Le rondini e l’abbazia
Quando Andy scende al cimitero all’ora stabilita, tutto sembra tornato come prima. Edo, appena lo vede arrivare, camicia bianca pulita, zaino in spalla, si sbraccia come chi chiede soccorso in autostrada, ma in realtà per segnalare «non sai che cosa ti sei perso!» E’ chiaro a tutti e due che quanto gli è capitato nel frattempo, qualsiasi cosa sia, rende tutto più semplice, ma Edoardo è raggiante in quel suo modo così tipico, con quel suo accendersi esagerato, che Anand si lascia travolgere dalla sua urgenza di investirlo subito.
«I pellegrini, quelli di prima… Hai presente?»
«I pellegrini di prima, okay.» «Insomma, i polacchi di prima stanno facendo un pellegrinaggio. Un viaggio combinato di pellegrinaggio e visita ai sacrari polacchi in Italia. Roma, Montecassino, poi Loreto e il cimitero militare che sta ad Ancona. Anche Assisi, non so se prima o dopo. Tu ci sei mai stato ad Assisi? Lì sì che è bello davvero, mica come qui.»
«Più o meno ogni volta che venivano dei parenti a trovarci in Maremma. Take them around, darling, would you, please? San Gimignano, Siena, Volterra, Assisi, Gubbio… Firenze a parte.»
«Però. Il tour completo. D’altronde, con te non c’era da aspettarsi altro.»
«Assisi è fondamentale, no? And we all like San Francesco.»
«Noi chi?»
«Noi famiglia Gupta, noi indù, magari. Noi vayisha. Era figlio di mercanti, San Francesco, come del resto pure Gandhi, che proveniva da una famiglia di vayisha. Vabbe’ questo non c’entra. Dimmi cos’è successo coi pellegrini.»
«E’ successo che all’uscita qualcuno si è fermato e abbiamo cominciato a parlare. Mi hanno fatto delle domande su come è oggi la situazione dei polacchi in Italia. Sai, io rispondevo come potevo, gli ho raccontato un po’ la mia storia. E a loro piaceva questo fatto che fossi nato qui, che già mio padre fosse cresciuto qui, ma che continuavo a seguire quel che avveniva in Polonia. Ho anche cercato di dire che non era così esattamente, che a me interessavano soprattutto “sti poveracci spariti in Puglia, ma loro apprezzavano lo stesso. Perché, dicevano, anche in Polonia sono cose che non vengono fuori poi tantissimo, a meno che non succeda una cosa grossa.»
«E quindi ti hanno raccontato una cosa grossa?»
«Sì, be’: la cosa grossa era già questa, il processo a Bari dove ‘ste merde di criminali si sono beccati condanne di quindici anni. Lì c’erano le tivù polacche, tutti i giornali, e loro se lo ricordavano.»
«E ti hanno detto qualcosa in più?»
«No, però gli stava qua, questa faccenda. La vergogna di polacchi ridotti a schiavi da altri polacchi, questi caporali che fra di loro si chiamavano “kapò”, così per scherzo. Poi c’era pure chi sosteneva che però questo è successo in Italia perché qui c’è la mafia. Che dovevano esserci sopra i mafiosi italiani, che però sono così potenti e protetti che nessuno li ha toccati. Mi hanno anche chiesto cosa ne pensavo io che conosco bene l’Italia. E sai cos’era a quel punto il mio problema? Che io non sapevo come dirglielo, “no guardate che stavolta forse non c’entra un granché”. Almeno questo è quanto sostengono il libro e i magistrati, anche se boh… manco io sono poi così convinto… Ma il motivo che questi danno ha una sua logica, purtroppo. Questa storia di schiavi e pomodori, dicono, rende troppo poco. Tu grande organizzazione criminale italiana ti domandi: per quattro carciofi e due broccoletti noi che ci stiamo a fare? Facciamoci la cresta, il subappalto, però il lavoro sporco se lo sbrigassero da soli, gli stranieri. A parte che mi veniva pure difficile spiegarlo in polacco, sai che c’era? Mi scocciava dire che “sta gente è scomparsa dalla faccia della terra o comunque campata come nei lager, e forse non c’era dietro nemmeno la mano della mafia. Capito?»
«Yeah, you mean that after the nazis and the commies, there’s not even a big padrino or something on the bad guys side?»
«You really got the point, Andy, grandissimo! Dopo i crucchi e i russi, nemmeno il peggio dell’Italia. Per cui ho solo ribadito che, grazie al coraggio di alcuni polacchi, si era perlomeno riusciti a mettere in carcere i diretti responsabili. Qualcuno si è ricordato che soltanto uno era polacco e gli altri un marocchino e un ucraino. Sai, in Volinia e Galizia ci hanno massacrati, gli ucraini stavano nelle SS, a Auschwitz. Però altri pellegrini continuavano a sostenere che non esistevano scuse, che era una vergogna e basta, a manco vent’anni che la Polonia ha riavuto la libertà. Che si stava cominciando a dimenticare tutto, correndo dietro al benessere. Meno male che qualcuno cresciuto così lontano ha ancora a cuore le sorti della nazione polacca, mi ripetevano. Ehi, mi hanno invitato alla messa che diranno domani su all’abbazia, quindi ormai è chiaro quando ci andremo…»
«Puoi andarci tu, se vuoi. Io resto qua e poi vado a farmi la mia visita in un altro momento.»
«No, non se ne parla proprio. Sei il mio socio, no? Anche tu ormai hai a cuore popolo polàco, no? Cristo, Andy, sono frasi che mi facevano venire il latte alle ginocchia se le diceva mio nonno…!»
Edoardo, con i suoi boccoli biondi che gli cadono negli occhi per come agita la capoccia mentre ride, è così platealmente felice che Andy non riesce a far altro che annuire.
«Ti rendi conto che questo è il primo segno di interesse vero che abbiamo avuto? A questi domani gli molliamo un bel pacco dei nostri volantini, così se li portano in giro per tutta la Polonia… Capisci che da lì, dagli e dagli, può davvero saltar fuori qualcosa?» Anand ripete il suo sì con la testa, a labbra strette. Non sta pensando ai possibili percorsi dei volantini per le lontane province della Polonia, ma al suo amico che rifà il verso non capisce se a suo nonno o al loro papa, quello di cui ricorda benissimo il giorno dei funerali. Roma in lacrime, Roma bloccata, tutti a casa, persino loro, davanti alla tv, ad assistere al momento storico.
«Che c’è? Qualcosa non ti convince?»
«Scusa, no. Mi sono tornati in mente i funerali di papa Woityla. Per come hai detto pòpolo polàco.»
L’accento improbabile fa sbellicare Edoardo, subito rinfrancato. Ma dato che quella risata incontenibile un po’ lo imbarazza, Andy continua a raccontare di come quel giorno sua madre fosse stata un’ora al telefono ad ascoltare la zia di Londra che era tornata a commuoversi per i funerali di Lady Diana, il grande evento cui aveva assistito in Inghilterra. Sua madre alzava gli occhi al cielo in modo molto Hollywood, e questo era la cosa divertente, ma Anand non fa nemmeno in tempo ad aggiungerlo.
