodamento?" indagò Paulina senza riuscire a dissimulare il tono mordace.
"Da una parte ci guadagnerei in rispettabilità. Dall'altra, ammetto che l'idea di non vederla mai più ha iniziato a tormentarmi da quando ha cominciato a pianificare il suo viaggio. Ho passato metà della mia vita al suo fianco, mi sono abituato."
Paulina rimase senza parole per un altro eterno intervallo, a riflettere sulla strana proposta del suo dipendente. Per come era stata presentata, era un buon affare, vantaggioso per entrambi; lui avrebbe goduto di un alto tenore di vita, che diversamente non avrebbe mai avuto, e lei sarebbe andata sottobraccio a un uomo che, a ben guardare, aveva un'aria signorile. In realtà sembrava un membro dell'aristocrazia britannica. Al solo pensiero della faccia dei parenti in Cile e dell'invidia delle sorelle, scoppiò a ridere.
"Lei ha perlomeno dieci anni e trenta chili meno di me. Non teme il ridicolo?" chiese, scossa dalle risate.
"Io no. E lei non ha paura di farsi vedere con una persona del mio rango?"
"Io non ho paura di niente nella vita e adoro scandalizzare il prossimo. Qual è il suo nome, Williams?"
"Frederick."
"Frederick Williams... Bel nome, da vero aristocratico."
"Mi dispiace doverle dire che è l'unico indizio di aristocrazia che possiedo, signora," sorrise Williams.
E così fu che, una settimana più tardi, mia nonna Paulina del Valle, il marito appena inaugurato, il parrucchiere, la bambinaia, due domestiche, un valletto, un domestico e io salimmo, carichi di bauli, su un treno diretto a New York, da dove ci saremmo imbarcati su una nave britannica per una crociera in Europa. Viaggiava con noi anche Caramello, che si trovava in quella fase dello sviluppo in cui i cani fornicano con tutto ciò che è a portata di mano, in questo caso la mantella di volpi della nonna. La mantella aveva code intere su tutta l'ampiezza e Caramello, confuso dalla passività con cui le medesime ricevevano le sue avances amorose, la distrusse a morsi. Furibonda, Paulina del Valle fu sul punto di gettare in mare mantella e cagnolino, ma grazie a una mia scenata isterica, ambedue furono risparmiati. La nonna alloggiava in una suite di tre camere e Frederick Williams ne occupava una delle stesse dimensioni dall'altro lato del corridoio. Paulina del Valle passava il tempo a mangiare a qualsiasi ora, a cambiarsi d'abito per ogni attività, a darmi lezioni di aritmetica perché in futuro mi facessi carico dei suoi libri contabili, e a raccontarmi la storia della famiglia affinché sapessi da dove venivo, senza però mai chiarire l'identità di mio padre, come se fossi spuntata nel clan dei del Valle per generazione spontanea. Se domandavo di mia madre e mio padre, mi rispondeva che erano morti e che non aveva importanza, perché con una nonna come lei ne avevo più che a sufficienza. Nel frattempo Frederick Williams giocava a bridge e leggeva quotidiani inglesi, come gli altri gentiluomini della prima classe. Si era lasciato crescere basette e baffi frondosi dalle punte impomatate che gli conferivano un aspetto distinto, fumava la pipa e sigari cubani. Confessò alla nonna di essere un fumatore accanito e che la cosa più difficile del suo lavoro da maggiordomo era stato l'astenersi dal farlo in pubblico; finalmente adesso poteva assaporarsi il suo tabacco e buttare nell'immondizia quelle pastiglie alla menta comprate all'ingrosso che gli avevano perforato lo stomaco. A quei tempi, in cui gli uomini di elevata condizione sociale ostentavano pancia e doppio mento, la figura piuttosto asciutta e atletica di Williams costituiva un fatto singolare nella buona società; tuttavia i suoi modi impeccabili risultavano ben più convincenti di quelli della nonna. Di sera, prima di scendere insieme nella sala da ballo, passavano dalla cabina che condividevamo io e la bambinaia a salutare. Erano un vero spettacolo, lei pettinata e truccata dal parrucchiere, vestita da sera e luccicante di gioielli come un idolo pingue, e lui trasformato in raffinato principe consorte. A volte mi affacciavo nella sala per spiarli meravigliata: Frederick Williams sapeva condurre Paulina del Valle sulla pista da ballo con la padronanza di chi è abituato a trasportare carichi pesanti.
