«Questo era a Giedraicai, in Lituania.» Quel che intravvedo nella foto è qualcosa in più di un mondo scomparso.

Un mondo scomparso è un mondo di cui sai bene che è esistito, di cui puoi misurare la perdita. Un mondo come quello di Vilna, la Vilna ebraica, città di Rabbi Eliyahu che nel Settecento fondò l’ortodossia illuminista, Vilna dove si parlava lo yiddish più pulito, Vilna dove gli ebrei erano più di un terzo degli abitanti, dove esistevano oltre cento sinagoghe, dieci yeshivot, Vilna cantata come «città di spirito e candore», «tu che hai tessuto il primo filo della bandiera della libertà», apostrofata «nostra città natale, nostro desiderio e nostalgia», Vilna trasfigurata sin dagli anni Trenta da chi la evocava dai palcoscenici del Lower East Side, dalle rive dell’Hudson. La chiamavano «Gerusalemme di Lituania» sin da quando vi entrò Napoleone, breve speranza dei popoli soggiogati allo zar. Ma pur con gli ostacoli ripristinati dopo l’emancipazione, a Vilna trovava spazio anche ogni aspirazione secolare, dal socialismo del Bund ai libri e giornali sionisti scritti in ebraico, a un istituto di ricerca dal nome in yiddish, fino ai luoghi dove si mescolavano le genti che in essa convivevano, i parchi, i caffè, le sale da concerto, i teatri, i musei, il cinematografo. O i concorsi di bellezza per bambini. «Per questo mi hanno incoronata reginetta» commenta Irka, civetta e autoironica, indicando una foto-ritratto più grande delle altre. Deve aver avuto tre o quattro anni, indossa un abito chiaro ricamato, paggetto con frangia perfettamente in ordine, viso rotondo dai grandi occhi seri e sfavillanti di filtri fotografici. Sotto c’è scritto «Wilno». La cosa buffa è che ne esiste una simile di mia madre, mia madre che di Irka è coetanea, però aveva qualche anno in più quando il cugino Józek, il più gentile dei fratelli Szer, vedendola così carina, l’ha caricata sulla sua sensazionale automobile e l’ha portata a Katowice dal fotografo. Anche mia madre ha vinto un concorso di bellezza per quella fotografia.

Il mondo scomparso che riesco a concepire è quello in cui le bambine di buona famiglia venivano fotografate in ghingheri, un mondo dove si imparava a giocare a tennis, suonare il piano, e non si trascorreva più in sinagoga ogni sabato ma si festeggiava il compleanno con candeline e regali. Quel mondo scomparso ha lasciato tracce infinitamente labili rispetto all’altro, quello dei vicoli e delle botteghe, dei chassidim con i capelli bordati di pelliccia, dei poveri e devoti shtetl, poche casette e una sinagoga di legno in mezzo ai prati e ai boschi.

Che anche il paese nativo di Irena Levick fosse uno shtetl? Che in un villaggio isolato potessero far crescere una bambina rimasta figlia unica per scelta, cui il padre medico parlava in tedesco, la madre in russo, lo yiddish mai in casa, solo più tardi con i nonni, quando già era strappata alla sua età dell’oro. Che in quel paese di quattro anime le avessero messo in mano un violino così presto che a sette anni riusciva a dare il suo primo concerto, cosa che mi racconta quasi contemporaneamente alla tragedia della setticemia fatale, con fierezza di enfant prodige, cocca di padre, appena dissimulata, però stavolta priva di qualsiasi presa di distanza ironica? Dove l’avrebbe dato quel concerto? A Giedraiciai? A Vilna? A Kaunas? Non glielo chiedo, un po’ per lasciar scorrere i ricordi più belli e più brucianti, un po’ perché sto cercando di mettere insieme quell’enormità. Due genitori e una bambina che suonava Mozart tenendo la testa con le trecce reclinata intorno al suo violino, e al tempo stesso correva per i prati, che lo facesse anche a piedi nudi non è improbabile.

Ignoro se simpatizzassero con qualche ideale politico, ma quella coppia giovane irradia un’aria da pionieri, la loro adesione all’educazione umanistica, condotta fra foreste, campi, laghi, appare un’utopia realizzata.

