I MAIALINI SENZA CODA.
Titolo originale: "Les petits cochons sans queue". Traduzione di Anna Ferraris.
"E' un piacere per le mogli riattaccare bottoni." Per la telefonata delle sette non c'erano dubbi: Marcel aveva proprio chiamato dal giornale. Germaine era appena arrivata al ristorante "Franco-Italien" in boulevard de Clichy dove avevano l'abitudine di cenare e dove erano d'accordo di incontrarsi quando non si erano dati appuntamento altrove. Accanto alla finestra avevano sempre riservato un tavolo. Germaine si era appena seduta e aveva constatato che erano le sette meno tre minuti quando Lisette, la piccola guardarobiera che la guardava con aria curiosamente commossa dopo il loro matrimonio e la chiamava con tanta soddisfazione "signora", si era avvicinata. «Signora Blanc, il signore la desidera al telefono.» Non diceva il signor Blanc. Diceva "il signore" e assumeva un'aria di complicità tale che il signore sembrava un po' il signore di tutte e due. Cambiamento di programma, probabilmente. C'era da aspettarselo da Marcel, le avrebbe detto: «Svelta, va' a metterti in abito da sera e prepara il mio smoking. Andiamo alla tale "prima", alla tale festa.» Quante volte in un mese di matrimonio erano rimasti in casa la sera? Due volte, non era difficile ricordarsene. «Sei tu, Marcel?» Non era lui. Era la telefonista del giornale, di cui Germaine conosceva molto bene la voce e che conosceva la sua, che le disse: «Le passo suo marito, signora Blanc.» Allora Marcel era al giornale. E non aveva bevuto. Quando aveva preso anche soltanto due o tre aperitivi, lei se ne accorgeva subito, perché gli si inceppava lievemente la parola. Era molto caro anche così, non glielo diceva, ma le piaceva molto quando era un tantino brillo, non troppo, e si impappinava un po'. «Sei tu, tesoro? Sono costretto a pregarti di pranzare senza di me. Qui, nel mio ufficio, c'è John Dickson, il procuratore di Turner, vuole assolutamente che vada a pranzo con lui prima dell'incontro e non posso dirgli di no.» Aveva dimenticato che Marcel aveva un incontro di boxe quella sera. Non le piaceva la boxe. Inoltre si era accorta sin dal principio che, quando Marcel assisteva a quelle riunione per il "businness" come diamine diceva lui, preferiva che lei non ci fosse. «Sai, in quell'ambiente, ci sono certi tipi così sboccati che rischierei di dover fare a pugni.» «Che cosa fai? Vai al cinema?» «Non lo so ancora. Credo che tornerò a casa.» «Rientrerò alle undici e mezzo, a mezzanotte al più tardi. Scriverò l'articolo, poi andremo insieme a portarlo al giornale. A meno che tu preferisca trovarti a mezzanotte alla birreria "Graff".» «No, ci vediamo a casa.» Non si sentì triste. Nemmeno allegra, certo, ma bisognava che si abituasse. Quella era la professione di Marcel. Mangiò sola, con gli occhi fissi sul piatto. Un paio di volte fu sul punto di parlare tanto aveva l'abitudine di averlo di fronte con il suo sorriso tenero e canzonatorio. «Frutta? Caffè, signora Blanc?» «Grazie, non ho più fame...» Mentre passava davanti a un cinema illuminato, si domandò se aveva fatto bene a dire che sarebbe rincasata. Poi, all'improvviso, ebbe fretta di essere a casa, fu quasi contenta di quella solitudine, di quell'attesa nel loro appartamento. Fino a quel momento l'aveva sempre aspettato nei bar o nelle birrerie dove le dava appuntamento. Avevano avuto ben poco tempo per abituarsi alla loro casa. Percorse a piedi rue Coulaincourt, che diveniva più calma, più provinciale via via che si allontanava dai boulevard di Montmartre. La sera era mite, non fredda per dicembre, ma piovosa. Era quasi una nebbia, finissima, sottile che avvolgeva i fanali come in un leggero velo. La casa era d'angolo fra rue Coulaincourt e rue Lamark, non lontano da place Constantin-Pecquer. La vedeva da lontano, distingueva al sesto piano la balconata con la ringhiera di ferro che girava intorno all'edificio e il pezzetto, delimitato da inferriate, di cui loro due erano padroni. Perché provò un senso di sollievo vedendo le luci accese alle finestre vicine al loro appartamento? Passando nell'andito, vide la portinaia che lavava il suo bambino prima di metterlo a letto e gridò loro la buonasera. Non c'era ascensore. La sola seccatura. Mentre saliva Germaine scorgeva luci che filtravano dalle porte, udiva il suono della radio, il brusio delle conversazioni davanti al camino e le sembrava di sentire l'odore particolare delle intimità che sfiorava. «Lei ha un appartamento?» le aveva domandato lui con quel tono tutto suo che non lasciava mai capire se parlava seriamente o se scherzava. Erano a Morsang in riva alla Senna, sul finire dell'estate. Da anni Germaine con una banda di amici vi andava a passare i weekend. Uno vi aveva condotto Marcel che era tornato poi parecchie volte. «Abito in una camera ammobiliata» aveva risposto. «Anch'io. Le piace?» «In mancanza di meglio...» «Be', io ho trovato un appartamento.» «Miracolo dei miracoli! Il sogno di mezzo milione di parigini.» «E' a Montmartre. Da tutte le finestre si contempla il panorama di Parigi. C'è un balcone grande come tre fazzoletti sul quale si può fare la prima colazione al sole. Quando il sole c'è.» Aveva aggiunto: «L'ho preso in affitto. Adesso cerco una donna. D'urgenza, perché vi trasloco il 15 ottobre.» Poi sempre con l'aria di scherzare: «Non le dice niente? Camera, bagno, cucinina, sala da pranzo e balcone!» Arrivata sul pianerottolo era sempre una gioia per lei affondare la mano nella borsetta per cercare la chiave. Ed era una gioia, appena girato l'interruttore, vedere, sparsi ovunque, oggetti che appartenevano a Marcel, la pipa, un cappotto e, in camera, le pantofole. «Peccato che tu non ci sia, caro. Avremmo passato una bella serata.» Parlava da sola, sottovoce, per farsi compagnia. «E' vero che se tu ci fossi stato, saremmo usciti.» «Il fatto è» diceva lui in tono scherzoso «che non sono ancora un uomo casalingo, ma lo diventerò certo più tardi, quando avrò... quanti anni?... Cinquanta? Sessanta?...» Germaine tentò di leggere. Poi decise di mettere in ordine il guardaroba attaccando qualche bottone, dando qualche punto. Alle nove alzò gli occhi all'orologio a muro e pensò che alla sala Wagram le riunioni incominciavano; immaginava il quadrato, le luci violente, la folla, i pugili, Marcel al tavolo dei giornalisti. Alle dieci e mezzo stava ancora cucendo quando una suoneria assordante la fece sobbalzare. Era il telefono al quale non si era ancora abituata, perché era stato impiantato soltanto la settimana prima. «Sei tu, tesoro?» Era la prima volta che Marcel le telefonava a casa. Durante il giorno lei lavorava nel negozio delle sorelle Corot, in faubourg Saint-Honoré e lui la chiamava là, anche un po' troppo sovente secondo le signorine
Corot.
«Cosa stai facendo?»
«Cucio.»
Aggrottò le sopracciglia. Quella telefonata non le piaceva, ma non sapeva perché. Marcel non aveva bevuto eppure la sua voce non era chiara come al solito. Sembrava imbarazzato come quando era costretto a mentire. "Sai mentire così male!" gli aveva detto spesso lei.