Arrivammo in Cile un anno dopo, quando il traballante patrimonio della nonna si era rimesso in piedi grazie alla speculazione sullo zucchero da lei condotta durante la Guerra del Pacifico. La sua teoria si rivelò azzeccata: nei periodi difficili la gente mangia più dolci. Il nostro arrivo coincise con la prima teatrale dell'impareggiabile Sarah Bernhardt nel suo ruolo più famoso, La signora delle camelie. La celebre attrice non riuscì a commuovere il pubblico come era successo nel resto del mondo civilizzato, perché la bigotta società cilena non simpatizzò con la cortigiana tubercolotica, a tutti sembrò normale che si sacrificasse per l'amante in nome del "cosa dirà la gente", non c'era motivo per tutti quei drammi e quelle camelie appassite. La famosa attrice se ne andò convinta di essere stata in un paese di gente che non capiva assolutamente niente, opinione che Paulina del Valle condivideva appieno. La nonna aveva girovagato con il suo seguito per diverse città d'Europa, senza però realizzare il suo sogno di andare in Egitto, visto che, immaginò, non si sarebbe trovato un cammello in grado di reggere il suo peso e avrebbe dovuto visitare le piramidi a piedi sotto un sole di lava incandescente. Nel 1886 io avevo sei anni, parlavo un misto di cinese, inglese e spagnolo, ma sapevo svolgere le quattro operazioni fondamentali dell'aritmetica e convertire con incredibile prontezza franchi francesi in sterline, e queste ultime in marchi tedeschi o lire italiane. Avevo smesso di piangere a ogni momento per nonno Tao e nonna Eliza, ma continuavano a tormentarmi con regolarità gli stessi inspiegabili incubi. C'era un buco nero nella mia memoria, qualcosa di sempre presente e pericoloso che non riuscivo a focalizzare, qualcosa di sconosciuto che mi terrorizzava, soprattutto al buio o in mezzo alla folla. Non potevo sopportare di vedermi circondata dalla gente, iniziavo a gridare come un'ossessa e nonna Paulina doveva avvolgermi in un abbraccio da orso per calmarmi. Mi ero abituata a rifugiarmi nel suo letto quando mi svegliavo in preda alla paura; così tra noi due si radicò quell'intimità che, ne sono certa, mi salvò dalla pazzia e dal terrore in cui altrimenti sarei sprofondata. Di fronte alla necessità di consolarmi, Paulina del Valle cambiò in modo impercettibile per tutti, tranne che per Frederick. Si fece più tollerante e affettuosa e calò persino un poco di peso, perché dovendomi stare appresso con tanta attenzione, si dimenticava dei dolci. Penso che mi adorasse. Lo dico senza falsa modestia perché me ne diede molte prove; mi aiutò a crescere con tutta la libertà possibile a quei tempi, solleticando la mia curiosità e mostrandomi il mondo. Non mi consentiva sentimentalismi o recriminazioni, "non si deve guardare indietro" era uno dei suoi motti. Mi fece degli scherzi, alcuni piuttosto pesanti, fino a quando non imparai a renderle la pariglia e ciò costituì la cifra del nostro rapporto. Una volta trovai nel patio una lucertola schiacciata dalla ruota di una vettura, rimasta sotto il sole per diversi giorni e ormai ridotta a un fossile, immobilizzata per sempre nel suo triste aspetto di rettile sbudellato. La raccolsi e la conservai, senza sapere per quale scopo, fino a quando non scoprii come farne un uso perfetto. Mi trovavo seduta a uno scrittoio a fare i compiti di matematica e la nonna era appena entrata distrattamente nella stanza, quando simulai un incontrollabile accesso di tosse e lei si avvicinò per battermi sulla schiena. Mi piegai in due, con la testa tra le mani e, con grande orrore della povera signora, "sputai" la lucertola che atterrò sulla mia gonna. Fu tale lo sconvolgimento che prese la nonna alla vista della bestiola apparentemente espulsa dalle mie viscere che cadde a sedere; poi però si unì alla mia risata e conservò l'animaletto rinsecchito tra le pagine di un libro per ricordo. È difficile comprendere perché una donna così forte avesse paura di raccontarmi la verità su mio padre. Credo che, nonostante il suo atteggiamento di sfida nei confronti delle convenzioni, non riuscì mai a vincere i pregiudizi della sua sfera sociale. Per proteggermi dall'emarginazione, nascose con grande cura l'esistenza del mio quarto di sangue cinese, la modesta estrazione sociale di mia madre e il fatto che, in realtà, io ero un'illegittima. È l'unico rimprovero che posso muovere a quel genio di mia nonna.
In Europa conobbi Matías Rodríguez de Santa Cruz y del Valle. Paulina non rispettò l'accordo siglato con la nonna Eliza Sommers di dirmi la verità e, invece di presentarmelo come mio padre, disse che era uno zio, uno dei tanti su cui qualsiasi bambino cileno può contare, visto che qualsiasi parente o amico di famiglia in età da portare il titolo con una certa dignità, assurge automaticamente al rango di zio o zia, motivo per cui io ho sempre chiamato il buon Williams zio Frederick. Venni a sapere che Matías era mio padre diversi anni dopo, quando ritornò in Cile a morire, e fu lui stesso a confessarmelo. Quell'uomo non mi fece un'impressione memorabile, era magro, pallido e ben fatto, sembrava giovane quando era seduto, ma molto più vecchio quando cercava di muoversi. Camminava con un bastone ed era sempre accompagnato da un domestico che gli apriva le porte, lo aiutava a indossare il cappotto, gli accendeva le sigarette, gli allungava il bicchier d'acqua posato su un tavolo lì di fianco, perché anche lo sforzo di stendere il braccio risultava eccessivo per lui. Nonna Paulina mi spiegò che quello zio soffriva di artrite, una forma molto dolorosa che lo rendeva fragile come il cristallo, specificò, ragione per la quale dovevo avvicinarmi a lui con molta prudenza. La nonna sarebbe morta alcuni anni dopo senza sapere che il figlio maggiore non soffriva d'artrite, bensì di sifilide.
Lo sbigottimento della famiglia del Valle quando la nonna arrivò a Santiago fu smisurato. Da Buenos Aires attraversammo l'Argentina via terra fino ad arrivare in Cile; un vero safari se si considera il volume del bagaglio proveniente dall'Europa, sommato alle undici valigie di acquisti fatti a Buenos Aires. Viaggiammo in carrozza, con l'equipaggiamento caricato su una processione di muli, scortati da guardie armate al comando di zio Frederick perché c'erano banditi da entrambi i lati della frontiera, che purtroppo non ci assaltarono, consentendoci di arrivare in Cile senza nulla di interessante da raccontare a proposito del valico delle Ande. Strada facendo avevamo perso la bambinaia, che si era innamorata di un argentino e aveva preferito fermarsi, e una domestica, stroncata dal tifo, ma zio Frederick si arrangiava assumendo collaboratori domestici a ogni tappa del nostro pellegrinaggio. Paulina aveva deciso di stabilirsi a Santiago, la capitale, pensando che, dopo aver vissuto tanti anni negli Stati Uniti, il piccolo porto di Valparaíso, dove era nata, le sarebbe stato stretto. Inoltre si era abituata a rimanere lontana dal suo clan e l'idea di vedere quotidianamente i parenti, temibile consuetudine di qualsiasi timorata famiglia cilena, la terrorizzava. Tuttavia nemmeno a Santiago riuscì a sottrarsi a loro, dato che diverse sue sorelle erano accasate con "uomini perbene", come erano soliti definirsi reciprocamente i membri della classe alta, dando per scontato, mi pare, che il resto del mondo appartenesse alla categoria della "gente riprovevole". Il nipote Severo del Valle, anche lui residente nella capitale, si presentò con la moglie per salutarci non appena arrivammo. Del primo incontro con loro serbo un ricordo più nitido di quello con mio padre in Europa, perché mi accolsero con tali ed esagerate dimostrazioni d'affetto che mi spaventai. Il tratto più saliente in Severo era, nonostante il bastone e l'incedere claudicante, la sua somiglianza con i principi delle illustrazioni delle favole – raramente ho visto uomini più belli – e in Nívea il grande ventre rotondo che sfoggiava. A quei tempi la procreazione era ritenuta indecente e le donne incinte della borghesia si rinchiudevano in casa; lei invece non cercava di dissimulare il suo stato, anzi, lo esibiva indifferente al turbamento che provocava. Per strada la gente cercava di non guardarla, quasi avesse una malformazione o andasse in giro nuda. Io non avevo mai visto niente del genere e quando domandai cosa era successo a quella signora, nonna Paulina mi spiegò che la poveretta si era ingoiata un melone. Paragonata al suo attraente marito, Nívea sembrava un topolino, ma era sufficiente parlare con lei un paio di minuti per rimanere catturati dal suo fascino e dalla sua incredibile energia.