«Figurati, a casa nostra: un delirio. Ho dovuto sorbirmi io il compito di accompagnare i parenti alla camera ardente. Ore e ore in fila, non ti dico. Come sardine, anzi: come sardine in preghiera. Ho detto che per quella buona azione dovevano abbuonarmi un bel po’ di messe la domenica. Ma essere lì in mezzo alla gente venuta da tutto il mondo per salutare il nostro Karol, ammetto che è stata pure una cosa bella. Dai, intanto domani vieni alla messa all’abbazia.»
«I think, I’d rather not» ribatte Andy subito, d’istinto, non sa nemmeno lui perché, visto che non si è mai fatto problemi di questo tipo. E ancora meno sa perché, senza prendere una pausa, senza che Edo gliel’abbia chiesto di nuovo, gli vada a rispondere alla domanda sui volantini. Che, sì, potrebbe saltare fuori qualcosa se questi pellegrini davvero se li portano dietro e li spargono per la Polonia: anche perché un conto è internet, un conto è un foglietto consegnato a mano.
«Esatto! Tieni conto che gli scomparsi spesso venivano da posti sperduti, da paesini…»
«Però quelli che ne sanno qualcosa, perché dovrebbero rivolgersi a te e non piuttosto alla polizia polacca?» A quel punto succede una cosa che Anand Gupta non si sarebbe aspettata, e che non è che Edoardo per un attimo tenga gli occhi sulle Converse con le quali sta spostando qualche sassolino, e nemmeno che rialzandoli e guardandolo dritto e serio abbia un aspetto fin troppo ispirato.
«Sai, socio» gli dice. «Magari non mi interessa nemmeno più tanto di essere io a trovare una traccia degli scomparsi. O meglio: magari mi sono reso conto che non è molto probabile. Manco ci possiamo ammazza’, no? So that’s fine with me. Però ci terrei che tutto questo non fosse stato del tutto inutile. Che possa in qualche modo servire alla causa di povero pòpolo polàco…» e lì, mentre si rimette a ridere, l’azzurro gli diventa iridescente.
Il resto del pomeriggio finisce con pochi visitatori e loro due che nei tempi morti si fanno gli affari propri: uno sprofondando apertamente nel libro del generale Anders, l’altro a smanettare un po’ con il suo cellulare, annoiato ma sollevato. Non appena sono in macchina, Edoardo stende un braccio fuori dal finestrino aperto, segna a mo’ di volo il giro dei primi tornanti e canta «tutti al mare!» Stavolta stanno sulla spiaggia di Scauri prima delle sette. Si godono l’acqua e il sole finché c’è, e dopo si mettono a giocare con un frisbee che hanno comprato dall’unico indiano che vende le mercanzie varie riservate ai neri. In un altro momento Edoardo avrebbe potuto chiedergli vita e miracoli, adesso lascia che Andy faccia tutto lui, accontentandosi di scoprire che qualcuno veramente viene dal Kashmir, e si stupisce quando il socio alza in saluto il frisbee dicendo «salam aleikum». Vanno avanti per un po’ a correre dietro al disco verde che, in un contrasto quasi psichedelico, fende il tramonto sulla spiaggia di Scauri nell’aria sempre più opaca.
E’ la fame, più che la stanchezza, che li fa ripiegare verso una pizzeria qualsiasi. Ed è il caso che, mentre camminano sul lungomare, li mette davanti a un cartello dove si annuncia la proiezione, in serata, del cartone animato Kung Fu Panda.
«Tu l’hai visto, socio?»
«No, sai, non avendo fratelli più piccoli, cuginetti… almeno non a Roma.»
«Ti andrebbe? Non è un capolavoro, però è divertente… Ah, e ascolta: ce la pigliamo pure una porzione di patatine?»
«Sure. Chips and pizza. Io però gli chiederei pure una mozzarella, che poi in America me la scordo così…»
«Allora ricapitoliamo: pizza, patatine, mozzarellona di bufala e film per bambini all’Arena Eden di Scauri? Ti piace “sto programma?» Sì, al socio Anand Gupta che si lecca le labbra sporche di latte bufalino e di salsedine, sembra piacere molto. E, dopo, già dentro il cinema all’aperto, piace a tutti e due che in mezzo alle famiglie in vacanza ci siano tre ragazze che sembrano divertirsi un mondo a vedere un cartone in una lingua di cui non devono capire una parola. Ragazze alte, biondissime, in infradito, shorts o gonnellini, con ogni evidenza nordiche, e quindi assediate da un gruppo di ragazzotti cafoni che le squadrano dalla fila dietro, mentre il grasso panda Po si affanna invano per diventare il Guerriero Dragone, il prescelto che sconfiggerà il feroce Tai Lung e riporterà la pace.
E visto che in Italia è d’obbligo l’intervallo, per Edoardo e Anand è molto facile, appena le ragazze si alzano per andare verso il punto dove si vendono snack e bibite, con percorso ostacolato dai tentativi di abbordaggio, arrivarci prima loro. Non è la prima volta che fanno un numero del genere, ma con tre nordiche contese alla peggio gioventù locale dà più gusto.
«Hello!!! How are you!? What would you like to drink?» si fa avanti Edoardo con il suo accento e sorriso più californiano. Funziona alla grande. Le ragazze li accolgono quasi fossero i legittimi fidanzati e la spesa per Coca e pop-corn è davvero irrisoria rispetto alla soddisfazione di vedere le scandinave sistemarsi in mezzo a loro due e sgranocchiare grate. A quel punto ricomincia il film e le vichinghe ridono ancora di più, mentre segnalano, con qualche pacchetta sulle cosce dei loro salvatori, che è consentito mettere un braccio intorno alle spalle, come fa Edo, o poggiare lievemente una mano sulla mano, come fa Andy. Peccato che i cafoni si siano trasferiti nella fila dietro, avendo fatto sloggiare la famigliola che c’era seduta prima. Per quanto la loro parlata sia un campano greve, persino Anand Gupta riesce a capire che i loro insulti diventano sempre più minacce, e che il loro destinatario privilegiato è “sta scimmia cui dare una lezione, cioè lui stesso. Che poi siano scambiate fra compari che non immaginano che il drogato americano e ricchione, tantomeno il negro di merda capiscano l’argomento del loro sfogo, non rende quelle minacce più rassicuranti. Il braccio di Edoardo Bielinski comincia a sentirsi appiccicato sulla carne leggermente scottata di Gunnel from Stockholm, mentre la mano di Anand Gupta affonda nel sacchetto di pop-corn e si ritira. Il combattimento finale del panda obeso, capace di sconfiggere il ferocissimo Tai Lung con tutte le mosse che il venerabile maestro Shifu gli ha insegnato sfruttando la leva del suo implacabile appetito, è un piacere perso per i due amici. Solo Gunnel, Kerstin e Annika esplodono in uno «yeah!» da stadio quando Po infligge il colpo di grazia al suo potentissimo avversario maculato, la leggendaria Presa del Dito Wuxi. E solo Edo e Andy non si appropriano con trasporto della parolina magica che, col mignolo sollevato, accompagna l’annientamento definitivo del cattivo. Infatti pure ai ragazzi della fila dietro piace molto ripetere: Skatush! D’altr a parte, quando si è amici da così tanto tempo basta scambiarsi un’occhiata perché tutto diventi più affrontabile, o almeno si ritrovi la fiducia che possa esserlo: quel minimo di coraggio che si ha più facilmente in due. La situazione si risolve poi da sola, o meglio si risolve il modo in cui tocca gestirla in ogni caso. «You boys would like to have some ice-cream or a drink?» chiede Annika dai lunghi capelli che in inglese si chiamano biondo-fragola e che è la più bella e minuta delle tre e forse per questo si era messa in centro. «Oh yes sure, let’s go for a gelato» risponde Andy pensando che incamminarsi verso il lungomare in una serata di piena stagione non possa essere sbagliato. I tipi naturalmente vengono dietro, talmente attaccati alle costole e ostili nel loro sbiascichio che persino le svedesi se ne accorgono.