«Volevo darti la buonanotte» disse Marcel. «Il grande incontro sta per cominciare. C'è folla, la sentirai...»
No. Lei non aveva l'impressione di udire il rumore di una sala piena di spettatori elettrizzati.
«Spero proprio di tornare prima di mezzanotte. Pronto! Perché non dici niente?»
«Ti ascolto.»
«Sei di cattivo umore!»
«No.»
«Ti annoi?»
«Ma no, caro. Non capisco perché ti preoccupi.»
«Non mi preoccupo. Senti...»
Lei capì che stava per conoscere il motivo della telefonata.
«Se per caso fossi un po' in ritardo...»
«Pensi di ritardare?»
«No, ma sai come vanno queste cose. Può darsi che sia obbligato ad andare a bere qualcosa con gli organizzatori.»
«E tarderai molto?»
«Ma no! Verrò presto. Un bacino...»
Docilmente lei imitò nell'apparecchio lo schiocco di un bacio, poi incominciò:
«Marcel, io...»
Ma lui aveva già interrotto e lei si trovò di nuovo sola tra un mucchio di vestiti e di biancheria.
Era sicura che la prima telefonata veniva dal giornale perché aveva parlato con la solita telefonista, ma non c'era prova che la seconda, quella delle dieci e mezzo venisse dalla sala Wagram e in seguito dovette persuadersi del contrario.
Alle undici aveva già riposto la roba negli armadi. Cercò qualche cosa da fare e stava per prendere un libro quando lo sguardo le cadde sul cappotto di cammello di Marcel buttato su una poltrona. Si ricordò di aver notato qualche giorno prima che un bottone stava per staccarsi; non l'aveva ricucito subito perché erano fuori di casa. La storia di quel bottone la fece sorridere perché le suscitò un ricordo.
Marcel teneva molto all'eleganza, un'eleganza a volte un tantino vistosa. Gli piacevano le tinte chiare, le cravatte sgargianti. Una domenica mattina a Morsang lei aveva osservato:
«Ha perduto un bottone del panciotto di maglia.»
«Non l'ho perduto. L'ho in tasca.»
«Me lo dia, allora, che glielo attacco.»
Era avvenuto prima che le parlasse dell'appartamento.
«Ne farà un'orgia, quando lei sarà sposata!»
«Perché?»
«E' un'osservazione che ho fatto ogni volta che uno dei miei amici si è sposato. Le giovani mogli adorano riattaccare i bottoni del marito. Sospetto persino che li stacchino apposta per avere il piacere di ricucirli. Se lei ha già questo vizio prima...» Sorrise dunque mentre stendeva sulle ginocchia il cappotto. Infilò l'ago, poi mentre stava per cucire sentì nella tasca un oggetto di volume insolito. Non aveva mai pensato di frugare nelle tasche di Marcel. Non era ancora gelosa. Forse non lo sarebbe mai stata, tanto aveva fiducia in lui e soprattutto nel suo sorriso di monello affettuoso. L'oggetto era duro. Non assomigliava a nessuna delle cose che si mettono abitualmente in tasca e più per amore dell'ordine che per curiosità, lei lo tirò fuori. Allora, mentre le sue mani svolgevano la carta velina, il suo viso mutò e lei rimase per un lungo istante immobile, agghiacciata a fissare con occhi pieni di terrore, un maialino di porcellana. Erano le undici e mezzo all'orologio a muro. Il maialino rosa era sul tavolo davanti a lei. Il cappotto era scivolato sul tappeto. Febbrilmente Germaine formava un numero sul quadrante telefonico, ma ogni volta questo le dava il segnale di occupato. Contraeva le mani come se si fosse trattato di vita o di morte e ogni secondo fosse prezioso. Si alzò e sfogliò la guida per essere sicura di non aver sbagliato numero. Quando Marcel l'aveva chiamata alle dieci e mezzo, il grande incontro stava per cominciare. Quanto dura un incontro di pesi massimi? Dipende, evidentemente. E dopo? Chissà se la gente andava via subito, se gli organizzatori lasciavano subito la sala... «Pronto? Sala Wagram?» «Sì, signora.» «Mi dica per favore... La riunione è finita?» «Da mezz'ora, signora.» «Sono andati via tutti? Chi parla personalmente?» «Il capo elettricista. Ci sono ancora parecchi signori, qui...» «Chieda per piacere se il signor Marcel Blanc... Sì, Blanc... il giornalista, sì, chieda se è ancora lì. Deve essere con gli organizzatori. Faccia il possibile per trovarlo, la prego, si tratta di una cosa molto importante. Pronto! Sì, se c'è, gli dica di venire al telefono.» Poi, all'improvviso silenzio, col ricevitore all'orecchio, si pentì dell'orgasmo con cui aveva cercato Marcel. Che cosa gli avrebbe detto? Forse lui stava salendo le scale in quel momento, si udivano dei passi. No, si fermavano al quarto piano. Se aveva preso un taxi subito... a lui non piaceva aspettare gli autobus e detestava il metro. Con qualunque pretesto prendeva il taxi. «Pronto? Come dice? Non è con quei signori? Non sa se...» Avevano riappeso. Di nuovo sola. E il maialino rosa sul tavolo, il maialino senza coda! «Senti, Marcel, devi dirmi...» Ma Marcel non c'era. Lei era sola e improvvisamente ebbe paura della solitudine, tanta paura che andò alla portafinestra e l'aprì. Fuori la notte era di un grigio bluastro, i tetti con i loro comignoli spiccavano netti, le strade punteggiate di fanali erano profonde trincee e più lontano la scintillante fiumana di boulevard di Montmartre, place Pigalle, place Blanche, il Moulin Rouge, i mille locali notturni emanavano una nebbia scintillante. I taxi che risalivano rue Coulaincourt erano costretti a cambiare marcia per la salita. Ogni volta che ne passava uno lei sperava che si fermasse, che Marcel ne sarebbe sceso, si sarebbe voltato a pagare l'autista, poi avrebbe alzato la testa verso le loro finestre. Spiava anche gli autobus dai tetti argentei che fermavano proprio davanti alla casa, e dai quali scendeva poca gente che se ne andava rialzando infreddolita il bavero del cappotto. «Non è possibile, Marcel» mormorava. Ad un tratto le diede fastidio essere in vestaglia, si era svestita rientrando a casa come faceva sempre. Si precipitò m camera e prese a caso un vestito di lana. Era un vestito con la chiusura lampo sul dorso e Marcel aveva l'abitudine di abbottonarlo lui dandole tanti piccoli baci sulla nuca. Che cosa la spaventava ? Forse il maialino di porcellana era in quella tasca da parecchi giorni o da parecchie settimane. Quando era stata l'ultima volta che Marcel aveva messo quel cappotto? Ne aveva soltanto due, avrebbe dovuto ricordarselo. Lei lo amava e cento volte al giorno lo guardava di soppiatto per ammirarlo, per contemplare la sua figura elegante, per riconoscere un gesto di lui che le piaceva, per esempio il gesto della sua mano che spegneva la sigaretta. Avevano fatto colazione insieme a mezzogiorno, non al ristorante "Franco-Italien" dove andavano la sera, ma in un altro vicino ai grandi boulevards, da "Mère Catherine". Ma non riusciva a ricordare quando Marcel aveva indossato il cappotto cammello l'ultima volta. Meno di otto giorni comunque, perché lei la settimana precedente l'aveva portato dal tintore. E si era illusa di sapere tutto di lui! Le raccontava ogni cosa, anche le storielle che circolavano al giornale, le telefonava continuamente, si vedevano, quando aveva un momento libero passava a salutarla anche al negozio. Era tornata sul balcone, sempre più agitata e più pallida. «Sei mai stata in montagna d'inverno?» C'era stata una volta, ma come commessa perché la ditta "Sorelle Corot" apriva una succursale a Megève durante la stagione. «Ti piacerebbe? Potresti ottenere quindici giorni di vacanza? Se facessi un buon affare potremmo filare...» Perché non aveva protestato? Si era mostrata entusiasta, ma in realtà non ci credeva. Marcel faceva progetti stravaganti, uno più costoso dell'altro, come se non dovesse misurare il denaro, mentre per vivere doveva contare solo sugli articoli che scriveva. Lei gli aveva detto: «Sei nato per essere ricco. Hai voglia di tutto». «Soprattutto per te» aveva ribattuto con una serietà che non gli era abituale. «Da quando ti conosco, ho una voglia matta di una macchina.» «Sai guidare?» «Ne avevo una, una volta.» Non aveva osato domandargli quando. Non sapevano quasi niente l'uno dell'altro eccetto che si amavano. Il loro matrimonio era stato una specie di gioco: un gioco delizioso. «Hai parenti?» «Ho mio padre...»
