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«Alain... Alain...».

Aveva l’impressione di essere appena sprofondato nel sonno, eppure, senza nemmeno aprire gli occhi, intuiva che era già giorno. Sapeva anche che stava piovendo a dirotto, perché non lontano dalla finestra della sua camera, più in basso, c’era una tettoia di zinco su cui le gocce crepitavano fitte.

«Perché ti sei messo a letto vestito?».

Doveva rassegnarsi a uscire da quel limbo e a tornare alla realtà. Era sua sorella che lo stava chiamando, la sentì che si sedeva ai piedi del letto e, quando sollevò le palpebre, notò con fastidio – ci avrebbe scommesso! – che aveva le gambe incrociate e la vestaglia aperta. Possibile che non capisse quanto era imbarazzante per lui vederla sempre seminuda? Era una specie di mania, la sua. Non aveva nessun pudore. Certe mattine usciva dal bagno senza niente addosso e si infilava le calze davanti al fratello, sollevando le gambe l’una dopo l’altra, mentre lui non sapeva dove guardare.

Corine era bella. Lo dicevano tutti che era bella, e tutti gli uomini le correvano dietro. Aveva una pelle finissima, un corpo florido e formoso. Tutto in lei era morbido. Era solo carne e forme. Era una femmina, mentre Alain avrebbe voluto avere una sorella come ne avevano i suoi compagni di scuola, una di quelle ragazze che è impossibile immaginare nude.

Aveva un odore di femmina. Alain lo sentiva anche adesso, perché si era appena alzata dal letto; aveva dormito con una sottoveste di seta cortissima, che ora era tutta sgualcita e si era alzata fino a scoprirle il ventre biondo, eppure non si curava minimamente di tener chiusi i lembi della sua vestaglia.

«Joseph se n’è andato...» annunciò.

«Lo so...».

Capì subito di aver commesso un errore e che avrebbe fatto meglio a tacere.

«Come lo sai? Te l’aveva detto?».

Lo sapeva perché quella notte non aveva praticamente dormito.

E si era messo a letto vestito, senza togliersi neppure la cravatta, perché aveva paura. Non avrebbe saputo dire con precisione di che cosa, ma aveva paura. Da solo in camera sua, non aveva nemmeno provato a spogliarsi, non ci sarebbe riuscito, forse anche per una sorta di pudore. In fondo, due camere più in là, c’era il corpo di suo padre, tutto solo al buio!

Si era sdraiato sul letto a colonne. Quel letto che ora neanche nei suoi pensieri osava chiamare, come aveva sempre fatto, «il catafalco».

Sembrava davvero un mausoleo, nero e dorato, sovraccarico di sculture e di blasoni. La casa era piena di mobili di quel genere, comprati alle aste, soprattutto alle aste di castelli. Anche il camino era ornato di stemmi, come pure l’armadio, un armadio che avrebbe potuto contenere sei persone e sulle cui ante c’erano i sigilli dell’ufficiale giudiziario.

«Come sai che se n’è andato?».

«L’ho sentito».

Era notte fonda. Alain era sveglio. La camera di Joseph, il maggiordomo, si trovava esattamente sopra la sua. Per un pezzo aveva udito il domestico camminare avanti e indietro, scalzo, poi i passi si erano spostati sulle scale. Joseph se ne stava andando, non c’era dubbio. L’uno dopo l’altro, tutti i domestici li avevano lasciati, sebbene non avessero ancora ricevuto lo stipendio.

Poi Alain aveva sentito Joseph, che aveva l’aspetto di un prete spretato, entrare nella camera in cui avevano messo il corpo e rovistare in giro per un bel po’.

Non l’aveva sognato, ne era sicuro. Gli era venuto un groppo in gola, la fronte gli si era imperlata di sudore, ma non aveva osato muoversi e aveva provato un senso di sollievo quando, alla fine, aveva riconosciuto il rumore del portone che si chiudeva, poi dei passi che si allontanavano sul marciapiede.

«In casa non c’è niente da mangiare... Devi andare a comprare qualcosa...».