Santiago era una bella città situata in una valle fertile circondata da alte montagne, brune d'estate e coperte di neve in inverno, una città tranquilla, sonnolenta e odorosa di un miscuglio di giardini in fiore e sterco di cavallo. Aveva un'aria francese, con i suoi alberi secolari, le piazze, le fontane in stile arabeggiante, i portici e i vicoli, le donne eleganti, i signorili negozi in cui si vendevano le raffinatezze giunte dall'Europa e dall'Oriente, i suoi viali e le passeggiate dove i ricchi mettevano in mostra le carrozze e gli splendidi cavalli. Per le strade passavano venditori che decantavano la loro umile mercanzia portata nei canestri, correvano branchi di cani vagabondi e sui tetti nidificavano colombe e passeri. Le campane delle chiese battevano a una a una le ore del giorno, salvo nei giorni di festa in cui le strade si vuotavano e la gente riposava. Era una città signorile, molto diversa da San Francisco, con la sua marca inconfondibile di luogo di frontiera e la sua aria cosmopolita e vivace. Paulina del Valle comprò una casa in Ejército Libertador, la strada più aristocratica, vicina all'Alameda de las Delicias, su cui a ogni primavera passava, con tanto di cavalli impennacchiati e guardia d'onore, la carrozza napoleonica del presidente della repubblica diretto alla sfilata militare delle feste patrie nel Parque de Marte. In quanto a magnificenza, la casa non era paragonabile alla villa di San Francisco, ma per Santiago era di un'opulenza irritante. Tuttavia non furono tanto l'ostentazione della prosperità e la mancanza di tatto a lasciare a bocca aperta la piccola società cittadina, bensì il marito con pedigree che Paulina del Valle "si era comprata", come dicevano, e i pettegolezzi che circolavano sull'immenso letto dorato con mitologiche figure marine, sul quale quella coppia di anziani chissà quali peccati commetteva. A Williams furono attribuiti titoli nobiliari e infide intenzioni. Che motivo poteva avere un lord britannico così bello e raffinato per sposarsi con una donna dal rinomato caratteraccio e alquanto più anziana di lui? Poteva essere solo un conte caduto in disgrazia o un cacciatore di fortuna pronto a privarla del patrimonio per poi abbandonarla. In fondo tutti desideravano che così fosse per far abbassare la cresta alla mia arrogante nonna, ma ciò nonostante nessuno mancò di cortesia con il marito, per riguardo alla tradizione cilena di ospitalità con gli stranieri. Inoltre Frederick Williams si guadagnò il rispetto di belli e brutti con i suoi modi squisiti, il suo atteggiamento prosaico nei confronti della vita e le sue idee monarchiche, convinto com'era che tutti i mali della società fossero imputabili all'indisciplina e alla mancanza di rispetto per le gerarchie. Il motto di colui che per tanti anni era stato un servitore era "ognuno al suo posto e un posto per ognuno". Divenuto marito della nonna, interpretò il suo ruolo di oligarca con la stessa naturalezza con cui prima adempiva al compito di domestico; se prima non aveva mai tentato di mischiarsi con i suoi superiori, ora non sfiorava neppure chi stava sotto di lui; la distinzione tra le classi gli pareva indispensabile per evitare la confusione e la volgarità. In quella famiglia di barbari passionali, quali erano i del Valle, Williams suscitava stupore e ammirazione con la sua esagerata cortesia e l'impassibile posatezza, risultato degli anni di esercizio come maggiordomo. Sapeva quattro parole di castigliano, ma il suo silenzio obbligato veniva scambiato per saggezza, orgoglio e mistero. L'unico in grado di smascherare il presunto nobile britannico era Severo del Valle, che si guardò bene dal farlo perché stimava l'antico servitore e ammirava quella zia che si faceva beffe di tutti pavoneggiandosi con l'elegante marito.
Nonna Paulina si dedicò anima e corpo a una campagna di carità pubblica per mettere a tacere l'invidia e le malignità che la sua ricchezza suscitava. Sapeva come fare, perché nei primi anni della sua vita era stata educata in quel paese, in cui prestare soccorso agli indigenti era compito obbligato per le donne di buona famiglia. Quanto più si sacrificavano per i poveri visitando ospedali, asili, orfanotrofi e case popolari, più in alto si ritrovavano nella stima generale, motivo per cui sbandieravano le loro donazioni ai quattro venti. Ignorare tale obbligo arrecava tanti di quegli sguardi torvi e sacerdotali rimproveri, che nemmeno Paulina del Valle sarebbe riuscita a eludere il senso di colpa e il timore della condanna eterna. Mi allenò a quelle opere di compassione, ma confesso che ho sempre provato disagio nell'arrivare in un quartiere miserabile sulla nostra lussuosa carrozza carica di vettovaglie, con due lacchè pronti a distribuire i regali a diseredati che ci ringraziavano con grandi dimostrazioni di umiltà, ma con un vivo odio luccicante nelle pupille.
