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Era la sua ora preferita. Non proprio il momento in cui nell’ufficio e in stamperia si accendevano le lampade, perché allora non gli piaceva vedere, fuori, la luce del giorno che si consumava lentamente, soprattutto la luce grigio ferro del cortile; e comunque spesso le lampade bisognava accenderle molto presto, a volte fin dal mattino. L’inizio della sua ora, come la chiamava nei suoi pensieri, era il momento in cui i ragazzi tornavano da scuola.

Le luci erano accese già da un po’. Si udiva il ronzio della stufa di ghisa. Era un vecchio modello, lui non ne aveva mai vista una simile, e gli piaceva pensare che fosse dotata di vita propria, che fosse in un certo senso una persona, e neanche la meno importante in quell’ufficio. Aveva chiesto e ottenuto di potersene occupare lui. Fino allora era la signorina Germaine che, di tanto in tanto, ci gettava dentro un po’ di carbone e smuoveva la cenere con la punta dell’attizzatoio.

I primi giorni Alain la guardava con gli occhi di un bambino invidioso. Non osava ancora farsi avanti. Era l’ultimo arrivato. Ma una volta che il secchio del carbone era rimasto vuoto era andato a riempirlo nella rimessa e poi, aprendo il coperchio della stufa, aveva mormorato:

«Permette?».

Accanto all’ufficio c’era una scala che portava al primo piano, dove si trovavano, l’uno di fronte all’altro, gli appartamenti dei due fratelli. Dal corridoio si poteva accedere direttamente al cortile, ma la porta che metteva in comunicazione l’ufficio con il corridoio era quasi sempre aperta, sicché da giù si sentivano i rumori della casa, i mille rumori quotidiani delle due famiglie.

Chissà come mai Albert Jaminet, il più giovane, il suo preferito, aveva una moglie magra, olivastra e arcigna, che soffriva sempre di emicranie, era sempre malaticcia o di cattivo umore, mentre Émile, il maggiore, aveva una moglie garbata, di aspetto giovane, rosea e allegra...

Gli sembrava assurdo. Decine di volte al giorno la moglie di Albert si affacciava alla ringhiera delle scale, chiamava il marito dall’alto con una voce aspra, e lui si precipitava come se avesse paura di essere colto in fallo. Dall’ufficio li sentivano bisbigliare. Lei aveva bisogno di una mano, o era preoccupata per qualcosa, oppure voleva spedirlo a fare una commissione nel quartiere; lui non si lamentava mai; dopo un po’ tornava al suo posto sorridendo, tutto contento di aver fatto il suo dovere.

Poco dopo le quattro, ed era allora che cominciava il momento migliore per Alain, i ragazzi tornavano da scuola; i figli di Albert avevano nove e undici anni, la figlia ne aveva quindici e ogni giorno, attraversando il corridoio, si fermava un attimo a sbirciare il nuovo impiegato. Émile, invece, aveva due gemelle di dodici anni e un ragazzo un po’ più grande che studiava a Parigi.

Dal piano di sotto li sentivano andare su e giù, sentivano i loro passi e le sedie trascinate sul pavimento; l’odore della cioccolata calda della merenda arrivava fin nell’ufficio, poi calava un silenzio assoluto, perché cominciava l’ora sacra dei compiti; Alain se li immaginava seduti alla luce di una lampada, con in bocca l’estremità di una matita o di una penna, mentre la cena cuoceva a fuoco lento nelle due cucine.

La signorina Germaine batteva a macchina. Batteva velocemente, senza guardare i tasti: le sue dita eseguivano una specie di danza ritmata dal rumore del carrello alla fine di ogni riga.

Al di là dello spioncino, nella stamperia di un bianco sfavillante, i macchinari neri erano in funzione e si sentiva il solito rumore di ingranaggi ben oliati, mentre Émile, in camice grigio, correggeva le bozze o rivedeva un impaginato sul bancone.

Albert, invece, era quasi sempre chino su preventivi o altri conti, e Alain andava avanti e indietro, a volte saliva su una scaletta per raggiungere gli scaffali più alti dove erano allineati i contenitori con le schede.

Aveva già acquisito una certa familiarità con quelle schede, con i nomi degli abbonati ai diversi giornali, bollettini, almanacchi. Ce n’erano di buffi, insoliti. Alcuni abbonati cambiavano indirizzo in continuazione, altri avevano la stessa scheda da vent’anni.

Il lavoro non gli impediva di pensare, di ascoltare i rumori del piano di sopra e di guardare la nuca della signorina Germaine, che era ricoperta da una peluria dorata.

