PRIMA DELLA BATTAGLIA

 

Milano, piazzale Dateo - Segrate, autunno 2007

 

«Tutto quel che avviene ovunque in ogni momento è il passato.»

Gustav Landauer, filosofo anarchico, ministro della Cultura della Repubblica bavarese, lapidato dalle milizie di destra nel 1919

«La guerra è il padre di tutte le cose.»

Eraclito

Mio padre è stato a Montecassino, ha combattuto nel Secondo Corpo d’Armata polacco, con il generale Anders. E’ stato ferito vicino a Recanati, risalendo l’Adriatico fino a Bologna. Era in una casa colonica in convalescenza quando ha conosciuto una ragazza marchigiana. Mia madre, la ragione per la quale è rimasto in Italia.

L’Italia, il motivo per cui, trascorsi più di sessant’anni, ho dovuto fare lo spelling del mio cognome al telefono. Sentendolo ripetere, il taxista mi ha appena chiesto se per caso sono polacca, come lui.

«Lo sapeva che i soldati polacchi, se sposavano un’italiana, perdevano il premio della cittadinanza che gli inglesi avevano dato a chi li aveva sempre aiutati contro i nazisti?» domando, mentre in fondo alla strada già vedo il cavalcavia che segna la fine di Milano.

No, non lo sapeva.

I polacchi in esilio sono emigrati con le loro mogli nei più lontani angoli del mondo, dall’Argentina all’Australia, gli racconto. In Italia, dopo la guerra, sono rimasti in pochi, circa duecento, oltre ai mille sepolti ai piedi dell’abbazia benedettina. Per mezzo secolo quei pochi reduci hanno curato il cimitero, hanno trasmesso il ricordo della battaglia, hanno mantenuto vivo il legame con la Polonia.

«Ci è mai stato? La conoscete ancora Czenvone Makina Montecassino in Polonia?»

La giornata era cominciata male, treno in ritardo, taxi per arrivare in tempo, discussione con il gestore di telefonia, ma sembra stia volgendo verso il meglio. Quando siamo in via Corelli, mi lancio nella canzone dei papaveri rossi a Montecassino, seguita nel ritornello dal taxista.

«Do widzenia!» lo saluto mentre arrotondo più del solito e mi avvio verso l’ufficio canticchiando.

Sarebbe potuta andare così quella mattina d’autunno, se tutto questo mi fosse venuto in mente. Ma non ho mai raccontato al taxista che mio padre ha combattuto a Montecassino. Gli ho solo detto che veniva dalla Polonia e non importa più che altro, qualsiasi cosa potesse colmare le sue domande: «Di dov’è suo padre? Da quando è in Italia? Ha ancora parenti in Polonia? Dove vivono? Vi vedete qualche volta? Come mai il polacco non lo parla?» Arrancavo dietro risposte credibili, pagavo con la goffaggine delle bugie estemporanee che fosse stata veritiera la mia prima replica.

Mi ero solo attribuita una madre italiana per giustificare la scarsa conoscenza del polacco, ma non avevo calcolato le altre domande. Così mi ci impigliavo dentro, rispondendo mezze verità scoprendo che l’invenzione riesce male quando sgorga dalla costrizione, che le menzogne nate per caso sono brutte. Forse l’uomo che me le aveva cavate fuori, nemmeno se n’era accorto, soltanto io lo notavo. Notavo quanto fosse abissale il divario fra quel che raccontavo e quel che nascondevo, quanto fragile lo scudo di parole che mi ero posta dinnanzi senza alcun vero bisogno.

Sarebbe bastata una sola parola - Montecassino - per apparire ai suoi occhi integralmente bardata di armi e uniforme. Sarebbe bastato che conoscessi davvero la canzone dei papaveri rossi e non l’avessi solo ascoltata in un filmato sulla conquista polacca dell’abbazia in rovine, interpretata dalla voce tenorile di Adam Aston, già prima della guerra popolarissimo. E immortalato in pellicole romantiche dove l’eroe prende la mano dell’eroina sulle note languide di un tango intonato dal signore in frac al centro dell’orchestrina zingara. Sarebbe bastato aver saputo che al secolo si chiamava Adolf Loewinsohn, era un ebreo nato a Varsavia, finito in un teatro di Leopoli nel ‘39, per poi lasciare l’Unione Sovietica nel ‘42 con l’armata del generale Anders. Ma il più grande contributo patriottico l’aveva dato incidendo la canzone in memoria dei suoi compagni caduti fra i papaveri, nel 1944, a Roma.

Anche mio padre cantava bene ed era un ebreo polacco: come mia madre, i miei nonni, i miei zii, tutti i miei familiari rimasti, sì, in Polonia, però da morti. Era questo che non volevo rivelare al taxista incuriosito, a maggior ragione quando ho saputo da dove proveniva.

Kielce: città natale dello scrittore Gustaw Herling, ex-deportato nel Gulag sovietico, ex-militare del Secondo Corpo d’Armata, reduce di Montecassino. Avrei potuto fare questa associazione, al taxista, invece quel nome di città mi evocava solo qualcos’altro.

Kielce: luogo del primo grande pogrom del dopoguerra, mattanza di un’ottantina di ebrei sopravvissuti che fece prendere ai miei genitori la decisione di abbandonare per sempre la Polonia.

