4
Per qualche secondo non riuscì a capire che ora fosse né dove si trovasse. Non capiva nemmeno esattamente che cosa l’avesse svegliato. In realtà era un suono ritmico, che si era insinuato in lui a poco a poco e l’aveva raggiunto nel profondo del sonno – un po’ come accade a chi, passando per una viuzza, sente la musica di una fanfara, e senza volerlo si mette a marciare al passo. Quel suono era scandito da un cigolio metallico, e alla fine, proprio all’ultimo momento, mentre apriva gli occhi, Alain aveva udito un gemito umano, cadenzato, modulato, uno strano lamento, un lamento di soddisfazione che non aveva mai sentito in vita sua.
Attorno a lui tutto era buio. Si trovava in albergo, ora ricordava, all’Hôtel du Commerce, di fronte alla stazione; era andato ad alloggiare lì con sua sorella per una o due notti. Avevano cenato nella sala ristorante arredata con tavolini bianchi e un’enorme credenza di mogano, che aveva la solennità di un grande organo da chiesa. Rivedeva le tovaglie inamidate, le cameriere con la divisa bianca e nera e la cuffietta in testa, le bottiglie di vino rosso e i tovaglioli che sporgevano a ventaglio dai bicchieri. Gli tornavano in mente l’odore della sala, il ticchettio dell’orologio dalla grossa cornice nera, il gesto con cui Corine, dopo cena, si era ridata un po’ di cipria.
«Io vado subito a letto» aveva detto lui.
Erano solo le otto e mezzo, ma le notti precedenti aveva dormito poco.
«Anch’io» aveva replicato sua sorella.
Si era portata su un giornale, nel caso non fosse riuscita ad addormentarsi. Si erano dati la buonanotte nel corridoio. Alain era già sotto le coperte quando lei aveva cercato di aprire la porta.
«Che c’è? Ho messo il chiavistello, sono a letto».
«Allora non importa. Buonanotte. Ero venuta a vedere se stavi bene».
Era piombato nel sonno, e ora fissava una striscia di luce dallo stesso lato da cui proveniva il rumore. Rimase al buio. Non tese la mano verso il comodino in cerca dell’interruttore. Adesso ricordava. Solo un tramezzo lo separava dalla camera di sua sorella. Lei aveva la numero 7 e lui la numero 9. La sera prima non aveva visto la porta di comunicazione perché era nascosta da un armadio. Il corpo dell’armadio però non arrivava fino a terra: fra i piedi, sotto la porta, c’erano almeno due centimetri di spazio.
Anche se era la prima volta che lo sentiva, Alain capì il significato di quel suono ritmico, di quel gemito, e arrossì pensando che era sua sorella a gemere così, emettendo di tanto in tanto una specie di strano, rapido singhiozzo. Era sua sorella – e proprio il giorno in cui era stato seppellito suo padre – a dargli la percezione concreta di una cosa che lui conosceva solo vagamente e per la quale, d’istinto, aveva sempre provato una certa ripugnanza.
Forse perché i suoi compagni di scuola quando ne parlavano, usavano parole sconce... E forse anche perché le donne che talvolta lo sfioravano nell’oscurità di certe strade malfamate – e che per lui erano l’incarnazione di tutto quel genere di cose – gli si rivolgevano con un linguaggio volgare, con gesti ripugnanti.
Alain avrebbe voluto tapparsi le orecchie; sprofondava la testa nel cuscino, ma era inutile: il suono continuava. A un certo punto vi si unì una voce maschile, il gemito si fece via via più intenso fino a diventare un grido, poi di colpo calò il silenzio.
Dopo un po’, nel vuoto impenetrabile di quel silenzio, si sentì una risata, una risatina giovane e fresca, la risata di Corine.
«Sono distrutta...» sospirò. «E dire che non volevo stasera!... Mica ho gridato?...».
«Un po’!...» rispose Fabien in tono compiaciuto.
Rimasero entrambi immobili. Se avessero fatto il minimo movimento Alain se ne sarebbe accorto, perché sentiva distintamente anche il più lieve rumore. Non riusciva a evitare di immaginarseli, e per un attimo si chiese se avrebbe avuto il coraggio di vestirsi e uscire, di andare in un posto qualsiasi, di non tornare più, tanto gli erano insopportabili le immagini che gli affioravano alla mente.
«Speriamo che Alain non abbia sentito!».
Il chirurgo ridacchiò:
«Penso che alla sua età queste cose le sappia!».
«Dammi una sigaretta».
Solo allora Fabien si alzò. Camminò scalzo per la stanza. Alain sentì chiaramente il rumore dei piedi nudi sul linoleum. Poi il fiammifero che si accendeva.