Quel giorno, mentre Émile si metteva cappotto e cappello per andare da un cliente in città, fu tentato di dire alla ragazza: «Sa, ho un nuovo amico...».

E forse avrebbe aggiunto con orgoglio: «Un nuovo amico che mi ha trattato da uomo... E, sa, non è mica uno qualunque... Si è fatto dieci anni di lavori forzati... È scappato tre volte, le prime due attraverso la foresta, dove al secondo tentativo è stato ritrovato mezzo morto, e la terza con una barchetta poco più grande di un guscio di noce, su cui ha navigato di isola in isola nel mare caraibico, in mezzo agli squali...».

Conservava un ricordo magnifico della camminata che aveva fatto il giorno prima con Joseph Bourgues! Ed era stato tutto così naturale! Al calar della notte, quando a poco a poco era sceso il silenzio sulla casa dei Foucret, lui, per educazione, per non disturbare troppo, si era alzato e aveva detto:

«Ora è meglio che vada».

Allora, mentre la signora Foucret lo aiutava a infilarsi il cappotto, Bourgues, con la massima naturalezza, si era alzato a sua volta e aveva indossato una giacchetta da caccia.

«La accompagno per un tratto di strada» aveva detto.

Gli altri due avevano sicuramente capito che si trattava di una cosa importante, perché Foucret non si era offerto di accompagnarli.

Si erano allontanati camminando lentamente, come se stessero facendo una passeggiata, prima fra le case di Malouville, poi lungo la strada, dove gli alberi si stagliavano neri contro il cielo limpido e i loro passi risuonavano nel silenzio.

«Io e suo padre avevamo più o meno la sua età quando ci siamo conosciuti...».

Alain non ricordava se poi l’ex forzato avesse continuato a dargli del lei. In ogni caso non per molto. Di punto in bianco aveva preso a dargli del tu come se niente fosse, e lui, che di solito non amava l’eccessiva confidenza della gente, gliene era stato grato.

«Eravamo a Marsiglia... Tuo padre vendeva giornali... Si metteva ad aspettare in una stradina buia, dietro la tipografia dove stampavano il “Petit Provençal”... Erano in molti a stare lì in attesa, pronti a precipitarsi al banco per prendere un pacco di giornali con l’inchiostro ancora fresco, dopodiché scattava una specie di gara a chi arrivava per primo sulla Canebière e nei caffè più frequentati... Io invece lavoravo da un falegname che aveva la bottega affacciata su quella stessa strada... Mio padre faceva il carradore in un paesino della Provenza...».

Alain era passato diverse volte per Marsiglia, mentre andava a Cannes o a Nizza con i suoi genitori. Perché non si erano mai fermati? Se l’avesse conosciuta un po’ meglio, adesso sarebbe riuscito a immaginarsi i luoghi di cui gli parlava quell’uomo.

«Abbiamo fatto anche altri lavori... A un certo punto ci è venuta l’idea di comprare i fondi di magazzino di farmacisti ed erboristi, le tisane che stavano lì da un secolo; le mescolavamo a casaccio e le mettevamo in piccole scatole su cui appiccicavamo un’etichetta con scritto: “Tè indiano”...

«Andavamo a venderle porta a porta, in periferia, nei paesi vicini.

«“Ma signora, come è pallido questo bambino!... Si vede che non gli ha mai dato il tè indiano, il miglior rimedio contro l’anemia. Vedrà, basteranno tre scatole e diventerà un colosso...”.

«Il tè indiano andava bene per tutto e per tutti: vecchi, puerpere, stitici, diabetici...

«Così, a poco a poco, siamo risaliti fino a Lione, ma il nostro sogno più grande era andare a Parigi. Ci sono voluti mesi perché riuscissimo a realizzarlo. Un bel giorno siamo approdati alla Gare de Lyon, e per guadagnare qualche soldo ci siamo messi a scaricare la verdura alle Halles, la notte, insieme ai barboni.

«A quei tempi in rue Montmartre, non lontano dalle Halles, c’era un negozietto angusto, buio, con in vetrina solo qualche opuscolo sbiadito. Lì si riunivano i giovani libertari, che a qualcuno piaceva confondere con gli anarchici, e ben presto io e tuo padre abbiamo iniziato a frequentare assiduamente quel posto.

«Siamo diventati anche noi libertari. Abbiamo letto tutti gli opuscoli, tutti i libri, tutti i volantini. Abbiamo partecipato alle riunioni segrete e ai comizi, abbiamo manifestato per le strade.

«Voi giovani d’oggi non le potete capire queste cose, parlavamo solo della felicità dell’uomo, e perché questa felicità potesse realizzarsi ci sembrava indispensabile un sovvertimento generale.