«Shouldn’t we tell these guys to just fuck off?» chiede Annika, che sembra intenzionata a occuparsi subito lei stessa della questione.
«Well, no dear, I don’t think so» ribatte Andy, con un tono talmente impassibile che quella risposta istintiva gli verrà ripetuta dal suo amico per tutto il tempo trascorso insieme e pure, sentendosi via Skype, a ogni buona occasione successiva. Ma forse è proprio quel «nooh dear» che in quel momento carica Edoardo.
«These guys could be trouble» dice chiaro e forte, «so now we’ll gonna have our nice gelato and then we’ll take you home, if you don’t mind.»
No, le ragazze non hanno nulla in contrario che le si possa accompagnare al loro villaggio turistico, anzi. E non hanno niente in contrario che, avvisato con un cenno dal suo socio, Andy, mentre va alla cassa a pagare i gelati, chieda pure una bottiglia di spumante e che tornando la alzi a mo’ di trofeo verso Edoardo, il quale esclama «Sciaaam-peiiinn!» Non si sa quando né fino a che punto si fossero resi conto che la loro autodifesa si era trasformata in sfida, la loro paura nella voglia di giocarci, di mettersi in scena, più che per le ragazze, per i chissà se veri criminali, sicuramente autentici trogloditi alle calcagna. E non saprebbero nemmeno dire che cosa scatta dentro, che cosa ti fa dire ma vaffanculo, cosa fa sì che la paura che fingi di non avere, davvero a un certo punto non ce l’hai più. Sanno soltanto che si sono sentiti qualcosa tipo Clint Eastwood e James Bond, che si sono goduti da pazzi il momento glorioso in cui la Citroen dell’architetto Shrila Gupta si è affacciata ai cancelli del villaggio turistico svedese di Baia Domizia, dove Kerstin ha comunicato al custode che potevano entrare i loro amici.
E che, tutti e due, dopo aver parcheggiato e fatto andare le ragazze verso il loro bungalow per raggiungerle poi sulla spiaggia, si sono voltati verso la strada, dove c’erano tre moto e due scooteroni fermi con i fari accesi, e se non hanno fatto nessun gesto in quella direzione, questo forse aveva soprattutto un motivo: perché non si è mai visto che l’eroe ti mostri il dito. Ma la cosa di cui alla fine sono più orgogliosi è che, dopo aver svuotato in riva al mare la bottiglia di Asti Spumante, più una di rosso fornita dalle ragazze, più tre di birra (ma quella se la bevono soprattutto le vichinghe), che insomma verso le due e passa della notte, avendo capito pure a chi piace più chi (Annika a tutti e due, ma pare che lei preferisca Andy com’è tipico), salutino con baci e abbracci né molto casti né molto sobri dandosi appuntamento per la sera dopo.
«Stessa spiaggia, stesso mare…» «What?» Andy lo spiega ad Annika mentre Edoardo memorizza un numero di cellulare.
«We’ve got a hard day tomorrow! Bye bye and buonanotte.» Sì, una giornata pesante. Anche se i nemici alle porte del villaggio sono svaniti senza nessuna miracolosa Presa del dito Wuxi. E quindi verso le tre di notte Andy e Edo crollano nel letto cassinate molto eccitati, molto stanchi e bevuti più del solito, ma anche più felici del solito o almeno di tutti i giorni passati.
«Edo?»
«Che c’è?»
«Quand’è che c’è la messa domani?»
«Alle dieci e mezzo, cristo!»
«Okay, ti sveglio io…»
«Mmmh… grazie, socio, sei il migliore. Quasi ti meriti Miss Strawberry Hair, ma solo quasi…» Però la sveglia, che per la prima volta Anand ha puntato alle nove e un quarto, non fa nemmeno in tempo a suonare che parte il tormento di «Grazie Roma!» con cui Edoardo ha voluto cancellare la suoneria condivisa con Sara di Magliano, romantica come può esserlo un brano dei Massive Attack, ma ciò malgrado, come richiamo mattutino, meglio del vibrato caprino di Venditti. Il fatto che Edo allunghi una mano fantasma verso il bordo del comodino non ha altre spiegazioni che la speranza svedese presente persino fra gli strati del sonno più profondo.
«Mamma…?» Seguono una serie di versi monosillabici il cui più articolato è «okay», e uno sforzo finale che arriva a «va bene. Grazie. Ci sentiamo, ma’».
Dopodiché si rigira sulla pancia e si riaddormenta, mentre Andy ormai è sveglio. Fa tutto quel che c’è da fare, incluso colazione con banana e panino da portare al suo amico dormiglione, «grazie signora, molto gentile». Prepara persino i plichi di volantini mettendoci intorno degli elastici e quando sono le nove e mezzo comincia, senza preavviso, a scuotere Edoardo. Il quale si mette in moto senza temporeggiamenti e proteste, apre la bocca solo quando sono in macchina, per dire che sua nonna si è distorta una caviglia, e quindi è annullata la gita di nonni e amici polacchi a Montecassino.
«Mi spiace per tua nonna. She isn’t in the hospital, is she?»
«No, pronto soccorso, lastre e mo’ sta di nuovo a casa. Magari quando torniamo a Roma li andiamo a trovare, i nonni, chissà mai che non ti becchi lo stesso i veterani e le veterane che figuriamoci le feste che ti faranno. Specie ora che ti sei intrippato con “sto libro. Prima però me lo riassumi, così non faccio figuracce manco io…»
«Le veterane?»
«Da quel che ho capito una delle persone venute da Londra è amica di tal signora Grabowska, dai tempi in cui erano assieme nelle ausiliarie del Secondo Corpo Polacco. Facevano di tutto: dalle infermiere alle meccaniche, o come si può dire al femminile. Insomma, quelle che riparavano le macchine. Mi ha fatto vedere una foto dove in due smanettano sotto e sopra un camion militare, molto carina.»
«So you’re not totally ignorant of everything regarding this story.»
«E come faccio, Andy? Ci sono cresciuto in mezzo a ‘sta gente. Comunque la Grabowska è una vecchietta gagliarda, ex insegnante di musica che pare abbia suonato pure con la moglie del tuo comandante.»
«La moglie del generale Anders?»
«Yessir! Irena Anders, attrice, gran bella donna anche da vecchia, ha fatto un film con De Sica e Anna Magnani prima di andare in Inghilterra e diventare generalessa. Ah, e ha cantato per la prima volta la famosa canzone dei papaveri rossi che forse, a ‘sto punto, dovrei pure insegnarti.»
«E com’è che te lo ricordi tutto d’un tratto?»
«Boh, mi è tornata in mente ‘sta signora che stava spesso a casa dei miei nonni quando ero piccolo e in effetti mi piacevano le storie che raccontava. Tipo questa, o ancora di più quella dell’orso.