«Non hai freddo?».
«No, anzi mi sembra che faccia troppo caldo. Devo ricordarmi di spegnere il radiatore prima di addormentarmi. A proposito di Alain...».
«Certo che è un po’ noioso, tuo fratello, con questa fissazione di restare qui! Non poteva andare a Parigi con tua madre? Ora che tutto andava così bene, che finalmente ce ne potevamo stare in santa pace».
«Non ci starà fra i piedi per molto, vedrai, lo conosco. Sono sicura che appena avrà trovato lavoro vorrà andarsene a vivere da solo».
«E intanto?».
«Mi verrai a trovare quando non c’è. Alla peggio la sera lo mandiamo al cinema. C’è il telefono nell’appartamento?».
«L’ho fatto mettere. Ci ho pensato anch’io».
Ancora un momento di silenzio.
«No, un’altra volta no, Paul. Ho avuto una giornata difficile, lo sai!».
«È andato tutto bene?».
«Più o meno».
«I gioielli?».
«Sono sicura che la mamma ce li ha, ma non sono riuscita a farglielo ammettere».
«È assurdo. E non ti ha chiesto che avevi intenzione di fare?».
«Vagamente. Lo sospetta, ma preferisce non sentirselo dire».
Alain non si muoveva. Se ne stava sdraiato, rigidissimo, con i nervi tesi, quasi senza respirare. Quando ricominciarono, strinse i pugni, ma rimase immobile.
Da un pezzo si era reso conto, o più esattamente aveva intuito, che Corine era così. Per questo era tanto a disagio quando lei girava mezza nuda, a volte completamente nuda, davanti a lui, con quella sua carne troppo florida, troppo esuberante, che faceva pensare appunto a quello che stava succedendo nella camera accanto.
Perché proprio sua sorella? Si chiedeva se ce ne fossero molte come lei. Non voleva crederci. Era una cosa che faceva vacillare la sua concezione della vita, degli uomini e delle donne, dei rapporti fra gli individui.
Anche sua madre era così? Era la prima volta che si faceva quella domanda. Preferiva rispondere di no, avrebbe dato qualsiasi cosa per poter rispondere di no, ma gli tornavano in mente certe parole che aveva sentito, la storia del suo primo marito, poi del secondo matrimonio.
Se era stata colta in flagrante, come sosteneva Corine, significava che vedeva Eugène Malou di nascosto. Probabilmente in un albergo come quello.
Si sforzava di non pensarci, ma non ci riusciva. Si mise a classificare le persone che conosceva, soprattutto i parenti, in «quelli che erano così» e gli altri.
Suo padre, per esempio? Non aveva certo gli occhi lucidi e il sorriso voglioso del chirurgo Fabien. Era un uomo che si preoccupava solo del suo lavoro.
Eppure, quando Alain pensava alla prima moglie di suo padre, a quella creatura riemersa improvvisamente dal passato, si vedeva costretto a modificare il suo giudizio.
Anche suo padre? Tutti allora? Non era possibile. Era troppo disgustoso. Era una cosa che lo faceva soffrire.
Quando i suoi compagni di scuola, con lo sguardo acceso e uno strano sorriso sulle labbra – un sorriso ambiguo –, si radunavano per raccontarsi storielle di quel genere, lui si allontanava nauseato. Arrivava quasi a credere che tutto ciò non esistesse, che fosse una loro invenzione, che in realtà le cose non andassero a quel modo.
Adesso però era costretto ad ammettere che non mentivano, che era vero, che sua sorella era così, e forse anche sua madre. E perché non la zia Jeanne allora, che a cinquant’anni ancora si truccava?
Aveva voglia di fuggire, di stare da solo. Chissà se François Foucret...? No, lui era un uomo troppo corretto, troppo solido. Alain sarebbe andato a fargli visita al più presto. Non prima però di aver trovato un lavoro, perché Foucret si sarebbe sicuramente offerto di aiutarlo, e lui invece voleva cavarsela da solo.
Doveva assolutamente trovare subito un lavoro. Non sarebbe andato a vivere da sua sorella come lei gli aveva proposto.
«Devi riconoscere» stava dicendo Corine, nella camera accanto, mentre fumava un’altra sigaretta «che le cose si sono sistemate a meraviglia per noi...».
Si riferiva alla morte di suo padre! Alain non voleva vederla mai più. Doveva solo aspettare che la smettessero e che Fabien uscisse, poi si sarebbe alzato senza far rumore e sarebbe andato via. Magari avrebbe lasciato un biglietto con una frase del tipo: «Ho sentito tutto».
Ma a che sarebbe servito? Corine non si sarebbe preoccupata per lui. Tanto meglio se lui non c’era. Tanto di guadagnato.