«In provincia, evidentemente» aveva detto lui «ma tu sei maggiorenne, e io non ho più nessuno, occupati dei documenti, ci sposeremo in municipio al nono arrondissement...» La camera che lei aveva in affitto prima del matrimonio presso la place Saint-Georges era nel nono arrondissement. «E' molto brutto il municipio del nono, ma per il tempo che ci resteremo...» Un taxi! No, proseguiva. Tornò a guardare l'ora. Era passata mezzanotte e ora i passanti erano così rari che i loro passi risuonavano a lungo nel dedalo delle strade. «Avrei dovuto incontrarti tre anni prima.» «Perché?» «Perché quando si è giovani si perde il proprio tempo.» Era inaudito il numero delle frasi di quel genere alle quali lei non aveva dato importanza e che ora le tornavano alla memoria. Perfino l'allegria di lui prendeva un altro aspetto: era esuberante senza sforzo, spontaneamente allegro, pure c'era sempre nel suo sguardo una specie di distacco. «Vedrai che non sono poi così cattivo...» «Perché dovresti essere cattivo?» Sorrideva o rideva e l'abbracciava. «In fondo credo di essere un tipo come gli altri. Con il buono e il cattivo mescolati così bene che a volte non mi ci raccapezzo.» Poteva ben tornare! Se fosse sceso da un taxi, se avesse girato l'angolo, se lei avesse udito il suo passo sulle scale! Perché le aveva telefonato alle dieci e mezzo e con una voce imbarazzata come se, per la prima volta, le avesse nascosto qualche cosa? Aveva avuto torto a chiamarlo alla sala Wagram, ora se ne rendeva conto, la cosa poteva diventare molto grave. Chissà se aveva detto al capo elettricista che era la moglie di Marcel? Non se ne ricordava più. Ma no! Non era possibile, perché proprio quella sera? Ma perché lui le aveva parlato di sport invernali e persino di comprare un'auto? In che affare sperava? Di tanto in tanto oltre alle cronache sportive faceva qualche contratto di pubblicità sul quale guadagnava il dieci per cento: poche migliaia di franchi. Tornò al telefono. No. Uscì di nuovo sul balcone. Dal cielo basso ora cadeva una pioggia sottile e frusciante. Tutto pareva dolcemente ovattato: il panorama notturno di Parigi diventava più intimo. Perché Marcel non tornava? Il telefono... lei ci tornava, se ne allontanava, vi ritornava ancora. «Pronto! Interurbana? Signorina per favore, mi dia il centoquarantasette a Joinville.» Non aveva avuto bisogno di consultare la guida. La suoneria dall'altro capo del filo squillò a lungo e le diede l'impressione, chissà perché, di svegliare gli echi di una grande casa vuota. «Non risponde.» «Insista, signorina. Sono sicura che c'è qualcuno in casa, ma a quest'ora dorme. Chiami ancora, signorina, per favore.» La suoneria... Spiava i rumori delle scale, quelli della strada, i freni dei taxi, degli autobus. Si era fatta seria e dura in viso.
«Ti chiedo scusa d'averti svegliato. Come? La gotta? Scusami, non lo sapevo. Ma no, niente...»
All'estremità del filo l'altra voce era burbera. La voce di un uomo che ha un attacco di gotta e che viene obbligato ad alzarsi dal letto e a scendere un piano di scale in pigiama.
«Ho assolutamente bisogno di un'informazione. Dimmi francamente se conosci un Marcel Blanc.»
E l'altra voce furibonda:
«Credevo che i cognomi non dovessero essere pronunciati.»
«E' necessario. Hai capito? Marcel...»
«Ebbene?»
«Lo conosci.»
Silenzio.
«Rispondimi subito! E' molto importante. E' l'ultimo favore che ti chiedo. Lo conosci?»
«Com'è?»
«Venticinque anni, bel ragazzo, buono, elegante.» Ebbe un'ispirazione.
«Porta spesso un cappotto di cammello molto chiaro.»
Silenzio all'altro capo del filo.
«Lo conosci?»
«E tu?»
«Non importa, rispondi. Lo conosci?»
«E se anche lo conoscessi?»
«Niente. Voglio sapere. Lo conosci, vero?»
Le parve che qualcuno salisse; era soltanto un gatto che miagolava su uno zerbino.
«Vieni a trovarmi quando vuoi.»
«Aspetta, non appendere. Dimmi se questa sera...»
«Cosa?»
«Non capisci?»
«Credevo ti fossi maritata.»
«Appunto. E'...»
E con un impulso irresistibile:
«E' mio marito.»
Chissà perché le parve di vedere che dall'altra parte l'uomo alzava le spalle. La voce disse soltanto:
«Va' a letto, ora.»
Ebbe un bel parlare; a Joinville il 147 aveva riappeso. Erano l'una e mezzo del mattino e Marcel non era ancora tornato. Il maialino senza coda gettava riflessi rosei sul tavolo accanto alla scatola del lavoro, il cappotto di cammello era sempre a terra sul tappeto.
"I maialini di porcellana".
Le quattro. Una sola delle finestre che si scorgevano dal balcone era illuminata ancora e a volte dietro le tende passava un'ombra: qualcuno certo che assisteva un malato.
Marcel non era tornato, non aveva telefonato né inviato alcun messaggio e allora quando la sfera grande fu esattamente verticale sul quadrante dell'orologio, Germaine si decise a fare un'altra telefonata.
«Pronto? Sei tu, Yvette? Dormivi, poverina! Sono Germaine, scusami, vuoi farmi un grosso piacere? Come dici?»