«Tra i nostri amici di allora alcuni sono diventati ministri, direttori di giornali, o sono stati insigniti della Legion d’onore; c’è anche un membro dell’Académie française, e altri che hanno fatto una brutta fine; alcuni sono morti in prigione durante la prima guerra mondiale, due o tre sono stati fucilati in un fossato di Vincennes.

«Ma voglio che tu sappia, ragazzo mio, che lì c’erano molte persone perbene, che erano quasi tutte persone perbene, e che solo pochi, oltre agli agenti provocatori, erano dei farabutti.

«Parlavamo spesso di bombe. Ne abbiamo fabbricate non so quante, ma alla fine, spaventati, ce ne sbarazzavamo sempre buttandole nella Senna.

«Una, però, l’abbiamo fatta esplodere, provocando danni e vittime, in un grande ristorante che esiste ancora oggi, dove si riunivano deputati e senatori.

«Se ne stavano lì, a mangiare cibi raffinati proprio nel momento in cui i poliziotti e le forze armate avevano ricevuto l’ordine di sparare sui lavoratori in sciopero nelle miniere del Nord.

«Tuo padre non c’era, te lo dico subito, non per salvargli la faccia, ma perché è vero. D’altra parte è stato solo un caso. Qualche giorno prima era stato ricoverato in ospedale.

«Sapeva che cosa stavamo preparando. Io lo andavo a trovare e lo mettevo al corrente di tutto.

«“Sei sicuro che questa azione non sarà controproducente per la nostra causa?” mi diceva.

«Abbiamo tirato a sorte, ed è toccato a me e ad altri tre piazzare la bomba. Non ero io a portarla, ma mi hanno preso e mi sono beccato dieci anni.

«A quell’epoca tuo padre viveva con una brava ragazza non troppo intelligente che faceva la cameriera in una brasserie. Non aveva un soldo in tasca, eppure mi ha fatto dire dal mio avvocato di non preoccuparmi.

«E ha tenuto fede alla promessa. Per un paio d’anni non ho avuto sue notizie. Ho provato a evadere da solo due volte, e in entrambi i casi mi hanno preso e riportato dentro; la seconda volta, nella foresta tropicale, ho rischiato di lasciarci la pelle.

«Ero ancora in infermeria quando un sorvegliante è venuto a trovarmi e mi ha detto che dovevo far presto a guarire. Era un còrso, un farabutto, ma tuo padre aveva sganciato un bel po’ di quattrini, e quello è stato ai patti.

«Adesso cominci a capire perché sono stato contento di vederti? Tra un po’ lo capirai anche meglio, ci sono diverse cose che non sai ancora, perché in seguito io e Eugène abbiamo parlato molte volte.

«Se ti può far piacere, sappi intanto che ti dico queste cose di comune accordo con tuo padre».

«Glielo ha chiesto lui?» domandò Alain emozionato.

Continuavano a camminare con la stessa andatura, fumando una sigaretta. E per la prima volta in vita sua Alain sentì di essere diventato un uomo.

Raggiunsero il quartiere di La Genette, il tram, l’ospedale, e lì, spontaneamente, quasi si fossero messi d’accordo, si girarono per tornare indietro.

«Preferisco non farmi vedere da queste parti» disse semplicemente Bourgues. «Ricordati che sui documenti mi chiamo Joseph Brun. Non dimenticare questo nome se dovessero chiederti qualcosa sul mio conto. Me li ha spediti tuo padre.

«Ero finito all’Avana, dove c’erano una quindicina di francesi nelle mie stesse condizioni. Il governo cubano ci lasciava in pace a patto che ce ne stessimo buoni. Neanche l’ambasciatore francese si curava di noi e anzi, a un certo punto, pur sapendo chi ero, mi ha assunto come maggiordomo all’ambasciata.

«Ho incontrato una francese, una ragazzona tranquilla, Adèle, che cercava di tirare avanti come poteva, ma con scarsi risultati, perché non ci sapeva fare con gli uomini.

«Siamo diventati amici. Mi invitava in camera sua e mi preparava dei piatti delle nostre parti. Così mi sono reso conto che, anche se come puttana non valeva niente, era una cuoca di prim’ordine.

«Abbiamo messo su un ristorantino di cucina francese. C’erano solo sei tavoli, ma erano sempre prenotati. Adèle era diventata enorme, talmente grassa che alla fine non riusciva più a sedersi.