Alain non piangeva. Non pianse per tutta la notte. Era terribilmente stanco, e alla fine non sapeva più se era sveglio o stava sognando.
Quali pensieri gli occupavano la mente? Divideva le persone in due categorie: da un lato quelle di un certo tipo e dall’altro quelle che gli sembravano diverse. Ma non era sufficiente. La questione era più complessa. Scopriva l’esistenza di un gran numero di specie.
Per esempio loro, i Malou, erano palesemente diversi dagli altri. Suo padre non assomigliava a nessuna delle persone che conosceva, era di una razza a parte. E tutta la famiglia aveva la sua impronta. Sua madre, Corine, lui stesso facevano parte di un altro mondo, il mondo dei Malou.
Tant’è vero che persino la zia Jeanne, che aveva lo stesso sangue di sua madre e aveva ricevuto la medesima educazione, era molto diversa da lei, e a tutti loro sembrava quasi un’estranea.
Per non parlare di suo figlio Bertrand! I due cugini non avevano niente in comune. E infatti Bertrand in quei due giorni non aveva smesso un attimo di fissarlo con curiosità e invidia.
D’altra parte, Alain era profondamente diverso da Corine.
La questione era molto complessa. Forse stava già quasi dormendo. Aveva la sensazione di avanzare a fatica, a passo lento, verso qualcosa che doveva scoprire, e si sforzava di spingersi sempre oltre sulla via della comprensione.
Perché non si era mai posto quelle domande, che pure erano fondamentali? Come aveva potuto vivere tanti anni insieme ai suoi senza mai prendersi la briga di osservarli? Non era più un bambino. Sapeva molte cose, ma era come se in realtà le ignorasse, perché si limitava a registrarle meccanicamente senza conoscerle.
«Vai già via?».
«È l’una» rispose l’uomo.
Così Alain capì di non aver quasi dormito, e che Fabien era arrivato appena lui si era messo a letto.
«Domani mi mandi la macchina per le valigie?».
«Non hai paura che tuo fratello...?».
«Non ti preoccupare per lui. O si abitua, oppure...».
Fabien si rivestì. Che si stesse rivestendo lo si capiva dai rumori, dal fruscio degli abiti, dallo scricchiolio delle scarpe. Poi si baciarono. Anche Corine si alzò e camminò scalza fino alla porta per mettere il chiavistello, mentre Fabien cercava a tentoni l’interruttore del pianerottolo.
La luce rimase accesa per un’altra mezz’ora. Probabilmente Corine stava leggendo il giornale e fumando un’ultima sigaretta.
«Me ne andrò prima che si alzi...».
Non aveva soldi. I diecimila franchi che sua madre aveva lasciato per tutti e due ce li aveva lei. Avrebbe dovuto pensarci prima e farsi dare la sua parte.
Cosa avrebbe fatto il giorno dopo, in mezzo a una strada, senza un soldo? Non aveva niente da vendere, se non qualche vestito di nessun valore. Chissà se anche gli altri ospiti dell’albergo avevano sentito i gemiti di Corine! Forse l’indomani mattina, incontrandola nella hall, l’avrebbero guardata con insistenza.
Fu assalito da immagini che cercava invano di respingere, poi quelle immagini cominciarono a deformarsi, divennero grottesche, e questo significava che si era addormentato, e quando bussarono alla porta era pieno giorno.
«Alain... Alain...».
Lui mugugnò qualcosa.
«Apri... Che fai?».
Aprì istintivamente, senza avere il tempo di ricordare i propositi di quella notte. Lei era ancora in vestaglia.
«Mi hai spaventata...» disse.
«Perché?».
«Sto bussando da almeno cinque minuti. Mi è venuto il dubbio che fossi già uscito».
«Che ore sono?».
«Le nove».
In effetti arrivavano rumori da tutti i piani dell’albergo. Rumore di stoviglie al pianterreno, il motore di un furgoncino nel cortile, una donna di servizio che passava l’aspirapolvere sul tappeto del corridoio.
Per non farsi vedere in pigiama, Alain, che era estremamente pudico, si era infilato di nuovo sotto le coperte. Per un istante si chiese se, dopo quello che era successo, sua sorella avrebbe osato sedersi sul suo letto. Lei lo fece con la massima tranquillità. Perché Alain arrossì? A che pensava esattamente mentre si girava dall’altra parte?
«Viene a prenderci una macchina alle dieci».
«Io non vengo».
«Che dici?».
«Che non vengo».
«Sei impazzito? Cosa vuoi fare?».
«Voglio una parte dei soldi che ti ha lasciato la mamma per tutti e due. La metà o quanto vuoi tu, non mi importa. Mi cercherò una camera in una pensioncina e...».