La spilungona all'altro capo del filo aveva borbottato: «Ci siamo!» Era una commessa delle "Sorelle Corot", un'allampanata ragazza di ventotto anni senza alcuna attrattiva fisica. Lo sapeva e non si faceva illusioni e realizzava il miracolo di essere ugualmente la più allegra e bonaria compagna. «Vestiti in fretta come ti capita. Per guadagnare tempo, telefono io per mandarti un taxi. Vieni qui subito.» A parte il "Ci siamo" Yvette non manifestò sorpresa né curiosità e un quarto d'ora dopo un taxi si fermò all'angolo e la spilungona salì le scale. Germaine le aprì la porta: «Ti sarai meravigliata...» «Sono cose che succedono.» «Marcel non è in casa.» «Lo dubitavo. Se ci fosse stato non mi avresti chiamata.» «Ti spiegherò dopo, anzi, ti dico francamente che si tratta di cose che non posso spiegare nemmeno a te.» «Devo andare a cercarlo? Dirgli che sei malata o che ti sei tirata una revolverata in testa?» «Tu devi restare qui, sono io che devo uscire. Sta' attenta al telefono. Se chiamano prendi nota accuratamente dei messaggi. Se telefona Marcel, digli chi sei. Ti conosce. Aggiungi che sono uscita e che tornerò appena posso. Se tornasse digli la stessa cosa, che ero preoccupata e sono uscita a cercarlo.» «Le quattro e mezzo» disse la spilungona, «non vale la pena che mi spogli. Posso stendermi sul divano? Hai qualche cosa da bere?» «Deve esserci una bottiglia di cognac nell'armadio.» Germaine era già sulla porta. Un minuto dopo saltava nel taxi che l'aveva aspettata. «A Joinville. Segua la riva della Marna, le dirò poi io dove fermare.» Si sentiva più calma, più lucida da quando, invece di aspettare, agiva. Continuava a parlottare sottovoce per un'abitudine di donna vissuta a lungo sola. Le strade erano deserte, si incontrava soltanto qualche autocarro carico di verdura che si dirigeva alle Halles. In meno di mezz'ora il taxi arrivò a Joinville e Germaine lo fece fermare davanti a una grande villa che sorgeva isolata sulla riva del fiume. «Mi aspetti qui.» Suonò e si dispose ad aspettare a lungo. Dovette suonare parecchie volte, infatti, prima di sentire o meglio indovinare un passo felpato dietro la porta. Sapeva che sarebbe stata osservata in silenzio attraverso lo spioncino. S'impazientì. Pioveva e cominciava a sentirsi le spalle umide. «Sono io» disse «apri.» La voce burbera di suo padre brontolò dall'altra parte dell'uscio: «Faresti meglio ad andare al diavolo...» Tuttavia aprì. Poi, quando ebbe richiuso, accese la luce e aprì la porta di destra, quella di un grande salotto polveroso e non riscaldato. C'era freddo e umidità e l'odore di muffa si mescolava con l'odore stantio delle case mal tenute. «Non è tornato?» chiese stringendosi nella vestaglia e andando a rannicchiarsi in una vecchia poltrona. «Se fosse tornato, non sarei qui.» L'uomo era enorme, con un viso segnato da venuzze rosse e grandi borse sotto gli occhi. Si palpava ogni tanto la gamba gonfiata dalla gotta e guardava sua figlia con una curiosità non esente da ironia e da soddisfazione. «Te l'hanno fatta, eh? Non valeva la pena di darsi tante arie... Se penso a tutto quello che mi hai detto...» «Sono venuta per parlarti seriamente. Tu conosci Marcel...» «Conosco un Marcel almeno. Se tu mi avessi detto il cognome dell'uomo che sposavi, invece di farmi firmare un'autorizzazione in bianco... Cosa è successo, a tuo marito? L'hanno messo dentro?» Senza tentare di fare la spavalda rispose umilmente: «Non lo so. Non è ancora tornato. Gli ho trovato in tasca, per caso, uno dei tuoi maialini. Quando è venuto da te?» L'uomo che tutti chiamavano signor François passava a Joinville, nella grande villa in mattoni, soltanto la notte e la domenica. A Parigi, presso la chiesa di Notre-Dame de Lorette a due passi dalla "Salle Druot", aveva un grande negozio di antiquario dove c'era di tutto: poltrone antiche, cassettoni, stampe ingiallite, quadri più o meno autentici, cineserie di giada o di avorio. Tutto, come la casa di Joinville, era polveroso, arcaico e il padrone stesso, François, indossava sempre un vecchio vestito troppo largo, pieno di macchie con i gomiti lisi e il colletto bisunto. «E' venuto tre o quattro giorni fa.» In fondo al negozio su uno scaffale vi erano alcuni esemplari di quel maialino senza coda la cui vista aveva sconvolto Germaine e nel retrobottega ce n'era una cassa intera. Erano mille, all'inizio, mille maialini di porcellana, tutti simili, tutti privi dell'allegro codino a cavatappi che caratterizzava i maiali. Alcuni anni prima un viaggiatore di commercio era entrato un giorno nel negozio e aveva tirato fuori dalla borsa gonfia uno di quegli oggetti. «E' vero Limoges» aveva spiegato «ce ne sono mille tutti uguali. E' inutile che le faccia osservare la finezza della pasta e dei colori perché lei è un intenditore. Fanno parte di una grossa partita di animali diversi destinati all'esportazione. Non so a che cosa pensasse l'artista e come mai nessuno, al calco o alla cottura, si sia accorto della sua dimenticanza. Fatto sta che l'intera partita era pronta quando si è visto che i maialini erano senza coda. Ebbene, signor François, lo creda o no è bastato questo a rendere impossibile la vendita. Glieli offro tutti e mille. Dica un prezzo.» François aveva detto una cifra irrisoria e l'indomani erano arrivate le casse. Un anno dopo li aveva ancora tutti: ogni volta che ne mostrava uno a un cliente, questi osservava: «Peccato che la coda si sia rotta.» «Non è rotta. Non l'ha mai avuta...» In seguito, tuttavia, incominciarono a scomparire dal negozio uno dopo l'altro. Anzi, quelli che li portavano via non curiosavano nel negozio, non mercanteggiavano, domandavano appena entrati.
«Ha dei maialini di porcellana?» Accadeva una cosa ancora più strana. Quando il cliente domandava il prezzo, il signor François rifletteva a lungo e diceva una cifra quasi sempre diversa: «Ventidue franchi.» O ventuno o ventitré, raramente meno di venti e una volta aveva detto semplicemente: «Un franco.» Ventidue franchi significava le ventidue cioè le dieci di sera. Un franco l'una del mattino. Voleva dire che il signor François avrebbe aspettato il cliente per quell'ora nella sua villa di Joinville. Gli iniziati non erano numerosi. Erano quasi sempre gli stessi, uomini giovani e, generalmente, ben vestiti che arrivavano a volte con la loro macchina e la lasciavano presso il marciapiede, ma capitava anche qualche straccione e meravigliava vederlo acquistare un oggetto così superfluo come un maialino di porcellana. Così le persone presenti nel negozio non sospettavano di nulla e lo sconosciuto che si presentava per la prima volta non doveva mostrare referenze: la richiesta del porcellino significava che era mandato da persona di fiducia e si sarebbe spiegato a Joinville. «Ti ha portato qualche cosa» chiese Germaine guardando duramente suo padre che si accarezzava la gamba malata. «Non questa volta.» Tre o quattro giorni prima. Ed erano cinque o sei giorni che Marcel aveva parlato di sport invernali. «Che cosa è venuto a fare?» «Quello che fanno tutti quando sono in bolletta. A chiedere soldi. Quando hanno qualche cosa da smaltire sono buoni buoni e accettano i miei prezzi senza discutere troppo. Quando sono a terra tornano e il tono cambia. Tu conosci la musica. «"Ha guadagnato bene con me, anche l'ultima volta mi ha preso per il collo. Potrebbe prestarmi qualche biglietto da mille in vista di un buon colpo che farò presto?" «E mi parlano di colpi sensazionali, di tele straordinarie, dei Renoir, di Cézanne, quando non parlano addirittura di antichi maestri. «"Fra otto giorni, magari fra cinque glieli porto. Bisogna che aspetti l'occasione propizia, capisce? E' anche nel suo interesse dato che guadagna molto più di me".» Il signor François parlava con voce stanca e sprezzante. «Tutti uguali! Sono convinti che io sia avaro. Mi domando persino come mai nessuno di loro abbia mai avuto il coraggio di assassinarmi per rubarmi il gruzzolo. Perché credono che io abbia un gruzzolo e che ci dorma sopra, che il mio materasso sia imbottito di biglietti di banca o di monete d'oro.» Germaine sapeva che non era avaro, lei era forse il solo essere al mondo a saperlo. Non era avaro: era maniaco. Ben pochi di quei quadri e oggetti preziosi che quegli imbecilli, come diceva il signor François che li disprezzava intimamente, andavano a rubare in ville o ricchi appartamenti, venivano venduti: soltanto i pezzi dubbi o di secondo ordine. Credevano che partissero per l'America, mentre restavano nella villa di Joinville dove la sera il vecchio solo li contemplava.