«Siamo andati avanti così per anni. Non avevo il coraggio di tornare in Francia. Solo quando Adèle è morta mi è venuta nostalgia di casa, e ho scritto a tuo padre. Voi allora abitavate a Bordeaux. Lui era ricco, mi capitava di leggere il suo nome sui giornali. Mi dicevo che forse mi aveva dimenticato o che preferiva non ricordare quel periodo.

«E invece qualche mese dopo ho ricevuto dei documenti d’identità e un po’ di soldi, anche se in realtà non ne avevo bisogno, perché nel frattempo ero riuscito a mettere da parte qualcosa.

«Questa è la mia storia, figliolo. Eugène è venuto a prendermi all’attracco della nave e ci siamo riabbracciati.

«Sono scoppiato a ridere quando mi sono accorto che non era cambiato. Perché, vedi, e questo gli fa onore, è sempre rimasto lo stesso di quand’era ragazzo. Mi ricordo che una volta, all’epoca di Marsiglia, aveva vinto una certa somma a un torneo di bocce e ha speso tutto in mezz’ora per comprarsi un completo a quadretti, una cravatta di seta rossa e un paio di scarpe costose con inserti in pelle di vario tipo.

«Per far colpo sugli altri, e forse ancora di più per il piacere di far felice qualcuno, certe volte dava di mancia il doppio di quanto gli era costato il pranzo.

«“Tenga il resto...”.

«Era la sua frase preferita. Adorava comportarsi da gran signore, a costo di dover poi andare avanti per giorni a pane e café - crème.

«Quando sono tornato ho preferito non approfittare della sua generosità, senza contare che potevo sempre essere riconosciuto e causargli delle noie.

«Ho vissuto a Parigi, dove il rischio di farsi beccare è minore che in qualsiasi altro posto. Ho fatto vari lavori. Ho aperto un negozietto a Montmartre.

«Ogni tanto veniva a trovarmi. Andavamo a mangiare insieme in certe bettole di nostra conoscenza, e lui rinunciava a prendere la macchina con l’autista.

«Tirava avanti fra alti e bassi, ma non se ne curava, perché era sicuro che alla fine ce l’avrebbe fatta.

«“Li fregherò!” ripeteva spesso e volentieri. “Ed è comunque una bella soddisfazione per uno come me, figlio di un povero cristo che non sapeva nemmeno come si chiamava esattamente e da dove veniva...”».

«Le parlava mai di noi?».

«A volte. Negli ultimi tempi soprattutto di te. A un certo punto ha voluto avermi più vicino. Aveva regalato una casa a Foucret e forse nel farlo aveva già in mente qualcosa. Mi ha proposto di andare a vivere lì, e abbiamo cominciato a vederci più volte alla settimana.

«Ecco, ci tenevo a dirti almeno queste poche cose su tuo padre. Agli altri, a tua madre, a tua sorella, a quell’imbecille di tuo fratello, non interessano».

«Glielo ha detto lui?».

«Non importa. Per ora, ricordati: se hai bisogno di qualsiasi cosa, di un consiglio o altro, vieni da me. Capito? Intanto vedi come ti trovi dai Jaminet».

«Penso che mi troverò benissimo».

«Aspetta a dirlo. Vieni da me tutte le volte che vuoi, il più spesso possibile. Io non ho motivo di cambiare casa. Non ho più nessuno al mondo, e i Foucret sono brave persone».

«Piacciono anche a me...».

Stava quasi per commuoversi. Erano arrivati di nuovo al capolinea del tram, e dietro gli alberi spuntava il disco rotondo della luna.

«Sta arrivando il tram. Sbrigati!...».

Gli sarebbe piaciuto trattenersi ancora un po’, sancire in qualche modo quella nuova amicizia, ma non sapeva come fare, e intanto l’ombra di Bourgues era diventata più rigida e svelta, la sua voce più impersonale.

«A presto».

Gli tese la mano. L’altro si allontanò senza far caso a quel gesto e scomparve nella strada buia.

Perché non poteva raccontare tutto questo alla signorina Germaine? Sarebbe stato così felice di mostrarle che suo padre non era l’uomo che tutti credevano.

Dal giorno precedente si sentiva su di giri. Avvertiva un’allegria che fino allora non aveva mai provato, e diverse volte, prima di andare a letto, si sorprese a mormorare:

«Papà...».

Il papà di Marsiglia, di Lione, di rue Montmartre... L’uomo che incontrava il suo amico d’infanzia nelle bettole parigine... E che voleva fregarli...

Fregare chi? Non avrebbe saputo dirlo con precisione, ma nel suo intimo capiva o credeva di capire.