Dall’Iran si erano portati dietro un cucciolo di orso bruno cui prima bisognava dare il biberon e poi crescendo ha cominciato a magnarsi proprio di tutto, persino le sigarette, e gli piaceva un sacco bere la birra. Si chiamava Wojtek, figurava come arruolato in non so quale reggimento o battaglione e dopo la guerra è emigrato pure lui in Gran Bretagna, allo zoo di Edimburgo. E’ stato anche qui, pare avesse aiutato a spostare le casse di munizioni durante la battaglia. Ecco, questa era la mia storia preferita.»
«Ti credo, cool!»
«Wojtek the bear, yes! Se me ne vengono in mente altre, poi te le racconto…» Lasciano la macchina nel solito parcheggio, ma si avviano subito verso l’abbazia. Comincia a sentirsi il caldo già a quell’ora, in salita e stanchi distrutti come sono. Hanno il fiatone, ma le mura sempre più vicine del monastero incombono come quelle di una fortezza.
«Abbiamo dietro i volantini?» chiede Edo inchiodandosi d’un tratto.
«Negli zaini quanti ce ne stavano. Il resto in macchina.»
«Pfhhhh… grazie.» Espira a fondo, si passa le mani sulla fronte, e ancora fermo, piazzando gli occhi sulla meta, butta fuori, un po’ titubante, comunque non fortissimo: «Czerwone maki na Montecassino, Zamiast rosy pily polskij krew… E poi però non me la ricordo più».
«Significa?»
«Papaveri rossi a Montecassino, al posto della rugiada hanno bevuto sangue polacco. Eh? Non dirmi che ti piace» aggiunge mentre riprende a camminare più veloce di prima.
«It’s very patriotic, I guess.»
«Definitely. Sei un mito, Andy.» Quando arrivano nel chiostro centrale, i pellegrini si stanno ancora radunando, con qualche vecchio o disabile portato in carrozzella. Hanno tutti al collo una croce di legno e un nastrino bianco e rosso fissato a una spilletta da balia attaccata al petto. Si intravedono sempre un certo numero di baffi spioventi ai quali Anand ormai non fa più caso, mentre dà uno sguardo rapido all’orologio, vedendo che miracolosamente non sono nemmeno ancora le dieci e un quarto.
«I’d go and talee a glimpse at the Church, before the mass is starting, allright?»
«Ti vuoi proprio defilare subito, bastardo? Vai vai, salutami San Benedetto, ma dopo non mi abbandonare, socio!»
«Come on, you silly!» sussurra Andy, già avviandosi oltre la congrega di polacchi che comunque saluta con un cenno del capo. Chissà se ha pure aggiunto «dzieri dobry», si chiede Edoardo Bielinski, vedendolo salire un paio di gradini alla volta su per la scalinata dietro la quale si vede l’ingresso alla basilica. Intanto ha inquadrato uno dei pellegrini conosciuti il giorno prima, che gli va incontro, lo saluta con tre baci formali, lo chiama Edek e come tale lo presenta agli altri: Edek da Roma che sta a guardia del loro cimitero militare e oggi è invitato alla loro messa.
«Molto lieto» dice anche il parroco, don Pawel da Cracovia, facendosi consegnare la croce pellegrina e la bandiera a spillo. La prima gliela infila lui al collo, la seconda Edoardo deve fissarsela da solo alla maglietta che, essendo una delle ultime pulite, è enorme, arancione e con una scritta writer viola e verde. Non è il massimo per l’occasione, ma forse Kerstin o Gunnel potrebbero apprezzarla.
Va infatti che durante la messa, soprattutto nella parte in cui, dopo l’omelia in polacco e le preghiere a cui può partecipare, si passa al canto gregoriano offerto dai benedettini ai loro ospiti, Edoardo oscilli fra immense botte di sonno e l’urgenza di tirarsi su sbirciando il cellulare che la megamaglietta da surfista nasconde per fortuna come si deve. Ed è sempre una fortuna che sulla coscia destra avverta l’inequivocabile ronzio di un messaggio, mentre sta per scambiarsi un segno di pace con Danuta da Poznari e Janusz da Lublino, ossia quando la messa è quasi finita. A quel punto, mentre sono già tutti in fila per la comunione, approfitta. Esce e appena fuori dal portone, estrae l’oggetto proibito. «Slept well heroes?» Eccolo, l’SMS atteso, però Edoardo non capisce quale delle ragazze l’abbia scritto. Un po’ lo irrita che la domanda sia rivolta al plurale, un po’ non si capacita che dell’altro eroe non compaia neanche l’ombra, pur avanzando fino al punto dove si vedono benissimo i chiostri sottostanti e il profilo dei monti che chiudono la valle. «Less than U!» scrive in risposta vedendo che è già quasi mezzogiorno, però aggiungendo uno smiley. Poi subito dopo, a Andy:
«Ma dove ti sei cacciato?» Risposta immediata:
«Qui dietro museo bellissimo vieni!» La comunione andrà ancora per le lunghe e Edoardo è incuriosito: che potrà mai esserci di così interessante nel museo di un convento benedettino? Tale da spingere il suo amico a scrivere «bellixmo» e «vieni» con punto esclamativo? Non appena lo vede, all’apparenza per nulla stupito dalla rapidità con cui Edoardo ha ubbidito a quella specie di ordine, Anand gli fa cenno di fermarsi, procedere pian piano, stare zitto.
Da quella parte il corridoio finisce in un colonnato, però sbirciandoci in mezzo non si ha nemmeno una gran vista panoramica. Deve proprio arrivare vicino a Andy per capire cosa sta guardando. Fra l’ultima parte del sottotetto a travoni e l’interno alto del cornicione, c’è un nido, un nido di rondini. E basta. Ma mentre già vorrebbe dirgli o segnalargli «e vabbe’!», Anand lo trattiene stringendogli forte il braccio. Anche questo è nuovo. Non fa nemmeno in tempo a realizzarlo che dal nido sguscia fuori la rondine madre, virando giù verso i cortili e spiccando il volo in alto, e subito appaiono pure le teste dei piccoli che con i loro becchi ancora rosa ribadiscono di avere fame. Edo non ha mai visto Andy così felice. E’ radioso, ha gli occhi languidi, si raschia persino un po’ la voce come avrebbe dovuto fare lui dopo essere uscito dal luogo sacro, e finalmente pronuncia una frase, anzi parola.
«Nice?»
«Yeah, sure…»
«Ok, let’s go… takes her a while to be back.»
«Vuoi dirmi che sei stato qui tutto il tempo a guardare mamma rondinella che sfama i suoi rondinelli?»
«Un’oretta, più o meno. Non è che qui ci si metta poi molto a vedere tutto. E poi il museo… insomma l’ho vista da una finestra mentre lo stavo visitando e sono sceso.»
«Insomma sei arrivato alla culla del monachesimo occidentale per fare birdwatching!»
«I enjoy it.»
«Ho visto che ti piace. Quasi ti piace di più la rondinella che Annika, mannaggia a te!»
«Naah. Non illuderti. Diciamo che si tratta di un amore più antico.»
«Cosa? Le rondini? Gli uccelli? E perché non ne ho mai saputo un tubo? Perché non hai mai rotto le palle di volere un pappagallino, un canarino o che so io, quando noi praticamente tutti scassavamo per cane o gatto?»
«Perché preferivo l’acquario a un uccello in gabbia. Te lo ricordi, il mio acquario?»
«Certo. Avevi anche quel pesce strano, nero piatto e con credo una striscia bianca, che rimaneva sospeso in mezzo all’acqua e sapeva pure andare in retromarcia. Fichissimo.»