Un’utopia borghese conservata nella carne e nella mente poliglotta di una figlia ottuagenaria, fossile vivente custodito nella trentina di metri quadri di una residenza per anziani israeliana.

Da quando Irka ha cominciato a raccontare di suo padre è più tranquilla.

Sembra essersi scordata di dover chiamare sua nipote, e ha già imbandito da sola la tavola quando arriva la donna che le dà una mano se non è disponibile Raissa. La segue da poco dopo essere arrivata da Minsk con la grande ondata di immigrazione postsovietica: da quindici anni, da quando Irka ha subito la prima operazione al bacino. La porta tutti i giorni a camminare, le cucina cibi che le piacciono, ma abita troppo lontano per poter passare da lei il sabato. Più tardi si parlano al telefono, in russo, quasi fossero familiari.

Shoshana è una signora sui cinquanta ben pettinata e truccata, porta dei dolcetti fatti in casa che le prometto avrei assaggiato, «mais pas tout de suite, madame, excusez moi». Irka ci ha introdotte con «vous pouvez parler français», mettendosi a mangiare. Shoshana è egiziana.

«D’où, si je peux demander?» «Du Caire!» Racconta che l’Italia l’ha visitata tutta, da Capri fino a Como, ma Napoli non le è piaciuta, «c’est trop caotique, c’est trop arabe». «Ben oui» dice ridendo, e indica i suoi enormi occhi neri, il suo prominente naso adunco con un gesto della mano teatrale: fatto sta che il suo nipotino la chiama araba. E’ vero che l’arabo lo parla ancora, mais c’est normal, n’est ce pas? «Non è una persona rozza» dice Irka dopo che ci ha lasciate, chiamandola «arabicka» come fa con Raissa, probabilmente.

«Si vede» le rispondo, e aggiungo che gli ebrei egiziani sono in gran parte gente colta, gente educata. Quanta buona educazione imparata nella diaspora passa per quel miniappartamento al terzo piano! Quanti mondi che comunicano senza fatica su quella base, mentre al di fuori, ridotti a stereotipi, appaiono lontani e disparati. Ma è l’ebraismo cosmopolita, che sia di Vilna e Leopoli o di Alessandria e del Cairo, l’identità più indefinibile e indifendibile, quella destinata a essere riassorbita e cancellata. Del resto, il dolce portato da Shoshana è un cheesecake soffice che non c’entra un bel nulla con la patisserie francese, e tantomeno con quella orientale.

Dopo averlo finito, sbaracco la tavola ignorando i «lascia, lascia» di Irka e mi rimetto al mio piccolo computer bianco che non sembra stupirsi di vedermi adoperare. Non fa fatica, adesso, a riprendere il suo racconto dove l’ha lasciato.

A Vilna, per quanto non disti dal paese che una cinquantina di chilometri, Irka e sua madre arrivano illegali visto che sono cittadine lituane. Dalla casa dello zio che le ha ospitate, attraversano verso occidente buona parte della Polonia per stabilirsi dai nonni materni a Lódz, dove Irka frequenta il liceo ebraico riuscendo a conseguire la «mala matura», la piccola maturità, prima che la città venga occupata.

Sua madre si è nel frattempo risposata con un uomo a sua volta vedovo e con un figlio più piccolo di qualche anno. Dopo l’arrivo dei tedeschi, padre e figlio si sono rifugiati a Leopoli, sua madre vuole che Irka li raggiunga, promette che sarebbe venuta anche lei, ma non nell’immediato, prima deve capire come portarvi i suoi genitori anziani.

«Meine Mutter» dice Irka posando un bicchiere con le mani che prendono a tremare, «man hat sie gebracht wo man hat lebendige Menschen begraben», l’hanno portata dove si seppellivano uomini vivi. Non le viene in mente il nome, me lo ridice, in una fossa, là dove seppellivano uomini vivi, mi guarda opaca e implorante, io non conosco la risposta, e quasi per sollievo di tutt’e due finalmente biascica: «A Treblinka». Restiamo mute entrambe.