Fregarli...! Tutti! Gli Estier. I Bigois. Tutti quelli che si erano arricchiti con le sue bustarelle, che si erano riempiti la pancia e che poi gli si erano rivoltati contro. Ce l’aveva con una certa razza di persone, e con tutto il loro mondo.

Sicché quella mattina gli erano venuti in mente altri pensieri più confusi, sui quali preferiva non soffermarsi.

Forse, in fin dei conti, quell’uomo che lui aveva conosciuto appena, che non si era mai curato di conoscere perché non immaginava che potesse essere tanto diverso da come appariva, quell’uomo che era morto sul pavimento sporco di una farmacia di quartiere, ebbene quell’uomo era sempre stato solo!

Be’, proprio solo no, perché c’erano i Foucret e l’ex forzato. Ma a parte loro?

Il suo primogenito, per esempio, il figlio della prima moglie che in teoria, secondo Alain, avrebbe dovuto assomigliare al Malou di un tempo e che invece pensava solo a fare carriera in Prefettura...

La moglie, la madre di Alain...

E Corine...

Non voleva intristirsi. Lavorava in quell’ufficio surriscaldato di cui conosceva già tutti i giochi d’ombra e di luce. Avrebbe rivisto spesso Joseph Bourgues. Aveva voglia di rivederlo subito, ma non osava ritornare a Malouville di sera. Avrebbe aspettato la domenica successiva. Se Bourgues aveva in programma di andare a pesca – non voleva scombussolare le sue abitudini –, l’avrebbe accompagnato e se ne sarebbe stato buono buono accanto a lui.

Ogni tanto, al piano di sopra, uno dei ragazzi chiedeva alla madre qualcosa riguardo ai compiti. Gli altri facevano: «Sst!...». E lui se li immaginava chini sui quaderni, che si tappavano le orecchie con le mani.

Squillò il telefono. Rispondeva sempre la signorina Germaine, era una delle sue mansioni.

«È per lei signor Alain».

Chi poteva mai essere? Di colpo si sentì inquieto, lo si capì dal tono con cui disse: «Pronto!».

Riconobbe subito la voce e si avvilì.

«Ti devo parlare. Ho delle cose importanti da dirti. Puoi passare da me dopo il lavoro? A che ora finisci?».

«Alle sei».

«Sto a cinque minuti dal tuo ufficio».

«Non voglio venire».

«Non fare l’idiota. Sta’ tranquillo: lui non ci sarà».

«Non voglio venire lo stesso».

«Come vuoi. Guarda che potrei benissimo non parlartene, ma preferisco che tu sappia».

Probabilmente aveva messo una mano sulla cornetta, si era voltata e aveva detto qualcosa a qualcuno, perché Alain udì un mormorio sommesso. Quindi Fabien era lì.

Fu sul punto di riagganciare.

«Stammi a sentire, visto che sei così stupido, ci vediamo al Café de Paris alle sei. Non farmi aspettare, che ho poco tempo».

Disse di sì perché non poteva fare diversamente, ma era fuori di sé al pensiero che la sua famiglia si fosse già insinuata nella sua nuova esistenza.

Quando tornò al suo posto, la signorina Germaine ebbe un attimo di esitazione prima di decidersi a parlare. Poi, con molta dolcezza e non senza un certo imbarazzo, gli disse:

«Signor Alain... Spero che non se ne abbia a male se glielo dico... Qui siamo tutti e due impiegati... Allora preferisco avvertirla, perché non vorrei che le facessero delle osservazioni... I principali, soprattutto il signor Émile, non gradiscono che si ricevano telefonate private...».

Lui arrossì.

«Spero di non riceverne più...».

«Si è offeso?... Guardi che la cosa non mi riguarda...».

«Ma no, signorina, le assicuro che non sono per niente offeso, anzi, le sono riconoscente...».

«Sa, è per via degli operai, che a volte se ne approfittano. Se tutti cominciassero a ricevere telefonate...».

La sua ora preferita era rovinata, ormai, anche se non avrebbe saputo dire precisamente perché. Aveva perso l’allegria di poco prima. L’appuntamento con sua sorella lo preoccupava. Che cosa voleva da lui? Avrebbe preferito mille volte che si fosse trasferita in un’altra città o perfino – ed era la prima volta che quel pensiero prendeva forma nella sua mente – che fosse morta lei al posto di suo padre!

Alle sei meno cinque, come al solito, sistemò i contenitori con le schede, salì sulla scaletta, il che per lui era sempre un piacere, fece ordine nei suoi cassetti e andò a lavarsi le mani nel lavandino di ferro smaltato della stamperia. Nel frattempo la signorina Germaine si era tolta il maglione, che ripose nell’armadietto, e dopo aver dato un po’ di volume ai capelli biondi, indossò cappello, cappotto e guanti.