La nonna dovette educarmi in casa, perché scappai da tutti gli istituti religiosi a cui mi iscrisse. La famiglia del Valle l'aveva convinta che un collegio era l'unica soluzione per trasformarmi in una creatura normale; sostenevano che avevo bisogno della compagnia di altri bambini per vincere la mia patologica timidezza, e della mano ferma delle suore per essere sottomessa. "Questa ragazzina l'hai viziata troppo, Paulina, la stai trasformando in un mostro," dicevano, e la nonna finì per credere a ciò che era evidente. Dormivo con Caramello nel letto, mangiavo e leggevo quel che mi pareva, passavo le giornate a divertirmi in giochi di fantasia, senza troppa disciplina perché intorno a me non c'era nessuno disposto a prendersi la briga di impormela; in altre parole, ho goduto di un'infanzia piuttosto felice. Non sopportavo gli educandati con le loro suore baffute e la turba di collegiali, che mi ricordavano gli incubi angosciosi dei bambini in tunica nera; non sopportavo nemmeno l'inflessibilità delle regole, la monotonia degli orari e il freddo di quei conventi coloniali. Non so quante volte si sia ripetuta la stessa storia: Paulina del Valle mi vestiva di tutto punto, mi impartiva le istruzioni con tono minaccioso, mi portava praticamente di peso e mi lasciava, con i miei bauli, nelle mani di qualche forzuta novizia per poi fuggire via con tutta la fretta che il peso le consentiva, rosa dal rimorso. Erano collegi per bambine ricche in cui imperavano la subordinazione e la bruttezza, e il cui obiettivo finale consisteva nel darci quel tanto di istruzione che ci permettesse di non restare completamente ignoranti, dato che un'infarinatura culturale aveva un suo valore sul mercato matrimoniale, ma non fosse, tuttavia, sufficiente a consentirci di formulare delle domande. Si trattava di piegare la volontà personale in nome del bene collettivo, di fare di noi delle buone cattoliche, madri abnegate e spose obbedienti. Le suore dovevano iniziare col reprimere il nostro corpo, fonte di vanità nonché di altri peccati; non ci lasciavano ridere né correre, e nemmeno giocare all'aria aperta. Ci facevamo il bagno una volta al mese, coperte da lunghe camicie per non mostrare le nostre vergogne all'occhio di Dio, che è ovunque. Si partiva dall'assunto che la disciplina andava impressa a lettere di fuoco e pertanto non c'erano sconti sulla severità. Ci inculcavano il timore di Dio, del diavolo, degli adulti, della bacchetta con cui ci battevano sulle dita, dei ciottoli su cui dovevamo inginocchiarci per penitenza, dei nostri stessi pensieri e desideri, timore del timore. Non ricevevamo mai una parola d'elogio, perché temevano in tal modo di coltivare in noi la vanagloria, ma non ci facevano invece mancare le punizioni con cui smussare il nostro carattere. Tra quelle spesse mura sopravvivevano le mie compagne in divisa, con le trecce tirate al punto che a volte il cuoio capelluto sanguinava, e le mani coperte di geloni per il freddo eterno. Il contrasto con le loro case, in cui durante le vacanze venivano coccolate come principesse, doveva essere tale da far impazzire anche la più savia. Io non ce la feci a reggere. Una volta ottenni la complicità di un giardiniere per saltare l'inferriata e fuggire. Non so come riuscii ad arrivare da sola in via Ejército Libertador, dove fui ricevuta da Caramello, isterico dalla gioia, e da Paulina del Valle, che invece ebbe quasi un infarto quando mi vide apparire con gli abiti infangati e gli occhi gonfi. Trascorsi qualche mese in casa fino a quando le pressioni esterne non obbligarono la nonna a ripetere l'esperimento. La seconda volta rimasi nascosta per tutta una notte tra gli arbusti del cortile intenzionata a morire di freddo e di fame. Immaginavo i volti delle suore e dei miei familiari allorché si fosse scoperto il mio cadavere e piangevo di pena per me stessa, povera bambina, martire in così giovane età. Il giorno successivo il collegio avvisò della mia sparizione Paulina del Valle, che arrivò come un ciclone a esigere spiegazioni. Mentre lei e Frederick Williams venivano condotti da una novizia con il viso in fiamme nell'ufficio della madre superiora, io me la svignai dai cespugli tra i quali ero rimasta nascosta e raggiunsi la carrozza che attendeva nel cortile; salii senza che il cocchiere se ne accorgesse e mi accovacciai sotto il sedile. Frederick Williams, il cocchiere e la madre superiora messi insieme dovettero aiutare la nonna a prendere posto sulla vettura, mentre lei gridava che se non saltavo fuori in fretta, si sarebbero accorte di chi era Paulina del Valle! Quando sbucai fuori dal mio rifugio, prima di arrivare a casa, dimenticò le lacrime di disperazione, mi prese per la collottola e mi diede una ripassata che durò un paio di isolati, fino a quando zio Frederick non riuscì a calmarla. Ma la disciplina non era il forte di quella buona signora e quando venne a sapere che non mangiavo dal giorno prima e avevo trascorso la notte alle intemperie, mi coprì di baci e mi portò a mangiare gelati. Nel terzo istituto in cui mi iscrisse non mi accettarono nemmeno, dal momento che, durante il colloquio con la direttrice, assicurai di aver visto il diavolo, che tra l'altro aveva le zampe verdi. Alla fine la nonna si diede per vinta. Severo del Valle la convinse che non c'era motivo di torturarmi, dato che potevo apprendere il necessario anche a casa con dei tutori privati. La mia infanzia fu costellata da una serie di istitutrici inglesi, francesi e tedesche destinate poi a soccombere, nell'ordine, all'acqua inquinata del Cile e alle sfuriate di Paulina del Valle; le sfortunate signore tornarono al loro paese d'origine con una diarrea cronica e cattivi ricordi. Il percorso della mia educazione fu alquanto accidentato finché non entrò nella mia vita un'eccezionale maestra cilena, la signorina Matilde Pineda, colei che mi ha insegnato praticamente tutto quel che so di importante, a parte il buon senso, di cui anche lei era priva. Era appassionata e idealista, scriveva poesie filosofiche che non riuscì mai a pubblicare, l'affliggeva una fame insaziabile di conoscenza e manifestava l'intransigenza nei confronti delle altrui debolezze tipica delle persone troppo intelligenti. Non tollerava la pigrizia; in sua presenza la frase "non posso" era