«Pesce coltello. Ma era l’unico cui ero abbastanza affezionato.»
«Infatti. Non mi sembrava che avessi più di tanto la fissa per qualsiasi animale.»
«Sì, ma quella delle rondini è un’altra storia. Avevano fatto il nido nella casa in Maremma, io mi annoiavo alla grandissima e quando l’ho scoperto non smettevo di guardarlo. Come adesso. Boh, avrò avuto forse dieci anni. Troppo grande per andare a raccontare in giro di aver fatto amicizia con le rondini…»
«You could have told me, you stupid. Mica ti sfottevo o andavo a dire a Chad o agli altri deficienti: little Andy Gupta really likes uccelli. Per chi mi pigli?»
«Mah, si vede che, tornato dalle vacanze, me lo ero già dimenticato.»
«Dubito.» Nell’ultimo tratto di corridoio Edoardo allunga il passo, cosa che potrebbe essere dovuta al vocio che proviene dalla basilica, ma tiene bassa la testa in maniera inequivocabile, e quindi Anand lo riprende correndogli dietro con la sua solita leggerezza, gli sfiora un braccio.
«Ehi, mica te la sei presa?»
«Un po’. E’ che tu sei tanto carino e gentile, ma poi non ti fidi manco del tuo miglior amico. Tanto lo so che è così, e ora non abbiamo tempo per discutere. Tanto fra un po’ te ne vai in America e ricominci tutto da capo.»
«Allright. I think it’s time to get your work done.»
«Our work! In che lingua te lo devo dire, Anand Gupta, che se ti ho chiesto di venire qui non è stata una scelta così a cazzo?» Andy accenna un sorriso, punta di nuovo il dito contro il braccio più vicino del suo amico, il dito indice. «Let’s not make this really weird impression on your Polish people» sussurra dolcemente.
«Siamo strani, ma che te frega!» risponde Edo, mentre ha già adocchiato Janusz e gli va incontro. Presenta il socio in polacco e traduce una sintesi in inglese, vuoi per educazione, vuoi per far capire come comunicare con lui.
«Dzien dobry» fa Andy col suo accento da Stanlio e Ollio in ogni idioma che non sia l’italiano tinto da una vaga inflessione romanesca, «nice to meet you».
Sono invitati a pranzo. Nel ristorante dell’albergo da dove i polacchi ripartiranno per Roma nel pomeriggio. Edo distribuisce a raffica consigli su trattorie dove si spende poco, su negozi e mercatini, e Andy che gli trotterella accanto, tira fuori la Moleskine, e visto che almeno i nomi e gli indirizzi li capisce, annota in stampatello e passa le pagine strappate a Danuta.
«Dzjipkujf.» «Proszf.» L’albergo si trova sulla circonvallazione di Cassino, è un transatlantico che sembra esserci caduto dalla riviera romagnola o addirittura, secondo Anand, da Miami. Però il parcheggio dove tocca aspettare l’arrivo dei pullman è deserto o quasi. Il tempo dell’attesa serve per tirare fuori i volantini dagli zaini, metterli tutti nello scatolone e cominciare a portarlo nell’ingresso. Edo arriccia il naso al troppo nuovo e troppo lusso che si propaga nel pavimento a specchio e nei divanoni squadrati della hall, ma non è giornata per rimuginare su chi o che cosa abbia fatto sorgere quel brutto miraggio smisurato vicino allo svincolo dell’autostrada.
«Quando tutti sono seduti, facciamo il giro, okay? Io spiego la questione e tu mi aiuti a distribuire?»
«Yes, sahib!»
«Cosa?»
«Niente, uno scherzo… va benissimo.» Fra la preghiera a tavola e l’arrivo degli antipasti, gli amici si sono sbarazzati di tutto il materiale tranne che per le ultime tre risme. Edoardo ha le guance rosse come quando usciva dagli allenamenti di pallacanestro, o ancora più piccolo, quando cantava in prima fila durante le recite natalizie. Non si sono nemmeno curati di trovarsi un posto, ma questo alla fine si rivela utile. Fermandosi al tavolo di padre Pawel, si scopre che lui l’italiano lo sa benissimo, essendo stato in seminario per più di un anno in Vaticano.
«Tu parli italiano?» chiede infatti a Andy, con gentilezza.
«Sì, anch’io abito a Roma.»
«E da dove vieni, se posso chiedere?»
«E’ un po’ complicato, diciamo che i miei genitori vengono dall’India.»
«Ah, India: immaginavo. Allora dopo, quando hai finito, ripassa che voglio farti conoscere una persona. Parla bene inglese, quindi potete parlarvi.»
«Però non c’è bisogno, padre, grazie…»
«No, no, credo faccia piacere a quella signora parlare con te.» Naturalmente Edoardo non si trattiene dal mormorargli «Cristo, non è possibile!», ma la signora che, dopo essergli stata presentata da padre Pawel, se lo abbraccia con un esagerato «so pleased to meet you, Anand!» e se lo porta via, è un donnone un po’ spelacchiato che avrà almeno una settantina d’anni.
Edo gli manda dietro un sorrisetto ironico, ma Andy in realtà è assai contento di essere preso in custodia da qualcuno, foss’anche questa vecchia matrona polacca tanto massiccia quanto energica. L’unica cosa di cui non riesce a capacitarsi è come faccia a spazzare dall’antipasto al dolce, non smettendo praticamente mai di raccontare, mentre lui soltanto ad ascoltarla si ritrova spesso col boccone a mezz’aria e il piatto ancora mezzo pieno, quando arriva il cameriere a ritirarlo. Perché la storia che Hanka Kowalska, - «just call me Hanka» - gli racconta è bellissima.
Per lei, esordisce, questi sono giorni molto speciali, perché ad Ancona andrà per la prima volta sulla tomba di uno zio che ha combattuto con il generale Anders.
«You know a little bit of the story of general Anders and his army?» chiede, approfittando della pausa per prendere un bel sorso di vino rosso.
Andy annuisce e, non sa perché, timidamente, orgogliosamente, si china verso lo zaino e tira fuori il libro.
«Oh, wonderful!» esclama Hanka e, cinguettando qualcosa nella sua lingua, ostenta la copia di An Army in Exile verso gli altri commensali, che approvano con sorrisi segnaletici e ampi cenni della testa.
«Dzjfkuj?» mormora Anand arrossendo, cosa che per fortuna non si vede.
«So, you know!» se lo riprende Hanka Kowalska. «But you do not know everything…» Quel che Anand Gupta in effetti non avrebbe mai potuto sapere né indovinare è che, mentre lo zio di Hanka si arruola nell’Armata finendo per combattere e morire in Italia, sua moglie e i suoi due figli deportati in Kazakistan, dopo l’evacuazione in Iran, continuano la loro odissea, ma verso Oriente. Giungendo, dopo un viaggio lunghissimo con ogni mezzo - camion, treno, nave - proprio nella terra dei suoi avi, in India. E dato che la cuginetta si è ammalata di tubercolosi, alla famiglia viene concesso di trasferirsi dal campo profughi nel Maharashtra, in una località alle pendici dell’Himalaya che per il suo clima temperato ospita molti sanatori. Così, una volta che la bambina si è ripresa, la zia continua a lavorare nel sanatorio, mentre a entrambi i cugini viene generosamente offerta gratis l’iscrizione a una delle boarding school britanniche che sono l’altra istituzione per cui quel luogo, Panchgani, è celebre, o almeno lo era. Se ha mai sentito parlare di Panchgani, vuole sapere Hanka.