«Chi ti ha messo in testa queste idee?».
Istintivamente si girò a guardare il tramezzo e forse ebbe un vago sospetto, ma preferì scacciare quei pensieri spiacevoli.
«Come preferisci, mio povero Alain. Non saremmo comunque andati d’accordo per molto, vero? Quanto vuoi?».
«Non mi importa».
«Tremila?».
Cercava di imbrogliarlo. Perché non dividere equamente?
«Un ragazzo ha meno spese di una donna. E poi per te sarà più facile trovare un lavoro...».
Lui fissava con ostinazione la striscia di luce fra le tende. Ebbe l’impressione che finalmente fuori ci fosse il sole.
«Te li vado a prendere...».
Così se lo sarebbe tolto di torno. E infatti ritornò subito con i tre biglietti da mille, che mise sulla toeletta.
«Ti ho annotato il mio indirizzo. Vieni a trovarmi quando vuoi. E fammi avere tue notizie. Se hai bisogno di una mano, non esitare...».
Stava in piedi e ora, tutt’a un tratto, lo guardava con una sorta di tenerezza – forse dovuta al rimorso. Si chinò su di lui, lo sfiorò con il suo seno morbido e lo baciò sulle guance e sulla fronte.
«Povero fratellino!».
Probabilmente si rendeva conto che Alain non era come lei, come loro. E le faceva pena.
«A casa mia ci sarà sempre un letto per te...».
Lui non si mosse. Teneva gli occhi chiusi e aspettava con impazienza di restare solo per poter piangere liberamente.
A mezzogiorno aveva già trovato un posto di lavoro, dove poteva cominciare fin dal giorno dopo. Non era un miracolo?
E un miracolo, il primo miracolo, era anche il sole, fresco ma luminoso, che lo aveva accolto giù in strada, un miracolo l’animazione gioiosa, fervida e fremente, che lo attorniava avvolgendolo sempre più via via che si addentrava nel cuore della città. La città, com’era alle dieci del mattino, non la conosceva quasi, perché a quell’ora di solito era a scuola. Il trambusto dei camion, dei furgoncini, la ressa delle massaie davanti ai negozi – tutto ciò gli infondeva, senza che neanche se ne accorgesse, un piacere che assomigliava alla gioia di vivere. Persino la vista di un cameriere che passava il bianco di Spagna sui vetri di una brasserie gli parve così interessante che si fermò sul marciapiede a guardarlo.
Vagava senza una meta precisa; cercava un posto di lavoro, ma non sapeva a quale porta avrebbe potuto bussare. Due o tre volte pensò a François Foucret. Aveva voglia di andarlo a trovare, di parlare a lungo con lui. Non prima però di essere riuscito a sbrogliarsela da solo.
A cento metri dal Café de Paris, nella corsia del tram, dove il marciapiede è più stretto, alcuni uomini, che stavano issando un pianoforte verso una finestra, lo costrinsero a fermarsi. Proprio lì davanti c’era una vetrina scura, con un’insegna su cui si leggeva: «Fratelli Jaminet, tipografi».
Dietro i vetri polverosi si vedevano opuscoli, biglietti da visita, partecipazioni e, in un angolo, un cartello scritto a mano:
Cercasi giovane senza esperienza per lavoro d’ufficio
Alain sapeva che c’erano due tipografie importanti in città. Non se n’era mai curato, ma lo sapeva. L’altra, gestita dal signor Bigois, era quella dei nemici. Perché stampava il «Phare du Centre», il giornale che negli ultimi tempi aveva violentemente attaccato suo padre. Era una tipografia che si occupava soprattutto di politica. Il signor Bigois, un omone trasandato, era consigliere municipale e si era candidato due volte alla camera dei deputati.
La tipografia Jaminet invece era quella favorita dai benpensanti e dal vescovo.
Strano però: stando a quel che dicevano i giornali, Eugène Malou era un uomo di sinistra, un ex anarchico, ed erano stati proprio quelli di sinistra ad accanirsi contro di lui.
«C’è il signor Jaminet, per piacere?».
L’ufficio era mal illuminato. Il sole arrivava quasi esclusivamente nel cortile, dove, sotto una rimessa, si intravedevano carretti a mano e pacchi di carta. Accanto alla finestra c’era una dattilografa che batteva a macchina e che non badò a lui. Un uomo magro, che Alain aveva già visto da qualche parte, ma di cui si ricordava a malapena, lo guardava con una certa sorpresa. Solo più tardi si rese conto che l’uomo lo aveva riconosciuto, e che molte persone a lui del tutto ignote lo identificavano subito come il figlio di Eugène Malou.