Toccava a lui, naturalmente! Quando c’era da sbrigare qualche commissione noiosa, era sempre il nome di Alain che si sentiva gridare per la casa.

Si alzò e chiese con uno sguardo sornione:

«Soldi ne hai?».

«Vado a chiederli alla mamma... È molto stanca e vuole rimanere a letto...».

Anche questa non era una novità. La mattina la signora Malou era immancabilmente stanca e rimaneva a letto fino a mezzogiorno. Nei periodi in cui in casa c’erano dei domestici le piaceva starsene lì e vederli sfilare tutti davanti a lei.

Entrò nella camera di sua madre dopo essersi dato una pettinata ed essersi sciacquato la faccia. Aveva l’abito sgualcito, la cravatta di traverso.

«Joseph se n’è andato...» gli annunciò anche lei.

«Lo so, Corine me l’ha detto».

«In casa non c’è niente da mangiare. Solo un pezzo di pane raffermo».

«Soldi ne hai?».

Quella domanda la conoscevano bene in famiglia. L’avevano ripetuta milioni di volte! Persino suo padre, che in più di un’occasione aveva chiesto ad Alain di prestargli i suoi risparmi per qualche ora.

«Dovrebbero essercene nel portafoglio».

Capì che cosa intendeva, perché si era girata verso la camera del morto. Capì anche che sua madre e sua sorella non ci erano volute andare.

Dovette fare uno sforzo. Ora, di mattina presto, con la pioggia che sgocciolava sui vetri, era molto diverso dalla sera prima. Avrebbe voluto chiedere a Corine di accompagnarlo, ma per ritegno non lo fece.

Gli tornò in mente il sopralluogo notturno di Joseph in quella stanza e si sentì rinfrancato nel vedere il corpo al suo posto sotto il lenzuolo. La giacca era poggiata su una sedia: Alain frugò nelle tasche, ma non trovò il portafoglio, che un momento dopo scorse, aperto, sul tappeto.

Lo raccolse e uscì in fretta, poi andò a gettarlo sul letto di sua madre.

«Credo che sia vuoto...».

«Perché?».

«Perché stava a terra. Scommetto che è stato Joseph».

Ed era vero. Chissà se Joseph aveva trovato dei soldi nel portafoglio! Se ce n’erano, di sicuro li aveva presi.

«Ho qualche spicciolo nella borsa... Passamela... Compra pane, burro, latte... Quando Edgar sarà qui, fra non molto, gli chiederò un po’ di soldi... In realtà dovremmo cercare di trovarne prima... Chi era alla porta?».

«Perché, hanno suonato?».

«Stamattina, verso le otto, poi una seconda volta una mezz’ora dopo...».

Proprio quando era riuscito ad addormentarsi, sicché non aveva sentito niente.

«Guarda se hanno lasciato qualcosa nella cassetta delle lettere. Mi chiedo come faremo, senza nessuno...».

Lei però non si alzava.

«E dovremo pur occuparci di...».

Un’occhiata verso la camera del morto. Occuparci del funerale, naturalmente. Alain si mise il cappotto, scese al piano inferiore e varcò la porticina ritagliata all’interno del portone. Per poco non uscì senza prendere le chiavi di casa, dimenticando che non c’erano più i domestici ad aprirgli. Le trovò appese a un gancio.

Una volta fuori, si alzò il bavero del lungo cappotto. Era senza cappello. Non lo portava mai. La pioggia gli imperlava i capelli biondi, e piccole gocce d’acqua gli tremolavano sulla punta del naso. La piazzetta era vuota. A meno di cento metri, in una stradina, c’era una latteria, ma già una volta la lattaia gli aveva fatto una scenata davanti agli altri clienti perché da parecchi mesi i suoi non saldavano il conto.

Proseguì oltre. Fu sul punto di comprare un giornale in cui probabilmente si parlava di suo padre, ma cambiò idea. Entrò in un negozio e si accorse che la gente lo guardava con un misto di imbarazzo e curiosità.

Un pezzo di pane, due etti e mezzo di burro e un litro di latte, come le massaie povere. Si appoggiò tutto sul braccio e tornò indietro a passo svelto.