«Sie war sehr jung, meine Mutter, nicht viel mehr als dreissig.» Non molto più vecchia di trent’anni? Per la prima volta ho l’impressione che Irka si confonda, che un’immagine portata dentro per oltre mezzo secolo la induca perlomeno a esagerare, immagine mostruosa, riflesso della sua impotenza, della colpa di non aver saputo proteggere la sua giovane madre. Non ricordo che qualcuno venisse sepolto vivo nelle fosse, se non per quella percentuale di errore inevitabile nelle uccisioni su larga scala, o almeno non in un campo di sterminio funzionante. Ma chiederle qualcosa è impensabile, neanche domandare da chi e come e quando avrebbe avuto notizie sulla sorte di sua madre. Non posso farlo, non ha importanza. Cercherò di verificare quel che riesco con strumenti che non mi costringano a interrogarla. La verità del sopravvissuto, del testimone, vorrei che fosse anche un’altra: i suoi incubi, i suoi fantasmi, la forma pietrificata del suo trauma.

Il giorno dopo vado per la prima volta a Gerusalemme, diretta soprattutto agli archivi del museo e luogo di memoria Yad Vashem.

Insperatamente al primo colpo, trovo nel database la scheda dedicata alla madre di Irka che reca - cosa rara - anche una foto in formato tessera di un volto dagli zigomi larghi, di una bellezza scura selvaggia e zingaresca, per nulla somigliante a quella della figlia.

Master of Pharmacy, Riva Levick nee Fridman was born in Dokshitse in 1904 to Mendel and Rakhel. She was married to Yosef. Prior to WII she lived in Giedraicai, Lithuania. During the war she was in Lodz, Poland.

Master of Pharmacy Levick perished in 1942 in Treblinka, Poland at the age of 38. This information is based on a Page of Testimony (displayed on left) submitted on 01 May-1999 by her daughter, a Shoah survivor.

Dunque, se anche il resto si fosse oscurato prendendo il sembiante di un’incontrollabile verità notturna, almeno sono certi i suoi anni.

Qualcosa mi suggerisce che Riva Levick nata Fridman, trentenne vedova costretta a peregrinare fra i parenti con una bambina a carico e, malgrado la sua laurea in farmacia, a sposarsi una seconda volta, sia una figura da non interrogare troppo, cosa che rende la sofferenza per la sua fine ancora più intoccabile. Forse ne è spia anche il fatto che il nome con cui Irena Sher ne ha registrato l’esistenza e la morte nell’archivio delle vittime sia quello del primo marito, cioè di suo padre. Ma soprattutto ha a che fare con il violino.

«Me ne ero comprata uno molto prezioso, da concerto, ma quando sono scappata mia madre ha detto che dovevo lasciarglielo, che me l’avrebbero portato via, confiscato.» Raccontando degli anni a Lódz, praticamente non parla d’altro: del trio e del quartetto di cui faceva parte, di come desse già lezioni private, di certi zii paterni immigrati a Johannesburg che avevano promesso di aiutarla con la carriera da solista. E dietro a questo si intravvedono rinunce, disciplina, l’adolescenza di una ragazza piena di spirito e intelligenza dedicata a un unico fine, messa a servizio di uno strumento. Mia madre, cui dai tempi in cui furono «reginette» era venuta a mancare quella piccola qualità indefinibile che distingue una ragazza molto carina da una ragazza bella - come Irka dev’essere stata in un modo persino un po’ intimidente -, a quell’età aveva ben altri grilli per la testa. Ascoltava lo swing, ballava il foxtrot, aveva addirittura un fidanzato, per giunta polacco.

Una bambina rimasta sola con una madre troppo giovane che sa di poter contare soltanto su se stessa, una bambina che attraversa la Polonia con un violino al posto di una bambola o un orsacchiotto, e la sua custodia in braccio, diventa donna.

«Però, a Leopoli, mi sono venduta un vestito bello e me ne sono comprata un altro.» Arrivare a Leopoli, percorrere da sola cinquecento chilometri di cui soltanto l’ultimo centinaio non occupato dai nazisti, non era cosa da poco per una ragazza di sedici anni. Si proteggeva come poteva, un po’ di soldi nascosti, qualche gioiello di famiglia, forse. Ma contava soprattutto sui suoi occhi azzurri, i suoi modi da signorina, la perfetta conoscenza di tedesco, russo e polacco, e tutto ciò che rendeva più che verosimile che fosse non un’ebrea, ma una «goika». Riparare in territorio sovietico sembrava la più breve e accessibile via alla salvezza, anche se i russi con i tedeschi si erano alleati, e gli impegni segreti fra Stalin e Hitler non si limitavano alla sola spartizione della Polonia, ma anche dei suoi abitanti.