«Che posso fare per lei?».
«È per quel posto...».
Un lampo di stupore, un attimo di esitazione.
«Mi scusa un momento? Sono cose di cui si occupa mio fratello. Vado a vedere se è in stamperia».
Rimase via un bel po’. Probabilmente – e anche di questo Alain si rese conto solo in seguito – stavano discutendo sul da farsi. I due Jaminet si assomigliavano al punto che, pur essendoci fra loro tre anni di differenza, era difficile distinguere l’uno dall’altro. Tutti e due erano magri e avevano il colorito giallastro dei malati di fegato. Tutti e due erano sposati con figli e vivevano nella stessa casa, che si erano divisi.
L’altro Jaminet entrò senza il fratello che Alain aveva visto per primo.
«Vuole lasciarci soli un momento, signorina Germaine?».
Era visibilmente imbarazzato.
«Si accomodi, signor... signor Malou, giusto?».
«Sì, Alain Malou».
«Mio fratello mi ha detto...».
«Ho visto che state cercando un impiegato».
«Sì... Infatti...».
«Siccome sono costretto a lasciare gli studi e a guadagnarmi da vivere...».
«Capisco, signor Malou. Capisco».
«Mi sarei dovuto diplomare l’estate prossima. Non so se può bastare...».
L’altro fece un gesto con la mano come a dire che non era quello il problema.
Da uno sportellino a vetri si intravedeva una stanza piuttosto ampia con le pareti di un bianco crudo, lungo le quali erano allineati dei macchinari neri e lucenti, che sembravano disegnati a china. La maggior parte di quei macchinari, su cui erano curvi uomini silenziosi, era in funzione, e si sentiva un lieve ronzio di ingranaggi ben oliati.
«Pensavo che la sua famiglia volesse trasferirsi...».
«Io ho deciso di restare. Sempre che trovi un lavoro, naturalmente».
«Capisco».
Tra i due il più imbarazzato era Jaminet, soprattutto perché il suo interlocutore lo osservava con uno sguardo tranquillo e ingenuo.
«Non teme che questo nuovo tipo di vita possa risultare troppo faticoso per lei?».
«Ci farò l’abitudine».
«Suo padre era nostro cliente».
Non disse se aveva pagato le fatture. Presumibilmente non tutte.
«Sarei molto lieto di esserle utile. Non le nascondo però...».
Era contrariato. Si faceva scrocchiare nervosamente le dita.
«Vede, signor Malou, è un posto per un giovane senza esperienza. E, direi anche, un posto senza grandi possibilità di carriera. Per tutte le questioni importanti bastiamo io e mio fratello. Come segretaria c’è già la signorina Germaine, che lavora con noi da otto anni. Il posto vacante...».
Alain quasi non lo ascoltava. Da qualche istante aveva fermamente deciso di ottenere quel posto a qualsiasi condizione. Non avrebbe saputo spiegare perché. Quelle scrivanie scure, quelle pareti tappezzate di manifesti e calendari, quell’odore di inchiostro e di olio caldo, di carta, di colla, quei macchinari neri nella stanza imbiancata a calce, e persino i carretti a mano nella rimessa, tutto ciò rappresentava ai suoi occhi un universo calmo e rassicurante nel quale sentiva il bisogno impellente di essere ammesso.
«Mi permetta, innanzitutto, di spiegarle in poche parole in cosa consiste il lavoro. Immagino che lei sia completamente digiuno di questo mestiere, no?».
Lui annuì con franchezza. Nella sua mente aveva già classificato Jaminet, i due Jaminet, con la loro timidezza, la loro buona volontà, i vestiti di taglio modesto, le famiglie che vivevano sotto lo stesso tetto – al piano di sopra si sentivano correre dei bambini –, li aveva già classificati in una categoria ben diversa rispetto alle persone a cui aveva pensato quella notte fissando la striscia di luce sotto la porta della camera di sua sorella.
Loro certamente no!
Quel luogo gli faceva venire in mente la quiete delle chiese, dove era entrato solo in occasione di matrimoni e funerali.
«Prima di tutto c’è “l’ordinaria amministrazione”, di cui lei non dovrà praticamente preoccuparsi...».
Diceva così tanto per dire o era una promessa? Alain ebbe la sensazione di essere già diventato uno di loro e pensò che avrebbe serbato eterna riconoscenza al minore dei Jaminet per quelle parole.
«Parlo dei piccoli lavori di stampa: biglietti da visita, partecipazioni, volantini. Sono tutte cose per la clientela locale, e la signorina Germaine provvede perfettamente da sola. Ci sono anche i manifesti per le compagnie teatrali di passaggio e per le due sale cinematografiche. Le cose più importanti sono i giornali, i bollettini e gli almanacchi. Abbiamo due linotype che restano in funzione tutta la giornata...».