Quando risalì in casa, le due donne stavano litigando. Corine era ancora mezza nuda, come quando aveva svegliato il fratello, e camminava su e giù accanto al letto della madre.

«Non posso mica chiedergli una cosa del genere... Ma come ti viene in mente? Per chi mi prendi?».

«Forse per quello che sei...».

«Sarebbe a dire?».

«Non fare l’idiota!... L’unica differenza è che questa volta si tratta di noi e non di una pelliccia, vero?».

«Ti proibisco di parlare di...».

«Vuoi smettere di gridare?».

«Perché? Hai paura che ci sentano i domestici?».

«No, perché stai parlando a tua madre...».

«Sì, mia madre che vorrebbe mandarmi a chiedere soldi a un uomo...».

«La finite, tutte e due?» borbottò Alain, che si era limitato a poggiare la spesa sulla toeletta di sua madre.

«Ha appena telefonato tuo fratello...».

«Che ha detto?».

«Che si è informato per il funerale, ci vorranno come minimo ventimila franchi, e lui non ha soldi... Viene tra poco, dopo l’ufficio, perché sostiene che ci deve andare per forza... In altre parole: arrangiatevi... Ho chiesto a tua sorella di telefonare a Fabien...».

Non potevano evitare di parlarne, almeno quel giorno? Le donne non hanno proprio nessun senso del pudore?

Fabien era un chirurgo, il chirurgo più importante della città, proprietario di una lussuosa clinica privata. Era un uomo sulla quarantina, belloccio, uno che amava godersi la vita. Era sposato e aveva tre figlie, ma non si faceva mai vedere in giro con sua moglie.

A teatro, ai concerti, lo accompagnava Corine, e quando, quasi ogni settimana, andava a operare a Parigi si poteva star certi di vederla salire sullo stesso treno. Anche il giorno prima Corine era stata a Parigi. Ospite dei suoi amici Manselle, diceva. Ed erano stati sempre i Manselle, che erano molto ricchi, a cederle per poco o niente la pelliccia di visone di cui andava tanto fiera.

«Se Fabien è davvero un amico, e io voglio crederci...».

«Ora basta, mamma...» tagliò corto Corine.

E Alain ribadì disgustato:

«Ma sì, basta...».

«Non è che qualcuno andrebbe a fare un caffè?».

Fratello e sorella si guardarono. Corine aprì la bocca, ma capì subito, dall’aria risoluta di Alain, che questa volta non sarebbe riuscita a convincerlo.

«Non so nemmeno come si accende il fornello...» borbottò mentre si allontanava.

«Passami il telefono, Alain...».

«Chi vuoi chiamare?».

«Dobbiamo seppellire tuo padre, sì o no?».

Lui si girò ancora una volta verso la finestra, scostò le tendine di tulle e rimase lì a contemplare la piazzetta.

«Pronto, casa d’Estier? Pronto? Sono la signora Malou... Sì, Malou...».

Cominciava a spazientirsi, ripeteva stizzita:

«La prego di voler riferire al conte d’Estier che c’è al telefono la signora Malou che vorrebbe parlargli...».

Corine, con la caffettiera in mano, si era fermata sulla soglia e ascoltava.

«Pronto!... Il conte d’Estier?... Sì, la signora Malou... Capisco perfettamente...».

Alain cominciò a mordicchiare una sigaretta che non aveva acceso.

«Sì, però penso che anche lei dovrebbe rendersi conto della situazione... È più drammatica di quanto lei non creda. Tanto per dire, non so nemmeno come farò a dare una sepoltura decente a mio marito... Per di più, il maggiordomo se l’è filata portandosi via quello che era rimasto nel portafoglio... Mi dica... Sì... È chiarissimo...».

Il conte parlò a lungo, mentre la signora Malou se ne stava immobile, con la cornetta in mano e il telefono appoggiato sul letto.

«Sono perfettamente d’accordo con lei, ed è naturale che non le chiederò più niente... Come?... Non lo so ancora... Non ne ho la minima idea... Si metta nei miei panni... E ci sono anche i ragazzi... Sì... La ringrazio... Anche a nome suo».