Anche mio padre, come il celebre cantante Adam Aston, portava un nome diverso da quello con cui era nato. Ma non si trattava di un nome d’arte, bensì di uno che gli era servito per sopravvivere. Se l’avesse deposto per riprendersi il suo nome ebraico, il polacco di Kielce non mi avrebbe domandato nulla sul suo taxi.

Ma il nome falso di mio padre è il mio cognome. Con quello sono nata e cresciuta, ne ho spiegato mille volte l’origine, e finisco spesso scambiata per immigrata, per badante, persino per donna facile perché in Italia, oggi, porto un cognome slavo. Come posso considerare falso qualcosa che mi ha impresso il suo marchio? Come può esserlo quel nome a cui mio padre deve la vita e io la mia? Che cos’è una finzione quando si incarna, quando detiene il vero potere di modificare il corso della storia, quando agisce sulla realtà e ne viene trasformata a sua volta?

Cosa diventa la menzogna quando è salvifica? E quali storie, mi domando infine, posso narrare io di fronte a questo? A quale invenzione posso ricorrere essendo testimone in carne e ossa che fra il vero e il falso, fra realtà e finzione, corre talvolta il confine labile che separa la vita dalla morte? Che cosa posso raccontare sapendo che, a fronte di un’esistenza conservata grazie a un documento falso, si spalanca una vertigine di nomi veri, di nomi dimenticati, di nomi perduti, di nomi scomparsi: famiglie sterminate fino all’ultimo, civili di ogni nazione ridotti a ceppi neri dai bombardamenti, corpi esplosi sino all’irriconoscibile, cadaveri mai recuperati dai luoghi di battaglia, militi ignoti.

Io, Helena Janeczek, nata a Monaco di Baviera, residente da oltre vent’anni in Italia, di origine polacca perché i miei genitori ebrei venivano dalla Polonia e ancor più perché porto un nome slavo, un giorno d’autunno, senza cercarlo consapevolmente, ho trovato un luogo: un angolo di mondo che si è rivelato molto più di un pretesto per rimpiazzare una sequela di bugie sgraziate con una storia tanto mitica per chi l’ascolta che troncherebbe ogni domanda.

Al centro c’è un’abbazia: il primo monastero d’Occidente, distrutto quattro volte. Sotto, a pochi passi, il cimitero polacco. Più a valle, appena fuori Cassino, quello del Commonwealth. I tedeschi sepolti a Caira, gli americani ad Anzio, i francesi a Venafro, gli italiani a Mignano-Monte Lungo. Soldati morti durante la Campagna d’Italia e soprattutto nella Battaglia di Montecassino, che è il nome con il quale si riassumono le quattro offensive alleate durate dal gennaio al maggio del 1944. L’abbazia è stata ricostruita, lasciando scorgere le fondamenta di un tempio romano portate alla luce dalle bombe, lo spuntone su cui si erge è coperto da un verde fitto che nasconde gli ultimi residuati bellici. Solo i morti sono di più di quanti riposano nei sacrari vicini: oltre trentamila. Trentamila su milioni. Milioni di uomini risucchiati dai luoghi più remoti e vomitati nell’imbuto di una valle circondata di montagne.

Fra loro c’era un cugino di mia madre: Dolek Szer. Forse vi aveva combattuto anche un caro amico di famiglia: Emilio Steinwurzel. Entrambi nel Secondo Corpo d’Armata. Ma solo da qualcuno come il taxista di Kielce ci si può aspettare che sappia che i polacchi hanno partecipato alla liberazione dell’Italia.

Nessuno si cura di menzionare nemmeno canadesi e neozelandesi quando vengono nominati gli anglo-americani, o «americani» e basta. Sono persino dimenticati gli stessi italiani che parteciparono alla guerra alleata nelle formazioni regolari dell’esercito, non come membri della resistenza. Quindi non desta stupore che quasi nessuno ricordi più gli indiani, i nepalesi, i maori, gli algerini, i nippo-hawaiani, i brasiliani, i senegalesi, gli ebrei venuti dalla Palestina con la Jewish Brigade, e tutti gli altri soldati del mondo intero che sono finiti in Italia. E hanno combattuto in Italia, in Italia spesso sono morti, perché il vortice che li ha inghiottiti non si chiamava semplicemente guerra, ma Seconda guerra mondiale.

Seconda guerra mondiale: da lì, databile attraverso un passaporto falso, traggo le mie origini. Seconda guerra mondiale: una sola e indivisibile.

Unico gorgo che risucchia pressoché ogni luogo della terra, ogni animale e paesaggio, e che gettandoli alla rinfusa, unisce e divide gli uomini.

Troppo vasta per poterla afferrare tutta, troppo estranei i suoi attori per poterli raggiungere senza il veicolo dell’invenzione. Eppure troppo vere le loro vite e le loro morti corrose dall’oblio per non cercare di aderire il più possibile alle fonti che mappano le loro traiettorie e documentano il loro passaggio da un continente a un altro, dal tempo passato al tempo presente.

Mio padre non ha mai combattuto a Montecassino, non è mai stato un soldato del generale Anders. Ma per quell’imbuto di montagne e valli e fiumi della Ciociaria, forse, è passato qualcosa di mio: di me perduta e ritrovata in un punto geografico, un luogo che ci contiene tutti.