«I’m not sure» risponde Andy, spiegando che lui in India non ci ha mai vissuto e che le sue origini sono di un’altra parte del subcontinente.
«Aha» prosegue la sua interlocutrice un po’ delusa, come ammette, perché magari avrebbe saputo che in quel posto, proprio nella stessa St. Peter’s School di suo cugino Mietek, ha studiato qualche decennio dopo una delle più famose rockstar di tutti i tempi.
«Guess who?» gli chiede.
Anand non ha voglia di pensarci e dice, cosa vera, che non è un appassionato né di rock né di qualsiasi tipo di musica in particolare, ma in genere ascolta quel che gli capita.
«But you know Freddie Mercury?»
«Oh sure» esclama Andy, e gli viene anche da sorridere in modo aperto.
Un po’ perché è davvero una coincidenza assurda, un po’ perché lo diverte, lo commuove quasi, che la vecchia polacca con la sua croce di pellegrina sia così incontenibilmente fiera che un suo cugino abbia frequentato la stessa scuola di un personaggio di cui la prima cosa che vieni a sapere è l’omosessualità vissuta in agonia e morte, sfarzosamente esibita in scena.
«Amazing!» Per tutta la durata della guerra, sin oltre l’arrivo della triste notizia del padre caduto ad Ancona, i cugini di Hanka restano a Panchgani, partecipando alla vita della comunità polacca e facendo gruppo con gli altri studenti profughi, orfani in buona parte. Però non solo, visto che il collegio favorisce anche altre relazioni, e quindi ancora oggi i suoi cugini hanno contatti con gli ex compagni indiani.
Addirittura, una ragazza rimasta senza genitori conosce a un tea party della St. Peter’s, esteso pure alle alunne polacche della St. Joseph’s Convent, il suo futuro marito: nientedimeno che il figlio di un maharaja indiano. Vale a dire che alla fine una delle compagne e amiche di sua cugina Julka è diventata una, come si dice principessa, maharani? «Yes, maharani» conferma Andy, stordito dal vino che la signora Hanka continua a fargli bere con ripetuti brindisi all’amicizia indo-polacca. Perché quei tre anni sono stati davvero un periodo sereno per i suoi poveri cugini dopo tutto quel che avevano passato, anche se, bisogna dire, sono già stati relativamente fortunati a non aver perso la loro mamma o un fratellino piccolo, come era capitato a tanti altri. Sì, spesso Julka gliel’ha ripetuto quanto abbia inciso per il meglio quella loro educazione britannica indiana. E naturalmente potrà immaginare quante volte le abbia raccontato la favola vera dell’orfana polacca diventata maharani, purtroppo però dopo decenni. Perché alla fine, quando la Polonia è diventata comunista e l’India stava per diventare indipendente, i suoi parenti si sono trasferiti in Australia. Sono passati decenni prima che i cugini, che nel frattempo hanno messo su tutti e due delle belle famiglie australiane e conquistato un certo benessere, venissero a trovarli. E’ stata un’emozione fortissima riabbracciare queste persone con cui aveva giocato insieme bambina, proprio da piccoli, diciamo prima che crollasse il mondo. Solo la zia, che già dall’India aveva cominciato a mandare qualche pacco e per tutta la vita li ha aiutati, purtroppo è morta senza riuscire a rivedere la sua terra e i suoi cari.
Gli occhi rossi di vino di Hanka Kowalska si riempiono di lacrime, tremola il suo mento diventando doppio, riposa qualche minuto sulla tovaglia la sua forchetta.
«Sorry» dice dopo essersi asciugata gli occhi col tovagliolo. Ma forse Anand avrà imparato che loro sono un popolo sentimentale, «not like the english speaking, no, very romantic».
Andy annuisce, beve un altro sorso che ormai gli brucia già prima di arrivare nello stomaco, ma è a modo suo incantato da questo donnone che sembra l’antitesi di ogni cosa romantica: per come mangia, per come narra, per come tutta la sua mole vitalissima appare ben piantata nel presente. Insomma, è molto contento di aver conosciuto la signora Hanka Kowalska, di potersi segnare il suo indirizzo e prometterle che le manderà una cartolina dagli Stati Uniti non appena ci sarà arrivato.
«Oh, from America!» fa lei, pronta a raccontare la storia di parenti finiti là dopo altre peregrinazioni per mezzo mondo, ma a quel punto arriva Edoardo che gli dice che sarebbe ora di tornare a casa.
E’ vero che ormai sono al caffè e pure alla grappa o al limoncello, ma per adesso tutti i polacchi sono ancora seduti intorno ai tavoli.
Anche Edo, a giudicare dall’alito con cui gli ha detto, semplice e secco,
«ascolta, socio, dobbiamo andare», si è scolato qualche ammazzacaffè. Ma è la sua faccia a far sì che Anand si alzi subito.
«Che c’è? Non stai bene?»
«Una merda. Fammi andare a dormire sennò muoio.»
«Okay, andiamo.» Ma Andy non sarebbe Andy se non si facesse strizzare e baciare in abbondanza da Hanka Kowalska e salutasse tutti prima di raggiungere Edoardo, che lo aspetta appoggiato come un mocio capovolto allo stipite dell’ingresso alla sala ristorante. Ha bevuto troppo anche lui, accusa stanchezza e nausea, e non si rende conto fino a che punto il suo amico stia male.
«Aria!» esclama, appena fuori dal transatlantico alberghiero, rimanendo lì, poco oltre la soglia, a respirare a occhi chiusi.
Se c’è un momento in cui rischiano un incidente e quindi le conseguenze paventate da Edoardo, è proprio questo, però arrivano senza problemi dove li attende il loro letto matrimoniale, sul quale crollano. Nemmeno i cellulari li hanno guardati o messi a tacere. Infatti sarà un’altra volta
«Grazie Roma!» a svegliarli. Stavolta risponde Andy, perché Edoardo non si muove proprio.
«Ehi, ha chiamato la tua bella. Preoccupata. E ti manda tanti baci.» «Ho capito.» «Edo, che c’è? Hai mal di testa? Ti viene da vomitare, o cosa? Ho già detto per dopo cena, e spero di non dover bidonare le svedesi.»
«No, sto meglio adesso. Il peggio della sbornia mi è passato.» Anand si aspetta che a quel punto Edo si giri o almeno gli chieda un’aspirina, ma non succede niente del genere. E mentre va in bagno a prendergliela lo stesso, sente, non appena ha chiuso il rubinetto, un’esplosione di singhiozzi. Non sa che fare.
Si siede un attimo sul water, il bicchiere con l’acqua effervescente in mano, sperando che passi. Ma no, non passa, anzi peggiora. Non sa se sia più la compassione o l’incredulità a spingerlo fuori dal bagno, facendolo però inchiodare poco oltre, perché Edoardo Bielinski, da dietro, che abbranca il cuscino e sussulta come una rana elettrizzata nella sua maglietta extrasize arancione, è una visione che lo impressiona.
«Edoardo, cos’è successo?»
«Ho trovato qualcuno che è scomparso, questo è successo.» Finalmente si volta e lo guarda con i suoi grandi occhi blu deformati dall’alcol e dalla sofferenza.
«Chiudi un po’ le imposte, così te lo racconto.» Anand si mette sulla sedia davanti alla scrivania e per la seconda volta nella giornata ascolta una storia, una storia polacca.