«Gli hai dato il denaro?»
«No.»
«Che cosa gli hai detto?»
Conosceva bene suo padre. Proprio perché lo conosceva bene se n'era andata da casa a vent'anni. Un uomo era morto a causa della passione del vecchio antiquario, un giovane di ventidue anni. Aveva comprato anche lui un maialino senza coda e non era il primo. Era stato in quella stessa stanza dove non c'era un'opera d'arte e dove ai muri erano appese orribili litografie incorniciate di nero. Chi avrebbe pensato a cercare i capolavori in cantina? Germaine senza volerlo per caso aveva assistito al colloquio.
«Soltanto duemila» supplicava il giovane. «Le giuro che ne ho assolutamente bisogno. La mia amica è malata, deve essere operata. Non voglio che vada all'ospedale dei poveri, capito?»
E suo padre sospirava:
«Che cosa mi hai portato l'ultima volta?»
«Un piccolo Monticelli, lo sa. Mi ha dato il valore della cornice.
Dopo mi sono informato e mi hanno detto che valeva centomila franchi.»
«A condizione di venderlo senza farsi pizzicare. Vedi, ragazzo, anch'io sono povero. Portami qualche cosa e te lo pagherò al giusto prezzo. Non posso permettermi il lusso di fare della beneficenza.»
«Ma si tratta di un anticipo!»
«Un anticipo su cosa?»
«Su quello che le porterò uno di questi giorni.»
«Hai un affare in vista?»
Era chiaro che non ne aveva. Il ragazzo esitava, rosso in viso.
«Ah, se tu mi portassi un Manet, anche piccolo...»
In quel periodo il signor François aveva la passione dei Manet.
Periodicamente era preso da una passione dominante.
«Dove si possono trovare?»
«Non saprei. Nei musei ce ne sono, ma è difficile portarli via.»
«I musei hanno i guardiani, la notte, senza contare i campanelli d'allarme e un mucchio di altri apparecchi nuovi.»
«La settimana scorsa a un'asta un banchiere ne ha acquistato uno che mi piacerebbe.»
«Come si chiama?»
«Lucas Morton. Naturalmente si fa per dire.»
«Se le portassi il Manet quanto mi darebbe?»
«Arriverei fino a ventimila. Mettiamo trenta...»
Due giorni dopo nei giornali del mattino era apparsa la notizia che un ladro di ventidue anni era stato ucciso, nella proprietà del banchiere
Morton a Versailles, da un guardiano mentre stava tentando di penetrare nella pinacoteca.
«Hai letto?»
Aveva letto senza manifestare emozione alcuna.
«Non ti fa nessun effetto?»
«Io non c'entro per niente.»
Lei avrebbe avuto molte cose da dirgli. Aveva preferito tacere e andarsene. Un mese più tardi, dopo aver corso per le agenzie e bussato a un centinaio di porte era riuscita ad entrare come commessa dalle
"Sorelle Corot". Aveva rivisto suo padre soltanto una volta, in negozio.
«Firma» gli aveva detto porgendogli un foglio.
«Che cos'è?»
«L'autorizzazione per il mio matrimonio.»
«Con chi?»
«Non ha importanza.»
Lui aveva abbassato la testa e aveva firmato sospirando:
«Come vuoi.»
L'aveva seguita con gli occhi mentre usciva dal negozio, ma lei non si era voltata e non aveva visto il suo viso sconvolto. Ora era lì, fredda e dura davanti a lui e lo interrogava come un giudice.
«Che gli hai detto d'altro?»
Pensava più che mai al ragazzo che si era fatto uccidere a Versailles perché non aveva diecimila franchi per pagare l'operazione della sua amica. Questa volta dove aveva mandato Marcel? Marcel che aveva bisogno di denaro soltanto perché aveva messo casa e non resisteva al desiderio di condurre sua moglie in montagna per gli sport invernali.
«Non mi ricordo. Doveva portarmi qualche cosa, se voleva denaro...»
«Era venuto spesso prima?»
«Cinque o sei volte.»
«In quanto tempo?»
«In tre anni. Sempre pezzi importanti di uno o dell'altro. E' uno che se ne intende.»
Marcel le aveva detto con l'aria canzonatoria che prendeva quando parlava di cose serie:
«Peccato che non ti abbia incontrata tre anni fa.»
Lei aveva creduto che scherzasse. In fondo non lo aveva mai preso sul serio e ora se ne pentiva.
«Non sono un mascalzone» aveva detto un'altra volta.
Riprese l'interrogatorio a suo padre.
«In questi ultimi mesi era venuto?»
«Era un anno che non lo vedevo quando è venuto l'altro giorno al negozio.»
«Ho bisogno di sapere che cosa gli hai chiesto, capisci!»
Un volgare ricettatore prende tutto quello che gli portano, purché abbia valore e possa essere smaltito più o meno facilmente. Ma il signor François non era un volgare ricettatore, era un uomo in preda a una passione divorante. Aveva parlato di Manet al ragazzo che era morto, era lui che l'aveva spinto ad andare a Versailles dal banchiere.
«Rispondi!»
«In questo momento mi interessano soprattutto i Renoir, non le grandi tele, che fra l'altro sono quasi tutte nei musei, ma i piccoli Renoir, le teste di donne, le nature morte. Ci sono delle nature morte che...»
«Hai fatto un nome?»
«Non credo.»
«Rifletti.»
«No. Con Marcel non è necessario. Esce molto e sa dove sono i pezzi migliori.»
«Aspetta che telefono.»
Chiamò il proprio numero e trasalì udendo la voce di Yvette che rispose tutta emozionata credendo che fosse Marcel al telefono.
«Sei tu? Niente di nuovo, sarei contenta di darti una buona notizia ma non c'è niente. Senti. Ho letto un volume di cui non trovo il secondo... "La Chartreuse de Parme". Non sai dove l'hai cacciato?»
Germaine ricordò che Marcel qualche giorno prima stava leggendo a letto, accanto a lei, il secondo volume della "Chartreuse".
«Non vieni a casa?»
«Verrò tra poco. Il libro deve essere in camera. C'è uno scaffale vicino al letto.»
«Grazie! Buona fortuna.»
Riappese e si mise a pensare ad alta voce, senza curarsi di suo padre che aveva fretta di tornare a letto.
«Non posso telefonare al giornale perché se non l'hanno preso può essere pericoloso. Chissà se ha consegnato l'articolo. Se l'ha consegnato ha dovuto restare alla sala Wagram fino alla fine, cioè fino alle undici, poi scrivere l'articolo e portarlo o mandarlo.»
Erano le cinque e mezzo del mattino. Davanti alla villa il tassametro girava continuamente, ma lei non se ne curava.
«Dei Renoir...»
«C'è tanta gente che ne ha!» sospirò suo padre.
«Faresti meglio ad andare a dormire. Non è detto che l'abbiano preso e comunque non sarebbe un gran male, è incensurato. Capisci? Non è un recidivo e con un buon avvocato...»
Lei ripeté alzandosi:
«I Renoir...»