Riagganciò e rimise a posto il telefono.

«Fatto» concluse.

«Quanto ti darà?» chiese Corine.

«Non me l’ha detto. Mi farà arrivare un assegno in mattinata, a patto che sia chiaro che questa è l’ultima volta... Come se tuo padre non gli avesse fatto guadagnare abbastanza!... Stanno suonando alla porta, Alain...».

«Ho sentito».

Ma dimenticava che adesso dovevano andare loro ad aprire.

«Il caffè, Corine».

«L’acqua si sta scaldando».

Alain scese le scale, aprì la porta e si trovò di fronte una vecchietta con in mano un ombrello fradicio, uno di quei grandi ombrelli che usano i contadini quando vanno al mercato su un carretto. Anche il vestito era da contadina: indossava una gonna che le arrivava fino ai piedi, un paio di scarpe da uomo e uno strano cappellino di seta nera con un nastro annodato sotto il mento.

«Vorrei parlare con la signora Malou...».

«Mia madre è ancora a letto...».

«È una cosa urgente, vengo da lontano».

«Temo che data la situazione...».

«Appunto per questo... Dica a sua madre che c’è la signora Tatin... Sono sicura che ha sentito parlare di me... E comunque certamente mi conosce di vista, le sarà pur capitato di andare in una casa dove c’è un morto... Per esempio sono stata io a vegliare il colonnello Chaput. E anche la baronessa de Beaujean... Vede, ho molta esperienza... Nelle famiglie, il più delle volte, nessuno sa... Io invece di veglie funebri me ne intendo: sono quarant’anni che, in pratica, non faccio altro...».

Forse era solo suggestione, ma ad Alain sembrava che quella donna emanasse un sentore di morte, che si portasse addosso, fra le pieghe della gonna, come un tanfo di acqua santa, di ulivo benedetto e di crisantemi.

«Venga dentro un momento...».

Non la lasciò ad aspettare nell’androne, che era attraversato da correnti gelide. La donna rimase in piedi sullo zerbino del vestibolo, mentre lui saliva i gradini a quattro a quattro.

«È una vecchia che veglia i morti...».

La signora Malou non capì subito.

«Dice di avere esperienza, di aver lavorato per tutte le famiglie importanti della città... Ha fatto anche dei nomi...».

«Forse è meglio prenderla... Falla salire... Le parlerò...».

Così la vecchia salì ad aspettare al piano di sopra, mentre la signora Malou si vestiva. Discussero per un bel po’ a bassa voce, poi la donna fu portata nella camera del defunto, dove si mise subito al lavoro.

«Avrei bisogno di parecchie cose...».

«Può chiedere a mia figlia quello che le occorre...».

Pioveva ancora, la piazza era vuota, con la fontana al centro e tutt’intorno le finestre come buchi neri aperti nelle case.

«Fammi un piacere, Alain... Cercami il numero delle pompe funebri. La vecchia dice che è molto strano che non siano venuti di propria iniziativa, perché di solito sono loro che si prendono il disturbo...».

La signora Malou telefonò, poi annunciò che stavano per arrivare.

«Devo vedere anche il notaio, l’avvocato... E poi mi chiedo... Dobbiamo avvertirla per forza Maria?... Non so neanche dove abita...».

Maria, la prima moglie di Eugène Malou, la madre di Edgar, era una donna di cui nessuno parlava mai. Apparteneva a un passato lontano, poco noto, su cui tutti in casa preferivano sorvolare.

Una donna del popolo, per giunta, che aveva vissuto Dio sa come e di cosa, che aveva inviato più di una lettera su carta scadente, con una scrittura da serva, piena di errori di ortografia persino nell’indirizzo.

Probabilmente viveva a Marsiglia o in qualche altro posto nel Midi.

«Forse Edgar lo sa...».

«Non credo che Edgar ci tenga molto a vederla comparire qui...».

Il nome di Edgar in casa veniva pronunciato in un modo particolare. Certo, era un Malou, visto che era il figlio, anzi il primogenito, di Eugène Malou.