vietata. La nonna la scelse perché si dichiarava agnostica, socialista e favorevole al suffragio femminile, tre ragioni più che valide perché non venisse assunta in nessun istituto scolastico. "Vediamo se le riesce di arginare un po' la bacchettoneria conservatrice e patriarcale di questa famiglia," dichiarò durante il primo colloquio Paulina del Valle, supportata da Frederick Williams e Severo, gli unici ad avere scorto il talento della signorina Pineda, quando tutti gli altri dichiaravano che quella donna avrebbe alimentato il mostro che si annidava in me. Le zie la classificarono immediatamente come un'"insolente" invitando la nonna a diffidare di quella donna di ceto inferiore e "arrampicatrice", come la definirono. Invece Williams, l'uomo più classista che io abbia mai conosciuto, la prese in simpatia. Sei giorni su sette, senza mai sgarrare, la maestra appariva alle sette di mattina nella casa della nonna dove l'aspettavo vestita di tutto punto, inamidata, con le unghie pulite e le trecce appena fatte. Facevamo colazione in un salottino commentando le notizie più importanti del giornale, poi facevamo un paio d'ore di lezione regolare e il resto della giornata lo trascorrevamo andando al museo e alla libreria Siglo de Oro, dove compravamo libri e prendevamo il tè con il libraio don Pedro Tey, recandoci in visita agli artisti, osservando la natura, facendo esperimenti di chimica, leggendo racconti, scrivendo poesie e allestendo classici teatrali con figurine ritagliate sul cartoncino. Fu lei a suggerire alla nonna di fondare un'associazione di dame per regolamentare le opere di carità e, invece di regalare ai poveri gli indumenti usati o il cibo avanzato nelle cucine, di creare un fondo, amministrarlo come se si fosse trattato di una banca e concedere prestiti alle donne perché si finanziassero qualche piccola attività: un pollaio, un laboratorio di cucito, catinelle per lavare la biancheria altrui, un carretto per un'attività di trasporti, insomma, il necessario per uscire dalla totale indigenza in cui vivevano con la loro prole. Agli uomini, no, disse la signorina Pineda, perché avrebbero usato il prestito per comprarsi da bere e comunque i progetti sociali del governo si incaricavano già di soccorrerli mentre invece, di donne e bambini, nessuno si occupava sul serio. "La gente non vuole regali, vuole guadagnarsi da vivere decorosamente," spiegò la mia maestra e Paulina del Valle, che la comprese immediatamente, si buttò in questo progetto con lo stesso entusiasmo con cui abbracciava i piani più ambiziosi per fare quattrini. "Prendo con una mano per dare con l'altra, e così acchiappo due piccioni con una fava: mi diverto e mi guadagno il cielo," rideva a crepapelle la mia singolare nonna. Condusse l'iniziativa ben oltre e non si limitò a costituire il Club de las Damas, che presiedeva con la sua solita efficienza – le altre signore erano terrorizzate da lei –, ma finanziò anche scuole, ambulatori medici itineranti e organizzò un sistema grazie al quale raccoglieva ciò che non era stato venduto nelle bancarelle del mercato e nelle panetterie, ma era ancora commestibile, per distribuirlo in orfanotrofi e asili.
Quando Nívea veniva in visita, sempre incinta e con diversi figli piccoli in braccio alle rispettive bambinaie, la signorina Matilde Pineda abbandonava la lavagna e, mentre le tate si facevano carico di quella schiera di creature, noi prendevamo il tè e loro due si dedicavano a progettare una società più giusta e più nobile. Nonostante non le avanzassero né tempo né mezzi economici, Nívea era la più giovane e la più attiva delle signore dell'associazione della nonna. A volte andavamo a trovare la sua vecchia professoressa, suor María Escapulario, relegata a dirigere un ospizio per monache anziane, dato che non le consentivano più di esercitare la sua passione di educatrice; la congregazione aveva deciso che le sue idee progressiste non erano compatibili con le collegiali e che poteva far meno danni occupandosi di vecchiette rimbambite piuttosto che seminando il germe della ribellione nelle menti infantili. Suor María Escapulario disponeva di una piccola cella in un edificio decrepito, circondato però da un giardino incantato dove ci riceveva sempre con riconoscenza perché amava le conversazioni intellettuali, piacere che le veniva negato in quell'ospizio. Le portavamo i libri che aveva ordinato e che compravamo nella polverosa libreria Siglo de Oro. Le offrivamo anche biscotti o una torta con cui accompagnare il tè, che lei preparava su un fornelletto a paraffina e serviva in tazze sbeccate. D'inverno rimanevamo nella cella, la suora seduta sull'unica sedia disponibile, Nívea e la signorina Matilde Pineda sulla branda e io per terra, ma se il clima lo permetteva passeggiavamo nel meraviglioso giardino tra alberi secolari, gelsomini, rose e camelie rampicanti e tante altre varietà di fiori in meraviglioso disordine, in un miscuglio di aromi che mi stordiva sempre. Non mi perdevo una parola di quelle conversazioni anche se sicuramente ci capivo poco; non ho più ascoltato discorsi così vibranti. Si sussurravano segreti, si sbellicavano dal ridere e parlavano di tutto tranne che di religione, per rispetto alle idee della signorina Matilde Pineda, secondo la quale Dio era un'invenzione degli uomini per controllare altri uomini e soprattutto le donne. Suor María Escapulario e Nívea erano cattoliche, ma nessuna delle due sembrava fanatica, a differenza della maggior parte della gente che allora mi girava intorno. Negli Stati Uniti nessuno parlava di religione, invece in Cile era argomento delle conversazioni postprandiali. La nonna e zio Frederick mi portavano a messa di tanto in tanto perché ci vedessero, dato che nemmeno Paulina del Valle, con tutta la sua audacia e la sua ricchezza, poteva permettersi il lusso di non assistere alle funzioni. La famiglia e la società non l'avrebbero tollerato.
"Sei cattolica, nonna?" le domandavo ogni volta che dovevo posticipare una passeggiata o la lettura di un libro per andare a messa.
"Pensi che sia possibile non esserlo in Cile?" mi rispondeva.
"La signorina Pineda non va a messa."
"Guarda come le vanno male le cose, poveretta. Con tutta quell'intelligenza, potrebbe essere la direttrice di una scuola se andasse a messa..."