Perché aveva l'impressione che la salvezza di Marcel dipendesse da lei? Non gli aveva serbato rancore nemmeno per un momento. Come avrebbe potuto lei che gli aveva nascosto la sua vera personalità? Era o no la figlia del signor François? E poiché era sua figlia sapeva come andavano le cose. Anzitutto bisognava scartare l'idea di un colpo accuratamente preparato. Se così fosse stato lei non si sarebbe accorta soltanto alla seconda telefonata che la voce di suo marito aveva qualche cosa di anormale. Marcel aveva preso una decisione soltanto alle dieci e mezzo e alla sala Wagram. «Rue Coulaincourt» disse all'autista mentre il signor François tirava il catenaccio. Pioveva sempre. Germaine rabbrividiva nel taxi, il vetro del finestrino non chiudeva bene. Marcel come la maggior parte dei "clienti" di suo padre doveva lavorare negli appartamenti vuoti. Era facile che lo fossero, perché a Parigi i domestici non dormono negli appartamenti, ma nelle camere di servizio agli ultimi piani. Il ragazzo che si era fatto uccidere a Versailles aveva avuto il torto di lavorare in una villa. Germaine tornava macchinalmente al punto di partenza: «Alle dieci e mezzo...» La sala Wagram, il ring circondato, migliaia di spettatori nella gran luce cruda, Marcel al tavolo della stampa. Certo l'idea gli era venuta là. I Renoir. Doveva aver visto nella folla qualcuno che possedeva dei Renoir, qualcuno il cui appartamento sarebbe stato vuoto fino alla fine dello spettacolo. La ricostruzione le pareva così evidente che non era possibile metterla in dubbio. La sala Wagram... Gli sport invernali e magari l'auto di cui aveva tanta voglia e quella vecchia canaglia del signor François che gli rifiutava un piccolo prestito, ma che avrebbe dato molto denaro per uno o più piccoli Renoir. E nella fila di teste illuminate dai proiettori, nelle prime file, qualcuno che rappresentava tutto questo: i Renoir, la neve, l'automobile veloce. Finché quel qualcuno se ne stava là a guardare i pugili non c'era pericolo... Ma perché Marcel aveva telefonato? Un presentimento? Aveva l'impressione, lui che non era mai stato preso, di poter sbagliare il colpo? O forse voleva udire la voce di lei per farsi coraggio? Se lei avesse insistito per farlo tornare a casa, se si fosse lamentata della solitudine! Ma no! Aveva fatto la spavalda, invece! Non voleva essere un peso per lui. Aveva deciso, dal primo giorno, che gli avrebbe lasciato la sensazione di essere libero. Non gli aveva nemmeno detto, come tutte le donne, come ne aveva voglia: «Non fare troppo tardi.» Non gli aveva confessato che quella serata solitaria era piena di malinconie per lei. Era stato meglio. Marcel aveva circa un'ora davanti a sé. Dove era andato, verso quale quartiere di Parigi? C'era la questione della chiave. Di solito è una cosa che richiede tempo: procurarsi la chiave dell'appartamento o prendere le impronte della serratura e fabbricarne una falsa. Non ne aveva avuto il tempo. Era certa, voleva esserlo, che il colpo non era stato preparato. Non era passato un anno senza che Marcel portasse qualcosa al signor François? Per una ragione qualsiasi, forse perché disgustato o perché spaventato aveva voluto cambiare vita. Prova ne era che l'aveva sposata e il più presto possibile. Forse per evitare nuove tentazioni? Non era senza precedenti che uno riuscisse a fare tre o quattro colpi brillantemente e che all'improvviso fosse preso dal panico. La fortuna non dura eternamente, viene la volta in cui si paga lo scotto. Stato d'animo pericoloso, per chi ha la disgrazia di ricominciare perché è allora che ci si fa prendere: manca la sicurezza o l'incoscienza e si inciampa su un dettaglio idiota. Non poteva certo telefonare alla polizia. I giornali non uscivano che tra un'ora, e i giornali del mattino non portano tutti i fatti della notte. Le pareva di vederlo nell'ufficio di qualche ispettore della Polizia Giudiziaria mentre lo interrogavano dopo avergli tolta la cravatta e i lacci delle scarpe. Lo vedeva all'ospedale, al... No, all'obitorio no. La sola parola le dava voglia di urlare. «I Renoir...» Strano! Le sembrava che con un piccolo sforzo sarebbe arrivata alla verità. Perché quel nome Renoir le era familiare, non a causa del pittore di cui naturalmente conosceva l'opera, ma come una parola letta o udita recentemente? Anzi, avrebbe giurato che era stata la voce di Marcel a pronunciarla. Ma quando? Dove? In che occasione? Il taxi si fermò all'angolo di rue Coulaincourt. Vide le sue finestre illuminate, frugò nella borsetta. Non aveva denaro. Aveva pensato a tutto salvo a quello. «Aspetti un momento. Salgo a prendere il denaro.»
Mentre correva su per le scale arrossì ricordando che il giorno prima aveva pagato il tappezziere con tutto quello che c'era di denaro liquido in casa.
«Senti, Yvette...»
Si vergognava come mai in vita sua. Yvette si era tolto il vestito per stare più comoda e leggeva sdraiata in sottoveste sul divano del salotto.
«Hai denaro?»
«Te ne occorre molto?»
«Devo pagare il taxi. Non ricordo quanto sia. Marcel non c'è e tiene lui la cassa...»
Yvette frugò nella sua borsetta e ne trasse quattrocento franchi.
Glieli porse prontamente.
«Bastano?»
«Credo.»
Ridiscese i sei piani parlando da sola. Domandava scusa all'autista: si sentiva misera quella notte, come colpevole di fronte a tutti.
Risalì più adagio, affannata. Yvette si era rivestita e stava mettendosi il cappello davanti allo specchio.
«Immagino che tu non abbia più bisogno di me.»
Fu lì lì per pregarla di restare, aveva paura di restare sola, ma non osò.
«Ti ringrazio e ti domando ancora scusa. Vorrei che tu mi facessi un altro favore. Se alle nove non mi vedi in negozio di' alle signorine
Corot che non sto bene, che verrò più tardi o che forse non verrò. Un giorno ti spiegherò. E' più terribile di quel che tu non possa pensare...»
«Tutte le sposate dicono così e anche quelle che non lo sono!»
«Non puoi capire.»
«Lo so: non si può mai capire...»
E al momento di uscire:
«Non preferisci che rimanga?»
«Grazie, sei molto buona. Cercherò di dormire un po'.»
«Lo credo bene! Sta' tranquilla che tutto andrà a posto. Ti ho lasciato un po' di cognac, bevilo.»
Col viso pallido e le labbra arrossate Yvette aveva l'aria di un pagliaccio e la smorfia che fece nel prendere commiato accentuò la somiglianza.
«Buona notte, piccola. Per quanto a quest'ora...»
Germaine fu lì lì per richiamarla, perché appena rimase sola, le sembrò di sentire la voce di Marcel che la chiamava, che aveva bisogno di lei, che chiedeva aiuto. Ma dov'era?
Fra mezz'ora i tetti si sarebbero schiariti, sarebbero diventati di un grigio lucente, i camini avrebbero cominciato a fumare, nelle strade che incidevano in profondità i blocchi di case si sarebbe udito il rombo degli autobus e i passi di migliaia di uomini che riprendevano ad agitarsi nella giornata fredda e umida. Marcel era da qualche parte e Germaine, aggrappata alla ringhiera gelida del balcone, guardava in tutti i sensi quel panorama gigantesco, come se all'improvviso avesse potuto fermarsi su un punto preciso e lei dire ispirata:
«E' là...»