Ma lo stesso Eugène Malou, da vivo, non lo considerava alla stregua degli altri membri della famiglia.

Tanto per cominciare era un debole, un ragazzone senza spina dorsale, sempre serio. Dopo aver portato a termine gli studi con mediocre profitto, la sua unica ambizione era stata quella di ottenere un posto di tutto riposo.

I maneggi finanziari di suo padre lo spaventavano. Era entrato nella pubblica amministrazione, aveva sposato la figlia del capufficio ed era diventato a sua volta capufficio.

Lui e la moglie abitavano in un quartiere tranquillo ai margini della città: tutte villette di impiegati, funzionari e pensionati. La casa, la pagava in rate annuali e doveva mettere da parte i soldi; aveva anche dei libretti di risparmio intestati ai tre figli.

Forse adesso si vergognava, forse era preoccupato per la sua posizione, per la stima di cui godeva e a cui teneva tanto; di certo si sentiva a disagio con i suoceri, che erano persone dalla mentalità molto rigida.

Nella camera mortuaria la vecchia Tatin andava avanti e indietro, come se fosse a casa sua, parlottando a mezza voce. Ogni tanto apriva la porta per chiedere delle lenzuola, qualche portacandele o dei fiammiferi.

Suonò di nuovo il campanello: questa volta era l’agente delle pompe funebri, che la signora Malou ricevette in sala da pranzo, dove sul tavolo c’erano ancora le tazze del caffè e un po’ di pane.

«Mamma...» chiamò Corine dal pianerottolo.

Corine, che era sempre seminuda, che non provava alcun imbarazzo nel mostrare le sue grosse cosce bianche, sussurrò da dietro la porta:

«Forse sarebbe più prudente aspettare l’assegno prima di decidere... Visto che non sai di quanto sarà...».

Ancora il campanello, e toccava sempre ad Alain andare ad aprire. E sempre la pioggia, la piazza vuota, un’ombra scura nel vano del portone. L’uomo, che non aveva l’ombrello, si tolse il berretto fradicio.

«Mi scusi se la disturbo, signor Alain...».

«Ah, è lei, signor Foucret...».

«Sarei venuto prima se mia moglie non mi avesse fatto notare che non era il caso...».

«Prego, si accomodi...».

Un uomo fra i cinquantacinque e i sessant’anni, alto, ossuto, che di certo si sentiva più a suo agio in un cantiere che in quella casa.

«Vuole parlare con mia madre?».

«Veramente preferirei parlare con lei, signor Alain, visto che la conosco da quando era bambino...».

Non potevano andare nella sala da pranzo, che era già occupata. E quasi tutte le altre stanze avevano i sigilli alle porte.

«Venga in camera mia...».

L’uomo temeva di sporcare il pavimento con i suoi rozzi scarponi da lavoro. Passò con aria rispettosa davanti a una porta, che intuì essere quella della camera del morto.

«È lì?» sussurrò. «Sa che ancora non riesco a crederci? Nessuno può togliermi dalla testa che dev’essere successo qualcosa che non sappiamo. Vede, signor Alain, con me lui si confidava. Lei sa com’era. Gli altri pensavano di conoscerlo, ma si sbagliavano di grosso. Prima di tutto era l’uomo migliore del mondo, e chi osa dire il contrario...».

«Grazie, signor Foucret...».

«Hanno fatto tante di quelle insinuazioni... Dicevano che ero solo un povero imbecille, un fesso, che mi facevo prendere in giro... Ma lei, signor Alain, conosce qualcun altro che mi avrebbe regalato una casa, che me l’avrebbe data così, con queste testuali parole:

«“Mio caro Foucret, la tua idea vale oro... Oro per il momento non ne ho, ma ne avrò, vedrai, mi procurerò le licenze necessarie, mi rivolgerò agli americani, e allora diventeremo ricchi... Naturalmente ci vorrà un po’ di tempo... Intanto ecco una casa per te e per tua moglie, visto che i tuoi figli sono sposati... Te ne ho data una vicino ai cantieri, ma non voglio che ci lavori... Puoi fare quello che ti pare, se ti va ci dai un’occhiata, altrimenti te ne vai a pescare, e a fine mese puoi venire lo stesso a battere cassa...”.