«Stavo chiacchierando con Janusz ed è arrivato questo signore anziano che gli ha chiesto se poteva parlarmi. Ringraziarmi. Mi ha preso tutte e due le mani e me le ha strette. “Sa’ mi fa, “anch’io ho combattuto, ma con i russi, con il generale Berling. Mi sono anche guadagnato molte medaglie.’ Sai chi era Berling, socio?»
«Quello che Anders considerava un traditore, un venduto, se non mi sbaglio…»
«Molto bene non lo so nemmeno io, posso dirti solo che comandava questa formazione subordinata all’Armata Rossa. E molti polacchi deportati, mi risulta, sono finiti lì dentro perché non avevano più altra scelta. Comunque, il vecchio veniva da un piccolo posto nei Masuri e aveva una nipote, Ania. Già alle elementari si capiva che era molto portata per la danza, ma mentre ai tempi del comunismo l’avrebbero presa in una scuola di balletto statale, ora bisognava trovare i soldi. Insomma, per realizzare questo sogno, lui e sua moglie hanno tirato fuori i risparmi. Così va nella migliore scuola di danza classica a Varsavia, ma poi combina poco, tranne ballare in qualche trasmissione televisiva. Non era solo brava, ma anche bella: suo nonno mi ha fatto vedere una foto. Troppo bella. Stile modella, stile ragazza inavvicinabile. A un certo punto conosce un certo Tomek, che le promette che in Italia ci sarebbero molte più possibilità, perché lì c’è la moda. I nonni vengono a sapere di questa storia quando Ania e sua madre tornano al paese per Natale. Il vecchio aveva qualche perplessità, perché “mi fido poco di questi giovani che hanno fatto i soldi chissà come’ pare abbia detto a sua figlia. Ma lei gli ha riso in faccia dicendo che era un uomo d’altri tempi e pure un po’ geloso.» «Credo di aver capito, Edoardo…» «D’accordo, però ascolta.
Sembra che questa Ania non fosse tanto convinta, perché voleva fare la ballerina, non la modella. Ma poi le arriva la risposta che potrebbe entrare in una scuola americana che, secondo il nonno, sarebbe tipo quella della serie televisiva, ma ancora più prestigiosa. E’ per pagarsi il viaggio e il soggiorno a New York, che si decide a partire per l’Italia.»
«Julliard?»
«Tu come fai a conoscerlo, ‘sto nome? Parenti anche lì?»
«Esatto. Mia cugina Deva ci ha fatto il conservatorio. It’s really very prestigious as a college for fine arts. Vai avanti.»
«Niente, il resto è quel che temi di aver capito. Ania va in Italia con Tomek. Manda regali, manda soldi, manda fotografie. Soprattutto a sua madre, via mail, che poi ne stampa alcune e le fa avere ai nonni. Foto scattate in posti di lusso, non solo italiani. Il nonno racconta di una dove la sua Ania abbraccia Alain Delon e parla di tante altre con gente famosa.
Riceve un sacco di cartoline, anche una con la Statua della Libertà, e scritto: “Presto sarò qui, grazie nonna, grazie nonno!’ Ma poi, a un certo punto, Ania sparisce. Ania non risponde, Tomek non risponde. Alla fine, sua madre va alla polizia e segnala la sua scomparsa. Dicono che faranno il possibile, ma non possono estendere le ricerche a mezzo mondo.
Così cominciano ad aspettare. Aspettano dalla fine dell’estate fino all’inizio dell’inverno. Quel che è successo, i nonni vengono a saperlo soltanto dopo. La madre di Ania è stata a Olbia, l’hanno portata in un obitorio. Lì c’era da mesi una donna che potrebbe essere sua figlia. Annegata, galleggiava al largo della Costa Smeralda.
Le fanno vedere i gioielli che aveva addosso, li confrontano con quelli delle foto che ha portato, riconoscono due anelli. A quel punto il vecchio si è toccato il petto. Sai, aveva infilato sotto la camicia, uno di quei così da turisti dove mettere la roba che potrebbero rubarti. Apre l’astuccio, tira fuori un anello e insiste a mettermelo in mano. Lo guarda a occhi bassi mentre ce l’ho sul palmo, lo chiama “Ania, Anusia”. Ero distrutto, Andy. Tenevo aperta quella maledetta mano e mi sentivo Frodo Baggins. Quel cazzo di anello era uguale a uno che porta tua madre, quello che gira, hai capito?»
«A bande, col nostro logo che corre sui bordi? God, that’s so freaky!»
«Da paura, certo. Però non è questo quel che mi ha devastato. Forse nemmeno che non si saprà mai perché è morta, che dopo un po’ se ne è andata anche la nonna - di crepacuore, si direbbe -, che a quel punto il vecchio si è trasferito a Varsavia. Tu mi hai detto quasi subito: credo di aver capito. Ma lui no. Il nonno di Ania mi ha raccontato tutta la storia come una disgrazia senza senso. Come era potuto accadere alla sua nipotina proprio adesso? Ripeteva “non li volevamo indietro, i soldi che abbiamo dato a Anusia”. A vederlo così, questo vecchio polacco che nonno Wladek magari avrebbe sospettato di essere stato nel Partito, cristo che pena, Andy!»
«Ma tu credi che non avesse capito o che si vergognasse?»
«Non lo so. Forse non voleva capire, o forse non lo voleva la madre di Ania. “Ho perso i miei genitori in guerra, sono stato deportato, sono stato ferito due volte’ mi diceva. “Ho dovuto subire vari interventi per le complicanze di una delle ferite. Non ho più rivisto mio fratello che è rimasto in Occidente. Ma ero giovane. Invece ora che sono vecchio, mi devo occupare di mia figlia. So fare di tutto, diciamo che sono diventato piuttosto bravo come casalingo.’»
«That’s heartrending…»
«Sì, straziante. Cosa si può fare davanti a una persona distrutta da una colpa per qualcosa con cui non c’entra un cazzo? Cercare di rintracciare “sto maledetto Tomek? Magari non sarebbe nemmeno impossibile, no? E poi? Quando anche “sta merda venisse condannata al minimo per sfruttamento della prostituzione, che cosa gliene verrebbe?»
«Nothing. Only more sorrow.»
«Sai, mentre reggevo ‘sto malefico anello, mi veniva da pensare per la prima volta che forse, in certi casi, sarebbe meglio che gli scomparsi rimanessero scomparsi. Invece il vecchio continuava a ringraziarmi per quel che stavo facendo, a dirmi che, di fronte alla tragedia, si doveva comunque avere il diritto alla verità. Che beffa, Andy.»
«So what do you intend to do now?»
«Niente. Mo’ vado a farmi una lunga doccia e poi andiamo dalle svedesi, così mi passa. Chi è quella che ha chiamato?»
«Gunnel.»
«Vada per Gunnel, allora, se dio vuole.» Mentre Edoardo Bielinski è chiuso in bagno, Anand scende a dire alla signora del bed & breakfast che sarebbero partiti l’indomani e paga con la carta di credito che ha da poco, in vista del suo trasferimento negli Stati Uniti. Però è un’iniziativa che non comunica al socio se non il giorno dopo, a cose fatte.
Non è mattina presto, ma tutti dormono ancora al villaggio turistico svedese, quando Andy torna a Cassino per fare e portare via i bagagli. Arrivato di nuovo a Baia Domizia, il custode non vuole farlo entrare, e così gli tocca svegliare Annika.