A dispetto di ogni logica previsione, Frederick Williams si adattò molto bene all'enorme famiglia del Valle e al Cile. Probabilmente era dotato di viscere d'acciaio, dal momento che fu l'unico cui la pancia non si riempì di vermi con l'acqua potabile e che poteva mangiare diverse empanadas senza che lo stomaco gli andasse a fuoco. Nessuno dei cileni che conoscevamo, salvo Severo del Valle e don José Francisco Vergara, parlava inglese – nonostante la numerosa popolazione britannica residente a Valparaíso, la seconda lingua delle persone istruite era il francese – e dunque a Williams non restò altra soluzione che imparare il castigliano. La signorina Pineda gli impartiva lezioni e nel giro di pochi mesi riuscì faticosamente a farsi comprendere in uno spagnolo storpiato ma efficace, fu in grado di leggere i giornali e di condurre una vita sociale al Club de la Unión, dove era solito giocare a bridge in compagnia di Patrick Egon, il diplomatico statunitense ai vertici dell'ambasciata. La nonna riuscì a farlo ammettere al Club alludendo a una sua aristocratica provenienza dalla corte inglese che nessuno si diede la pena di verificare, dato che i titoli nobiliari erano stati aboliti dai tempi dell'Indipendenza e che, peraltro, era sufficiente guardare Frederick Williams per crederci. Per definizione, i membri del Club de la Unión appartenevano a "famiglie note" ed erano "uomini per bene" – le donne non potevano varcare la soglia dell'edificio –, e se si fosse scoperta la sua vera identità, ognuno di quei gentiluomini si sarebbe battuto in duello per l'onta di essere stato burlato da un ex maggiordomo proveniente dalla California trasformatosi nel più raffinato e colto dei membri, nel miglior giocatore di bridge e, senz'altro, in uno dei soci più ricchi. Williams si teneva aggiornato in materia d'affari per consigliare nonna Paulina, e di politica, argomento obbligato di conversazione sociale. Si dichiarava risolutamente conservatore, come quasi tutti in famiglia, e deplorava l'assenza, in Cile, di una monarchia simile a quella inglese, perché la democrazia gli pareva volgare e poco efficace. Durante gli inevitabili pranzi domenicali a casa della nonna, discuteva con Nívea e con Severo, gli unici liberali del clan. Le idee di quei tre divergevano, ma si stimavano e credo che segretamente si facessero beffe degli altri esponenti della primitiva tribù dei del Valle. Nelle rare occasioni in cui ci trovavamo in presenza di don José Francisco Vergara, con cui avrebbe potuto conversare in inglese, Frederick Williams si manteneva a rispettosa distanza; era l'unica persona che riusciva a incutergli timore con la sua superiorità intellettuale e, probabilmente, l'unico che avrebbe potuto smascherare immediatamente la sua condizione di antico servitore. Immagino che fossero in molti a domandarsi chi fossi io e perché Paulina mi avesse adottato, ma l'argomento non veniva affrontato in mia presenza; nei pranzi domenicali si riunivano una ventina di cugini di diverse età e nessuno mi chiese mai nulla a proposito dei miei genitori, a loro bastava sapere che portavo il loro stesso cognome per accettarmi.
Alla nonna costò più che a suo marito adattarsi al Cile, nonostante il cognome e il patrimonio che le spalancavano tutte le porte. Si sentiva soffocare dalle meschinità e dal perbenismo di quell'ambiente e aveva nostalgia della libertà di un tempo; trent'anni in California avevano lasciato il segno, ma non appena aprì le porte della sua dimora divenne il punto di riferimento della vita sociale di Santiago, perché seppe farlo con molta classe e gran tatto, esperta com'era dell'odio che si attiravano in Cile i ricchi e, a maggior ragione, i presuntuosi. Niente lacchè in livrea come quelli di cui si circondava a San Francisco, ma solo discrete cameriere con abiti neri e grembiuli bianchi; fine dello spendere e spandere nell'organizzazione di ricevimenti faraonici, ma feste sobrie e in tono familiare, per evitare che la si accusasse di voler strafare o di essere un'arricchita, il peggior epiteto possibile. Disponeva, naturalmente, di sfarzose vetture e cavalli invidiabili, come di un palco privato al Teatro Municipal, con salottino e buffet in cui serviva gelati e champagne ai suoi ospiti. Nonostante l'età e l'obesità, Paulina del Valle dettava la moda, perché era appena giunta dall'Europa e si dava per scontato che conoscesse l'ultimo grido in fatto di stile e tendenze moderne. In quella società austera e pacata, si trasformò nel faro delle influenze straniere; era l'unica signora del suo circolo a parlare inglese, ricevere libri e riviste da New York e Parigi, a ordinare stoffe, scarpe e cappelli direttamente a Londra, e a fumare in pubblico le stesse sigarette egiziane del figlio Matías. Comprava opere d'arte e alla sua tavola serviva piatti mai visti, perché persino le famiglie più snob seguivano una dieta simile a quella dei rudi capitani della Conquista: zuppa, bollito, arrosto, fagioli e pesanti dessert coloniali. La prima volta che la nonna portò in tavola del foie gras e una varietà di formaggi importati dalla Francia, solamente i gentiluomini che erano stati in Europa riuscirono a mangiare. L'odore del camembert e del Port-Salut provocarono a una signora tali conati che la costrinsero a dirigersi immediatamente ai servizi. La casa della nonna era il centro di aggregazione di artisti e giovani letterati di ambo i sessi che si riunivano per far conoscere le loro opere, sempre nel rispetto dell'abituale cornice classista; se la persona in questione non era bianca e di cognome noto, doveva essere provvista di grande talento per essere accettata, in questo Paulina non era diversa dal resto dell'alta società cilena. A Santiago gli incontri tra intellettuali si svolgevano nei caffè e nei club e vi presenziavano solo gli uomini, perché si partiva dal presupposto che, più che a scrivere versi, era meglio che le donne si dedicassero a mescolare la zuppa. L'iniziativa della nonna di ammettere le artiste nel suo salotto risultò una novità un tantino licenziosa.