"Il grande vaso di Sèvres e lo zio della contessa". Le sette e mezzo. Dal balcone si vedeva il camioncino delle Messaggerie Hachette che faceva il giro delle edicole e che si fermò un momento davanti al bar di fronte. L'autista attraversò il marciapiede portando un gran pacco di quotidiani ancora freschi di inchiostro. Germaine scese. La portinaia stava passando uno straccio umido sul pavimento del corridoio. Non conosceva ancora bene quella donna dallo sguardo leggermente strabico. Da un mese cercava di farsela amica, perché a Parigi è indispensabile essere nelle grazie della portinaia. Ma quella, forse per l'occhio storto, aveva un'aria diffidente. «Ha avuto visite, stanotte» osservò. «Ho tirato il cordone tre o quattro volte per lei. Niente di brutto, vero?» Attenzione! Certa gente ha il senso delle catastrofi. Germaine si sforzò di sorridere e rispose: «Mio marito mi ha mandato una delle segretarie del suo giornale per dirmi che doveva partire subito per Londra. C'è un grande incontro oggi e hanno scelto lui all'ultimo momento. Ho dovuto portargli la valigetta in ufficio.» «Meno male. Avevo pensato che qualcuno fosse malato.» E una! Il giornale, ora. Lo comprò, entrò al bar a bere un caffè al banco e vi immerse un croissant, mentre voltava le pagine con l'aria più disinvolta possibile. L'incontro alla sala Wagram, un articolo di tre quarti di colonna firmato Marcel Blanc. Le fece una strana impressione come ricevere la lettera di una persona morta nel frattempo o veder parlare sullo schermo un uomo che si sa seppellito da tempo. Ma no! Marcel non era morto! Mangiò uno, due, tre croissant. Lesse l'articolo. Non l'aveva scritto lui. Mancavano certe frasi sue proprie, certi tocchi, certi giri di parola. Sapeva che fra giornalisti c'era l'uso di farsi reciprocamente tali servizi. «Fammi tu il pezzo, per piacere, e mandalo al giornale. Dattilografato possibilmente.» Tornò a casa. Yvette aveva quasi vuotata la bottiglia del cognac: aveva sempre sospettato che bevesse volentieri. Germaine bevve il resto e si stese sul letto perché aveva male alle reni. In seguito se ne sarebbe vergognata come di aver avuto appetito, ma si addormentò subito. Nel giornale non si parlava di alcun furto o di alcun fatto di cronaca che potesse avere a che fare con Marcel ma non significava nulla. Le dieci. Niente telefonate. Fra mezz'ora sui grandi boulevard che vengono serviti per primi, avrebbero cominciato a vendere i giornali del mezzogiorno. Germaine si vestì. Benché, per darsi coraggio, avesse bevuto soltanto il fondo della bottiglia aveva la bocca impastata come dopo una vera e propria sbornia. Pensò a Yvette che aveva bevuto tre quarti di bottiglia. Le restavano meno di cento franchi. Al diavolo! Prese un taxi, acquistò un giornale del mezzogiorno da uno strillone e sedette al caffè "Mazarin": non stava in piedi, aveva le gambe molli come dopo una sbornia come quando aveva bevuto troppo con Marcel a un ricevimento in casa di... Ecco, in prima pagina, il nome che cercava: "Tentativo di furto in casa del conte di Nieul".
In casa del conte e della "piccola contessa", perbacco, come la chiamavano perché era graziosa e dinamica al massimo. Gente che si occupava di tutto, di sport, d'arte, di cinema, che usciva tutte le sere o riceveva molto nell'appartamento di avenue Jena. C'erano andati insieme, lei e Marcel, una sera in cui c'erano almeno trecento persone, giornalisti, attrici, medici, avvocati celebri. Una folla. «Guarda» le aveva fatto osservare Marcel, «hanno i più bei Renoir del periodo rosa.» Lei non aveva visto quasi niente. C'era troppa gente. Le mettevano continuamente in mano bicchieri di champagne o di whisky. Era una casa dove si beveva molto. Ecco che cosa cercava di ricordare durante la notte! Il conte e la contessa di Nieul. Non perdevano un incontro di pugilato, né una prima al cinema, né... E la piccola contessa scervellata... "Uno strano tentativo di furto che ha rischiato di finire tragicamente ha avuto luogo stanotte nel domicilio del conte e della contessa di Nieul, ben noti al 'Tout-Paris', mentre i padroni di casa si trovavano alla riunione della sala Wagram. Un particolare, reso noto solo in seguito, fa pensare che il furto sia stato fortuito perché rientrando a casa verso le due del mattino, la contessa di Nieul si è accorta di aver perduto nella serata la chiave del suo appartamento che aveva nella borsetta uscendo. Certamente lo sconosciuto..." Le guance di Germaine persero un po' del loro pallore. "che si è introdotto nell'appartamento verso le undici e dieci ha usato la chiave di cui si era impadronito alla sala Wagram. E' impossibile che questa sia stata rubata da un audace borsaiolo perché la borsetta è munita di chiusura lampo. La 'piccola contessa', così la chiama il 'Tout Paris', ricorda che nella ressa mentre si dirigeva al suo posto, ha tratto dalla borsetta il fazzoletto. Forse la chiave è caduta allora. Chi l'ha trovata sapeva in ogni caso con chi aveva a che fare e il profitto che ne poteva trarre. Ciò restringe il campo delle indagini. Certo è che verso le undici l'uomo entrava nell'appartamento che credeva vuoto e che avrebbe dovuto esserlo. Caso ha voluto che il signor Martineau, zio della contessa, fosse arrivato la sera stessa e si fosse sentito troppo stanco per accompagnare i suoi ospiti alla sala Wagram. Si era appena addormentato, quando ha udito un gran fracasso nella sala d'entrata dove sono appesi i più bei quadri della casa. Spaventato, come si può immaginare, si è munito di una rivoltella..." Le parole e le lettere ballavano davanti agli occhi di Germaine che, pur ansiosa di sapere come era andata a finire, era costretta a leggere due o tre volte la stessa riga, mentre un cameriere posava sul suo tavolino un mandarin-curaçao. "Nel salone, illuminato soltanto da una lampadina tascabile, l'uomo era in piedi su una sedia. Lo zio entrò, rivoltella alla mano, l'uomo è saltato giù e per aprirsi un passaggio lo ha buttato a terra con un pugno. Il signor Martineau ha sparato senza saperlo, afferma. Sembra che il proiettile per caso abbia raggiunto il bersaglio, perché ci sono tracce di sangue sul tappeto e sulle scale. Non è possibile sapere se il ladro è stato ferito in modo grave, ma il suo arresto è senza dubbio questione di ore. Il signor Martineau, che è un uomo anziano, era oltretutto troppo emozionato per inseguirlo con la velocità necessaria. E' molto probabile che si tratti di un novellino o di un amatore. Lo fa pensare il fatto che il fracasso udito dallo zio della contessa è stato prodotto dalla rottura di un grosso vaso di Sèvres, un vaso quasi storico, di enorme valore che data dall'epoca napoleonica. Il vaso si trovava sotto un bellissimo Renoir, una "Bagnante" rosa che il ladro troppo emozionato ha lasciato cadere staccandolo dal muro. Anche questo restringe il campo delle indagini. C'erano tuttavia seimila persone alla sala Wagram e..." Germaine bevve senza accorgersene il mandarin-curaçao, piegò più volte il giornale e lo infilò nella borsetta. Perché, nonostante tutto, le brillava negli occhi una specie di soddisfazione mentre usciva dal caffè? Perché Marcel non era stato preso, certo! Ma anche perché non si era ingannata. La storia della chiave... L'aveva quasi intuita grazie alla telefonata delle dieci e mezzo. Aveva visto la "piccola contessa" lasciar cadere la chiave. Si era ricordato del Renoir anche lui. E, quello che faceva più piacere a Germaine, si era comportato da principiante! Aveva lasciato cadere il quadro sul vaso di Sèvres: gli tremavano le mani, aveva paura. Come un novellino o come chi pensi, convinto che quel tipo di imprese non fa per lui: "Ancora una volta, una sola..." «Idiota» mormorò Germaine tra la folla dei boulevard. Caro idiota, sì! Che cosa aveva fatto quando si era trovato per la strada, ferito, col sangue che gocciolava e che bastava a tradirlo? Aveva corso per allontanarsi dalla casa, si era forse riposato in un portone? E poi? «Purché non abbia commesso la sciocchezza di prendere un taxi...» La polizia avrebbe interrogato tutti gli autisti di taxi. Aveva certamente già cominciato. Anche emozionato era abbastanza furbo per non fare una cosa simile. «Idiota.» Idiota per non essere tornato a casa subito. Lei l'avrebbe curato, avrebbe trovato un medico che avrebbe mantenuto il segreto professionale. Evidentemente si era vergognato. "In fondo non sono un mascalzone." Aveva l'impressione di parlare con lui, camminando, e non era mai stata tanto tenera. Avrebbe fatto meglio a cominciare prima a non prenderlo sul serio, a capire che con i suoi sorrisetti furbi non era che un ragazzo, un ragazzo traviato che aveva bisogno di lei per togliersi dalla brutta strada in cui si era cacciato. Idiota, sì, come tutti i ragazzi che venivano a trovare suo padre, che facevano gli spavaldi mentre in fondo tremavano di paura. Il signore voleva offrirle gli sport invernali e portarla a spasso in auto. Avrebbe dovuto protestare, dirgli: «Sei matto. Si vedrà più tardi. Intanto pensa a scrivere i tuoi articoli sulla boxe o sul rugby...» Non si era ingannata quando, quella notte, le era parso che lui l'invocasse. Aveva bisogno di lei, ma non aveva osato andare a chiederle aiuto.