Andarono insieme fino all’uscita, dove lei svoltava a sinistra e lui a destra; si salutarono stringendosi la mano, mentre nell’ombra una vecchietta aspettava immobile: era la madre della signorina Germaine.

Lì di fronte c’era un cinema illuminato, e un po’ più in là le grandi vetrate del Café de Paris, rischiarate da luci più discrete, che lasciavano intravedere le sagome dei clienti seduti ai tavoli, le teste più o meno calve dei giocatori di carte e di domino, avvolte in una nuvola di fumo.

Dall’esterno vide che sua sorella non era ancora arrivata e fu tentato di andarsene, ma alla fine entrò, cercò un tavolo libero e senza togliersi il cappotto ordinò un boccale di birra. Gabriel, il cameriere, lo chiamò «signor Alain» e gli pulì con cura il tavolo.

Passato qualche minuto, una macchina si fermò davanti al caffè. Corine, con indosso pelliccia e calze chiare, saltò fuori, attraversò il marciapiede a passo svelto e si diresse verso il fratello.

«Ma bravo, farmi perdere tempo così!».

«Ti sta aspettando?».

«Che te ne importa? Se lo conoscessi meglio, se non fossi il ragazzino presuntuoso che sei, non ti comporteresti in questo modo. Cameriere, un porto».

Frugava nella borsa cercando il portasigarette.

«Guarda che è merito suo se ho saputo quello che sto per dirti. Se ti sembrerà il caso, puoi scriverlo anche alla mamma. Per quanto mi riguarda, preferisco non farlo: ci voglio entrare il meno possibile negli affari di famiglia».

Alain ebbe l’impressione che dal tavolo vicino li stessero ascoltando e si sentì a disagio. Tutti sapevano chi erano; e li stavano sicuramente guardando.

«Ieri sera Paul è andato a giocare a bridge a casa di uno dei suoi colleghi. C’erano anche altri medici, tra cui il dottor Lachaux, l’otorino. Hanno chiacchierato e, come fanno sempre tra medici, hanno parlato dei loro pazienti...».

Corine soffiava lentamente il fumo della sigaretta davanti a sé, controllava l’ora, guardava attraverso il vetro la macchina in sosta.

«Così è venuto a sapere che nostro padre era gravemente malato...».

Alain ebbe un tuffo al cuore e rimase immobile, tanto era inattesa quella notizia di cui veniva a conoscenza nell’atmosfera banale di un caffè.

«Questo è quello che so... Ora regolati tu. Il giorno in cui è morto, verso le tre, papà ha telefonato al dottor Lachaux per chiedergli un appuntamento... Ha insistito per vederlo subito... Sembrava molto preoccupato... Lachaux lo conosceva, ma non lo aveva mai visitato... Ha detto a papà di passare da lui immediatamente, che avrebbe trovato un momento per riceverlo... Papà ci è andato... È stato categorico... Sai com’era certe volte.

«“Le chiedo di visitarmi e di dirmi con la massima franchezza sì o no... Non voglio essere tranquillizzato... Non voglio speranze più o meno vaghe... Sì o no, dottore, nient’altro...”.

«E ha aperto la bocca...

«Ti ricordi che soffriva spesso di mal di gola... Ne ha sofferto per tutta la vita... Lo prendevamo in giro perché aveva la voce rauca.

«Non c’è stato neanche bisogno di una visita approfondita.

«“Sì o no, dottore?” ripeteva. “Vede, ci sono troppi interessi in gioco, devo assolutamente sapere come regolarmi... Valuti bene le sue responsabilità...”.

«E Lachaux ha detto sì.

«Sarebbe a dire che papà aveva un cancro alla gola e un inizio di cancro alla lingua.

«Sembra che lui abbia reagito benissimo. Si è messo a ridacchiare. Ha chiesto quanto gli doveva.

«“Approfitti finché ce ne sono!” ha scherzato aprendo il portafoglio.

«Lachaux ha accennato a un’operazione, ma papà non ha voluto ascoltarlo.

«“Certo! Certo! Ne so quasi quanto lei sull’argomento. Sono anni che me lo aspetto”.

«Ha stretto la mano al dottore e se n’è andato.

«Qualche minuto dopo ha bussato alla porta del conte d’Estier.

«Per cui ora mi chiedo se ha fatto quello che ha fatto per i problemi finanziari o perché sapeva di essere spacciato.

«Ti ricordi, aveva il terrore delle malattie. Un raffreddore, una febbre lo facevano andare su tutte le furie. Considerava ogni minimo malanno una specie di menomazione.