«Questo mi ha detto, signor Alain, lei forse non lo sa... E ha mantenuto la parola... Anche quando non aveva soldi per le paghe, per me ne trovava sempre, a volte pochi spiccioli, altre volte più del dovuto...

«Sapevo che alla fine ce l’avrebbe fatta e che quando la licenza avrebbe iniziato a fruttare non si sarebbe dimenticato di me, come qualcuno cercava di farmi credere...

«Ecco perché sono venuto... Per dirvi a mia volta: conoscevo vostro padre... Probabilmente questo è un momento difficile per voi... Io non ho molti soldi, ma posso sempre ipotecare la casa...».

Guardava la stanza, il letto a colonne, i sigilli sui mobili.

«Bisogna fare le cose per bene, no? Alcuni sono più che contenti di essersi sbarazzati di lui... Chissà se ora cominciano a provare un po’ di vergogna... Anche quel giornale da strapazzo che gli dava addosso ogni santo giorno e che fino a ieri ne diceva di tutti i colori sul suo conto, oggi non sa più cosa scrivere... Guardi...».

Tirò fuori dalla tasca un giornale tutto bagnato...

«“Il drammatico incidente che...”. Senta, signor Alain, c’è un’altra cosa che mi è rimasta sullo stomaco e che non mi va giù... Quando ho letto quella parola, incidente, sono rimasto colpito. Perché, detto fra noi, io non credo che suo padre si sia fatto fuori di proposito... Mi scusi... Lo conoscevo troppo bene... Vede, lui amava così tanto la vita!... Certo, era nei guai... Ma in passato gli era capitato anche di peggio, no?... Lei sa quanto me che queste faccende di soldi erano roba da ridere per lui... Ho sentito quello che si dice in giro... Ho letto il giornale...

«Di sicuro è andato a chiedere un prestito al conte... E lui avrebbe fatto meglio a concederglielo... Perché, in definitiva... Se non fosse stato per suo padre, quanto glieli avrebbero pagati il castello e i boschi?... Neanche un milione, forse mezzo milione!... E invece con i lotti di Malouville, nonostante le seccature di adesso, ha già incassato almeno tre milioni... È vero, sì o no?...

«Io sono convinto che suo padre volesse solo mettergli paura... Una volta l’ho visto fare così per chiedere soldi a un tizio... Aveva un’aria disperata, ma quando l’altro non lo guardava mi faceva l’occhiolino e poi, appena quello se n’è andato, è scoppiato a ridere...

«Forse pensava che la pistola fosse scarica. Oppure non aveva davvero intenzione di premere il grilletto... O ancora, e io credo che sia andata così, voleva solo ferirsi... Ma io sto qui a farle perdere tempo, quando sono sicuro che lei ha un sacco di cose da fare... Ho portato questi per ogni evenienza».

Gli porse una busta con dentro qualche banconota da mille franchi.

«Grazie, signor Foucret... Non dimenticherò il suo gesto, ma in questo momento non abbiamo bisogno di niente...».

«Sicuro?... Non faccia complimenti...».

«No, stia tranquillo...».

Foucret aprì la bocca per fare una domanda, ma non osò, e Alain intuì che la domanda era: «A chi li avete chiesti?».

Mentre lo riaccompagnava giù per le scale, vide sua sorella che cercava di attirare la sua attenzione con energici gesti che lui non tentò nemmeno di interpretare. Stava per aprire la porta quando suonò il campanello. Era un cameriere, che gli porse una lettera dicendo:

«Per la signora Malou... Urgente...».

Forse Foucret aveva riconosciuto il cameriere del conte d’Estier, perché scosse la testa amareggiato.

«Be’... Arrivederci, signor Alain... Se ha bisogno di me per qualsiasi cosa, non si faccia problemi...».

Corine aspettava impaziente in cima alle scale, fissando la busta.

«Quanto c’è?».

«Non l’ho aperta».

«Da’ qui...».