La mia vita cambiò nella casa di Ejército Libertador. Per la prima volta dalla morte di mio nonno Tao Chi'en provai una sensazione di stabilità e la certezza di vivere all'interno di qualcosa che non si muoveva e non cambiava, una sorta di fortezza con radici ben piantate nella terraferma. Presi d'assalto l'intero edificio, non lasciai recessi inesplorati ed espugnai ogni angolo, compreso il tetto su cui trascorrevo ore intere a guardare le colombe, e le stanze di servizio, anche se lì mi era stato proibito l'accesso. L'enorme proprietà dava su due strade, aveva due ingressi – quello principale su Ejército Libertador e quello dei dipendenti che dava su una strada interna – e vantava dozzine di saloni, camere, giardini, terrazzi, nascondigli, solai, scale. C'erano il salone rosso, quello azzurro e quello dorato, che venivano utilizzati solo nelle grandi occasioni, e una meravigliosa veranda a vetrate in cui la vita famigliare si svolgeva tra vasi di maiolica cinese, felci e gabbie di canarini. La sala da pranzo principale era decorata con un affresco pompeiano che girava tutt'intorno alla stanza occupandone le quattro pareti, diverse vetrine con una collezione di porcellane e argenteria, uno chandelier con lacrime di cristallo e un finestrone adornato da una fontana con un mosaico in stile arabeggiante da cui sgorgava perennemente acqua.
Quando la nonna rinunciò a mandarmi a scuola e le lezioni con la signorina Pineda divennero una consuetudine, mi sentii molto felice. Ogni volta che formulavo una domanda, quella magnifica insegnante, invece di darmi una risposta, mi indicava la strada per trovarla da me. Mi insegnò a strutturare il pensiero, a indagare, leggere e ascoltare, a cercare alternative, a risolvere vecchi problemi con soluzioni nuove, a discutere usando la logica. Mi insegnò, soprattutto, a non credere ciecamente, a nutrire dubbi e pormi interrogativi persino su assunti che sembravano verità irrefutabili, quali la superiorità dell'uomo rispetto alla donna o di una razza o classe sociale su un'altra; idee del tutto innovatrici in un paese patriarcale in cui gli indios non venivano mai menzionati ed era sufficiente scendere un gradino nella gerarchia delle classi sociali per sparire dalla memoria collettiva. Fu la prima intellettuale in cui incappai nella mia vita. Nonostante tutta la sua intelligenza e istruzione, Nívea non poteva competere con la mia maestra; spiccava per l'intuizione e l'enorme generosità del suo cuore, era avanti di mezzo secolo rispetto ai suoi tempi, ma non si atteggiò mai a intellettuale, nemmeno nei famosi incontri a casa della nonna, durante i quali si distingueva per gli appassionati discorsi suffragisti e i dubbi teologici. L'aspetto esteriore della signorina Pineda non poteva essere più cileno, quel misto di spagnolo e di indio che genera donne di bassa statura, dai fianchi larghi, con occhi e capelli scuri, zigomi alti e un incedere pesante, come se camminassero inchiodate a terra. Possedeva una mente inusitata per i suoi tempi e per la sua condizione sociale; proveniva da un'umile famiglia del Sud, il padre lavorava nelle ferrovie e lei era stata l'unica di otto fratelli a poter terminare gli studi. Era discepola e amica di don Pedro Tey, il proprietario della libreria Siglo de Oro, un catalano dai modi ruvidi, ma dal cuore tenero, che guidava le sue letture e le prestava o regalava i volumi che lei non poteva comprare. In qualsiasi scambio di opinioni, per banale che fosse, Tey la contraddiceva. Lo sentii assicurare, per esempio, che i sudamericani non erano che macachi inclini allo sperpero, alla baldoria e all'ozio, ma bastò che la signorina Pineda assentisse perché lui cambiasse immediatamente opinione e aggiungesse che, tuttavia, erano migliori dei suoi compatrioti, sempre irosi e pronti a battersi in duello per qualsiasi sciocchezza. Benché fosse impossibile che si trovassero d'accordo su qualcosa, i due erano molto affiatati. Don Pedro doveva avere perlomeno vent'anni più della mia maestra, ma quando iniziavano a parlare la differenza d'età si smussava; lui ringiovaniva per l'entusiasmo e lei cresceva in grinta e maturità.
In dieci anni, Severo e Nívea del Valle ebbero sei figli e continuarono a procreare fino ad arrivare a quindici. Conosco Nívea da vent'anni e passa, e l'ho sempre vista con un neonato in braccio; la sua fertilità sarebbe una maledizione se non le piacessero tanto i bambini. "Cosa non darei perché lei educasse i miei figli!" sospirava Nívea quando incontrava la signorina Pineda. "Sono molti, signora Nívea, e con Aurora ho già il mio bel daffare," replicava la mia maestra. Severo era diventato un avvocato di grido, uno dei più giovani pilastri della società nonché membro insigne del partito liberale. Non concordava su molti punti nella politica del presidente, anch'egli liberale, e siccome era incapace di dissimulare la propria contrarietà non fu mai chiamato a far parte del governo. Tali opinioni l'avrebbero portato, di lì a poco, a costituire un gruppo dissidente che passò all'opposizione quando scoppiò la Guerra civile, così come fecero anche Matilde Pineda e il suo amico della libreria Siglo de Oro. Zio Severo mi prediligeva tra le dozzine di nipoti che lo circondavano, mi chiamava "la sua figlioccia" e mi raccontò che era stato a lui a darmi il cognome del Valle, ma ogni volta che gli domandavo se conoscesse l'identità del mio vero padre, mi rispondeva con frasi evasive: "Fai conto che sia io," diceva. Alla nonna l'argomento procurava l'emicrania e se assillavo Nívea mi mandava a parlare con Severo. Era un circolo vizioso.
"Nonna, non posso vivere con tutti questi misteri," dissi una volta a Paulina del Valle.
"E perché no? La gente ingannata nell'infanzia è più creativa," replicò.
"Oppure rimane scombussolata," suggerii io.
"Tra i del Valle non ci sono matti da legare, Aurora, solamente qualche eccentrico, come in tutte le famiglie che si rispettino," mi assicurò.
La signorina Matilde Pineda mi giurò di ignorare le mie origini e aggiunse che non c'era di che preoccuparsi, tanto nella vita non importa da dove si viene, ma dove si va; tuttavia, quando mi spiegò la teoria genetica di Mendel, le toccò ammettere che esistono buone ragioni per voler verificare chi siano i nostri antenati. E se mio padre fosse stato un folle che se ne andava in giro a squartare fanciulle?