«Questo è quello che ti volevo dire. Comunque non è che cambi molto, visto che non si può tornare indietro, ma mi è sembrato giusto che tu lo sapessi.

«E poi, già che ci siamo, ti dico anche che ti comporti come un bambino e che mi metti in difficoltà. Non vedo che male ci sarebbe a dividere con me l’appartamento, tanto lui non lo incontreresti mai.

«E invece che fai? Te ne vai a stare in una pensione, così lo viene a sapere tutta la città. Grazie tante! Del resto, te lo ripeto, non mi sono mai aspettata niente di buono dalla famiglia.

«Questo è tutto! Arrivederci!...».

Su queste parole buttò giù l’ultimo sorso di porto, afferrò la borsa e il portasigarette, e raggiunse l’uscita, dove Gabriel s’inchinò in segno di saluto. Pochi secondi dopo si sentì lo sportello chiudersi e l’auto che si rimetteva in moto.

Alain aveva scritto a sua madre la domenica mattina, nella sua stanza ai Trois Pigeons, prima di andare a Malouville. Una lettera senza calore, perché non c’era mai stato calore fra loro. Sembrava piuttosto il compito di uno scolaretto: Alain vi descriveva la sua camera, la sala da pranzo, il cancelliere che a tavola era seduto di fronte a lui, il vecchio Poignard, sempre mezzo sbronzo, e i piatti saporiti di Mélanie. Accennò anche, molto vagamente, alla tipografia Jaminet e al suo lavoro.

«È un miracolo» concludeva «che sia riuscito subito a cavarmela da solo e che da un giorno all’altro sia in grado di provvedere alle mie necessità. Se per caso hai bisogno di soldi, potrei rimandarti una parte dei tremila franchi che mi ha dato Corine. Prenderò lo stipendio a fine mese, cioè fra quindici giorni, e mi basterà a pagare il conto della pensione.

«Saluta la zia Jeanne, lo zio e Bertrand da parte mia. Spero che tu sia in buona salute. Quanto a me, il raffreddore che temevo di covare non si è manifestato...».

Alain camminò per le strade come un automa, al punto che si meravigliò di trovarsi di colpo davanti all’ingresso della pensione. Aveva già preso l’abitudine. Vedendolo entrare, Mélanie esclamò:

«Qualcosa non va, signor Alain?».

Lui si sforzò di sorridere.

«Brutte notizie?».

Non riuscì più a trattenersi. Aveva bisogno di confidarsi con qualcuno.

«Mio padre era gravemente malato» mormorò.

La donna non capiva. Forse pensava che, siccome era morto, non importasse poi tanto se era malato o meno.

«Aveva un cancro alla gola. L’ha saputo mezz’ora prima di uccidersi».

«E per questo l’ha fatto, secondo lei? Beva un sorso! Ma sì, vedrà che la tirerà su...».

Gli aveva versato un bicchiere di rum.

«È terribile quanta gente malata che c’è al mondo! Soprattutto quelli della nostra età. Lei, per fortuna, è ancora giovane. Prenda mio marito, che sembra forte come un toro... È da un anno che lo devono operare alla vescica, alla prostata, dicono loro... Certi giorni non riesce a fare pipì, con rispetto parlando, e bisogna mettergli un tubicino di gomma... Ha paura... dell’anestesia: dice che se si addormenta non si sveglia più... Da allora ha cominciato a bere... Lei lo vede qui in sala, quando tiene botta, ma le assicuro che la notte soffre le pene dell’inferno davanti al vaso, e allora sembra un bambino... Beva, signor Alain!... Un cancro, chiaramente, è una cosa seria... Una mia cugina ce l’ha avuto al seno ed è morta lasciando tre bambini... Se aveva veramente un cancro, forse dopo tutto ha fatto bene... Ma è sicuro?».

«Sì».

«Su, vada a sedersi a tavola... Adesso le preparo una bella omelette al prosciutto... E non ci pensi più... Se dovessimo tormentarci per tutti quelli che se ne vanno...».

Alain si lasciò condurre nella sala da pranzo dove, seduti al tavolo rotondo, sotto il lampadario, c’erano solo due commessi viaggiatori. Il cancelliere con i capelli rossi non era ancora arrivato. Un gatto dormicchiava acciambellato su una sedia, e una cameriera con il grembiule bianco – la più gentile, Olga – se ne stava vicino alla credenza.

«Mi raccomando, deve mangiare... Sennò poi la gente dice che i miei pensionanti dimagriscono... Olga, servigli un piatto abbondante. E portagli una mezza bottiglia di vino, quello buono...».