La strappò nervosamente, dicendo:

«Sei stato proprio un genio con Foucret!... Ma come ti è saltato in mente di non accettare?... Pensi che sarà facile cavarcela adesso?... Bene... Cinquantamila... Vado ad avvertire la mamma...».

Entrò in sala da pranzo e piazzò l’assegno sotto il naso di sua madre, che stava sfogliando i cataloghi delle pompe funebri. Anche l’impiegato vide l’assegno, non riuscì a leggere la cifra alla rovescia, ma si sentì comunque rassicurato.

Il viavai continuò per tutto il giorno. Verso le undici la signora Malou chiamò un taxi e uscì per andare a incassare l’assegno. Corine ebbe una lunga conversazione telefonica, che Alain preferì non sentire, e due o tre volte le sfuggì un suono gutturale che somigliava stranamente a una risata.

Il notaio Carel, un ometto grassoccio con la pelle rosea e lucida, vestito di tutto punto, dovette aspettare in sala da pranzo il ritorno della signora Malou.

«Che mangiamo a pranzo, Alain? Dobbiamo pur mangiare...».

«Stamattina ci sono andato io a fare la spesa. Adesso tocca a te».

«Che cavaliere... Ho un’idea... Chiederò alla vecchia...».

E così, quando la signora Malou tornò con i soldi, fu la Tatin che andò a comprare qualcosa, rasentando lesta i muri delle case. Continuava a parlottare fra sé, e Dio sa che cosa diceva di quella famiglia così diversa dalle altre!

«Alain, mio caro, puoi lasciarci un momento da sole?...».

Da quando aveva i soldi nella borsetta, la signora Malou aveva ritrovato sicurezza e vitalità. Era sempre stato così. In certi periodi tutti avevano i nervi a fior di pelle, soprattutto le donne e i domestici, perché in casa non era rimasta neanche una banconota da mille franchi e non si sapeva più da chi acquistare a credito il necessario. In quei momenti la signora Malou passava la maggior parte del tempo a letto, a lamentarsi della propria salute, mentre Corine trovava sempre il modo di scomparire per un po’.

Appena ritornavano i soldi la vita riprendeva, tutti smettevano di tormentarsi a vicenda, di piagnucolare e di accapigliarsi.

«Devo parlare di una cosa importante con il notaio Carel. Se per caso arriva il signor Desbois, fallo entrare, così sentiremo anche il suo parere».

Si misero di nuovo in sala da pranzo, con le tazze sporche sul tavolo e il lampadario che dalla sera prima nessuno si era ricordato di spegnere.

Alain dovette scendere un’altra volta per aprire la porta ai tappezzieri delle pompe funebri. Siccome non potevano disporre delle stanze del pianterreno, che erano sotto sigillo, furono costretti ad allestire la camera ardente nella stanza del morto, dove si misero a inchiodare i paramenti.

Nella cassetta delle lettere c’era già qualche biglietto di condoglianze. La macchina dell’avvocato si fermò accanto al marciapiede, dando alla facciata un aspetto più vivace.

Adesso capitava che passasse qualcuno, non molti, tutti con l’ombrello: probabilmente erano venuti apposta per guardare la casa, perché la piazzetta non portava da nessuna parte. E alle finestre di fronte si vedevano muoversi le tende e apparire facce che subito si ritraevano.

In sala da pranzo la discussione era animata. Si sentiva la voce bassa e indistinta del notaio e quella un po’ più forte dell’avvocato Desbois, interrotte di tanto in tanto da una domanda precisa della signora Malou, che a un certo punto era uscita a prendere una matita e un pezzo di carta.

Quando i due se ne andarono, poco dopo mezzogiorno, la signora Malou aveva gli occhi rossi; fece il giro della casa come per valutare la situazione.

«Tu che aspetti a preparare il pranzo?» chiese alla figlia, che se ne stava stravaccata in poltrona con un libro aperto.

«Che la Tatin torni con la spesa».

«Non ci potevi andare tu?».

«Sì, certo, e chiamare anch’io un taxi, come hai fatto tu per arrivare alla banca che è qui a due passi?».