Però, «la gioventù ebrea dei sobborghi a nord di Varsavia e dei quartieri ebrei delle piccole città e villaggi occupati dai tedeschi», che, come racconta Gustaw Herling in Un mondo a parte, sin da settembre «emigrò come una nuvola di uccelli in direzione del fiume Bug», pensava solo a scappare, arrivare alla frontiera sana e salva. E lì, miracolo, «i tedeschi non cercarono di fermare le masse che fuggivano, ma con bastoni e calci del fucile diedero loro un’ultima lezione pratica della filosofia del “mito della razza”: dall’altra parte della linea di demarcazione i russi custodi del “mito di classe”, vestiti con lunghi cappotti di pelliccia, coi berretti a visiera e le baionette a canna, andarono incontro ai profughi che volavano verso la “terra promessa’ con cani poliziotto e colpi di fucile mitragliatore».

Lo sapevano? Se l’aspettavano? Cosa capivano gli ebrei dei territori invasi dai tedeschi di quel che gli stava succedendo, cosa riuscivano a prevedere, ad anticipare? Erano diventati fuorilegge nel giro di una, due settimane. A Bedzin dichiarata Slesia, quindi Germania, da dove erano fuggiti i cugini di mia madre, come a Lódz, rimasta parte del Generalgouvernement Polen, però ribattezzata Litzmannstadt in onore di un generale tedesco. Sì, lo sapevano, ma la situazione non era statica, la situazione continuava a peggiorare. A questo bisognava adattarsi, giorno per giorno, con ogni giorno nuove angosce e nuove illusioni che il peggio, forse, stava per passare. Se questo dilemma si dibatteva nelle menti, a volte erano le gambe a rispondere quasi per contro proprio che no, il peggio non passava.

A Lódz, città popolosissima e industriale, devastate già a settembre le sinagoghe e i negozi, ricorrenti le razzie, le aggressioni fisiche in cui i morti potevano scappare e scappavano, arresti, fucilazioni nelle piazze o nelle carceri, collettive o individuali. Il 9 novembre 1939, attuate sin da subito le leggi razziali, si aggiunge l’obbligo di marchiarsi con la stella gialla, pena la morte. La confisca dei beni immobili va di pari passo con la deportazione dei proprietari. Il 10 dicembre 1939 viene ordinata la creazione di un primo ghetto, punto di raccolta per rendere la città «judenrein» in meno di un anno. Con il 6 febbraio 1940 si impone a tutti gli ebrei di trasferirsi entro i suoi limiti e il 30 aprile il ghetto viene chiuso. Più di duecentomila verranno ammassati entro il suo perimetro, facendone il secondo per grandezza dopo il ghetto di Varsavia.

Però, nel marzo del 1940, già sessantamila ebrei erano stati deportati o erano fuggiti: chi addirittura a Varsavia o altrove, dove, secondo le voci che più si era disperati e più giravano, la persecuzione pareva un po’ meno grave. Chi come Irka, il suo patrigno e il suo fratellastro, verso oriente, verso la patria dei Soviet, la terra che prometteva la fine di ogni discriminazione, l’uguaglianza di tutti gli esseri umani.

Ma questo non era un motivo perché la nuova alleata della Germania dovesse essere più accogliente con quei fuggiaschi di quanto lo fosse stata nei confronti degli ebrei austriaci o tedeschi la Svizzera neutrale. E poi in Polonia gli ebrei esistevano solo per i tedeschi in quanto tali. Per i sovietici potevano essere considerati come tutti gli altri: cittadini, come dice una postilla segreta al patto Ribentrop-Molotov, di una nazione cancellata.

Entrambe le parti non tollerano nei loro territori alcuna agitazione polacca che concerna i territori dell’altra parte. Si impegnano a sopprimere nei loro territori ogni principio di una simile agitazione e a tenersi reciprocamente informati sulle misure adeguate a riguardo.

Alla frontiera questa clausola veniva semplicemente applicata. Ormai era evidente che si sapeva, l’avrà saputo pure Irka quando sua madre le disse «vai», ma gli stormi sospinti dalla paura e dalla speranza continuavano ad arrivare.