Era strano, tutte quelle chiacchiere, che aveva a malapena ascoltato, e di cui non avrebbe saputo ripetere una sola parola, lo avevano come narcotizzato. Non vi era più traccia in lui di quel dolore acuto, né di pensieri ben definiti. Il ragazzo si sentiva solo indolenzito.

«Povero papà...».

E, mentre mangiava la minestra inzuppandoci dentro il pane, non poteva fare a meno di immaginare suo padre nello studio del dottor Lachaux, suo padre che faceva lo sbruffone, che diceva in tono quasi allegro:

«Sì o no?...».

Allora, visto che era un sì.... Forse, se fosse stato in buona salute, si sarebbe ostinato a lottare! Forse avrebbe continuato a battersi per mandare avanti quella grande casa che era come un pozzo senza fondo, per tutta quella gente che da anni si era caricato sulle spalle, per sua moglie, per Corine, e anche per lui, Alain, che si limitava ad andare a scuola e non aveva mai avuto la curiosità di capire che uomo fosse suo padre.

Era un sì! E c’erano sigilli su tutte le porte; e i cantieri erano chiusi, e l’impresa nelle mani di un curatore fallimentare. E gli squali avevano cominciato a girargli intorno, e ogni mattina il giornale pubblicava sul suo conto dicerie ignobili.

Era un sì, e lui non aveva più soldi, nemmeno poche migliaia di franchi, nemmeno un po’ di denaro fresco, come diceva ai bei tempi, nemmeno di che pagarsi le cure, le operazioni indispensabili.

Operazioni che, lo sapeva perfettamente, non avrebbero risolto nulla, non lo avrebbero guarito, sarebbero servite solo a ritardare la fine di qualche mese.

Dopo la visita dal medico non era tornato a casa. A chi poteva rivolgersi? Cosa poteva fare?

Era andato dal conte d’Estier, e forse si era detto o la va o la spacca; forse, superstizioso com’era, nel sollevare il batacchio, aveva pensato: «Se mi va bene questa, vado avanti!».

E invece era andata male. Estier era stato inflessibile. Estier non aveva voluto credere alla pistola che il suo visitatore brandiva. L’aveva messo alla porta senza pietà.

In mezzo alla strada. La strada da cui era venuto! La strada in cui Eugène Malou aveva preferito farla finita, forse perché gli sembrava più calda, più familiare, più accogliente di casa sua.

«Allora, giovanotto?» chiese Mélanie. «Assaggi questa omelette e poi mi dirà. È solo per lei... La mangi tutta, mi raccomando, poi c’è uno spezzatino di vitello come quello che ha mangiato il primo giorno...».

Alain ebbe voglia di prenderle la mano per ringraziarla. Gli si velarono gli occhi, e le facce dei commessi viaggiatori assunsero contorni incerti. Ciò nonostante, mangiò tutto quello che la donna gli portò, bevve anche il vino, quasi senza accorgersene, tirando su con il naso di tanto in tanto.

Forse era proprio in una bettola di quel genere che suo padre si incontrava con il suo vecchio amico Bourgues!

«Vede che va già meglio... Ora, dia retta a me, deve mettersi a letto con una bella borsa d’acqua calda. Olga, portagliene una in camera... Domani è un altro giorno... E poi ce ne saranno ancora altri...».

Non poteva mica abbracciarla davanti a tutti! Si allontanò, un po’ a disagio, salutò impacciato i due commessi viaggiatori e si avviò lentamente su per le scale.

Quando gli portò la borsa dell’acqua calda, Olga gli disse:

«Sa, la capisco. Ho perso mia madre solo quattro mesi fa. Vuole una tisana, qualcosa di caldo che l’aiuti a dormire?».

Rispose di no, ringraziò, mise il chiavistello alla porta. Andò a letto convinto che non sarebbe riuscito a prendere sonno. Per un attimo si passò la lingua sul palato chiedendosi se non avesse un cancro anche lui.

Ripensò alla signorina Germaine, la rivide nella penombra della strada mentre, con gli stessi gesti di ogni giorno, prendeva il braccio di quella vecchina che era ormai sua madre. Rivide i Foucret, marito e moglie, lui con la lunga pipa e lei con il grembiule a quadretti azzurri, ma non riuscì a ricordare con esattezza i lineamenti di Bourgues; ci provò inutilmente per qualche istante, poi di colpo sprofondò nel sonno.

Alle dieci, quando Mélanie salì di sopra per andare a dormire e accostò l’orecchio al buco della serratura, nella stanza si sentiva solo un respiro regolare.