«This is my boyfriend» conferma ciabattandogli incontro in infradito azzurre e capelli spettinati, e suggella l’affermazione con un bacio assonnato. Non gli chiede neanche dove è stato, mentre se lo tira a letto, sfilandogli la polo col sottofondo di Edoardo che continua a russare nell’altra camera del bungalow. «Like a wallrus» è l’ultima parola che Andy pronuncia. Anand Gupta e Edoardo Bielinski rimangono al villaggio La Serra per gli ultimi giorni di vacanza di Annika e Gunnel, mentre Kerstin, che in realtà è all’origine della loro presenza, è stata fatta sloggiare dai suoi genitori già la prima notte. Naturalmente Andy si scusa con suo padre, l’avvocato Per Tore Svensson, per il disturbo imprevisto e propone di pagare la loro quota di soggiorno, ed è un’altra di quelle occasioni in cui gli viene utile che non si veda quando diventa rosso.
Ma si tratta di ragazzi così per bene e simpatici, e queste, in fondo, sono cose che ormai bisogna mettere in conto se si vuole avere il piacere di trascorrere almeno una parte delle proprie vacanze con una figlia grande.
«Just tell me if you have some nice friend to introduce to our Kerstin» dice ridendo l’avvocato e l’unica cosa che accetta è che accompagnino le ragazze all’aeroporto.
Alla fine, già nella fila del check-in a Fiumicino, Edoardo è quello più immagonito. Gunnel si è rivelata persino appassionata di calcio, nel senso che ne capisce e neppure disdegna buttarsi addosso a un pallone. In porta è più tosta di quanto uno non si aspetti, e che straveda per Zlatan Ibrahimovic («c’hanno solo quello» ripete al socio cui non potrebbe importargliene di meno) e invece abbia soprannominato Edo «Frànscescottòtti», questo lo infastidisce solo per finta. Anzi: si vede che gli piace sempre più quella ragazza, già decisa a iscriversi a giurisprudenza con specializzazione in diritto delle genti. Però anche Gunnel, pur sfottendolo a più non posso, è assolutamente entusiasta di quel che ha fatto Edoardo davanti al cimitero di Montecassino, e uno degli ultimi volantini che hanno trovato sotto il sedile della Citroen, promette di appenderlo sulla porta della sua stanza.
«For my Zlatanona. The one I found while looking for the lost! Love», ci ha scritto sopra Edoardo, in pennarello verde.
Alla fine dell’estate comunica che non ha ancora scelto cosa studiare, ma sa benissimo dove intende farlo: Stoccolma. Vuole iscriversi a un corso di lingua e trovarsi qualche lavoretto, e anche il professor Bielinski pensa che l’apprendimento dello svedese possa valere ancora un semestre o un anno perso.
E una mattina, quando Edoardo si alza e vede che fuori sta cadendo la prima neve dell’anno, trova nel computer una mail che Andy gli ha mandato da Cambridge, Massachusetts, mentre in Svezia era notte fonda.
Caro socio, ti ho pensato molto oggi. La prima ragione è che in biblioteca ho preso il libro del generale Anders, visto che in realtà non l’avevo mai finito. Quindi non avrei potuto farti un riassunto, se fossimo andati a trovare i tuoi nonni.
In parte, come è evidente, perché negli ultimi giorni avevamo altro da fare, ma non è solo questo. All’inizio quella lettura mi aveva davvero molto appassionato per tutte le cose incredibili che quell’uomo aveva fatto e vissuto, la fuga a cavallo, la prigionia in condizioni disumane, il compito di creare un esercito e pure di salvare il numero più alto possibile di donne e bambini. E poi raccontava anche cose pazzesche, come tutti i voli per andare da un punto all’altro passando per i luoghi più impensati, dalla Russia all’Inghilterra con scali in Egitto, sorvolando il Lago Tanganyika, atterrando in Congo e a Gibilterra: rotte assurde, aerei scalcagnati, uno che si era tutto congelato e rischiava di cadere, ma questo al generale è stato spiegato solo quando si è svegliato al punto di partenza. O che quando dovevano parlare con Stalin, lui e gli altri delegati polacchi nel loro albergo venivano tempestati di telefonate di ignote signorine russe che fingevano di aver sbagliato numero. O che persino trovandosi a parlare da soli in camera, tenevano la voce bassa battendo contemporaneamente con un cucchiaio sul tavolo. Cose da film, insomma, più che da film, che invece erano vere. Poi però ho perso l’interesse, e non credo solo per via di Annika. Cominciavo a realizzare che facevo fatica a entrarci sino in fondo, in quella storia.
E se mi aveva tanto affascinato all’inizio, forse era un po’ proprio per questo. E’ difficile spiegarlo, ci proverò con un esempio. Ti ricordi Kung Fu Panda? Hai presente una delle prime scene quando il ciccione sogna di essere il Guerriero Dragone, ma a suo padre dice che ha avuto una visione di spaghetti in brodo? Il padre è strafelice di quel segno fausto del destino, visto che sono generazioni che la sua famiglia prepara gli spaghetti in brodo. Forse avevo bisogno anch’io di immaginare qualcosa di diverso da quelli che sono i miei spaghetti, volevo anch’io sognare qualcosa di eroico. Solo che non è la mia dimensione. Quel vostro modo di stare dentro la storia fino al collo, di lottarci fino all’ultimo sangue, - anche voi per generazioni, da nonno a nipote, -in fondo non lo capisco. Mi piace, così come mi è piaciuto molto il tuo esperimento davanti al cimitero, ma non mi appartiene. Riprendere in mano questo libro per confrontarmi con le impressioni che ho avuto allora, non fa che confermarmelo. Forse però dovrei spiegarmi meglio.
Anch’io capisco certe cose, ma per un’altra strada. Per esempio quella delle rondini. Quando stavo lì a guardare quel nido piazzato sotto la volta del corridoio, mi veniva immediato pensare che ai tempi della battaglia non avrebbe potuto esserci. Eppure, almeno quando ci avevano combattuto i soldati del generale Anders, era maggio. Quindi le rondini dovevano già essere tornate. Lì non potevano starci, ovvio, l’abbazia era rasa al suolo. Ma non potevano nidificare nemmeno da un’altra parte, perché anche intorno tutto era distrutto. E non potevano neppure volare senza pericolo perché sul fronte si sparava alto e le incursioni dei bombardieri avvenivano ovunque. Così mi sono chiesto: ma dove stavano le rondini, in tempo di guerra? E ho ripassato a mente tutti gli scenari della Seconda guerra mondiale, almeno quelli che abbiamo studiato a scuola: Europa, Nordafrica, Russia, Indocina, Pacifico. Ho visto questi stormi di poveri uccelli neri impazziti, in tutto il mondo. Capisci, Edo: per avere il senso preciso di quel che mi stava raccontando il vostro generale, io sono passato attraverso le rondini. Per questo, è l’ultima notizia che ti sto dando, ho deciso di interessarmi in che modo sia possibile coltivare questo interesse a fianco del mio corso. Intanto ho scoperto il «Museum of Comparative Zoology» collegato con l’università che organizza diverse iniziative. Little Andy Gupta really likes uccelli, come hai giustamente detto.
Non ti sbronzare troppo lassù nel paese dei vichinghi e dai un grande bacio a Gunnel.
Yours, forever Anand