Durante i mesi di dicembre, gennaio, febbraio e marzo, le folle di ebrei si accamparono in una terra di nessuno neutrale di un miglio circa sulla riva sovietica del fiume Bug, dormendo all’aperto, coprendosi con rosse coperte imbottite, accendendo fuochi di notte o picchiando alle porte delle vicine capanne di contadini per chiedere aiuto e asilo. Nei cortili delle fattorie sorsero piccoli mercati di baratto: vestiti, gioielli e dollari venivano dati in cambio di cibo o di aiuto ad attraversare il fiume per raggiungere l’altra riva… Ogni abitazione era assediata da una moltitudine di ombre, che guardavano dentro attraverso le finestre e picchiavano sui vetri, e che poi facevano ritorno, coi volti contratti senza speranza, ai fuochi del loro accampamento… Qualche volta di notte qualcuno si staccava da quell’informe massa umana, correva per parecchie centinaia di metri attraverso la pianura piena di neve, e poi, preso nel raggio di un riflettore sovietico, cadeva in avanti sotto una scarica di mitragliatrice.

Molti, secondo Herling la maggior parte di quei profughi, con il tempo persero la speranza o i mezzi per alimentarla e tornarono indietro, sotto la dominazione nazista, dove negli anni successivi finirono per essere annientati.

Alcuni, probabilmente, non reggevano l’attesa per qualcos’altro. Avevano lasciato indietro chi non ce la faceva o non se la sentiva di compiere un tragitto imprevedibile: genitori, innanzi tutto, e poi nonni, familiari in cattiva salute, fratelli, talvolta figli così piccoli da non volerli esporre a pericoli e privazioni.

Credevano, volevano credere, di essere partiti come avanguardia, e che, una volta sistemati, avrebbero trovato il modo di farsi raggiungere, come era stato pure per Irka e per sua madre. Erano scappati, in ogni caso, l’avevano deciso in fretta racimolando l’occorrente minimo, stando attenti a evitare ogni incontro con i tedeschi, camuffandosi se era possibile, dormendo il sonno allarmato delle prede o rimanendo insonni si erano spostati con il cuore in gola. E ora erano fermi, fermati a pochi passi dalla meta. Adesso che la fuga era terminata, l’ansia cedeva.

Cedeva all’esaurimento, alla disperazione, all’inquietudine e ai rimorsi, faceva spazio alla nostalgia. Non erano in America, non stavano nemmeno per imbarcarsi su un piroscafo in qualche grande porto di una città europea. Erano in Polonia, ancora, per quanto stessero sul limite di una frontiera difficilmente transitabile. Bastava voltarsi, tornare indietro, nel giro di poco tempo sarebbero arrivati a casa, perché in qualsiasi stanza sarebbero finiti ammassati, quel posto per loro diventava tale.

Home is where the heart is. Così fece anche Józek, il cugino che aveva portato mia madre a Katowice per farla partecipare al concorso di bellezza. Rientrò a Bedzin, perché «era sempre stato il più buono e voleva tornare dal suo papà e dalla sua mamma», mi ha detto mia madre testualmente. Il dottor Józef Szer rimase accanto a padre e madre fino alla «Selektion» presso i binari di Auschwitz, dove in tempi diversi furono tutti sterminati. Questo ritorno del figliol prodigo, se mia madre non si sbaglia, suo cugino lo decise addirittura quando i fratelli Szer il territorio sovietico l’avevano ormai raggiunto.