Alain non aveva idea di cosa fossero le linotype, ma la parola gli piacque. Tutto quello che scopriva lì dentro gli piaceva.
«Per quanto possa sembrare insolito, noi lavoriamo per una clientela che risiede molto lontano. Per esempio, una volta alla settimana stampiamo un giornale di La Rochelle che ha circa tremila abbonati. Poi abbiamo un giornale di Orléans, oltre a un certo numero di bollettini diocesani e parrocchiali. Stampiamo noi anche il “Bollettino settimanale delle carni francesi”, perché i nostri prezzi sono di gran lunga inferiori a quelli di Parigi e della maggior parte delle grandi città. Una trentina di pubblicazioni in tutto, cui bisogna aggiungere gli almanacchi periodici, specialmente quelli dei pellegrinaggi...».
Gli mostrò dei contenitori pieni di schede, disposti ordinatamente sugli scaffali.
«Per gli abbonati le spedizioni si fanno direttamente da qui. Quindi ci sono gli elenchi da tenere aggiornati, i cambi di indirizzo, i bollettini per il rinnovo dell’abbonamento da mandare a fine anno, cioè fra non molto. Questo lavoro sulle schede è piuttosto monotono, non glielo nascondo, e tuttavia va fatto con scrupolosa attenzione, perché gli abbonati sono suscettibili e protestano per il minimo errore».
«Penso di potermela cavare» disse Alain.
Jaminet non era ancora convinto. Ad Alain parve di capire che si stesse chiedendo se anche lui era come gli altri Malou. Ecco che cosa lo preoccupava: non sapeva se quel lavoro era adatto a un ragazzo che aveva passato tutta la vita in casa Malou e che era lui stesso un Malou.
«Sa, signore, io sono un tipo molto scrupoloso. Posso restare ore su uno stesso lavoro. Se chiede ai miei professori, glielo confermeranno...».
Aveva una tale paura di sentirsi dare una risposta negativa: avrebbe visto crollare tutte le sue speranze! E aveva una tale voglia di entrare a far parte della ditta Jaminet!
«Quanto alla retribuzione...».
«Stavo per arrivarci...».
«Io adesso sono solo. Non ho bisogno di molto. Ho intenzione di trasferirmi in una pensioncina e, siccome ho ancora parecchi vestiti, mi basterà guadagnare di che pagarmi vitto e alloggio».
«Sua madre è ancora qui?».
«È partita ieri».
Arrossì. Temeva che gli chiedesse della sorella.
«E lei non ha voluto tentare la fortuna a Parigi?».
Strano, sembrava che lo capisse. Eppure era un uomo che conduceva una vita tranquilla e senza complicazioni.
«Mi scusa un istante?».
Aprì lo sportellino e chiamò:
«Émile...».
Un attimo dopo Émile, che era suo fratello, quello che Alain aveva visto per primo, entrò nell’ufficio.
«Il signor Malou è deciso a fare una prova. È pieno di buona volontà. Gli ho spiegato qual è il lavoro che dovrebbe svolgere...».
Alain fiutò il pericolo. Probabilmente, alle sue spalle, il fratello maggiore stava facendo all’altro dei segni di disapprovazione.
«Vieni un momento» disse il più giovane. «Ci scusa, signor Malou?».
E andarono in stamperia, dove Alain li vide discutere in piedi davanti a un grande tavolo di metallo. Dopo qualche minuto il più giovane tornò da solo. L’aveva avuta vinta lui, ma non sembrava particolarmente soddisfatto.
«Lei deve capire le nostre perplessità. Di solito posti di questo genere vengono affidati a giovani di famiglie molto modeste, che sono abituati a una certa disciplina e a una vita austera...».
«Le assicuro...».
«Le credo, signor Malou. Io e mio fratello abbiamo deciso di prenderla in prova. Ma è soprattutto lei che dovrà valutare le sue capacità di adattamento a questo tipo di vita. Lavorerà con me, perché mio fratello si occupa per lo più della fabbricazione. Quando è disposto a cominciare?».
Stava per rispondere: «Subito».
Perché aveva paura che, appena fosse uscito di lì, ci avrebbero ripensato.
«Domani...» balbettò.
«D’accordo per domani. L’ufficio apre alle nove. L’inizio potrà sembrarle scoraggiante perché, per via del rinnovo degli abbonamenti, questo è il periodo più impegnativo dell’anno. Lei ha una bella grafia?».
«Abbastanza».
«Sa battere a macchina?».
«Un po’».