"Il signore è troppo orgoglioso."
Povero, caro idiota. Adesso era capace di fare qualche sciocchezza.
Non poteva essere rimasto per la strada sotto la pioggia incessante dalle undici della sera prima.
Dove era andato a farsi curare? Si domandava certo cosa pensasse lei, la vedeva in lacrime convinta di essere stata ingannata o abbandonata.
Che sciocco! Per questo non era disperata, ma c'era in lei una specie di gioia, perché scopriva quanto fosse bambino e avesse bisogno di lei. All'inizio era stata lei a tremare; tremare che lui scoprisse chi era, cosa faceva suo padre, come lei era niente in confronto a lui.
Invece era lui... Camminava sempre cercando di non pensare ad alta voce secondo l'abitudine da zitella che aveva preso. Bisognava fare qualcosa al più presto. Qualcuno poteva averlo visto alla sala Wagram nella scia della piccola contessa. Già da un'ora avrebbe dovuto essere al giornale. Entrò in un altro caffè. Pazienza. Un altro mandarin curaçao. Telefono.
«Pronto, signorina, può passarmi il redattore capo? Sono la signora
Blanc.»
Così non si sarebbero preoccupati. Non sapeva se faceva bene o no, ma bisognava impedire che si preoccupassero.
«Pronto? Signor Manche? Quando Marcel è rientrato stanotte dopo averle mandato l'articolo, ha trovato il telegramma di una sua zia che vive in provincia il cui marito è morto improvvisamente. E' partito col primo treno, starà via qualche giorno.»
Si sentiva più forte ora anche perché mentre telefonava si era ricordata di Jules.
Marcel era andato due volte a Morsang con Jules. Era un medico, si era laureato l'anno prima, ma mancandogli il denaro per aprire uno studio, lavorava in una grande farmacia di boulevard Sébastopol. Era un giovanottone ossuto, un po' cavallino, con capelli biondi e ricciuti che non andavano molto d'accordo con la sua faccia.
Bisognava trovare Jules. Non ricordava il cognome né sapeva dove abitasse.
Taxi. Pazienza per i cento franchi, già intaccati per di più.
«Scusi, signore, vorrei parlare con il dottor Jules. Quello alto biondo che lavora in questo reparto...»
«Il dottor Belloir.»
«Sì, proprio lui, quello col nasone.»
Ci volle del tempo. Non volevano darle l'indirizzo.
«Il dottor Belloir non è venuto stamattina e non ha telefonato. Torni nel pomeriggio, ci sarà.»
«Ho assolutamente bisogno di vederlo subito. Sono sua cugina. Arrivo adesso a Parigi e lui doveva venirmi a prendere alla stazione. Non deve avermi vista.»
Conciliaboli. Poi:
«Se è davvero sua cugina...»
«Glielo giuro. Mio padre e il suo...»
«Rue du Mont-Cenis, 246.»
Proprio in cima a Montmartre, vicino al Sacré-Coeur. Quindici franchi di taxi. Uno strano cortile, quasi un cortile di fattoria. In fondo un piccolo stabile a un piano con un ebanista al pianterreno e una scala di ferro esterna.
«Il dottor Belloir?»
«Al primo.»
Salì e in mancanza di campanello bussò ad una porta a vetri.
«Chi è?» gridò una voce che non riconobbe.
E lei freddamente:
«Sono io!»
Questa risposta attacca sempre. Si sentì un ciabattare, il viso cavallino si incollò al vetro, poi si voltò. Fu sicura che Jules parlava con qualcuno. Le batteva il cuore.
«Apra.»
Era in maniche di camicia, non si era fatto la barba.
«Scusi. Non l'avevo riconosciuta. A cosa devo l'onore?»
«Dov'è Marcel?»
Non era una vera camera. Era un po' di tutto, una specie di stanzone come quello dell'ebanista che stava sotto, diviso in due da un tendaggio di juta. Davanti al tendaggio c'era quello che probabilmente veniva chiamato salotto: due poltrone sfondate, un tavolo, dei libri, una lampada.
«Ma, non so...»
«Senta, Jules...»
Quando l'aveva riconosciuta attraverso il vetro, aveva parlato con qualcuno. C'era dunque qualcuno dietro la tenda. Se era una donna pazienza. E non importava sapere se erano i liquori bevuti a darle coraggio.
Fece tre passi, non ne occorrevano di più, alzò la tenda.
Marcel era là e la guardava con un'aria talmente spaventata che quasi lei scoppiava a ridere, ma si mise invece a piangere e trovò una sola parola per dire:
«Idiota!»
Piangeva e rideva davvero. Non osava toccarlo, perché era pallidissimo e un'enorme medicazione gli fasciava il petto.
«Hai creduto di fare il furbo, eh?»
«Cara...»
«Idiota.»
«Ascolta, cara.»
«Io che ho orrore della neve.»
«Ti giuro...»
«Prima di tutto, vieni subito a casa...»
«Non vuole.»
«Chi?»
«Jules.»
Jules era andato fuori per discrezione, e senza giacca tremava dal freddo.
«Giurami che...» disse lei.
«Non è il caso.»
«Perché?»
«Perché l'ho già giurato.»
«Confessa che avevi paura.»
Voltò la testa verso il muro imbiancato a calce:
«Confesso.»
«Domandami perdono.»
«Perdonami.»
«Promettimi che non lo farai più e che io ti accompagnerò a tutti gli incontri di pugilato.»
«Prometto.»
«E se trovo ancora un maialino di porcellana nelle tue tasche...»
Soltanto allora cominciarono a parlare seriamente.