Non era l’unico, secondo Gustaw Herling. Accade a un certo punto «una cosa straordinaria: le stesse moltitudini che solo pochi mesi prima avevano rischiato la vita per entrare nella “terra promessa”, adesso iniziavano in massa un esodo nella direzione opposta, vale a dire verso la terra dei Faraoni». Cos’era, follia collettiva? O lo scrittore sopravvissuto al Gulag d’un tratto esagera? E’ evidente l’intenzione di mostrare che persino chi dai russi si aspettava almeno di aver salva la pelle, ormai era talmente disilluso da preferire tornarsene in un ghetto piuttosto che prendere il passaporto del nuovo Stato. Passaporto su cui, tra l’altro, sin dai tempi dello zar l’appartenenza etnica «evreij» finiva annotata. Possibile che bastasse questo perché, come confermano gli storici, fossero in gran parte ebrei coloro che facevano la fila davanti agli sportelli temporanei della «Commissione tedesca per il rimpatrio?» Succede in tutte le città della Polonia orientale, anche a Leopoli dove la commissione arriva nel maggio del 1940. La delusione dei rifugiati è amara quando scoprono che quasi solo i Volksdeutsche, i tedeschi etnici, hanno diritto al rimpatrio. Così, alla fine, fra tutti quelli che invertono la rotta, non sono molti coloro che ce la fanno a tornare con le carte in regola dove li attende morte certa. Ma il punto è che non lo sanno. Non possono saperlo, così come non lo sanno neppure i nazisti che impiegheranno ancora circa un anno per definire la soluzione finale della questione ebraica nei termini di un genocidio sistematico. I profughi non avevano nemmeno potuto sperimentare quanto la situazione a casa fosse peggiorata. E se anche li raggiunsero voci sui ghetti e tutto il resto, il dilemma era dover scegliere fra quel che vivevano e quel che venivano a sapere. A che cosa erano andati incontro dopo aver abbandonato i loro cari? Nel giro di pochissimo, città prosperanti e magnifiche, come Leopoli, la Lemberg un tempo fregio dell’impero austroungarico, erano state ridotte alla fame dall’avidità da piaga biblica con cui i soldati dell’Armata Rossa avevano spazzato via, con le buone e le cattive, gli ultimi beni offerti dal mercato libero. Erano diventate sporche, rotte, sovraffollate come città dell’Estremo Oriente. L’esodo verso Leopoli, prediletta per fama, dimensione e relativa vicinanza alla frontiera, aveva fatto raddoppiare a duecentomila la popolazione ebraica, ammasso macabramente non dissimile a quello di un grande ghetto, e pure i rifugiati polacchi erano comunque decine e decine di migliaia. Tutti quei clandestini non avevano possibilità di lavorare, né tantomeno di realizzare i ricongiungimenti agognati. L’unica prospettiva certa per gli ebrei osservanti era di veder proibito a vita l’esercizio della loro religione, per tutti gli altri nuovi pericoli e nuove minacce. Pericoli che ora gli incombevano addosso in quanto polacchi e, visto che, grazie alle leggi discriminatorie cui erano stati sottoposti da secoli, lo erano spesso diventati, in quanto borghesi. Quanti rabbini e notabili della comunità, ma anche medici, avvocati, scrittori e persino poeti, erano già stati imprigionati, costretti sotto tortura a confessarsi «nemici del popolo», «sfruttatori», «agenti a servizio di potenze straniere», prelevati nottetempo dalla polizia segreta come sarebbero state le loro famiglie, spariti nel nulla, deportati? Quanti sarti, ciabattini, piccoli bottegai e ambulanti? Nel maggio del 1940, oltre al terrore quotidiano che, grazie all’impiego di informatori criminali e delatori occasionali, poteva colpire chiunque in qualsiasi momento, erano già avvenute due delle quattro ondate di deportazioni in massa di polacchi verso l’interno dell’Unione Sovietica.

Era questo che si sapeva a Leopoli e a Bialystok, a Grodno come a Vilna.

E allora, il pensiero che forse era meglio tornare a soffrire a casa accanto alla propria famiglia piuttosto che rischiare in ogni caso di finire in Siberia, appare meno folle. Eppure, le moltitudini che avevano fatto richiesta di ritorno nella terra dei Faraoni non p otevano immaginare quanto fosse stretta l’amicizia fra la nazione tedesca e quella sovietica in quel periodo. Le liste raccolte dalla «Commissione tedesca per il rimpatrio», le uniche a riportare nomi e indirizzi reali dei profughi, erano state consegnate direttamente al nkvd, il Commissariato del Popolo per gli Affari Interni. Fu sulla base di quelle liste che la polizia segreta staliniana preparò la terza deportazione, eseguita nel giugno del 1940.

Poi l’ultima, nel giugno del 1941, sempre diretta principalmente ai rifugiati.