L’anno prima, per Natale, aveva chiesto e ottenuto una macchina da scrivere portatile, e negli ultimi mesi aveva preso l’abitudine di battere a macchina i compiti e i temi.
«Allora a domani, signor Malou».
Era fatta! Era un uomo finalmente! Si guadagnava da vivere da solo! Non aveva ancora iniziato a guadagnare, a dire il vero, ma l’avrebbe fatto a partire dal giorno dopo. Attraversò il cortile, dove c’era un grande triangolo di sole. Anche metà della corsia del tram era inondata di luce. Alain camminava a passo spedito e fu tentato di dirigersi verso la scuola, per annunciare la notizia ai compagni, che sarebbero usciti di lì a poco.
Ma probabilmente loro non avrebbero capito la sua gioia, il senso di sollievo che provava. Per farglielo capire avrebbe dovuto spiegare troppe cose, tra cui Corine.
Non aveva neppure una vaga idea di dove cercare una pensione. Era un mondo che non conosceva. A un tratto però, mentre camminava tra la gente, fu investito da ventate di odori, suoni, immagini. Spesso, soprattutto in primavera, andando a scuola, gli capitava di fare una deviazione per passare da place du Marché.
Era una vecchia piazza, con le case sbilenche. Quasi tutte ospitavano caffè o piccole pensioni, che alle otto pullulavano di carrettieri e di contadine circondate da ceste di frutta e verdura, o da cassette piene di pollame starnazzante.
Fin dal marciapiede si sentiva l’odore del caffè e del vino bianco. La pensione all’angolo, con il suo tetto di ardesia, era più antica delle altre e aveva un ampio cortile sempre ingombro di carri e carretti, con delle scuderie buie da cui proveniva un rumore di zoccoli di cavalli.
«Aux Trois Pigeons» recitava l’insegna.
Si scendevano due scalini e si entrava in una sala dal pavimento lastricato.
Fra i tavoli andavano e venivano delle ragazze robuste. Lì si mangiava senza tovaglia i cibi portati dalla campagna, ma al di là di un corridoio, dove pure si sentiva odore di campagna, c’era un’altra sala, imbiancata a calce, con le tende alle finestre, un’ampia tavolata comune al centro e intorno dei tavoli più piccoli.
Chissà perché Alain aveva sempre sognato di mangiare in quella sala, di dormire in una di quelle camere, in cui lenzuola e coperte venivano stese a prendere aria sul davanzale delle finestre.
Era come se avesse deciso di concedersi un lusso. Provava una tale gioia a quell’idea che quasi se ne vergognava, il giorno dopo il funerale di suo padre, e in cuor suo gliene chiedeva perdono.
A quell’ora ai Trois Pigeons c’era meno confusione. Quasi tutti i fruttivendoli e i contadini se n’erano andati. Quelli rimasti erano già gonfi di vino e di grappa.
«Vorrei parlare con la proprietaria, per piacere».
Una porta aperta, sulla destra, lasciava intravedere la cucina, da cui arrivavano sfrigolii e spessi odori di cibo; all’interno c’erano ragazze indaffarate e una donna corpulenta, la pancia prominente coperta dal grembiule, che chiedeva con voce acuta:
«Che c’è?».
«Un giovanotto chiede di parlare con lei».
Aveva in mano una padella. La posò, si pulì le dita sul grembiule, si sistemò un po’ la crocchia e andò a piazzarsi dietro il bancone.
«In che posso aiutarla, giovanotto?».
Anche lei aggrottò la fronte. Anche lei probabilmente si stava chiedendo dove l’aveva visto.
«Mi scusi, signora, vorrei sapere se è possibile prendere una camera qui da voi».
«Per quanto tempo?».
«Non lo so. Per diversi mesi, credo, per un bel po’».
«Viene da Parigi?».
«No».
«È un impiegato pubblico? Lavora al tribunale? C’è già un signore del tribunale che viene sempre a mangiare qui...».
«Lavoro alla tipografia Jaminet».
La donna chiamò:
«Désiré...».
E un uomo già vecchio, dall’aria indolente, con i pantaloni che gli cascavano sui fianchi, si alzò da un tavolo dove stava bevendo insieme ad alcuni clienti.
«Questo giovanotto vorrebbe stare a pensione da noi. La 13 è libera?».
«Quell’altro non ha scritto?».
«No, ma aveva detto che sarebbe tornato».
«Visto che non ha scritto...».
Un’occhiata indifferente ad Alain...
«Gli hai detto il prezzo?».
«Non ancora...».
«E gli hai detto che qui non si torna tardi la sera?».
Perché loro la mattina dovevano svegliarsi presto, per via del mercato. Alain aveva di nuovo la sensazione di poco prima, in tipografia. Gli sembrava di dover ottenere a tutti i costi la camera 13, di non poter più vivere in nessun posto che non fosse quella pensione.