«Bisogna che ti abitui a spostarti senza macchina... Ti avviso fin d’ora che, quando avremo pagato il funerale, non ci resterà assolutamente nulla...».

«E io che ci devo fare?».

«Niente, tanto tu te la caverai sempre, no? Ma non certo lavorando, questo è poco ma sicuro...».

«E tu, invece?».

«Non hai nient’altro da dire?».

Scoppiò di nuovo in lacrime e si chiuse in camera sua a piangere, mentre Alain vagava per la casa senza sapere che fare.

Ricevette anche lui una visita, un ragazzino rosso di capelli, Peters, uno dei due amici che erano con lui il giorno prima, quando, di ritorno da scuola, si erano fermati notando la folla assembrata davanti alla farmacia.

Lo vide quasi per caso, perché Peters non osava suonare. Se ne stava davanti alla casa a prendersi la pioggia, con i libri sotto il braccio e lo sguardo rivolto alle finestre nella speranza di scorgere il compagno.

Alain scese ad aprirgli la porta, ma l’altro non volle entrare. Chissà, forse aveva paura della morte.

«Senti, Alain, vengo a nome della classe... Non volevamo disturbarti oggi, ma ci tenevamo comunque a dirti... a dirti...».

«Ti ringrazio...».

«Ci chiedevamo anche se tornerai a scuola... È l’ultimo anno e...».

«Non credo... Non credo...».

«Ma ci rivedremo lo stesso, vero?... Ho sentito dire che vi trasferirete in un’altra città...».

«Ah!».

«È vero?».

«Io non penso che mi trasferirò...».

«Ho capito!... Sei un tipo in gamba tu...».

E, in effetti, sembrava che si fossero veramente capiti. Se ne stavano in piedi, lì sulla soglia, in mezzo alle correnti d’aria; dovettero scostarsi per lasciar passare la signora Tatin carica di pacchetti.

«Io la conosco, quella... È venuta per una mia zia che è morta l’anno scorso... A te non ti fa paura?».

Alain accennò un pallido sorriso. Aveva ancora paura? Quella notte aveva avuto paura. E un pochino anche la mattina.

Ora era passata. Gli sembrava di essere molto più grande di Peters, anche se avevano la stessa età.

«No, non mi fa paura...» disse non senza una punta di orgoglio e di sufficienza.

Magari il problema fosse stato solo la Tatin!

«Verremo tutti, sai?... Chiederemo un permesso...».

«Al funerale, sì, certo».

«Arrivederci, Malou...».

«Arrivederci, Peters».

Perché questa volta, nel richiudere il pesante battente del portone, fu scosso da un brivido? Forse perché sapeva che quello non era più solo un portone di quercia massiccia, ma un muro che lui stesso, del tutto consapevolmente, stava innalzando fra sé e gli altri.

Peters intanto se ne tornava a casa, sollevato, sì, sollevato come ci si sente sempre alla sua età dopo aver svolto un compito così increscioso. E forse camminando tirava fuori la lingua – un gesto che gli era abituale – per assaporare le gocce di pioggia! E pensava al pranzo che lo aspettava, alle solite parole che avrebbe esclamato appena varcata la soglia: «Ho fame!».

L’androne. Il vestibolo con lo scalone a doppia rampa, quello scalone d’un tratto così faticoso da salire. Al piano di sopra stavano ancora martellando. Qualcosa sfrigolava in cucina, e un odore di cipolla si spandeva per tutta la casa.

«Chi era?» gli chiese Corine, che finalmente si era vestita.

«Un compagno di scuola, Peters...».

«Ora che ci penso, non è venuto ancora nessuno a trovarmi... Forse è troppo presto... Cominceranno ad arrivare fra un po’...».

E, infatti, cominciarono ad arrivare appena smise di piovere, verso le tre. A quell’ora tutto era pronto per riceverli: la camera ardente, le candele accese ai due lati del defunto, che intanto era stato lavato e vestito, un ramoscello di ulivo in una coppa d’acqua benedetta e infine la Tatin, inginocchiata nella penombra, che muoveva le labbra sgranando un rosario.

Ora sì che il morto era diventato un vero morto.