L’unica cosa che so di Irka, nel periodo che precede la sua deportazione, è che a Leopoli si era venduta un vestito buono per comprarsi un violino scadente. Vale a dire che aveva impegnato una delle sue risorse rimanenti - e il fatto che si fosse privata di un vestito fa pensare che non ne avesse più molte - per appropriarsi di una cosa che non era né pane né burro né carbone. E vuole dire soprattutto che si era già esposta ben due volte al rischio di un arresto, perché chi ricorreva al mercato nero, anche solo per sfamarsi, passava per speculatore, quindi nemico giurato del nuovo ordine. Una bella ragazza, poi, che possedeva abiti preziosi e poteva permettersi di scambiarli per uno strumento che procurava calli di lusso soltanto su una mano, non avrebbe potuto sperare di farla franca.

L’Uomo Sovietico non aveva bisogno di violini, mentre la signorina Irena Levick non poteva fare a meno di rischiare persino la vita per quell’acquisto. Cosa che tra l’altro fa capire come, nonostante avesse raggiunto il suo patrigno, disponesse delle sue cose e delle sue scelte come qualcuno che decide per se stesso, e il rovescio di tale autonomia si chiama solitudine. Infatti il suo violino, a differenza di sua madre sulla quale avrà perso ogni speranza, Irka non l’ha più abbandonato.

Ignoro per quali vie fossero finiti sulle liste di deportazione il suo patrigno e il suo fratellastro: so solo che Irka, a quanto pare, ha avuto modo di dire all’agente dell’nkvd che era venuto a prenderli, «vado con loro!» Nel suo russo eccellente, con i suoi occhi nordici, con la sua aura di quasi donna, seria e pacata.

«Ty sumassesaja!» sembra abbia esclamato il russo, «ma tu sei pazza!» E sembra che le abbia fatto pure presente che, essendo cittadina lituana e non polacca, avrebbe potuto tornare a Vilna o a Kaunas, terminare gli studi, riprendere una vita normale.

«Sì, ma questa è la mia famiglia» ha ribadito Irka con insistenza, «e cosa faccio io da sola in Lituania?» «Niet, eto nie vasmozno, è impossibile. Lo Stato sovietico sa chi deve trasferire, e chi non è sulla lista non può essere deportato.» Mettersi a discutere nel cuore della notte con un ufficiale della polizia segreta, fingere di essere più inerme di quanto fosse, nascondere che uno dei suoi piani iniziali era stato proprio raggiungere in Lituania qualche parente che in realtà le era rimasto, cos’era se non pazzia? Non avrebbe piuttosto dovuto dare subito una mano a quel povero ragazzino costretto dai russi a raccattare i bagagli in meno di mezz’ora, mentre tenevano suo padre sotto tiro, mani al muro, o inginocchiato in pigiama? Resta però un’altra frase che Irka avrebbe detto all’agente sovietico, frase che a rileggerla negli appunti e a confrontarla con le date storiche, ho scartato di primo acchito come un errore di comprensione da parte mia o di memoria da parte sua.

«E poi in Lituania ci sono i tedeschi!» Però l’aveva ripetuta più di una volta. Nulla mi aveva dato l’impressione che Irka mostrasse segni di confusione sui suoi ricordi, e quindi decido di continuare la verifica. E scopro questo: l’ultima deportazione era cominciata il 20 giugno 1941, solo due giorni prima dell’aggressione tedesca, ragion per cui fu anche più parziale, frettolosa e arbitraria delle altre. Probabile che, non lontanissimo dalla frontiera dove si stavano ammassando immense quantità di carri armati e uomini, l’imminenza della guerra fosse data per certa, come pure il suo esito, sul quale, schiacciati dal regime russo, contavano in moltissimi. Può pure darsi che la deportazione fosse continuata quando erano già cadute le prime bombe tedesche, anche se, a quel segnale, l’nkvd aveva avuto piene le mani nell’uccidere i detenuti politici.

Nelle prigioni stracolme di Leopoli quel massacro di tanta gente quanta ne vive in una piccola città, era un daffare che prendeva quasi una settimana. Fatto sta che soprattutto in Lituania la Wehrmacht procedeva rapidissima: Kaunas cade il 25, Vilna il 26, Leopoli soltanto il 30 giugno.