«Io non torno mai tardi...».
«Alla sua età non starebbe bene! È da molto che ha lasciato la famiglia?».
«Mio padre è morto».
«Be’, capisco. Senta, l’avverto che qui si mangia alla buona. Roba semplice. Alla cucina provvedo io personalmente, e posso garantirle che non avrà motivo di lamentarsi. Ma se lei è un tipo esigente...».
Il proprietario era tornato al suo tavolo, dove si versò un bicchiere di vino e riprese a chiacchierare con una coppia di contadini.
«Ha bagagli?».
«Li porterò fra poco. Fra una mezz’ora».
«I suoi documenti sono in regola?».
«Sì, glieli mostro dopo».
«Quanto al prezzo, sono trenta franchi al giorno, compreso un quarto di vino a pranzo e a cena. Prepariamo un antipasto, un primo, poi carne, formaggio e per finire un dolce o un frutto. Se vuole dare un’occhiata alla stanza...».
Alain rifiutò. Aveva troppa fretta di trasferirsi lì con le sue cose. Non sapeva ancora se la spesa era proporzionata allo stipendio che avrebbe preso. Il signor Jaminet aveva dimenticato di precisare la cifra.
«Torno subito...» disse febbrilmente.
«Allora viene a stare qui?».
«Sì. Fra una mezz’ora...».
E si avviò a piedi, o meglio di corsa, all’Hôtel du Commerce. Fermò un taxi davanti alla stazione e ci caricò dentro le valigie.
«Ai Trois Pigeons...».
Non aveva visto Corine. Non voleva pensare a lei. Ormai aveva la sua vita, ed era talmente ansioso di cominciarla che un ingorgo stradale a un incrocio, nel quale rimasero bloccati per qualche minuto, gli parve quasi una minaccia. E se, durante la sua assenza, avessero dato a un altro la camera 13? In fondo non sapevano nemmeno il suo nome. Potevano pensare che non sarebbe più tornato.
Si precipitò fuori dall’auto.
«Sono qui» annunciò.
«Bene, ha fatto presto! Vuole mangiare un boccone o preferisce prima portare su le sue cose? Gli altri non sono ancora arrivati. Ha qualche minuto per sistemarsi. Di solito si mettono a tavola alla mezza. Julie! Vieni qua... Accompagna questo giovanotto alla 13. Vedi prima se la camera è pronta...».
Tutto era bello: la vecchia scala con i suoi odori, lo strano corridoio, al piano di sopra, che aveva curve imprevedibili e gradini ancor più imprevedibili, i numeri sulle porte dipinte di verde chiaro e la luce che filtrava da un lucernario sul soffitto.
La camera era più grande di quanto pensasse, più grande di quella dell’Hôtel du Commerce; sul pavimento, rivestito di piccole mattonelle rosse, erano stesi due tappetini. C’era un letto di ferro con sopra un crocifisso, un caminetto nero, un tavolino da toeletta con un catino e una brocca, e una finestra così bassa, così vicina al pavimento, che per affacciarsi bisognava quasi mettersi in ginocchio.
«Le occorre qualcos’altro?».
Un tavolo rotondo di mogano, due sedie spaiate, di cui una con il piano di paglia, e una poltrona alla Voltaire. Quanto ai vestiti bisognava appenderli al muro, dietro una tenda di cretonne a fiori.
Tutto era luminoso, allegro. Troppo allegro. Ce l’aveva con se stesso per quella sua allegria. Gli tornarono in mente le occhiate cariche di invidia di Bertrand, suo cugino, e quelle di Peters, l’amico dai capelli rossi, che pure sembrava considerarlo fortunato.
Ne provava vergogna. Mentre svuotava le valigie ammucchiandone il contenuto sul letto, mormorò fra sé:
«Perdonami, papà...».
La mattina dopo avrebbe lavorato accanto alla signorina Germaine, che aveva solo intravisto ma che già gli piaceva, perché apparteneva a quel mondo nel quale anche lui stava per essere ammesso, e domenica avrebbe fatto visita a François Foucret.
Nemmeno per un attimo pensò a sua madre o a sua sorella. Scese per quella scala che non gli era ancora familiare e che si snodava in maniera insolita, e a un tratto si sentì una mano sulla spalla.
«Di là, giovanotto!... Giri a sinistra nel corridoio... Gli altri si sono appena messi a tavola...».
Nel varcare la soglia della sala da pranzo Alain arrossì: ora che faceva il suo ingresso nella vita si rendeva conto di quanto fosse impacciato e inesperto. Ci arrivava talmente a mani vuote!