Il cambiamento ebbe inizio lo stesso giorno in cui entrai nella pubertà. Mi svegliai con la camicia da notte macchiata di una sostanza simile a cioccolata, mi nascosi in bagno per lavarmi, piena di vergogna, e allora scoprii che non era cacca come pensavo: tra le gambe c'era del sangue. Mi diressi terrorizzata a comunicarlo alla nonna e una volta tanto non la trovai nel suo grande letto imperiale, circostanza decisamente insolita per chi si svegliava sempre verso mezzogiorno. Corsi giù per le scale inseguita da Caramello che continuava ad abbaiare, irruppi come un cavallo imbizzarrito nello studio e mi imbattei in Severo e Paulina del Valle, lui vestito da viaggio e lei con indosso la vestaglia di satin viola che le dava quell'aria da vescovo durante la Settimana Santa.
"Sto per morire!" gridai, avventandomi su di lei.
"Questo non è il momento opportuno," replicò la nonna seccamente.
Era da molti anni che la gente si lamentava del governo e da parecchi mesi sentivamo dire che il presidente Balmaceda stava cercando di trasformarsi in un dittatore, infrangendo così cinquantasette anni di rispetto della costituzione. Tale costituzione, redatta dall'aristocrazia intenzionata a governare in eterno, concedeva amplissime facoltà all'esecutivo; quando il potere era arrivato nelle mani di qualcuno che nutriva idee opposte, la classe alta si era ribellata. Balmaceda, uomo brillante e di convinzioni moderne, in realtà non era stato poi così male. Aveva potenziato l'educazione come nessun altro governo precedente, aveva difeso il salnitro cileno dalle compagnie straniere, edificato ospedali e altre opere pubbliche, soprattutto ferrovie, benché avviasse più lavori di quelli che riusciva a terminare; il Cile deteneva un notevole potere militare e navale, era un paese prospero e la sua moneta era la più solida tra quelle latino-americane. Tuttavia, l'aristocrazia non gli perdonava di aver elevato la classe media e di aver cercato di governare insieme a essa, come del resto il clero non poteva tollerare la separazione tra Stato e Chiesa, il matrimonio civile, che andò a sostituire quello religioso, e la legge che permetteva di seppellire nei cimiteri i defunti di qualsiasi confessione. Prima era un pasticcio disporre dei corpi di coloro che in vita non erano stati cattolici, così come di atei e suicidi, che spesso andavano a finire in fondo a qualche burrone o in mare. A causa di queste misure, le donne abbandonarono in massa il presidente. Per quanto prive di potere politico, nelle case regnavano loro ed esercitavano un'enorme influenza. Anche la classe media, che Balmaceda aveva appoggiato, gli girò le spalle ed egli reagì con superbia perché era abituato a comandare e a essere obbedito, come tutti i latifondisti di allora. La sua famiglia possedeva immense estensioni di terreni, una provincia con tanto di stazioni, ferrovie, paesi e centinaia di contadini; gli uomini del suo clan non godevano della fama di padroni benevoli, bensì di rozzi tiranni che dormivano con un'arma sotto il cuscino e pretendevano cieca sottomissione dai loro fittavoli. Forse era per questo che pretendeva di manovrare il paese come se si fosse trattato di un feudo di sua proprietà. Era un uomo alto, di bell'aspetto, virile, dalla fronte spaziosa e dal portamento nobile, figlio di amori romanzeschi, cresciuto in sella a un cavallo, con un frustino in una mano e una pistola nell'altra. Era stato in seminario, ma non era tagliato per vestire l'abito; era appassionato e vanitoso. Lo chiamavano "lo Scarmigliato" per la sua tendenza a cambiare pettinatura e la foggia di baffi e basette, e i suoi abiti troppo eleganti, commissionati a Londra, erano oggetto di commenti. La sua oratoria magniloquente e le sue dichiarazioni di geloso amore per il Cile venivano ridicolizzate; si diceva che si identificasse a tal punto con la patria da non poterla concepire senza che ci fosse lui al comando, "mia o di nessun altro!" era la frase che gli veniva attribuita. Gli anni al governo lo isolarono e, verso la fine, iniziò a mostrare un'instabilità di carattere che lo faceva passare dal delirio alla depressione, ma persino presso i suoi peggiori avversari godeva della fama di serio statista irreprensibilmente onesto, come quasi tutti i presidenti del Cile che, diversamente dai caudillos degli altri paesi latino-americani, uscivano dal governo più poveri di come vi erano entrati. Guardava le cose in prospettiva, sognava di creare una grande nazione, ma gli toccò vivere la fine di un'epoca e il logoramento di un partito che era stato troppo a lungo al potere. Il paese e il mondo stavano cambiando e il regime liberale si era corrotto. I presidenti designavano i loro successori e le autorità civili e militari commettevano brogli durante le elezioni; vinceva sempre il partito di governo, grazie a quella forza non a caso chiamata bruta: a favore del candidato ufficiale votavano persino i morti e gli assenti, i voti venivano comprati e i dubbiosi convinti a bastonate. Il presidente doveva fronteggiare l'irriducibile opposizione dei conservatori, di alcuni gruppi di liberali dissidenti, della totalità del clero e della maggior parte della stampa. Per la prima volta le estremità dello spettro politico si saldarono con un comune obiettivo: far cadere il governo. Quotidianamente in plaza de Armas si riunivano manifestanti dell'opposizione che la polizia a cavallo disperdeva a colpi di pistola, e durante l'ultima campagna nelle province i soldati dovettero difendere a sciabolate il presidente dalla folla infiammata che lo sbeffeggiava e gli tirava addosso della verdura. Quelle dimostrazioni di malcontento lo lasciavano indifferente, quasi non si rendesse conto che la nazione stava sprofondando nel caos. Secondo Severo del Valle e la signorina Matilde Pineda, circa l'ottanta per cento della popolazione aborriva il governo e la soluzione più dignitosa sarebbe stata che il presidente si dimettesse, perché il clima di tensione era diventato insopportabile e poteva esplodere in qualsiasi momento come un vulcano. Fu quanto successe quella mattina di gennaio del 1891, quando la Marina si sollevò e il congresso destituì il presidente.