Se fu davvero l’ultima deportazione quella cui Irka con la sua educata testardaggine era riuscita ad aggregarsi, forse era meno pazza di quel che sembrava. Non appena vengono aperte le prigioni trasformate in macelli, dove il caldo dell’estate faceva fermentare di possibili epidemie i cadaveri ammollati nel loro sangue, i nuovi occupanti insieme ai nazionalisti ucraini che contano molte vittime fra i giustiziati, mettono in giro la voce che la colpa è degli ebrei arruolati nell’nkvd o comunque servi dei russi. Per tutto il mese di luglio si consuma una vendetta che nuovamente priva Leopoli della popolazione di una cittadina, per quanto questa volta solo ebraica. A differenza della successiva bonifica pianificata dai nazisti, i pogrom ucraini non si limitano a rapinare e ammazzare, ma comprendono stupri di massa, mutilazioni, violenze alle quali, pur non riprendendosi mai più, si è costretti a sopravvivere. E anche in Lituania, la collaborazione dei lituani con i tedeschi sarà tale che, malgrado la vicinanza con il confine russo e la persecuzione cominciata solo nel 1941, il numero degli ebrei sterminati risulterà lievemente più alto che in qualsiasi altra parte del mondo conquistato dai nazisti: incluso il General gouvernement Polen e i territori sotto le ciminiere dei campi di sterminio.

Come aveva fatto la ragazza con il violino, la signorina di ottima famiglia, a intuire che l’unica possibile via della salvezza erano i russi, persino se terminava dentro il Gulag? Era istinto di sopravvivenza o, al contrario, una rassegnazione che non si interessava più di niente, tranne non rimanere ancora più sola e non lasciare soli coloro di cui sua madre non poteva più prendersi cura? Comunque, è in un vagone merci piombato in attesa di partire dalla stazione di Leopoli che Irena Levick conosce i tre cugini di mia madre rimasti in territorio sovietico: Dolek, il maggiore, medico come Józek, ormai rinchiuso nel ghetto di casa a Bedzin; Benno, avvocato, con sua moglie e i suoi due fratelli; e Zygmunt, il più giovane. D’ora in poi, di tutto quel che i fratelli Szer hanno studiato all’Università di Montpellier, l’unica competenza utile sarà quella di Dolek. Un dottore serve sempre.

Anche se in certi casi non potrà fare altro che confermare la morte per fame o sete o caldo di vecchi e bambini, dandole la dignità fredda di nomi come «disidratazione» e «astenia» prima che i loro corpi vengano buttati fuori dalla finestra del treno in movimento, l’unico modo in cui è consentito sbarazzarsi dei cadaveri durante il viaggio. Un medico, se soltanto è riuscito a portarsi dietro un minimo di farmaci, e soprattutto ha il fegato di conservare l’attitudine richiesta dal suo giuramento, è un ancoraggio per le persone gettate alla rinfusa in un vagone buio e puzzolente, un contraltare alle preghiere di ogni confessione che tracimano o si confondono con i lamenti. Ma persino una ragazza che sa capire il russo come una lingua madre, che sa individuare il più accessibile dei guardiani, potrebbe rivelarsi molto utile.

Aspetta il momento buono, lo guarda con mitezza indifferente. «Nemnosko vody, pozalusta, dolzny vypit rebiota’» gli dice allungandogli un ultimo cimelio raccolto come offerta sacrificale, «i bambini hanno sete, per favore, un po’ d’acqua.» O forse no, forse non si trova nessun russo disposto ad avere pietà facendosi comprare. Allora la ragazza scrolla la testa, solo un poco, perché la desolazione è grande e perché ogni movimento eccessivo sembra togliere aria, rubare spazio agli altri.

«Bardzo mi przykro, proszf pani» dice alla madre, «signora, sono mortificata», e si rannicchia di nuovo su se stessa, più che può, tirando su le ginocchia, tenendovi incastrato in mezzo il violino barattato nella custodia. Ma forse, durante un viaggio di deportazione, può essere d’aiuto anche quello.

«Guarda» dice la madre al bambino che tossisce, annaspa come una rana all’asciutto, continua a scartavetrarsi la lingua sulle labbra spaccate, «ta pifkna panienka gra na skrzypcach», quella bella signorina suona il violino. «Ci darete un concerto, vero, quando arriviamo?» «Sicuro» risponde Irka, «oczywiscie», e per fortuna c’è poca luce.

Ma anche se il fascio che entra dalla finestra dovesse caderle proprio sulla faccia, il velo d’acqua stagnante nei suoi occhi si confonderebbe lo stesso con il grigio-azzurro delle iridi vellutate e immutabili.